La pesca? «È una vera e propria arte». Lo ha detto il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, festeggiando con i pescatori di Caorle (ma non solo loro) la festa del patrono sant’Andrea. Moraglia ha concelebrato la Messa allo storico santuario della Madonna dell’Angelo, che storicamente protegge dalle tempeste il popolo del mare, ma anche la comunità che lo attende a riva.
Ai pescatori che all’offertorio gli porteranno un cesto di pesce fresco, il patriarca spiega che le dimensioni dell’arte da loro praticata sono «la pazienza del pescatore, la costanza del pescatore, il coraggio del pescatore, la forza del pescatore». «Quella del pescatore è una professione faticosa, rischiosa, difficile», ma a differenza di tante altre è autenticamente umana. «Avere una professione ci mette a contatto quotidiano col sole che sorge, col sole che tramonta, con l’acqua del mare, con la brezza del vento, certe volte con la furia degli elementi del mare. Vuol dire mantenere una misura umana, non essere uomini inscatolati, che dopo otto ore di lavoro al computer in un grattacielo in cui non si aprono le finestre perché tutto è monitorato dal punto di vista della tecnoscienza, si va in metropolitana e poi si arriva in casa dove magari tutto, fra pochi anni, sarà robotizzato». «L’intelligenza artificiale non è il futuro, è il presente» ha detto ancora Moraglia, che soffermandosi sulla figura del patrono sant’Andrea e la sua connessione con gli Apostoli, ha poi tenuto a ribadire: «La Chiesa è una realtà uniforme. Non ho detto plurale, perché se dicessi plurale utilizzerei un termine che può essere ambiguo, pluriforme vuol dire che ha un’unità. Più forme nell’unica forma. L’unica forma è Gesù. La grandezza di Pietro, Andrea e Giovanni è costruita su Gesù Cristo. La fede degli Apostoli è guardare a Gesù, è costruire su Gesù, è considerare Gesù l’unico interesse vero della nostra vita».
La Messa per i pescatori rientrava nella visita alla Collaborazione pastorale di Caorle, che si concluderà stamani, alle 10, con la Messa nell’antico Duomo della cittadina marinara.
Giornata di festa quella vissuta oggi - sabato 30 novembre - dalla Chiesa di Cagliari. Alle 12, in concomitanza con la Sala Stampa vaticana, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei, ha annunciato la nomina di monsignor Mario Farci a vescovo di Iglesias. E in serata Baturi ha ordinato tre nuovi sacerdoti diocesani
Monsignor Farci, classe 1967, nasce a Quartu Sant’Elena, ordinato presbitero il 7 dicembre 1991 nella storica parrocchia della sua città, è preside della Pontificia Facoltà teologica della Sardegna dal 2022, primo sacerdote diocesano e primo sardo ad avere l’incarico. È stato direttore dell’Ufficio per l’Ecumenismo e il dialogo e di quello per il Diaconato permanente e dei ministeri istituiti. Dal 2002 è membro del Consiglio direttivo dell’Associazione teologica italiana e dal 2014 è tra i fondatori dell’Associazione italiana docenti di ecumenismo. «La nomina – ha detto Farci – è giunta per me improvvisa. Ora mi metto a disposizione di quello che il Signore vorrà, di ciò che il Signore mi indicherà. Vado con il sentimento di colui che si mette a servizio di una Chiesa… in quella diocesi che nel medioevo era chiamata Iglesias, cioè villa di chiesa, e vorrei contribuire a far sì che questa Chiesa sia davvero una bella villa, non certo lussuosa, ma una casa dalle relazioni calde, familiari, una bella famiglia». Un pensiero lo indirizza agli operai della Portovesme srl. «Il vescovo – ha evidenziato – è colui che condivide con il suo popolo il cammino. Cercherò di essere partecipe alle gioie e ai dolori di tutti i fedeli».
«Questo momento – ha sottolineato l’arcivescovo Baturi - ci esorta alla lode a Cristo, nostro Pastore, perché nel succedersi dei pastori della Chiesa dobbiamo riconoscere sempre la presenza di Cristo, come colui che regge la Chiesa, che la guida, che la sostiene». Soddisfazione anche ad Iglesias, dove il cardinale Arrigo Miglio, amministratore apostolico, ha evidenziato come la nomina di monsignor Farci sia motivo «di gioia e di gratitudine, anche per la sua caratura culturale e teologica, in un momento in cui tutti sentiamo il bisogno di riprendere in mano la nostra formazione, clero e laici».
Ma c’è stata gioia anche per la Messa nella Basilica di Nostra Signora di Bonaria, nel corso della quale Baturi, presente lo stesso Farci, ha ordinato resbiteri tre giovani: Andrea Pelgreffi, 40 anni, Matteo Mocci di 34 anni e Claudio Pireddu di 27 anni. I tre celebreranno la prima Messa nelle loro parrocchie di origine: don Claudio nella parrocchia Sant’Isidoro di Sinnai, domani alle 11, don Andrea sempre nello stesso giorno ma alle 18.30 nella parrocchia di Sant’Eusebio a Cagliari, mentre la prima Messa di don Matteo sarà nella parrocchia Nostra Signora delle Grazie di Decimoputzu domenica 8 dicembre alle 17.
Sarà presentato oggi, 30 novembre alle 10.30, presso l’auditorium della diocesi campana di Vallo della Lucania il Progetto laboratoriale “Pane Quotidiano - Carlo Acutis” che vede i detenuti della locale casa circondariale, assunti con regolare contratto di lavoro, impegnati nella produzione delle ostie e delle particole.
L’iniziativa nasce dalla sinergia tra la direzione dell’Istituto penitenziario, le diocesi di Teggiano-Policastro e di Vallo della Lucania e la cooperativa sociale “Al Tuo Fianco”.
“Questo laboratorio, intitolato al Beato Carlo Acutis, è motivo di grande gioia – afferma il vescovo della diocesi di Vallo della Lucania, Vincenzo Calvosa - Abbiamo accolto con entusiasmo l’iniziativa promossa dalla Direttrice del carcere di Vallo affinché questo progetto possa accompagnare e sostenere i detenuti nel loro percorso riabilitativo, trovando in queste azioni nuova fiducia".
C’è l’attenzione fiduciosa delle Chiese diocesane verso quanti si metteranno all’opera per dare forma a ciò che sull’altare diventerà il Pane della Vita. “In questo tempo che vede la Chiesa prepararsi al Giubileo 2025, - prosegue il vescovo Calvosa - questa iniziativa, in un luogo come il carcere, è occasione per spargere semi di speranza, segno della Misericordia di Dio che si fa Pane, nutrimento di salvezza per tutti. Il senso di questa opera - conclude il presule - non è solo quella di abitare luoghi e tempi di fragilità e di limite, rappresentati dal carcere, ma soprattutto testimoniare come la comunione supera gli impedimenti spaziali dati dalle condizioni personali, rendendo significato pieno a Gesù Eucarestia”.
Presenterà il progetto il direttore della Casa Circondariale “Alfredo Paragano” di Vallo della Lucania, Caterina Sergio. Interverranno il vescovo diocesano, Vincenzo Calvosa, il vescovo della diocesi di Teggiano-Policastro, padre Antonio De Luca, i referenti delle Caritas e il Provveditore Regionale della Campania per l’Amministrazione Penitenziaria, dottoressa Lucia Castellano.
“Questo progetto - spiega il vescovo, Antonio De Luca - rappresenta la volontà di portare avanti iniziative solidali e inclusive che consentono ai detenuti il recupero di motivazioni umanitarie e la manifestazione di capacità riabilitanti e rispettose dei percorsi che vengono loro proposti. La Caritas - sottolinea il vescovo De Luca - si pone accanto a coloro che ne hanno bisogno, in una logica di alleanza educativa insieme alle istituzioni civili, affinché fiorisca la speranza di una integrazione e ricollocazione nella collettività di quanti sono passati attraverso la non felice esperienza del carcere”.
È un tempo di fiducia condivisa per uno spiraglio concreto di speranza ai detenuti. “In un tempo di disvalori e di eventi che minano gli equilibri – afferma il Direttore della Casa Circondariale di Vallo della Lucania, dottoressa Caterina Sergio - accrescendo l’insicurezza nei nostri giovani, con il Progetto laboratoriale “Pane Quotidiano - Carlo Acutis” si è inteso valorizzare, attraverso il lavoro delle mani dei detenuti, la persona umana, trasmettendo la profondità del messaggio eucaristico in una prospettiva più ampia di cambiamento e di riscatto. La gioia è grande. Un progetto che si concretizza in vista del Giubileo 2025 e apre alla speranza”.
Le ostie e le particole, frutto del lavoro di coloro che stanno in carcere, si trasformeranno in nutrimento spirituale per i presbiteri e fedeli nell’Eucaristia.
Il decreto sul secondo miracolo riconosciuto per intercessione di Pier Giorgio Frassati non è l’ultimo atto prima della canonizzazione: manca il Concistoro ordinario, nel quale dovrebbe essere ufficializzata la data già in calendario, ovvero il 3 agosto 2025, al termine del Giubileo dei Giovani. Solo dopo che il Papa avrà pronunciato la formula della canonizzazione sarà veramente conclusa una causa che si era protratta per anni, anche a causa di alcune notizie false arrivate fino alla Sacra Congregazione dei Riti, al tempo competente circa le beatificazioni e le canonizzazioni.
La prima bufala frassatiana era emersa già prima dell’introduzione della causa: una fonte anonima aveva scritto su un foglio di aver sentito dire da una signora che un’amica di quest’ultima aveva avuto «relazioni di amoreggiamento o di non piena correttezza col giovane Pier Giorgio». Contrariamente a quanto indicato sul foglio, intitolato “Informazione riservatissima”, il promotore generale della fede, monsignor Salvatore Natucci, ne divulgò il contenuto, ottenendo quindi che circa l’introduzione della causa i voti non fossero unanimi e non si raggiungesse nemmeno la maggioranza dei due terzi.
Il 12 dicembre 1941 il cardinale Carlo Salotti riferì l’esito della congregazione ordinaria a papa Pio XII, il quale non ordinò che la causa venisse interrotta (il “reponatur”), ma differita finché non fossero portate prove più nette a favore o contro la correttezza morale di Pier Giorgio (il “dilata ad mentem”).
Nei processicoli tenuti a Torino e a Roma a partire dall’aprile 1942 furono interrogati testimoni che garantirono di non aver mai assistito ad amoreggiamenti da parte del giovane, il quale, del resto, non aveva nemmeno mai rivelato di essere innamorato di Laura Hidalgo, la segretaria della Compagnia dei Tipi Loschi; quest’ultima non se n’era nemmeno accorta. Sempre a proposito di Laura, un’altra fonte anonima aveva assicurato che, nelle gite miste, lui l’avesse portata a cavalcioni: nella sua deposizione, invece, lei aveva garantito che l’unico aiuto ricevuto dal giovane era quello che un capocordata dà a chi affronta le scalate con lui.
Un altro dubbio circa la sua rettitudine, per non dire purezza, venne fugata quando fu chiara la verità circa una gita al Parco del Valentino, da alcuni definita “scappatella”, con partecipanti Pier Giorgio, quattro amici maschi e due ragazze. Un errore del primo biografo, don Antonio Cojazzi, riconduceva quell’uscita ai sedici anni del futuro santo, quando invece si svolse verso la fine di marzo 1915, prima che lui ne compisse quattordici. In ogni caso, non entrò minimamente in contatto con le ragazze, perché si trovava in una carrozza diversa.
Quelle prove a favore, tuttavia, furono nascoste, quindi finirono in archivio. Di conseguenza, il 10 maggio 1975, uno degli “amici spirituali” di Pier Giorgio, il venerabile Giuseppe Lazzati, scrisse a san Paolo VI (il quale era stato tempo addietro in corrispondenza con Alfredo Frassati, suo padre) per sollecitare la conclusione della fase romana. Già da alcuni anni, in effetti, papa Montini aveva ordinato uno studio esauriente della causa, ma non si era pervenuto a nessun risultato.
La terza è una notizia che continua a circolare anche sul web, tant’è che uno dei primi risultati su di lui, nel più comune motore di ricerca, è “Pier Giorgio Frassati sepolto vivo”. La diceria sosteneva che, durante un’ispezione della salma, il defunto fosse stato trovato con le mani nei capelli, essendosi risvegliato nella tomba ancora vivo: per questa ragione, quindi, la causa si sarebbe fermata.
Luciana Frassati Gawronska, custode della memoria del fratello minore (a lei si dovette anche la raccolta di altre testimonianze a favore del suo corretto rapporto con le ragazze), constatò al contrario che la tomba, nel cimitero di Pollone, in provincia di Biella, non era mai stata aperta dopo la sepoltura. Di fatto, la prima ricognizione canonica avvenne il 31 marzo 1981: i resti apparvero ben conservati e vennero, dopo la beatificazione, traslati nel Duomo di Torino. Una seconda ricognizione avvenne nel marzo 2008, per permettere la temporanea traslazione in occasione della Gmg di Sydney.
Tra i detrattori della santità di Pier Giorgio molti sostengono che la sua causa sia arrivata a questo punto perché spinta dalle ricchezze della sua famiglia. Un’obiezione che, col tempo, è stata attribuita ad altri laici candidati agli altari, come Gianna Beretta Molla o Carlo Acutis, per non parlare di quelli che sono appartenuti a casate nobiliari. Le risorse economiche dei Frassati hanno avuto il loro peso, ma attribuire esclusivamente a esse l’avanzamento verso la canonizzazione è ingiusto e ingeneroso; vale anche per i casi citati prima.
Infine, più che una bufala, una curiosità. L’immagine scelta per l’arazzo della beatificazione ritraeva Pier Giorgio in montagna, ma era stata colorizzata e ritoccata: nell’originale in bianco e nero aveva la pipa in bocca e lo sfondo era diverso, seppur in montagna. Oggi, invece, lo scatto con la pipa è stato ampiamente sdoganato, dato che è stato scelto per la copertina di molti libri su di lui. Chissà se, il prossimo 3 agosto, non comparirà con un altro ritocco: l’aureola che si riserva ai santi.
Voce profetica di pace e giustizia, cercava (e trovava) il Cristo in ogni volto di un povero o di una vita lacerata. Per padre Marcelo Pérez la missione del sacerdozio non era scomoda ma scomodissima, infatti malvisto e detestato tanto dalle corrotte istituzioni quanto dal crimine organizzato, è stato assassinato a colpi di pistola da due uomini su una moto (uno è stato arrestato qualche giorno fa) lo scorso 20 ottobre, poco dopo aver celebrato Messa nella Chiesa della sua parrocchia a San Cristóbal de La Casas, nello Stato messicano del Chiapas.
Aveva solo quarant’anni, ed era originario di San Andres Larrainzar, piccolo centro montuoso diventato celebre per gli accordi lì sottoscritti nel 1996 tra il governo messicano e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Da quando nel 2002 venne ordinato presbiterio e fino all’ultimo giorno di vita, padre Marcelo è stato sempre in pericolo, soggetto a minacce, pestaggi, intimidazioni e persino calunnie.
Nel luglio del 2022 un tribunale (corrotto) dello Stato del Chiapas emise contro di lui un mandato di arresto, accusandolo ingiustamente di essere “l’animatore” di un gruppo riconosciuto responsabile l’anno prima della sparizione di ventuno indigeni di Pantelhò.
Per ricordare la figura del martire di quella Chiesa povera, nell’ ultimo appuntamento della rassegna “Frammenti autoriali”, il 30 novembre 2024, a Moliterno (Potenza) viene proiettata la video-intervista rilasciata dal sacerdote indigeno quando era parroco di Simojovel e coordinatore della Pastorale sociale della Provincia del Chiapas.
Davanti alla videocamera della testata “Vocesenlucha” (Voce in lotta), padre Marcelo racconta della sua vita, della totale dedizione al Vangelo e al Cristo, della necessaria salvaguardia del territorio e della madre terra, della violenza, del crimine che affligge da lungo tempo il Messico, dell’ imprescindibile impegno della Chiesa per gli oppressi, per la difesa dei diritti e della dignità di ogni essere umano.
«La nostra vita – dice – è sempre chiamata a difendere l’altra vita. La mia vita non ha senso se non viene messa tutti i giorni al servizio degli altri». Un video-documento toccante quello di “Vocesenlucha”, attraverso la voce di padre Pérez si avverte tutta la eco della Conferenza di Medellìn (Colombia) dell’agosto del 1968 in cui, alla presenza di Papa Paolo VI, vennero poste domande-chiave ancora oggi attualissime come: dove è presente Dio oggi? Chi sono i suoi figli prediletti?
È un omaggio dell’alta moda alla «donna più importante di Matera», e si chiama “Vestita di Sole”. Si tratta di un abito giubilare dedicato alla Madonna della Bruna, la patrona della città dei Sassi e dell’arcidiocesi di Matera-Irsina. Il manufatto artigianale, realizzato gratuitamente dallo stilista Michele Miglionico, è stato appena svelato dall’arcivescovo Antonio Giuseppe Caiazzo nella Cattedrale del capoluogo. Un evento singolare che coincide con le celebrazioni del 70esimo anniversario della proclamazione di Matera come Civitas Mariae e che si intreccia con le celebrazioni in arrivo per il Giubileo 2025.
L’iniziativa suscita curiosità e, come spiega una nota, l’abito è ispirato all’immagine della Madonna della Bruna rappresentata nel quadro in rame fatto preparare nel 1856 dai devoti per la processione detta dei “Pastori”, ed è realizzato «in duchesse di seta e doppiato in pizzo Valencienne con inserti di passamanerie artigianali ricamate a mano». Il corpetto dal taglio in stile tardo rinascimento è «in jacquard di seta lavorato su antichi telai per preservarne la tradizione». Una sorta di menzione d’orgoglio merita «la camicia realizzata interamente a mano in merletto con la procedura del “puntino ad ago”», una lavorazione unica al mondo tramandata ancora da donne di Latronico (centro lucano alle pendici del Pollino), «ultime custodi di questo antico savoir faire che fanno capo all’associazione “Il Tassello”». Una realtà che, grazie alla presidente Felicetta Gesualdi, custodisce, preserva e diffonde la tradizione del manufatto. Infine, il mantello è realizzato «in broccato di seta con inserti di rose, fiore di tradizione mariana, a sbalzo in lamina d’oro e d’argento». Per Michele Miglionico, questo progetto «rappresenta un momento di grande significato personale e professionale, poiché la realizzazione di un abito per la Patrona di Matera costituisce una testimonianza della sua dedizione alla moda sacra e della sua sensibilità artistica».
Di una statua processionale di Maria Santissima della Bruna, afferma Marco Pelosi, del Museo-archivio-biblioteca dell’arcidiocesi materana, «si hanno notizie a partire dalla metà del XVII secolo. In linea con la tradizione delle “statue da vestire”, gli abiti della Bruna sono sempre stati confezionati con straordinari filati e preziosi ricami, in linea con il gusto del particolare momento storico in cui sono stati realizzati. In molti casi gli abiti provenivano dal guardaroba delle nobildonne che decidevano, per diverse ragioni, di donarli all’immagine sacra. Nel loro incedere tra la gente, vestite di abiti sontuosi, le statue diventavano (e diventano) “vere”, umane e divine allo stesso tempo».
Il convegno «Ascoltare la vita», in programma martedì sera nell’aula 200 dell’Università Statale di Milano, aveva per sottotitolo «Storie di libere scelte». Queste storie, però, nessuno dei presenti le ha potute sentire, perché un gruppo di ragazzi ha deciso che non avevano diritto di essere raccontate. Con una contestazione iniziata nel momento esatto in cui era stata invitata a parlare Soemia Sibillo, direttrice del Centro di aiuto alla vita della Mangiagalli, alcuni studenti del collettivo «Cambiare rotta» hanno fatto irruzione nell’aula, a suon di tamburelli, grida e bestemmie. Diversi loro amici si trovavano seduti tra i banchi e avevano assistito al primo intervento in scaletta, quello di Costanza Raimondi, assegnista di ricerca in bioetica alla Cattolica di Milano. Primo e unico dell’intero convegno, perché non c’è stato modo alcuno di proseguire.
«Mi avevano appena passato la parola – commenta Soemia Sibillo –, quando si sente picchiare forte alla porta dell’aula. Alcuni giovani sono entrati gridando slogan e bestemmie, con il chiaro intento di boicottare l’incontro, che era stato organizzato da loro coetanei della lista “Obiettivo Studenti”. Il più esagitato a un certo punto ha preso una bottiglietta dal tavolo dei relatori e l’ha rovesciata in testa a uno degli organizzatori. L’acqua è andata a finire anche sui cavi dell’impianto audio video, si sono spente le luci e il proiettore ha smesso di funzionare. Io avrei dovuto far vedere ai presenti la testimonianza di una mamma che ha accettato di portare avanti la gravidanza nonostante avessero diagnosticato al suo bambino una grave malformazione cardiaca, suggerendole l’aborto terapeutico. Ma non è stato possibile».
Nel video mai proiettato in aula, una giovane di nome Lourdes racconta la sua storia. Il giorno dell’ecografia morfologica, assieme al suo futuro marito Henry scopre che il piccolo che aspettano ha il cuore sinistro ipoplasico. I medici prospettano loro l’interruzione della gravidanza e descrivono le tre operazioni, una più rischiosa dell’altra, a cui si sarebbe dovuto sottoporre il bimbo se fosse riuscito a nascere, per sperare di sopravvivere.
«Quando sono arrivati da noi, la futura mamma era in lacrime, ma è stata l’unica volta che l’ho vista piangere – racconta la direttrice del Cav Mangiagalli –. Fatta la scelta di tenere il bambino, Lourdes ha dimostrato a tutti un coraggio e una forza incredibili, che non sono venuti meno nemmeno nei lunghi mesi in cui il suo bimbo è stato ricoverato in terapia intensiva al Niguarda, dove è nato e ha subito numerosi interventi a cuore aperto».
Il Cav ha sostenuto la giovane coppia, che viveva in una stanza condivisa con altre persone, procurando un alloggio dove affrontare con maggior serenità questa gravidanza. Subito dopo il parto, i neo genitori sono stati accolti in un altro appartamento, in zona Niguarda, per facilitarli nel loro andare e venire dall’ospedale dove Liev Logan ha lottato per vivere, vincendo la sua battaglia perché ora sta bene.
«Sarebbe stato impossibile affrontare tutto ciò da soli», afferma Lourdes nell’intervista video. «I nostri genitori sono lontani, in Perù. Qui è il Cav Mangiagalli la nostra famiglia».
La Basilica di San Pietro si prepara al Giubileo anche con un nuovo percorso di comunicazione che coinvolge in prima persona il Papa (avrà una sua “rubrica” per rispondere alle lettere dei fedeli), punta sull’innovazione digitale, integrata con il “vecchio” cartaceo. Nascono infatti un magazine, ma ci saranno anche un sito web e due webcam, una puntata sulla tomba di San Pietro, l’altra sulla Porta Santa. L’intento, come ha detto ieri padre Enzo Fortunato, presentando le iniziative ai giornalisti della Sala Stampa Vaticana, è quello di avere «una Chiesa sempre più inclusiva e in dialogo col mondo contemporaneo».
Il francescano, che è direttore della Comunicazione della Basilica di San Pietro, è entrato poi nei dettagli del piano di comunicazione. Ci sarà un font dedicato (cioè uno specifico carattere grafico), concepito per celebrare la bellezza della Basilica di San Pietro e l’eredità religiosa, storica, artistica e culturale che rappresenta. Il font diventerà un segno distintivo della Basilica e dal 2025 caratterizzerà anche il nuovo sito web.
Tra le principali novità vi è la nuova rivista cartacea: Piazza San Pietro, il cui nome è stato scelto da papa Francesco. Il magazine offrirà editoriali sui temi della Chiesa e del mondo, affronterà argomenti di attualità, con un’attenzione particolare ai problemi sociali come la povertà, l’immigrazione, la violenza e le sfide che affrontano le famiglie e gli esclusi. Papa Francesco risponderà personalmente ai lettori, una lettera per ogni numero, «confermando la sua volontà di ascoltare e dialogare», ha sottolineato padre Fortunato. La rivista sarà disponibile presso l’Official Area della Basilica di San Pietro o all’interno della Basilica stessa, o tramite abbonamento postale (costo 30 euro, il singolo numero 4 euro, ma i meno abbienti la potranno avere gratis, ha precisato il frate). Inoltre sono in corso convenzioni per la distribuzione della rivista nelle scuole e presso le sale di attesa delle stazioni ferroviarie e degli aeroporti. La Basilica utilizzerà poi i social network «per condividere l’amore per questo luogo sacro, e offrire informazioni utili in vista dell’imminente Giubileo».
Quanto alle due webcam , una sarà installata sulla tomba di San Pietro e permetterà, dunque, un raccoglimento virtuale ai fedeli di tutto il mondo che potranno inviare le loro preghiere. Il dispositivo verrà inaugurato il prossimo 2 dicembre alle 18,30 da papa Francesco. Un’altra webcam invece sarà installata sulla Porta Santa, per consentire a chi non potrà affrontare il “santo viaggio” di attraversarla simbolicamente. Una sala polifunzionale interna alla Fabbrica di San Pietro permetterà l'accoglienza dei giornalisti e degli operatori dell’informazione per incontri e briefing.
«Il nostro obiettivo - ha spiegato padre Enzo -è rendere la basilica accessibile a tutti, utilizzando strumenti moderni, come l’intelligenza artificiale, ma sempre adeguatamente guidata e controllata. Il linguaggio - ha aggiunto - deve essere chiaro e coinvolgente, partendo dal cuore, come ci indica anche l’ultima recentissima enciclica del Papa. La Chiesa non ha mai avuto paura di andare incontro a nuovi orizzonti e frontiere, con creatività e coraggio, per annunciare il Vangelo».
L’intervento che avrebbe dovuto tenere l’arciprete della Basilica Vaticana, cardinale Mauro Gambetti (impossibilitato a partecipare alla conferenza stampa) è stato letto. «Ci piacerebbe comunicare nel senso etimologico del termine, cioè “mettere in comune” - ha scritto il porporato - nell’unica piazza dell’umanità, i valori, le esperienze, le testimonianze che appartengono alla storia di ieri e di oggi, perché coloro che guardano a San Pietro e al suo successore possano trovare luce e amore che incoraggiano nel cammino».
Ecco il testo della prima lettera pubblicata dalla rivista Piazza San Pietro e la risposta del Papa:
Santo Padre, sono una nonna di tre nipotini, il loro arrivo è stato un grande dono che ha portato tanta gioia a noi nonni e alle nostre due figlie. L’ultima nipotina di 5 anni, molto affettuosa e vivace, non è stata battezzata perché i genitori, sposati civilmente, si sono allontanati dal Signore durante il loro periodo adolescenziale. Tuttora non è presente in loro il desiderio di ricercarlo e renderlo presente nella loro vita. Tutto ciò è fonte di grande sofferenza per me perché so quanto importante è avere il Signore al nostro fianco, pregarlo, ascoltarlo e accogliere il suo amore. Immagino la mia nipotina senza questo grande dono, senza il Sacramento del Battesimo, lei così curiosa di conoscere la storia di Gesù con tante sue domande.
Cosa penserà Gesù di tutto ciò? Continuerò a pregare perché ci aiuti ad aprire il cuore dei suoi genitori, e possa affiancare la mia nipotina nelle prove della vita, essere suo amico e compagno di viaggio. Mi rivolgo a Lei Santo Padre per avere conforto e consiglio, fiduciosa che il Signore ci indicherà la giusta strada da percorrere per aiutare la nostra nipotina.
La risposta del Papa:
Cara Oliva, capisco la Vostra sofferenza e Vi sono vicino. Il Battesimo è un grande dono che possiamo fare ai più piccoli, perché è il primo dei sacramenti, è la porta che permette a Cristo Signore e allo Spirito Santo di abitare, di prendere dimora, nella nostra persona. Io stesso ho battezzato molti bambini in questi anni a San Pietro, negli ospedali, ed è sempre una gioia grande.
Se i genitori si sono allontanati dalla fede, non bisogna perdere la fiducia. La preghiera può fare tanto. Fa miracoli. Pregate con più fede. Pensate a santa Monica e alle sue preghiere incessanti per la conversione del figlio Agostino, poi diventato un santo vescovo. Con la preghiera, amate con la speranza della resurrezione. L’amore autentico e disinteressato crea legami forti, che possono essere sorprendenti.
Alcuni pensano: ma perché battezzare un bambino che non capisce? Quando sarà adulto sarà lui a decidere. Ebbi modo di rispondere a questa domanda, ma volentieri la riprendo. Mi dà l’opportunità di invitare i genitori a donare qualcosa di straordinario ai bambini, di bello, di buono: sentirsi figli di Dio, che è Padre e che ci accompagnerà sempre nella vita. Non pensate troppo alle feste mondane, perché questo è uno dei motivi che a volte porta tanti ad allontanarsi dalla fede. Vivete insieme, in parrocchia, con gli altri questa attesa. Vivetela nella semplicità.
Battezzare un bambino significa aver fiducia nel Signore, nello Spirito Santo, perché quando noi battezziamo un bambino, in quel bambino entra lo Spirito Santo, e lo Spirito Santo fa crescere in quel bambino, da bambino, delle virtù cristiane che poi fioriranno.
Ma il Battesimo non si può comunque imporre a genitori che non lo vogliono per i propri figli. Voi nonni, tuttavia, con il vostro esempio, potete aprire tanti cuori che sembrano chiusi. Portate avanti il dialogo sempre, mi raccomando sempre, con speranza, con mitezza e con carità. Accompagnate i vostri figli, parlate con loro, ma senza insistere con la proposta del Battesimo. L’amore gratuito è più persuasivo di tante parole. L’amore di Dio semina futuro, amicizia, ricerca di Lui, e i tempi noi non li conosciamo. La preghiera vi aiuterà certamente. Vedrete.
Coraggio, avanti insieme e non vi dimenticate di pregare per me.
Pier Giorgio Frassati sarà proclamato santo domenica 3 agosto 2025, al termine del Giubileo dei giovani che si terrà a Roma dal 28 luglio al 3 agosto. Ad annunciarlo, era stato lo stesso papa Francesco. Ma ben prima che fosse data notizia della canonizzazione, l’arcidiocesi di Torino aveva già avviato una serie di attività per celebrare il centenario della sua morte (4 luglio 2025), iniziando lo scorso luglio un anno di particolare attenzione alla sua figura. Tra le altre cose, l’arcivescovo Roberto Repole ha ritenuto importante proporre la realizzazione di uno spazio espositivo permanente da offrire ai pellegrini per approfondire la conoscenza “dell’uomo delle otto beatitudini” (così lo definì Giovanni Paolo II) e creare un ambiente particolarmente interessante per i giovani, dove possano conoscere l’esempio di Pier Giorgio, un modello credibile e affascinante di laico cristiano.
Lo spazio espositivo dedicato alla vita e alla spiritualità di Pier Giorgio Frassati sarà realizzato all’interno della canonica della chiesa di Santa Maria di Piazza, nel centro di Torino, dove lui si recava spesso per l’adorazione eucaristica. Il progetto prevede di articolare gli ambienti in un vero e proprio viaggio nella vita di Pier Giorgio, grazie anche alle installazioni multimediali che arricchiranno l’esperienza di visita.
La prima sala presenterà, attraverso una grande proiezione, le principali coordinate biografiche di Frassati e i suoi interessi (amicizia, preghiera, solidarietà, montagna, studio, politica). Inizierà poi un percorso sui luoghi simbolici di Pier Giorgio: Torino e le sue periferie, le città europee che ebbe modo di visitare, la campagna biellese di Pollone e, soprattutto, la montagna, il luogo in cui visse fortemente la dimensione dell’amicizia, consolidò le sue capacità sportive e che simboleggia la sua ricerca “verso l’alto”. Quindi si arriverà nella sala in cui i gruppi potranno approfondire la conoscenza di Pier Giorgio Frassati scegliendo tra brevi clip video dedicate ai temi più significativi della sua vita. Il percorso si concluderà in una sala di grande impatto emozionale, dove proiezioni e contributi sonori faranno vivere un’esperienza estremamente coinvolgente.
La vicinanza dello spazio espositivo permanente alla chiesa consentirà ai visitatori di concludere la visita vivendo anche un momento spirituale di preghiera. La ristrutturazione coinvolgerà anche la Cappella dei Minusieri, che si sviluppa accanto alla chiesa e che potrà essere dedicata a mostre temporanee e ad iniziative di associazioni e gruppi giovanili.
Un elemento significativo di questo progetto è che per sostenere le spese della sua realizzazione si è scelto il coinvolgimento “dal basso”, a partire proprio dalle persone e dalle realtà che sono più legate alla spiritualità di Pier Giorgio. Si è così deciso di promuovere una campagna di crowdfunding che debutterà sui social “Frassati 100” il 1° dicembre con l’inizio dell’Avvento e proseguirà sino al 1° febbraio. “Vivere l’Avvento con Pier Giorgio” permetterà di avvicinarsi al suo pensiero e alla sua sensibilità grazie alle pagine delle sue lettere e ad alcune fotografie. Sulla pagina dedicata del sito diocesano saranno presto pubblicate le informazioni su come sostenere l’iniziativa: https://www.diocesi.torino.it/comitato-diocesano-per-il-centenario-frassatiano/.
La decisione di intraprendere questo progetto da parte della diocesi è motivata dalla speranza di una ricaduta positiva di quest’intervento nel tessuto sociale e culturale della città e per il quale ci si augura di trovare numerosi compagni di viaggio per sostenerlo e valorizzarlo. L’incarico di progettazione e realizzazione è stato affidato alla società di comunicazione Mediacor, conosciuta per le sue installazioni museali multimediali per il mondo ecclesiale, come il Polo Culturale “Cultures and Mission” dei Missionari della Consolata a Torino, “Antonius” per i Frati Minori Conventuali a Padova, “Mater Amazonia” ai Musei Vaticani.
“La Chiesa non chiude la porta ma la spalanca a tutti” dice papa Francesco, ricevendo in udienza la comunità accademica del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia.
“Tutti” ripete. E incalza: “Non dimenticare questa parola: tutti”. E ancora: “Tutti, tutti, tutti”. Tre volte lo ripete ancora. Perché sia chiaro, chiarissimo, senza possibilità di equivoco. Senza che questa apertura possa essere soggetta a interpretazioni.
La Chiesa spalanca la porta a tutti: ai divorziati e risposati, ai conviventi, “a coloro che faticano nel cammino di fede”. “Perché tutti hanno bisogno di un’attenzione pastorale misericordiosa e incoraggiante”. E invita a guardarsi dal fariseismo di chi si considera superiore perché ha la fortuna di vivere in una situazione regolare. “L’ha detto Gesù in una parabola: quando non vengono gli invitati a nozze, il padrone dice ai servi: “Andate per le strade e portate tutti, tutti, tutti” – “Signore, tutti i buoni, vero?” – “No, tutti, buoni e cattivi, tutti”. Non dimenticate quel “tutti”, che è un po’ la vocazione della Chiesa, che è madre di tutti”.
“La logica dell’integrazione pastorale – continua il pontefice nel suo discorso alla sala Clementina, dove arriva a piedi, senza l’ausilio della sedia a rotelle - è la chiave dell’accompagnamento per quanti convivono rinviando indefinitamente il loro impegno coniugale e per le persone divorziate e risposate”. “Sono battezzati, sono fratelli e sorelle; lo Spirito Santo riversa in loro doni e carismi per il bene di tutti”, dice citando Amoris Laetitia: “La loro presenza nella Chiesa testimonia la volontà di perseverare nella fede, malgrado le ferite di esperienze dolorose”.
Questo, ribadisce il Pontefice, non significa certo rinnegare il sacramento del matrimonio e la sua difesa: “Senza escludere nessuno la Chiesa promuove la famiglia, fondata sul matrimonio, contribuendo in ogni luogo e in ogni tempo a rendere più solido il vincolo coniugale, in virtù di quell’amore che è più grande di tutto: la carità. Infatti, la forza della famiglia risiede essenzialmente nella sua capacità di amare e di insegnare ad amare”.
“Per quanto una famiglia possa essere ferita – aggiunge Francesco - può sempre crescere a partire dall’amore”. Perché nelle famiglie le ferite si guariscono con l’amore.
Bergoglio torna a anche a sottolineare il nuovo protagonismo che deve essere riservato alla famiglia nella vita della Chiesa: “Le famiglie sono soggetti e non solo destinatari della pastorale famigliare, responsabili per l’edificazione della Chiesa e dell’impegno nella società”.
Ad ascoltare il Papa nella seconda udienza che Francesco ha concesso all’Istituto che lui stesso ha riformato nel 2017, insieme al Gran Cancelliere, l’arcivescovo Vincenzo Paglia, il preside Philippe Bordeyne, i docenti, gli studenti e il personale, anche i vicepresidi di tutte le sezioni internazionali, che vanno dagli Stati Uniti alla Spagna passando per Messico, Brasile, Benin e India, cui si aggiungono i centri associati in Libano, Filippine, Porto Rico e Santo Domingo. Un’estensione nel mondo che consente al Jp2 di confrontarsi con molte realtà diverse, ognuna con specifiche problematiche e risorse pastorali.
Al Jp2, secondo il Pontefice, spetta una speciale cooperazione mediante studi e ricerche che sviluppino una conoscenza critica dell’atteggiamento di diverse società e culture nei confronti del matrimonio e della famiglia. “Perciò ho voluto che estendesse l’attenzione anche agli sviluppi delle scienze umane e della cultura antropologica in un campo così fondamentale per la cultura della vita”.
“È bene che le sedi dell’Istituto svolgano le proprie attività in dialogo con studiosi e istituzioni culturali anche di impostazioni differenti. Dobbiamo andare avanti in questi rapporti – raccomanda il Papa - è importante”. Perché in ogni parte del mondo l’Istituto sostenga gli sposi e le famiglie nella loro missione, aiutandoli a essere pietre vive della Chiesa e testimoni di fedeltà, di servizio, di apertura alla vita, di accoglienza.
Nel corso del suo discorso il Papa denuncia la discriminazione delle donne in molti Paesi, sottolineando invece come la parità di genere si sia imposta sin da subito nella comunità cristiana: “In Cristo Gesù – scrive San Paolo – non c’è più uomo né donna. Questo non vuol dire che la differenza tra i due sia annullata, bensì che nel piano della salvezza non c’è discriminazione”. Francesco non rinuncia, come nel suo stile, ad una battuta spiritosa: “Parlando delle donne, un vecchio prete mi diceva: “Stai attento, non sbagliare, perché dal Giardino dell’Eden comandano loro!”.
“Il sacramento del matrimonio – continua il Papa - è come il vino buono che viene servito alle nozze di Cana”. E ricorda come le prime comunità cristiane si siano sviluppate proprio in forma domestica. La parrocchia, spiega, nasce di fatto come famiglia allargata: “I cristiani si riunivano nelle case, ampliando nuclei familiari con l’accoglienza di nuovi credenti”.
Sin dall’inizio la chiesa-famiglia svolge anche un compito sociale: “Come dimora aperta e accogliente, fin dall’inizio la Chiesa si è prodigata affinché nessun vincolo economico o sociale impedisse di vivere la sequela di Gesù. Entrare nella Chiesa significa sempre inaugurare una fraternità nuova, fondata sul Battesimo, che abbraccia lo straniero e perfino il nemico”.
L’Istituto Jp2 incontra il Papa a conclusione di giornate particolarmente intense, che hanno visto – tra l’altro – l’inaugurazione dell’Anno Accademico, il Consiglio internazionale e un pellegrinaggio ad Aversa, dove oltre a confrontarsi con la pastorale familiare della diocesi, è stato organizzato un pranzo in un ristorante sorto in una villa confiscata a un camorrista e c’è stata una visita alla chiesa dove trent’anni fa è stato ucciso don Peppe Diana.
La Parola d’amore di Dio in mezzo a tante parole di odio e di lacerazione. Vuole essere questo la nuova edizione in arabo della Bibbia “Scrutate la parola”, pubblicata da San Paolo e presentata nei giorni scorsi a Roma, presente il patriarca di Gerusalemme dei Latini, cardinale Pierbattista Pizzaballa, oltre a diversi altri vescovi del Medio Oriente e al superiore generale della Società San Paolo, don Domenico Soliman. E proprio il porporato, che con la sua Chiesa si trova a vivere la stagione forse più difficile degli ultimi decenni, ha rimarcato il valore di questa iniziativa editoriale e non solo. «La nuova versione della Parola di Dio in arabo è molto importante – ha detto - perché, soprattutto nel nostro contesto diviso e lacerato, dove ci sono tante parole di disprezzo, odio, rifiuto, sfiducia, dove l’altro non è il prossimo da amare e perdonare, ma una minaccia da eliminare, quando tutto questo è così profondo radicato nelle nostre anime e culture locali -, avere questa capacità di arrivare alla Parola di Dio senza troppe mediazioni, nella propria lingua, apre prospettive e vie sempre nuove e sempre diverse. Certo – ha proseguito Pizzaballa -, ciò non toglie nulla al dolore e alla sofferenza, ma non lascia spazio all’odio, al rancore, al disprezzo perché è Parola viva, che è come una sorgente dalla quale si possono tirare fuori tesori nuovi e antichi, quelle parole di perdono di cui abbiamo estremo bisogno».
La Bibbia “Scrutate le Scritture” correda con introduzioni, note e passi paralleli la versione araba del testo biblico già esistente (l’Antico Testamento è stato tradotto dai Gesuiti mentre il Nuovo Testamento dai Maroniti). Le circa 400 note tematiche potranno aiutare i fedeli di lingua araba al fine di aiutarli a scrutare le Scritture e a meditarle con più profondità. L’edizione sarà distribuita in diversi Paesi: Egitto, Giordania, Iraq, Israele, Libano, Marocco, Palestina, Siria, Sudan e in tutte le comunità della “diaspora”. «Nella traduzione – spiega don Francesco Voltaggio, che ha lavorato a stretto contatto con il maronita abuna Jean Azzam, direttore del progetto - abbiamo tenuto conto dell’importanza di adattare la traduzione al mondo arabo, come anche alla ricchezza e alla sensibilità delle chiese orientali, alle quali la maggior parte dei fedeli in lingua araba appartengono. La traduzione è stata poi realizzata con un’attenzione speciale ai Padri della Chiesa, che uniscono tutte le Chiese, e al sottofondo della Bibbia, nata proprio in Oriente. Oltre a ciò, le note sono aggiornate alle ultime scoperte archeologiche, valorizzando in particolare i luoghi santi del Medio Oriente».
«Siamo stati divisi da un muro, negli ultimi tempi entrambi sotto la guerra, ma abbiamo continuato a lavorare» dicono entrambi. Sono convinti che «anche se l’iniziativa non è legata agli eventi attuali possa aiutare i cristiani arabi, in Terra Santa e nel mondo. Ci auguriamo», spiegano, «che la conoscenza soprattutto del Vecchio Testamento aiuti a essere testimonianza per gli altri. Quanto più grandi sono le tenebre, tanto più risplende la luce e si potrà essere operatori di pace».
La presentazione della Bibbia è avvenuta nel giorno in cui si ricordava la memoria liturgica del beato Giacomo Alberione, fondatore della famiglia paolina. E alla sua intercessione è stato affidato anche il processo di pace nel tormentato Medio Oriente. «I tempi non saranno brevi – ha detto Pizzaballa - ma dobbiamo pensare che le persone che si combattono oggi sono le stesse che dovranno convivere domani. La missione principale che vedo per noi in Terra Santa è dire agli altri, ai nostri fratelli musulmani e ebrei parole di riconciliazione, di vita, di pace, parole che ricostruiscono». «Ebrei e musulmani, ha aggiunto il patriarca, non si parlano più, ma sottobanco ci dicono se ci siete anche voi cristiani possiamo incontrarci, allora lì noi cristiani siamo chiamati a dire una parola di speranza, cioè quella Parola che è il fondamento della nostra speranza». Alla presentazione hanno preso parte cinquanta persone di lingua araba arrivate dalla Terra Santa. A don Domenico Soliman ha consegnato 50 copie dell’edizione da portare con sé nel ritorno a casa. Un dono prezioso perché, come ha ricordato monsignor Michel Aoun, vescovo di Byblos (presente all’evento con monsignor Michel Jalakh, del dicastero delle Chiese orientali e con il vicario copto cattolico del Cairo, monsignor Hani Bakhou, Kiroulos), «è un segno di pace e speranza che può essere seminato nel cuore degli uomini e delle donne che vivono nella guerra».
Significativo, dunque, che la nuova versione in lingua araba della Bibbia sia stata presenta dai paolini questa mattina - 27 novembre - a papa Francesco a margine dell’udienza generale, assieme alla «Bibbia del Giubileo». Da parte sua il Pontefice ha ringraziato per l’iniziativa, sottolineando l’importanza di «far conoscere la Parola di Dio».
«Vorrei andare all’università senza preoccuparmi di finire in mezzo a una pioggia di missili O senza dover correre nel bunker antiaereo. Vorrei poter visitare i Paesi del Medio Oriente senza ostacoli e senza pericoli. Vorrei poter vivere in serenità e nella gioia». Théa Ajami riprende fiato. «Nonostante tutto questo non sia ancora possibile, non mi arrendo. E continuo a credere nella pace». Théa viene dal Libano e compirà 21 anni il 29 dicembre. Racconta i suoi «sogni», come li definisce. I sogni di una studentessa che vive in un Paese in guerra. Porta le sue speranze e la sua sofferenza a Palermo dove si è riunito il Consiglio dei giovani del Mediterraneo. È il laboratorio della fraternità e del dialogo che abbraccia le sponde del grande mare e che raccoglie quaranta ragazzi cattolici in rappresentanza delle Chiese legate al bacino. Una consulta tutta under 35, voluta dalla Conferenza episcopale italiana, che unisce tre continenti, Europa, Asia e Africa, da cui provengono i delegati. Al centro dell’incontro in Sicilia la sfida dell’accoglienza che si intreccia con l’orrore dei conflitti, una delle cause che provocano le ondate di profughi.
Come evidenzia il tema delle tre giornate a Palermo: “Non c’è pace senza accoglienza”. E come sa bene il Libano, esempio di coesistenza che vede cristiani e musulmani essere fianco a fianco e governare le istituzioni insieme. «Siamo quattro milioni di abitanti. E abbiamo accolto 800mila palestinesi e 1,6 milioni di siriani fuggiti dalla guerra. Adesso abbiamo 800mila sfollati interni per i raid di Israele - racconta Emile Fakhoury, 25 anni, cattolico di rito maronita -. Aprire le porte può costare fatica, ma dà molto. Ad esempio siamo consapevoli di aver contribuito a salvare la vita a chi si lascia alle spalle le bombe o la persecuzione». Ora l’emergenza è rappresentata dai connazionali del sud del Paese nel mirino di Gerusalemme. «Nonostante le differenze religiose e culturali, tutti hanno trovato un rifugio: anche nelle chiese e nei monasteri che li aiutano con organizzazioni come la Caritas - spiega Roudy Jido, 24 anni, che vive a Beirut -. Questa è vera accoglienza: tendere la mano a chi è nel bisogno, come insegna Gesù, e prendersi cura di coloro che non possono ripagarci».
La cultura dell’ospitalità è inscritta nella storia del Libano. «Da noi - prosegue Théa - salutiamo chi arriva dicendo: “Ahla w sahla!”. Significa: “Ciao e benvenuto”. La parola “Ahlan” implica che sei tra volti familiari, non estranei. “Sahlan” suggerisce che hai raggiunto un luogo affidabile. In Libano non importa da dove vieni: conta creare un senso di appartenenza, specialmente in tempi di guerra. “Avevo fame e mi avete dato da mangiare”: ogni volta che apriamo le nostre porte, avverto risuonare le parole di Gesù». Un clima che si respira anche in Albania. «Far sentire a casa ciascuno è parte della nostra cultura - dice la 28enne Xhilda Hila -. Anche noi abbiamo accolto chi veniva dal vicino Kosovo in conflitto. La gentilezza verso coloro che sono considerati stranieri è nel nostro Dna. Lo testimonia Madre Teresa che in Albania è nata».
Eppure l’accoglienza fa tremare i polsi. Soprattutto in Europa dove il migrante viene spesso respinto. Vale anche per la Grecia. «Oggi i greci sono affabili verso i turisti e molto meno verso i rifugiati - afferma la 22enne Petrina Voutsinou -. Tutto ciò è dovuto alla paura e all’ignoranza. Invece una società plurale è una società più bella, interessante e umana che può crescere in modo migliore». Sulla stessa lunghezza d’onda Marianna Vitali, 23 anni, anche lei greca. «La nostra nazione è nel suo insieme sospettosa nei confronti di persone che hanno una differente origine, estrazione economica, fede e orientamento sessuale. Questo si riflette sulle scelte politiche che tendono a non proteggere le minoranze, mentre le leggi sull’immigrazione sono dure e disumane. Benché il nostro sia un popolo con grandi tradizioni, c’è ancora molto da fare per essere una società davvero a misura di tutti». Anche la Spagna è investita dal fenomeno migratorio. «Ma Cristo non ha mai detto: “Scusa, non posso aiutarti….”», ricorda Pilar Perez Brown, 26 anni, che rappresenta la penisola iberica nell’organismo. E descrive l’impegno di Camilla che a Barcellona «ha aiutato 350 persone a integrarsi: offrendo alloggi o iniziative di strada». Perché, aggiunge Pilar, «aprirsi all’altro non significa indebolire la propria identità ma farla crescere nel confronto».
È il messaggio che arriva dal Consiglio dei giovani: una società fraterna è possibile, dove non si alzano muri ma si costruiscono ponti. «“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”, ci ricorda la Scrittura. A Marsiglia, città multietnica e multireligiosa, la diocesi scommette sul dialogo a 360 gradi», sottolinea la 26enne francese Quiterie Gué. Un appello che vale per l’Italia. «Spesso dimentichiamo l’eterogeneità del nostro popolo», precisa Rita Saccone. È collaboratrice del Centro di accoglienza Padre Nostro a Palermo che, aggiunge, «ha già nel nome la sua missione». L’ha fondato don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso nel 1993 dalla mafia e dichiarato beato dalla Chiesa. Proprio sui suoi passi sono arrivati in Sicilia i ragazzi del Mediterraneo: lui che è stato maestro di accoglienza nel quartiere di Brancaccio dove è stato assassinato e dove era parroco. «Come padre Puglisi il Centro abbraccia tutti e non lascia indietro nessuno: soprattutto le persone più vulnerabili come i poveri e chi sbaglia. Perdonare è la chiave per accogliere l’altro con fatti concreti e non solo a parole, per permettergli di cambiare. Perché, come diceva il nostro fondatore, “ognuno può cambiare solo se è amato”».
Lo spiega anche Giuseppe Vicari, in prima linea nel Centro Padre Nostro. «Un esempio positivo è quello dei tanti detenuti in permesso premio che chiedono di venire al Centro dove si sentono a casa. L’ostacolo maggiore che risiede nell’animo umano è il pregiudizio che non permette di andare oltre il proprio naso, non capendo che dall’altro si impara. Lo testimonia Palermo, città variegata, un insieme di colori e culture che si mescolano rendendola straordinaria sin dai tempi antichi».
A portare la voce della Toscana è il 31enne Marco Gozzi. «Non dobbiamo partire dalle differenze, ma dal volto dell’altro», fa sapere raccontando la cultura dell’incontro che si sperimenta nel Campo internazionale promosso ogni estate lungo la costa del Tirreno dall’Opera per la gioventù Giorgio La Pira di Firenze. Da Trieste arriva Marta Longo. La sua storia familiare è segnata dall’emigrazione. «I miei nonni sono stati esuli a Trieste, dopo essere stati costretti a lasciare l’Istria. La città è stata capace di prendersi cura di loro. Ecco perché dico che serve rispetto e che Dio ha voluto ogni persona diversa dall’altra, come le sue meravigliose caratteristiche».
“Prendersi cura: una famiglia per ogni comunità del Mediterraneo” è la sfida che i ragazzi del bacino lanciano alle Chiese affacciate sul grande mare in occasione dell’Anno Santo. Ed è il nome del progetto giubilare di accoglienza presentato a Palermo dal Consiglio dei giovani del Mediterraneo. «Attraverso le Conferenze episcopali e i Sinodi che i delegati del Consiglio rappresentano, i ragazzi vogliono essere protagonisti di un impegno a favore dei più deboli», spiega Tina Hamalaya, originaria del Libano ma trasferitasi in Italia. Lei anima la segreteria della consulta internazionale permanente formata da quaranta giovani dei Paesi affacciati sul Mediterraneo. Giovani che decidono di «mettersi in cammino con quanti sono nel bisogno per curarne le ferite: siano essi migranti, rifugiati, richiedenti asilo ma anche senza fissa dimora, madri e padri in condizioni di disagio con i loro figli, donne vittime di tratta, giovani in difficoltà. In pratica, tutte quelle situazioni di fragilità che con numeri sempre più preoccupanti caratterizzano le nostre società», aggiunge Tina.
Il Consiglio dei giovani è stato voluto dalla Cei dopo l’incontro dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo che si era tenuto a Firenze nel 2022. E vuole essere un segno concreto di attenzione della Chiesa cattolica verso le nuove generazioni per favorire una convivenza fra i popoli basata sulla fraternità. Sede dell’organismo è il Seminario di Fiesole. I ragazzi che lo compongono rappresentano le Chiese del bacino che li hanno indicati come delegati. Il Consiglio si è insediato nell’estate 2023 a Firenze. Quattro le aree d’azione: l’impegno sociale, la formazione religiosa, l’educazione, lo scambio fra le sponde. La Cei ha affidato l’iniziativa a quattro realtà fiorentine: la Fondazione Giorgio La Pira, l’Opera per la gioventù Giorgio La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II, onlus per lo sviluppo e la cooperazione nei Paesi più fragili.
Gesù nel Vangelo assicura che il buon Dio esaudirà tutte le preghiere fatte con fede. Allora perché tante volte non otteniamo quel che chiediamo? I motivi possono essere diversi, a cominciare dall'atteggiamento che assumiamo nel domandare. Nella preghiera è infatti molto importante la docilità del cuore alla volontà di Dio, le cui logiche e le cui prospettive possono essere molto diverse dalle nostre. E poi non si possono chiedere cose contrarie al bene o che danneggino gli altri. Il tema è al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste, il podcast di Avvenire dedicato ai temi della religione che questa settimana inizia la sua riflessione da un esempio banale, quello di chi prega per la vittoria della sua squadra del cuore: ha senso farlo? Ma tra i motivi per cui non si viene esauditi c'è anche la poca insistenza. Non a caso san Basilio osserva: domandi e non ottieni, perché domandi malamente, e con poca fede, o con leggerezza, oppure chiedendo cose che non ti giovano, o senza insistere.
Come detto Taccuino celeste è uno spazio dedicato ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi precedenti si è occupato, tra l’altro, di come si riconoscono i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, dei passi necessari per diventare santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Il primo a essere sorpreso, il 4 novembre scorso, fu proprio lui, monsignor Domenico Battaglia, per tutti don Mimmo, arcivescovo di Napoli dal 12 dicembre 2020 (quando papa Francesco lo nominò alla cattedra della Chiesa partenopea della quale avrebbe preso possesso il 2 febbraio 2021). In quelle poche righe diffuse da Matteo Bruni, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, c’era la sua nomina a cardinale nel concistoro del prossimo 7 dicembre. Un concistoro annunciato dal Papa il 6 ottobre con ventuno nuove porpore, poi scese a venti per effetto della rinuncia da parte del vescovo indonesiano di Bogor, monsignor Paskalis Bruno Syukur, il 22 ottobre. Con monsignor Battaglia, dunque, si torna a ventuno. Ma non è una questione di numeri. L’arcivescovo di Napoli è uno abituato alla sostanza delle cose. E lo si vide anche quel giorno dalle sue prime dichiarazioni dopo l’annuncio. Dichiarazioni che confermavano il suo stupore: «La nomina con cui papa Francesco mi ha inserito quest’oggi nel Collegio Cardinalizio mi ha colto di sorpresa, generando in me una duplice reazione. Da un lato sento il peso di questa responsabilità con cui il Papa mi invita ad allargare il cuore, per aiutarlo nel suo ministero e ospitarvi la sua premura per la Chiesa universale e per il mondo intero. Dall’altro avverto una sincera gratitudine verso papa Francesco non tanto per l’attenzione che rivolge alla mia persona ma perché nel chiamarmi a questo servizio ha guardato ad un figlio del Sud, vescovo di una Chiesa del Sud, di questo Sud che è al contempo terra di fatica e di speranza». Quindi aggiungeva: «Diventare cardinale non è un privilegio ma una responsabilità, responsabilità che possiamo condividere nella misura in cui cammineremo insieme, sentendoci servi gli uni degli altri. E non chiamatemi Eminenza come qualcuno già ha fatto, sono e resterò sempre don Mimmo».
Sono gli stessi sentimenti che emergono da questa intervista ad Avvenire, la prima del cardinale nominato, dopo l’annuncio del Papa.
Che cosa aggiunge la porpora al ministero dell’arcivescovo di Napoli?
La porpora non è un’onorificenza, ma un segno di servizio e di responsabilità maggiore. Il suo colore come è noto richiama il sangue dei martiri, cioè il dono totale di sé per Cristo e per il suo popolo, a cui tutti siamo chiamati. Come ha detto papa Francesco, il cardinale è chiamato a vivere il proprio ministero «non con il pensiero di un principe, ma con il cuore di un servo». Per me, ciò che aggiunge al mio servizio, non è altro che il dovere di essere ancora più vicino a questa Chiesa partenopea, senza dimenticare di allargare il cuore alla Chiesa universale, alle sue ferite e alle sue speranze, condividendo la vita e le sofferenze della nostra gente, dei popoli, soprattutto dei più poveri. Una figura importante per la mia vocazione, dom Helder Camara, affermava che «quando sogniamo da soli, è solo un sogno. Quando sogniamo insieme, è l’inizio della realtà». Ecco, questa chiamata mi ricorda che devo impegnarmi ancor di più a sognare con la Chiesa intera, camminando insieme ai miei fratelli vescovi, sotto la guida del Papa, annunciando la Buona Notizia della Pasqua, servendo con maggiore dedizione gli ultimi, i piccoli, coloro che il mondo scarta ma che sono il cuore pulsante del Vangelo e la vera ricchezza della Chiesa. Insomma è una chiamata a sporcarmi ancor di più le mani e il cuore con la vita del popolo, della gente, sollevando le croci di chi soffre, senza mai dimenticare di essere “cirenei della gioia”, come spesso scriveva don Tonino Bello.
E a proposito di ultimi, di scartati, di sofferenti, oggi qual è l’emergenza più grande di Napoli?
Napoli vive tante emergenze, ma forse quella più grande è il rischio dell’indifferenza e della assuefazione. Le disuguaglianze sociali, la povertà educativa, la criminalità sono ferite profonde, ma il vero pericolo è che ci si abitui a tutto questo, che si smetta di indignarsi, di sognare un futuro diverso. Per questo la nostra Chiesa ha avviato due percorsi importanti, attraverso la creazione di un Ramo Ets (Ente del Terzo Settore, ndr) che renderà più agevole la progettazione sociale, caritativa, mettendo sempre più al centro i poveri, e di una Fondazione di partecipazione che ha lo scopo di donare speranza ai giovani attraverso il riscatto lavorativo possibile grazie alla valorizzazione dei beni culturali ecclesiali. La città ha bisogno di risvegliare una speranza concreta, di ricostruire fiducia, soprattutto nei quartieri più abbandonati. Noi come Chiesa ci stiamo provando.
In particolare, c’è una emergenza giovani, visti i casi di cronaca?
Sì, c’è una grande emergenza educativa. I giovani a Napoli vivono tra due estremi: da un lato il talento straordinario, l’energia creativa, dall’altro il rischio di essere inghiottiti da un sistema che non dà opportunità. Quando le famiglie sono fragili e le scuole non riescono a farsi presidio di speranza perché sovraccaricate e non di rado sole, i ragazzi finiscono per cercare altrove risposte che spesso li conducono su strade sbagliate. Come Chiesa, dobbiamo moltiplicare gli spazi di incontro, di ascolto, di formazione, perché nessun bambino e nessun giovane si senta abbandonato. Per questo ho lanciato il Patto Educativo: per ridonare all’educazione la sua centralità e provare a dare risposte concrete a questa emergenza invitando tutti a camminare insieme e lavorare in un unico “noi” per il bene dei più piccoli.
Come descriverebbe il volto della città partenopea oggi?
Il volto di Napoli è un mosaico di contrasti: luce e ombra, ferite e bellezza, sofferenza e resistenza. È una città con una capacità unica di reagire, di rialzarsi, di trasformare il dolore in creatività. È una città che non smette di stupire, ma che ha bisogno di riscoprire una coesione più forte, di far incontrare le sue diverse anime, che spesso sono culture simili ma lontane. Ecco l’incontro delle tante città che a Napoli vivono e convivono è fondamentale perché nessuno resti ai margini. Troppe volte nel giro di qualche metro si incontra un bambino in povertà educativa e un altro magari con possibilità illimitate: ecco questi bambini devono incontrarsi, le loro famiglie devono parlarsi, i quartieri devono diventare crocevia di contaminazioni reciproche capaci di donare possibilità di cambiamento e crescita a chi rischia di restare indietro. Solo così si sconfigge il sistema di morte della camorra, che non di rado affonda le proprie radici sul disagio degli ultimi e sull’indifferenza – se non a volte complicità – dei primi.
Il turismo, ultimamente molto cresciuto a Napoli, è un luccichio che distrae dai problemi reali?
Il turismo è una grande opportunità, ma non può diventare l’unica narrazione della città. Napoli non può essere solo una cartolina da visitare; deve essere una casa per chi ci vive. Il rischio è che il luccichio del turismo offuschi i problemi reali: le periferie, anche quelle del centro, la disoccupazione, l’emigrazione dei giovani. Come Chiesa, dobbiamo ricordare che l’ospitalità turistica non basta se non è accompagnata da una giustizia sociale più profonda.
Che cosa può dare speranza a Napoli nel Giubileo della speranza che ci apprestiamo a vivere?
Il Giubileo, nella sua radice biblica, è un tempo di grazia, un tempo di liberazione e di restituzione. Nel Levitico, il Giubileo è l’annuncio della libertà per gli oppressi, la restituzione della terra a chi l’aveva perduta, il riscatto per chi era schiavo del debito. È il richiamo a ripartire, rimettendo al centro la giustizia e la dignità di ogni persona. Per Napoli è un’occasione per riscoprire la forza di questa visione biblica: una città che impara a liberarsi dalle sue schiavitù, dalle catene della corruzione, della violenza, della disuguaglianza, per ridare a ogni persona, soprattutto ai più fragili, il posto che le spetta. È un invito a rimettere il Signore al centro della vita personale e comunitaria, lasciandosi trasformare dal suo Vangelo di misericordia e di riconciliazione. Il Giubileo ci ricorda che il cambiamento è possibile, ma passa attraverso la conversione del cuore e l’impegno concreto.
Quindi lei è fiducioso per un futuro diverso della città.
Napoli ha tutte le risorse per rinascere, se pone al centro la dignità di ogni persona e se si lascia illuminare dalla luce del Vangelo. Questa è la vera speranza che può trasformare la città: non un sentimento vago, ma una forza che spinge all’azione, che restituisce futuro a chi si sente abbandonato e apre strade di liberazione per tutti.
Vengono celebrati mercoledì 27 novembre i funerali del cardinale Miguel Angel Ayuso Guixot morto lunedì scorso. La liturgia, alle 14 all'altare della Cattedra della Basilica di San Pietro sarà celebrata dal cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio Cardinalizio, insieme a cardinali, arcivescovi e vescovi. Al termine, papa Francesco presiederà il rito dell'Ultima Commendatio e della Valedictio. Ad anticipare con intimo dolore che il prefetto del Dicastero per il Dialogo interreligioso, stava per morire era stato lo stesso Pontefice lunedì mattina, nel corso di una udienza con la delegazione internazionale giainista. Poi nel pimo pomeriggio la triste conferma ufficiale del decesso del porporato con una breve nota de L’Osservatore Romano. «Vorrei dirvi anche una notizia non bella - erano state le parole del Pontefice -: il capo di questo Dicastero, il cardinale Ayuso, sta molto male di salute, è in fin di vita. Una preghiera per lui», aveva chiesto il Papa. Ayuso, 72 anni, era da qualche tempo malato. Missionario comboniano, era nato a Siviglia. Prima di essere chiamato come segretario dell'allora Pontificio Consiglio che aveva raccolto l’eredità del “Segretariato per i non cristiani”, Ayuso era stato preside del Pontificio Istituto di Studi arabi e Islamistica. Il 2 maggio 1980 emise la professione perpetua per i Comboniani. Fu ordinato sacerdote il 20 settembre 1982. Il 29 gennaio 2016 papa Francesco gli conferì la dignità episcopale e Il 25 maggio 2019 lo nominò presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Era cardinale dal 5 ottobre 2019.
Tante le testimonianze di cordoglio per la morte di Ayuso. A cominciare naturalmente dall’affettuoso messaggio del Papa che in un telegramma inviato al vicario generale dei missionari comboniani del Sacro Cuore di Gesù, istituto di cui Ayuso faceva parte, ricorda come il porporato abbia «servito il Vangelo e la Chiesa con dedizione esemplare e delicatezza d’animo». Penso con gratitudine, prosegue Francesco, «al ministero da lui profuso senza risparmiarsi dapprima quale zelante missionario in Egitto e in Sudan, poi come preside del Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica, infine a servizio della Curia romana nel Dicastero pr il dialogo interreligioso di cui divenne prefetto. In ogni opera apostolica – continua il Pontefice – fu sempre animato dal desiderio di testimoniare, con mitezza e saggezza, l’amore di Dio per l’uomo adoperandosi per la fratellanza tra i popoli e le religioni». Tra gli ltri messaggi di vicinanza, quello del grande imam di al-Azhar, il leader sunnita Ahmad Al-Tayyeb che in una nota prega «Dio Onnipotente di concedere pazienza e conforto alla famiglia, ai parenti e ai cari del defunto» definito «un modello distinto di servizio dedicato all'umanità» protagonista di «sforzi significativi nel promuovere le relazioni con i musulmani in generale, e con al-Azhar e il Consiglio musulmano degli anziani (Mce)» e, soprattutto, per «diffondere il Documento sulla Fraternità umana (Hfd) durante il suo servizio in Vaticano e i suoi contributi al Comitato superiore della Fraternità umana». Profonda la partecipazione al lutto anche dell’Unione buddhista italiana, il cui presidente Filippo Scianna ricorda Ayuso come «un uomo e religioso appassionato e alla ricerca di un autentico e fruttuoso dialogo con le altre religioni. Conserviamo – prosegue la nota dell’Unione buddhista italiana - con particolare affetto le sue parole e riflessioni trasmesse alla comunità buddhista mondiale in occasione della Festività del Vesak. Siamo vicini con il pensiero e la preghiera a tutto il Dicastero in questo doloroso momento».
«Ho incontrato nella mia vita molte persone, sacerdoti e laici, che mi hanno fatto del gran bene. Però la persona che ha inciso fortemente sul mio crescere davanti a Dio e agli uomini è stata la mia mamma, che mi ha insegnato ad amare Gesù». Domani, 27 novembre, fratel Gian Carlo Sibilia compie 90 anni. Fondatore dei Piccoli Fratelli di Jesus Caritas, una delle comunità religiose sparse per il mondo che si rifanno all’insegnamento di san Charles de Foucauld – che il prossimo 1° dicembre la Chiesa ricorda nel calendario –, dall’abbazia millenaria di Sassovivo, sede del priorato, posta alle pendici del monte Serrone, sopra Foligno (Perugia), vive e continua la sua missione di innamorato del Vangelo, con allegria e naturalmente con gli acciacchi dell’età.
Il deserto e la Giac. L’abbazia di Sassovivo respira a pieni polmoni la presenza di san Francesco – Assisi è a due passi – e di fratel Carlo Carretto, straordinaria figura del cattolicesimo italiano post conciliare che a Spello, le “colline della speranza”, fondò una comunità dei Piccoli Fratelli del Vangelo dando anima e corpo ai tanti piccoli eremi sparsi per il monte Subasio. «Un’altra persona che ha segnato fortemente il mio amore per Gesù e per la Chiesa – continua Gian Carlo – è stato fratel Carlo Carretto. Innamorato di Gesù alla scuola di Carlo Carretto, e guidato da frère Charles, non potevo che seguirli sulle orme stesse del deserto e nello sviluppo del loro messaggio spirituale. Ma c’era un altro amore che andava sviluppandosi: quello per la Chiesa. Il noviziato per conoscere e crescere in quest’amore fu la Giac – la Gioventù Italiana di Azione cattolica – e i vari servizi diocesani e nazionali a essa legati. Con la Giac imparai a servire la Chiesa locale».
Innamorarsi di frére Charles. All’abbazia di Sassovivo il cuore di Gesù, sormontato da una croce di colore rosso, lo si vede dappertutto. Nell’abito dei Piccoli fratelli. Nei quadri appesi alle pareti. È il simbolo di Charles de Foucauld. Spesso iniziava le sue lettere disegnando un cuore con una piccola croce, posto tra due parole: “Iesus Caritas”. Per fratel Gian Carlo l’innamoramento verso Charles de Foucauld iniziò in modo molto semplice. «L’assistente della Giac di allora, monsignor Paolo Gillet, mi regalò un libretto dov’erano raccolte le meditazioni di un ritiro di fratel Arturo Paoli, fatto in Argentina. Queste pagine mi fecero scoprire innanzitutto il messaggio spirituale di Charles de Foucauld. Ma il libro fondamentale fu Come loro di René Voillaume, l’autentico fondatore della Famiglia foucauldiana. Infine frequentai le Piccole Sorelle alle Tre Fontane, vicino alla mia casa di Roma; l’ascolto delle loro testimonianze chiarì quale sarebbe stato il mio progetto di vita».
Pane, acqua e amicizia. Sulla strada di Charles de Foucauld, con l’aiuto di Carretto. «La prima volta che gli parlai fu al telefono. Lui era a Benì-Abbes, nel deserto, e la telefonata sollecitava la richiesta che nelle stampe dei giornali e riviste della Giac ci fosse un aiuto finanziario per alcune famiglie del Sahara bisognose di crearsi un pozzo per approvvigionarsi di acqua. Pur nella solitudine del deserto algerino Carlo Carretto, che era stato il presidente della Giac dal 1946 al 1952, non smetteva mai di chiedere informazioni su quello che accadeva in Italia. Ricordo soprattutto la sua vicinanza fisica e spirituale durante i miei primi quaranta giorni di eremo a Bindua in Sardegna, dove i fratelli avevano sistemato un eremo. Carlo ogni due giorni mi portava pane e acqua e poi, facendosi sera, parlavamo di cosa volesse dire diventare “piccolo fratello”. Per non parlare dei due ritiri spirituali nel Sahara: ci fermavamo per la preghiera e l’adorazione nei luoghi frequentati da frère Charles. Divenne un’amicizia forte. Che bello avergli chiuso gli occhi per nascere al cielo».
Spello, Assunta del 1965. I Piccoli Fratelli di Jesus Caritas fanno parte della grande famiglia spirituale di Charles de Foucauld. In cosa consiste la vostra missione? «I Piccoli Fratelli di Jesus Caritas cercano di vivere il messaggio di frère Charles innanzitutto con una stretta vita fraterna, nutrita dalla preghiera di adorazione e dalla lectio divina quotidiana. Un servizio in diocesi secondo le nostre disponibilità e la richiesta del vescovo. Iniziai la mia avventura di piccolo fratello a Spello nel Convento di San Girolamo (ora è il “polmone spirituale” gestito dall’Azione Cattolica italiana), dove arrivai a mezzogiorno dell’Assunta del 1965, con due fratelli, uno più giovane e il secondo colpito dalla malaria cronica. Spello, con il convento francescano del ’400, doveva diventare, insieme ai 25 eremi sparsi per il Subasio, il luogo di informazione e formazione per far fare esperienza di preghiera privilegiando il silenzio e l’adorazione eucaristica. Così accadde. Per quasi venticinque anni fu un notevole riferimento spirituale ed ecclesiale per centinaia di giovani che si alternavano ogni domenica tra i servizi liturgici, il lavoro nei campi e l’aiuto in cucina. L’andata al cielo di Carlo nel vespro di San Francesco, il 4 ottobre 1988, e infine il terremoto del 1997, hanno determinato la chiusura dell’esperienza. Ci si augura che fratel Carlo e gli altri piccoli fratelli sepolti con lui a Spello facciano rifiorire la fraternità».
La mappa della fraternità. Non solo Spello, però. «Vissi alcuni anni a Casalecchio di Reno, nella vivace diocesi di Bologna del cardinal Lercaro. Da lì siamo stati richiamati nella diocesi di Foligno per assumere la responsabilità della parrocchia di Limiti di Spello. Poi la fraternità cittadina a Foligno, e l’abbazia di Sassovivo. Ancora il Goleto in Irpinia, nella diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi, e infine a Nazaret, in una parte dell’ex monastero delle Clarisse dove è vissuto per tre anni fratel Charles. La nostra Comunità poi ha la responsabilità della Rivista Jesus Caritas, della Famiglia Charles de Foucauld, e custodisce l’archivio di fratel Carlo Carretto, curando inoltre la diffusione dei suoi fortunatissimi libri».
Condividere con chi soffre. Nazaret, infine. «La nostra presenza nella fraternità di Nazaret, luogo molto caro alla famiglia spirituale di Charles de Foucauld, lo dobbiamo alle Piccole Sorelle di Gesù che dopo cinquanta anni hanno dovuto ritirarsi da lì. Rimane una delle poche memorie della presenza di frère Charles. Nazaret vuol dire una vita semplice, come la si viveva ai tempi di Gesù. Fatta di preghiera, lavoro e amicizia con gli uomini. Charles de Foucauld rimase tre anni a Nazaret e comprese subito che bisognava predicare anche in terre e luoghi non cristiani. A Nazaret accogliamo chi viene in visita o chi voglia trascorrere un tempo più o meno prolungato di ritiro. Con l’inizio della guerra ci siamo posti la domanda se chiudere la fraternità o restare, ma i fratelli che vivono lì ci hanno risposto: “siamo stati qui più di vent’anni per accogliere i pellegrini e ora che la gente del posto è in guerra noi non possiamo rifiutarci di condividere con loro la sofferenza”».
Il giornale e il Rosario. Fratel Gian Carlo parla a bassa voce. La voce degli anziani, dei sapienti. Riscalda il cuore di chi vuole ascoltarla. Chi arriva a Sassovivo sa che incontra dei piccoli fratelli che vivono la carità fraterna, aperti all’accoglienza di quanti bussano alla loro porta. Sa che può trovare una parola o un conforto spirituale in un uomo che somiglia molto a quei vecchi patriarchi dell’Antico Testamento. «A 90 anni pieni, come mi viene richiesto e con una sofferenza non lieve di artrosi reumatica: prego, leggo, ascolto persone che mi vengono a scaricare le loro sofferenze, dedico un po’ di tempo anche alla lettura di qualche quotidiano ricordandomi sempre quello che scriveva Thomas Merton: l’uomo non è un’isola. In questo periodo ho riscoperto il valore del santo Rosario che fratel Carlo Carretto chiamava il Breviario dei poveri; ci sono giornate che anche il salmodiare mi diventa difficile… allora, corona in mano, e via con Maria, madre di Gesù e madre mia».
«Uomo vivo perché donato». L’ultima domanda per Gian Carlo è rivolta ai giovani. Cosa direbbe loro per innamorarsi di Charles de Foucauld? «Di leggere una sua buona biografia. Ce ne sono ormai tante. Se poi si vuol camminare più specificamente sulle sue orme bisogna prendere in mano Come loro, il libro guida per incamminarsi alla sequela del santo. Ci fu un anno in cui l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini venne a Spello con 150 preti ambrosiani di età piuttosto giovanile. Alla fine dell’Eucaristia celebrata nel piccolo chiostro della fraternità di San Girolamo disse: “fratel Carlo, un uomo vivo perché donato, perché spoglio. Un uomo che ha vissuto la speranza che è tale solo se la si vive fino in fondo. Amen”».
Con il riconoscimento del miracolo avvenuto per intercessione del beato Pier Giorgio Frassati giunge a compimento il percorso che, in occasione del Giubileo dei giovani, dichiarerà santo il giovane studente torinese, cento anni dopo la sua prematura scomparsa, avvenuta il 4 luglio del 1925 a causa di una poliomielite fulminante, probabilmente contratta durante il servizio volontariamente prestato ai bisognosi.
Fu Paolo VI, nel gennaio 1977, a favorire la ripresa e il proseguimento della causa di beatificazione e canonizzazione di Frassati, rispondendo alle sollecitazioni dell’episcopato piemontese e alle richieste presentate in tal senso da molti esponenti dell’associazionismo cattolico. Anche se non lo aveva conosciuto personalmente pur essendo quasi suo coetaneo – il futuro Pontefice aveva solo quattro anni più di Frassati, che era nato a Torino il 6 aprile 1901 – Montini condivise con lui la comune appartenenza alla Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso.
L’associazione cattolica studentesca era allora federata in circoli e fu guidata e coesa, per un quindicennio, dall’assistente ecclesiastico generale monsignor Giandomenico Pini che per Frassati, militante nel circolo fucino di Torino intitolato a “Cesare Balbo”, divenne una importante figura di riferimento. Una lettera del settembre 1923, custodita tra le carte di monsignor Pini, ci rivela la naturalezza con la quale Frassati, studente al Politecnico di Torino nella facoltà di ingegneria (scelta “per poter più servire Cristo tra i minatori”), riusciva a coniugare quotidianamente l’impegno universitario con la pratica religiosa e la cura prestata assiduamente ai poveri e agli emarginati della sua città, coinvolgendo in quest’opera diversi suoi amici della Fuci. Cresciuto in una famiglia dell’alta borghesia torinese (il padre, Alfredo, non credente, fu fondatore e direttore del quotidiano “La Stampa” e, dal 1913, senatore) e animato da un carattere gioviale, pieno di interessi culturali, appassionato di alpinismo, riuscì pure in tali circostanze a praticare un’azione di apostolato tra i suoi coetanei.
«Mi piace quella sua gioia di vivere, che lo faceva alpinista e cavallerizzo, sempre lieto ed esuberante di vita, chiassoso e buon compagno in ogni giovanile impresa», scrisse di lui Montini, che era diventato assistente ecclesiastico generale della Fuci nell’autunno del 1925, pochi mesi dopo la morte di Frassati. «Mi piace – si legge in alcuni appunti autografi redatti nel 1928 e conservati nell’archivio dell’Istituto Paolo VI di Concesio (Brescia), insieme ad altri scritti su Frassati – quella sua maniera di pregare, nella veglia e nello studio, nella semplicità dell’assemblea cristiana e nel raccoglimento della personale ricerca di Dio».
Montini, che ebbe occasione di commemorare Frassati in alcune circostanze tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, metteva in evidenza come il suo tratto distintivo fosse, in particolare, la semplicità. «È un semplice – annotava l’8 dicembre 1928 –, il fascino dei complicati non dura», mentre la sua semplicità «fatta di idee sicure, chiare, modi comuni (...) non è povertà, non è miseria», ma, per Montini – che ricordava il nomignolo “Testadura” col quale Pier Giorgio, spesso incompreso, era soprannominato in famiglia – essa scaturiva dalla sua grandezza d’animo radicata nella genuina, pura, convinta e concreta professione della fede cristiana.
Ancora nel 1932 il futuro Paolo VI, recatosi a Torino nel settimo anniversario della morte di Frassati, parlando davanti a una moltitudine di studenti cattolici raccolti nella chiesa della Crocetta frequentata dal giovane, s’interrogò sul «perché la figura di Pier Giorgio ci riesce di grande conforto? Cosa hanno visto quelli che lo hanno guardato da fuori?». Per rispondere bisognava volgere lo sguardo all’intera sua vita, in quanto, spiegava allora Montini, «prima d’accorgersi che era di animo santo, hanno visto che era di animo forte. Hanno visto ch’era un uomo», nella cui fortezza non c’era spavalderia, né esuberanza giovanile, ma perfezione interiore. «Ricco di questa forza Pier Giorgio è moderno e giovane» e la sua figura poteva parlare a tutti i giovani, non solo a quelli che gli erano stati contemporanei. «Un giorno forse – presagì in quel luglio del 1932 Montini, mutando il suo discorso in un dialogo con Pier Giorgio e rivolgendosi direttamente a lui – la Chiesa ci dirà che davvero tutto t’è derivato dalla forza di Dio». In tal modo l’esempio di Pier Giorgio Frassati avrebbe potuto dimostrare anche alle giovani generazioni future come la vita cristiana autentica non rappresenta «una concezione ristretta e sorpassata dell’esistenza umana», perché il cristianesimo, vissuto con gioia e altruismo come fece Frassati, «è l’esaltazione della vita vera». Ancora il 1° settembre 1959, tornato nel capoluogo piemontese da arcivescovo di Milano per tenere la prolusione al 35° congresso nazionale della Fuci, l’allora cardinale Montini ricordò nuovamente Frassati e, pur senza nominarlo, esordì richiamando «il volto d’uno studente bello e vigoroso di Torino», il cui esempio «conforta la certezza che una giovinezza forte e limpida è possibile e vicina» e fa crescere nel cuore «l’interiore anelito verso una superiore bontà».
Ora è ufficiale. Dopo l’annuncio nei giorni scorsi da parte del Papa, che aveva anticipato la notizia e la data della canonizzazione del beato Pier Giorgio Frassati – il 3 agosto 2025, al termine del Giubileo dei Giovani – Francesco ha autorizzato la promulgazione dei decreti che riguardano lui e altri nuovi santi, beati e venerabili, dopo aver ricevuto in udienza il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi. Sono stati riconosciuti i miracoli avvenuti per l’intercessione, appunto, di Frassati (1901-1925) e della beata Maria Troncatti (1883-1969), religiosa bresciana delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che saranno santi.
Frassati, figura già molto nota in Italia e non solo, sarà al centro di numerose iniziative nei prossimi mesi che contribuiranno a rinvedirne il ricordo o a farne conoscere la vita soprattutto alle nuove generazioni. Nacque a Torino il 6 aprile 1901 in una famiglia dell’alta borghesia distante dalla fede. Il padre Alfredo, giurista dedicatosi al giornalismo, poi senatore, fu colui che trasformò l’antica Gazzetta Piemontese nel quotidiano La Stampa, divenendone proprietario e direttore. Grazie a diversi incontri negli anni della formazione – dal precettore di casa, il salesiano don Cojazzi, ai gesuiti dell’Istituto Sociale di Torino – Pier Giorgio, un giovane che affascinava per la sua vitalità, divenne un cattolico fervente: iscritto alla Fuci da giovane universitario, aderì anche alla Società San Vincenzo De Paoli, con un grande impegno a favore dei poveri della città, si impegnò nell’Apostolato della preghiera, la Lega eucaristica, l’Associazione dei giovani adoratori universitari e si fece terziario domenicano con il nome di fra Girolamo, in onore del domenicano del XV secolo Girolamo Savonarola. Morì a soli 24 anni.
Maria Troncatti nacque a Corteno Golgi, in provincia di Brescia, il 16 febbraio 1883. Entrata nella famiglia salesiana appena divenuta maggiorenne, durante la prima guerra mondiale lavorò come infermiera nell’ospedale militare. Nel corso di un’alluvione in cui rischiò di morire annegata promise alla Madonna che se le avesse salvato la vita sarebbe partita per le missioni e così avvenne. Fu mandata in Ecuador nel 1922. Lì si spese in un ambiente durissimo, quello della foresta amazzonica. Così Ans, l’agenzia informativa dei salesiana, descrive quello che fu suo operato: «Porta avanti con le sue consorelle un difficile lavoro di evangelizzazione in mezzo a rischi di ogni genere, non esclusi quelli causati dagli animali della foresta e dalle insidie dei vorticosi fiumi. Macas, Sevilla Don Bosco, Sucúa sono alcuni dei “miracoli” tuttora fiorenti dell’azione di suor Maria Troncatti: infermiera, chirurgo e ortopedico, dentista e anestesista... Ma soprattutto catechista ed evangelizzatrice, ricca di meravigliose risorse di fede, di pazienza e di amore fraterno». Morì Il 25 agosto 1969, a Sucúa, quando il piccolo aereo su cui era a bordo precipitò dopo il decollo.
Due i prossimi beati di cui è stato riconosciuto il martirio. Francesco-Saverio Truong Buu Diêp (1897-1946), sacerdote diocesano vietnamita, ucciso nel corso della guerra d’Indocina che fu combattuta fra il 1946 e il 1954 fra l’esercito coloniale francese e il movimento Viet Minh, guidato da Ho Chi Minh, che lottava per l’indipendenza. All’arrivo dei Viet Minh nella zona in cui Truong Buu Diêp era parroco, nella provincia meridionale di Bac Lieu, molti sacerdoti fuggirono, lui decise di restare. Il 12 marzo 1946 venne arrestato insieme a sessanta parrocchiani: da buon pastore offrì la propria vita per la liberazione del suo gregge.
Floribert Bwana-Chui (1981-2007), laico della Repubblica Democratica del Congo, appartenente alla Comunità di Sant’Egidio, come responsabile della dogana di Goma dove era nato e dove lavorava impedì l’ingresso di partite avariate di riso nel Paese, non piegandosi a tentativi di corruzione, e fu per questo torturato e ucciso.
Sarà beata anche la francescana spagnola, già venerabile, suor Giovanna della Croce, al secolo Juana Vázquez y Gutiérrez (1481-1534), protagonista di diverse esperienze mistiche: beatificazione equipollente, ovvero che non avviene per il riconoscimento di un miracolo, ma per il culto vigente da «tempo immemorabile».
Diventa infine venerabile il croato Josip Lang (1857-1924), che fu vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Zagabria dal 1915 al 1924, lasciando un segno profondo per la sua caratura spirituale e la sua carità.
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«Nell’industria automobilistica dilaga la paura: sono in gioco i posti di lavoro e con essi il futuro di intere regioni». Così Pro, una delle più diffuse riviste evangeliche tedesche, sintetizza con asciuttezza lo stato d’animo che non riguarda più solo un marchio e tantomeno un settore. La crisi esplosa nel gruppo Volkswagen ormai investe anche gli altri giganti delle quattro ruote in Germania e il loro mastodontico indotto. Di fronte a ciò, oltre ad analisi sul da farsi, scioperi e drammatiche contrattazioni, c’è chi non dimentica la preghiera. È la Cai, sigla della Netzwerk Christen in der Automobilindustrie, ossia la rete dei cristiani dell'industria automobilistica, associazione interconfessionale con diramazioni in Opel, Bmw, Daimler, Audi e Volkswagen, e che organizza oggi pomeriggio, alle 17.30, un incontro di preghiera presso la Fondazione AutoMuseum di Wolfsburg, cuore industriale di Volkswagen nella Bassa Sassonia.
«Il Museo dell'Automobile rappresenta la nostra passione» si legge nell’invito, «purtroppo la parola “museo” rappresenta anche il pericolo di restare fermi, girando su noi stessi e diventando leggenda», ossia un ricordo del passato. «Ora abbiamo l’opportunità di usare questo luogo come faro di speranza», «insieme vogliamo attingere speranza, ricaricare le batterie e mettere in moto il nostro futuro comune con Cristo per VW, i fornitori e tutte le persone interessate. Crediamo che la preghiera faccia la differenza e metta in moto le cose».
«Signor Wagner, solo Dio aiuta oggi i dipendenti della VW?» ha chiesto nei giorni scorsi il settimanale Stern a Dirk Wagner, pastore evangelico, responsabile per la pastorale fra i lavoratori di Wolfsburg. « Il buon Dio è lì per tutte le persone» ha risposto il pastore, «“Invocatemi nel momento della sventura e io vi salverò” dice la Bibbia. Questo messaggio è importante. Dio può aprire nuove prospettive».
Viviamo in tempi frenetici, ma forse è sempre stato così. Le ore non bastano mai, gli impegni si accavallano, coniugare famiglia e lavoro risulta sempre più difficile. Eppure, le cose importanti hanno bisogno di tempo, spesso si costruiscono pietra su pietra, crescono goccia su goccia e tu puoi solo aspettare che maturino, usando tutta la pazienza che hai. E poi tante volte il non avere tempo è semplicemente una scusa. Quando ti importa davvero di una persona, un minuto per scriverle un messaggio, per andarla a trovare, per chiederle semplicemente “come stai?”, lo trovi sempre. In questo la vita della Chiesa è maestra. Non a caso il Natale, la festa del Dio che si incarna e si fa creatura è preceduta dall’Avvento, tempo dell’attesa, che se vissuto adeguatamente, nella preghiera e nel servizio, diventa scuola d’amore. Lo spiega bene in questa preghiera Jean Debruyrnne (1925-2006) sacerdote francese morto in Libano, a lungo cappellano delle guide scout transalpine.
«Non amo attendere nelle file. Non amo attendere il mio turno. Non amo attendere il treno. Non amo attendere prima di giudicare. Non amo attendere il momento opportuno. Non amo attendere un giorno ancora. Non amo attendere perché non ho tempo e non vivo che nell'istante.
D'altronde tu lo sai bene, tutto è fatto per evitarmi l'attesa: gli abbonamenti ai mezzi di trasporto e i self-service, le vendite a credito e i distributori automatici, le foto a sviluppo istantaneo, i telex e i terminali dei computer, la televisione e i radiogiornali. Non ho bisogno di attendere le notizie: sono loro a precedermi.
Ma tu Dio tu hai scelto di farti attendere il tempo di tutto un Avvento. Perché tu hai fatto dell'attesa lo spazio della conversione, il faccia a faccia con ciò che è nascosto, l'usura che non si usura. L'attesa, soltanto l'attesa, l'attesa dell'attesa, l'intimità con l'attesa che è in noi, perché solo l'attesa desta l'attenzione e solo l'attenzione è capace di amare».
A un mese esatto dall’apertura della Porta Santa il bilancio è già positivo. «Il banchetto è pronto, adesso aspettiamo gli invitati», sintetizza con una battuta monsignor Rino Fisichella, pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione e principale organizzatore dell’Anno Santo ordinario del 2025 (come già di quello straordinario della Misericordia). «I programmi sono stati ultimati – afferma l’arcivescovo –, i grandi eventi sono pubblici da tempo e anche le diocesi in Italia e nel mondo sentono l’importanza di vivere pastoralmente il Giubileo, perché stiamo ricevendo tante iscrizioni per i pellegrinaggi diocesani e parrocchiali. La dimensione spirituale dell’Anno Santo è viva e cresce l’attesa per l’apertura della Porta Santa. Certo ci sono ancora alcuni cantieri aperti, ma le autorità italiane hanno promesso che almeno nella zona del Vaticano, entro la metà di dicembre, tutto sarà sistemato in modo da accogliere i pellegrini nel migliore dei modi».
Accennava all’attesa che cresce. Ci può fare qualche esempio?
In America Latina ho notato molta vivacità, così come anche negli Usa e in molte parti dell’Asia, Filippine in testa. Ma anche dall’Europa ci sono arrivate moltissime iscrizioni e con grande anticipo. Il Giubileo è un evento che il popolo sente in maniera particolare, perché è una scadenza venticinquennale che invita al confronto con se stessi e con la propria fede, oltre che con il desiderio di mettersi in cammino verso Roma per incontrare il Papa. Ci sono molte iniziative che sono state prese dalle singole diocesi e devo ringraziare tanti vescovi di tutto il mondo, perché hanno dedicato la lettera pastorale al tema della Speranza e del Giubileo.
Visto l’andamento delle iscrizioni, le stime di decine di milioni di pellegrini saranno dunque rispettate?
A me non preoccupano i numeri, che certamente saranno significativi. La cosa più importante è l’esperienza spirituale che ci preme far vivere ai pellegrini. Proprio in questi giorni a via della Conciliazione stanno allestendo il percorso privilegiato che accompagnerà da piazza Pia alla Porta Santa di San Pietro. Ci interessa che attraverso quel breve tragitto si possa con la preghiera, la riflessione e il canto raggiungere la Porta Santa come un vero momento di incontro con la misericordia del Signore.
Ci può anticipare qualcosa sullo svolgimento del rito di apertura della Porta Santa di San Pietro?
Il rito è molto semplice: il Pontefice chiederà che gli venga aperta la porta e così avverrà e lui la attraverserà per primo. Si è pensato di dare l’annuncio dell’apertura con un breve concerto di campane eseguito dalla Pontificia Fonderia di Agnone perché quello è il suono della gioia, che ricorda gli appuntamenti festivi. Questo suono dirà al mondo intero l’inizio dell’anno giubilare.
Il fatto che la seconda Porta Santa che il Papa aprirà sarà nel carcere di Rebibbia che significato ha?
Il Papa lo ha spiegato nella Bolla Spes non confundit. Egli va tra i detenuti per dare a ciascuno di loro, in ogni parte del mondo, il segno della Speranza che non può venire meno. Anche in una situazione di privazione della libertà, a volte perfino nella negazione dei requisiti minimali della dignità umana a motivo delle condizioni di detenzione, non bisogna mai perdere la speranza. Sappiamo che nelle carceri ci sono situazioni tali che le persone non resistono e si tolgono la vita. Ma anche là dove tutto sembra venir meno, la speranza diventa la forza per continuare ad andare avanti.
Quali altri segni di speranza ci si può augurare di vedere in questo anno?
Bisogna accogliere gli appelli che il Papa fa nella Bolla di indizione: la remissione del debito pubblico, l’abolizione della pena di morte, l’aiuto agli ultimi (siamo reduci dall’VIII Giornata mondiale dei poveri dove il Papa ha benedetto 13 chiavi come parte del progetto “13 case” in altrettanti Paesi del mondo). Durante l’anno sono sicuro che il Papa troverà il modo di coniugare sempre l’annuncio e la speranza.
Acutis e Frassati saranno canonizzati nell’Anno Santo. Questo Giubileo avrà un volto giovane?
I primi attori di speranza sono i giovani e gli adolescenti. Ecco perché Francesco ha voluto dare un segno, come è avvenuto anche in precedenti giubilei attraverso canonizzazioni simbolo: Madre Teresa nel Giubileo della Misericordia, suor Faustina nel Grande Giubileo del 2000, santa Maria Goretti nel 1950. Così il Giubileo diventa proposta di vita attraverso la te testimonianza di alcuni santi. Carlo Acutis per i nostri adolescenti che vivono in un contesto particolarmente difficile e Piergiorgio Frassati il grande scalatore della vetta della santità, lui che scalava le montagne.
E uno degli eventi più attesi sarà il Giubileo dei giovani.
In tutte le diocesi il Giubileo dei giovani si sta preparando con grande entusiasmo. E verranno in tanti a Tor Vergata. Il kit è pronto e sono stati mantenuti bassissimi i prezzi per far sì che non sia la dimensione economica a impedire la partecipazione a un evento così bello e gioioso. Proprio in questi giorni c’è stato un altro sopralluogo a Tor Vergata per stabilire le priorità di accoglienza e di sicurezza. E per parafrasare san Giovanni Paolo II, sono sicuro che anche nel 2025 Roma non dimenticherà la presenza festosa di tanti giovani di tutto il mondo.
Oggi, solennità di Cristo Re dell’Universo, si celebra in tutte le diocesi la 39ma edizione della Giornata mondiale della gioventù. Quest’anno il Papa ha scelto come tema il brano del Libro del profeta Isaia: «Quanti sperano nel Signore camminano senza stancarsi» (cfr Is 40,31). La Gmg si svolgerà in tutto il mondo, a livello di Chiese particolari, e farà seguito alla 38ma edizione e alla celebrazione internazionale svoltasi a Lisbona, in Portogallo, nell’agosto del 2023.
Come di consueto, Francesco presiederà la celebrazione eucaristica nella Basilica di San Pietro alle 9.30. Al termine, si svolgerà il tradizionale passaggio dei simboli della Gmg, dando inizio al loro pellegrinaggio verso Seul 2027.
I simboli della Gmg - la Croce dei giovani e l’Icona di Maria Salus Populi Romani - verranno consegnati, prima dei riti di conclusione, da una delegazione di giovani portoghesi a una delegazione di giovani coreani, accompagnati dai loro pastori. I giovani coreani potranno così dare il via al pellegrinaggio dei simboli in Corea e in vari paesi dell'Asia, portandoli ovunque: nelle città, nelle campagne, fra i sofferenti, i carcerati, i poveri, con particolare riferimento ai giovani senza speranza. Un itinerario particolarmente significativo dato che si svolgerà in Paesi prevalentemente non cristiani.
Oggi saranno presenti in Basilica: una delegazione di circa 100 giovani portoghesi, accompagnati dal patriarca di Lisbona, Rui Manuel Sousa Valério, e dal coordinatore generale della Gmg di Lisbona 2023, il cardinale Américo Manuel Alves Aguiar; una delegazione di circa 100 coreani, accompagnati dall’arcivescovo di Seul, Peter Chung Soon-taek, e dal coordinatore generale della Gmg di Seul 2027, Paul Kyung Sang Lee; giovani romani che concluderanno la celebrazione della Gmg a livello diocesano con il loro vescovo, papa Francesco.
Considerando l’universalità del momento, rappresentanti di altre parti del mondo proclameranno le letture e la preghiera universale dei fedeli: giovani di madrelingua coreana, portoghese, italiana, inglese, francese, spagnola e cinese si alterneranno nel corso della celebrazione liturgica. Durante la presentazione delle offerte, poi, saranno presenti giovani provenienti dai cinque continenti. Attraverso la vita e le storie di questi giovani, è rappresentata anche la ricchezza e la diversità vocazionale di ognuno, poiché tra di loro ci sono giovani sposati, non sposati e religiosi.
La Croce dei Giovani venne affidata ai giovani da San Giovanni Paolo II in occasione del primo Raduno dei giovani, nel 1984.
Alla fine dell’Anno Santo della Redenzione, dopo aver chiuso la Porta Santa, papa Giovanni Paolo II consegnò la Croce alla gioventù del mondo con queste parole: “Portatela nel mondo, come segno dell'amore del Signore Gesù per l'umanità ed annunciate a tutti che solo in Cristo morto e risorto c'è salvezza e redenzione”.
Dal 2003, la Croce è accompagnata dall’icona di Maria Salus populi romani, segno della tenerezza materna di Maria e della maternità stessa della Chiesa per tutta l’umanità.
Tutte le tappe, dal 1984 ad oggi, della Croce dei giovani e dell’Icona Salus populi romani si possono trovare sul sito del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita.
Il messaggio di papa Francesco per la 39ma Giornata Mondiale della Gioventù è disponibile sul sito www.vatican.va
Sono passati quattro anni dal 25 novembre 2021, quando papa Francesco dichiarò venerabile Antonio Bello – ma per tutti “don Tonino” (1935-1993) –, che fu vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi Italia. L’intervento del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, presidente della Conferenza episcopale italiana, che pubblichiamo di seguito, è la prefazione a un testo che ripropone l'intervento pronunciato da Bello a conclusione del convegno giovanile "Quando vivere è convivere": il libro si intitola "Nelle vene della storia. Lettera a Gesù", è pubblicato da La Meridiana in coedizione con Luce e Vita (48 pagine, 8 euro), e ha l’introduzione dell’attuale vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi, Domenico Cornacchia.
S’intitola invece "Angeli con un’ala soltanto" (208 pagine, 18 euro) il volume delle Edizioni San Paolo nel quale sono raccolte alcune delle più belle pagine su due temi particolarmente cari a Bello: la pace e la difesa della vita in ogni sua forma. Il libro (con la prefazione di Giancarlo Piccinni, presidente della Fondazione don Tonino Bello) offre un contenuto inedito: un documento audio, scaricabile con QRCode, per ascoltare la sua preghiera più famosa, che apre il libro, recitata dalla voce dello stesso Bello.
Di seguito, il testo del cardinale Matteo Zuppi.
«Don Tonino Bello ha avuto un’intimità profonda con la Storia. Chi crede in Dio e si affida a Lui è capace di leggere, nelle pieghe della cronaca, i destini dell’umanità, di scrutare i segni dei tempi, di riconoscerli. È importante sapere che veniamo da lontano e imparare a riconoscerne le conseguenze nel cogliere il presente e nel pensare al futuro, anche quando non lo vediamo se non con gli occhi della fede.
Nelle vene della storia passa il destino dell’umanità stessa.
Se proviamo, da questa prospettiva, a leggere la trilogia delle lettere di don Tonino: la lettera a Giuseppe il falegname, poi quella a Maria, la madre di Dio e, infine, quella a Gesù, coglieremo subito l’attualità di ogni pagina di quest’ultima lettera. Capiremo come parole scritte nel 1990 sembrano dettate oggi, perché il presente ha radici nel passato.
L’incontro con Gesù avviene nel deserto, dove l’unica ombra capace, in alcune ore della giornata, di dare sollievo, è la propria. Lì, dove ogni possibilità di relazione con gli altri è negata e dove il silenzio ha, nel rumore del proprio respiro, l’unica certezza di essere abitato, don Tonino incontra Gesù, il figlio di Dio. La scelta del deserto appare al vescovo, in un primo momento, non solo strana, ma anche un po’ incoerente rispetto al mandato per cui il Verbo si è fatto carne. Non doveva forse venire per stare in mezzo agli uomini, l’Emmanuele? Perché dagli uomini è già fuggito? Forse è già stanco di una umanità impazzita e rabbiosa?
Il vescovo, però, ha urgente bisogno di incontrare Gesù e, all’inizio della lettera, non importa il luogo dove questo incontro accada. Ciò che conta è la ragione che lo porta a cercarlo. Ha un bisogno struggente di porgli una domanda: “Vivo solo col presente, o convivo col passato? Da quali falde affiora alla mia coscienza questo bisogno struggente di comunione?” “Tempi duri per gli aneliti di comunione. A livello pubblico e privato. Precipitano le difese immunitarie della convivenza. E, nonostante il gran parlare, alla borsa dei valori le quotazioni della solidarietà sono quelle più in ribasso”.
Ed è solo dopo l’affiorare della domanda, in tutta la sua spasmodica urgenza, che il luogo dell’incontro assume tutta la sua rilevanza. Nell’assenza di ogni cosa e nell’arsura che ricopre le distese aride e inaridite, il luogo assume le ragioni perché la ricerca porti a risposte autentiche.
È Gesù che sceglie di farsi trovare nel deserto: “È incredibile: ma questo deserto, incapace di legarmi agli spazi, compie ora il miracolo di congiungermi con i tempi, e me ne riporta i tumulti, così come le conchiglie di Santa Maria di Leuca, accostate all’orecchio, mi riportano concerti di oceani lontani e profumi di remote scogliere” scrive don Tonino. Come a dirci, dopo averlo capito lui stesso, che bisogna connettersi profondamente a ciò che scorre nel corpo della Storia per vincere la voglia di fuggire dalle responsabilità che abbiamo, abitando un tempo minuscolo del suo tempo infinito.
“Bisogna entrare nel deserto e lasciarsi scavare dalla paura dell’ignoto.” Capisce questo don Tonino prima di scorgere le uniche tre cose, accanto all’orcio con poca acqua, che in quello spazio vuoto fanno compagnia al Figlio di Dio. La bisaccia che sembra vuota. Il rotolo dell’alleanza. Il bastone del pellegrino.
Simboli e segni, questi, per imbastire le risposte, per tornare nel frastuono delle comunità senza la paura di farne parte.
La logica della nudità è il primo abito da indossare per far spazio alla comunione e convivenza. Essere vuoti di tutto ciò che ingombra gli spazi esterni e che appesantisce la nostra capacità di non esserne schiavi e dipendenti.
“Vorrei spiegarla”, scrive don Tonino, “anche alle mie comunità cristiane, al cui interno ci si frantuma spesso per problemi di prestigio, ed è più facile rinunciare alla ricchezza dei beni che a quella del proprio punto di vista.”
“E sarebbe opportuno”, incalza, “che vi meditassero anche i responsabili dei popoli della vecchia Europa, perché oggi è facile parlare di Casa comune, ma se ognuno pretende di entrarvi con tutto il suo mobilio senza rinunciare a nulla, diventerà impossibile evitare le prevaricazioni di chi sa organizzarsi meglio, a danno dei più poveri.”
La logica dell’alleanza è il monile da esibire, disincrostato da tutti i nostri accomodamenti di circostanza e dal nostro buonismo, che ci porta a dire a una parte di umanità che non c’è posto per lei, con il diritto che ci prendiamo di poter decidere che solo noi abbiamo il diritto di esistere in questo mondo e in questo tempo.
“Razzisti – scrive don Tonino – proprio non siamo, e forse neppure intolleranti con loro. Ma ci fanno paura. Probabilmente perché sono l’icona di un rapporto con l’altro che non sappiamo gestire.”.
Quella paura che ci porta a chiudere, ancora oggi, le frontiere e a lasciar cadere in mare anche bambini innocenti, sentendoci però differenti da Erode.
La logica della trascendenza per fare ritorno nel mondo: è una logica carsica, ma c’è. “Dalle viscere dell’umanità prorompe il sussulto di uno pneuma universale che scavalchi le immagini di tutte le teofanie storiche, e provochi una convivenza nuova tra le genti fondata sulla pace, sulla giustizia e sulla salvaguardia del creato.”
Gesù non parla. Mostra le poche cose che ha con sé e queste diventano risposta. Perché è attraverso i segni che il mistero della salvezza ci indica la strada.
La straordinarietà di don Tonino è nell’aver compiuto per primo quel passo nel deserto, nell’aver visto negli oggetti i segni e il significato affidato loro, per noi, dal Salvatore. Come a dire che non è dalle parole gridate che passa la Salvezza, ma dalla nostra capacità e volontà di leggerla nella realtà delle cose.
L’incontro finisce. È il momento del commiato. Le risposte alla domanda che lo aveva portato a cercare Gesù, don Tonino le ha trovate.
“Ecco, vedi, sotto i tuoi piedi è già spuntata una ginestra. La colgo, perché voglio portarmela come presagio di una imminente primavera che già incombe sulla storia.”
Quella ginestra, dopo aver letto il libro, ci è consegnata da don Tonino perché possiamo anche noi vedere e leggere come un segno che “A Sud è spuntato l’arcobaleno”.
Come non dire ancora Grazie a questo vescovo innamorato dei poveri e profeta di Pace. Come non dirlo oggi, quando la logica della violenza e della guerra sembra conquistare i cuori di tanti e di addormentare le coscienze. Grazie don Tonino e grazie al suo coraggio di combattere sempre e fino alla fine la logica della violenza e della guerra, anche quando sembra non serva a niente e non convenga».
La Lettera del Santo Padre Francesco sul rinnovamento dello studio della storia della Chiesa, pubblicata il 21 novembre 2024, si presta a svariate possibilità di lettura, proprio per la ricchezza di approcci che l’interpretazione della storia offre al pensiero. Quello che qui privilegio è un taglio strettamente teologico: mi chiedo cioè che cosa questo intervento del Vescovo di Roma dice all’uso che la teologia fa della storia e a quello che la ricerca storica può fare di una prospettiva teologica fondata sulla rivelazione biblica e la sua trasmissione nel tempo da parte della Chiesa. Non esiterei a rispondere che il “no” deciso dell’intervento del Santo Padre è a un uso ideologico della lettura della storia, tanto in senso polemico, quanto in chiave apologetica: «Una corretta sensibilità storica aiuta ciascuno di noi ad avere un senso delle proporzioni, un senso di misura e una capacità di comprensione della realtà senza pericolose e disincarnate astrazioni, per come essa è e non per come la si immagina o si vorrebbe che fosse. Si riesce così ad intessere un rapporto con la realtà che convoca alla responsabilità etica, alla condivisione, alla solidarietà». In effetti, il fascino e il limite delle moderne concezioni del progresso storico sono consistiti nella presunzione di offrire una spiegazione totale del mondo e del suo divenire temporale: prodotto della ragione moderna, la filosofia della storia ne ha assunto le pretese totalizzanti e ne ha registrato la parabola di fronte all’incompiutezza palese delle realizzazioni storiche. Quando la violenza esercitata sul reale dall’ideologia si è scontrata con la resistenza del reale stesso, è risultato evidente che non basta cambiare il mondo e la vita nel pensiero per poi cambiarli effettivamente nella concreta complessità che li caratterizza. La “dialettica dell’Illuminismo” – proposta da Max Horkheimer e Theodor Adorno subito dopo la tragedia della seconda guerra mondiale (1947: in italiano Einaudi, Torino 1966) – consiste precisamente nella denuncia critica dei limiti della ragione emancipata e dei suoi progetti totalizzanti sulla storia. Il mondo “programmato”, che l’ideologia configura, resta un prodotto delle possibilità presenti, dedotto da ciò che è disponibile e calcolabile: ciò che ad esso manca veramente è il “nuovo”, l’avvenire in quanto indeducibile e non programmabile, il futuro nella sua dimensione pura. La filosofia della storia, concepita in maniera ideologica, si rivela un pensiero senza futuro, incapace non solo di dar ragione dell’interruzione e della morte, ma anche di aprirsi alle sorprese che l’eccedenza della realtà rispetto al pensiero riserva.
È dalla parabola di ascesa e di declino delle letture totalizzanti del divenire storico, operate dall’ideologia nelle sue diverse forme, che emerge la sfida che la “teologia della storia” lancia alla “filosofia della storia”: a differenza di questa essa è chiamata a rimanere costitutivamente aperta, costruita non a partire dall’uomo e dalla sua ragione più o meno presuntuosa e totale, ma a partire dal divino Altro, che ha visitato la storia e col Suo avvento ne ha mostrato al tempo stesso la finitezza e l’infinita dignità. Il fondamento irrinunciabile di ogni autentica teologia della storia è e non può non essere la rivelazione: è grazie ad essa che la visione teologica della storia resta pensiero aperto, pervaso dallo stupore e dall’adorazione di fronte al nuovo venuto nel tempo. Sta qui la permanente verità della teologia della storia di Agostino: ciò che qualifica il divenire storico è il modo in cui esso è rapportato all’Eterno, rivelatosi in Gesù Cristo. È Cristo l’escatologica pienezza dei tempi, il luogo puro dell’Avvento, l’unica vera novità sotto il sole della storia, e perciò la norma e la misura ultima su cui si confronta tutto ciò che è penultimo: è Lui il Signore dell’esistenza personale e collettiva dell’umanità. La teologia della storia, nella visione di Agostino, è in senso forte teologia della storia della salvezza: l’irruzione dell’“éschaton” nel tempo degli uomini, l’offerta gratuita e liberante della Grazia, che è donata nel Signore Gesù, è l’oggettiva pienezza, il decisivo compimento, rispetto al quale devono porsi la soggettiva apertura del cuore, la decisione salvifica, la conversione che cambia la vita. Non è dunque il semplice progresso lineare verso il futuro ciò che caratterizza la teologia cristiana della storia: questo progresso potrebbe restare unicamente quantitativo e cadere nelle chiusure delle ideologie mondane. La crisi delle visioni totalizzanti della storia trova perciò nella concezione cristiana della salvezza un possibile sbocco redentivo: al senso che l’uomo si dà con la sua progettualità essa sostituisce il senso che Dio dà alla storia col Suo disegno salvifico. La caduta delle presunzioni ideologiche è riscattata dalla speranza fondata nella fede: la presa d’atto del proprio limite diviene per la creatura lo spazio aperto per il riconoscimento della Trascendenza, che sostiene e regge la storia, e, entrando in essa con la rivelazione, ne rende possibile una qualificazione salvifica mediante la decisione di fede. Le conseguenze di tutto questo sulla concezione e l’esercizio della libertà del soggetto storico sono rilevanti e facilmente intuibili: ne va di mezzo la libera scelta dell’essere umano di fronte all’offerta del Creatore, e ne viene evidenziato il rischio d’amore che il Dio vivente ha accettato di correre, creando la Sua creatura libera nel voler realizzare o meno con Lui un patto di alleanza, che sia frutto di autentico amore.
Arcivescovo di Chieti-Vasto
Da martedì si sta svolgendo a Ponce, nell’isola caraibica di Porto Rico, il sesto Congresso Americano Missionario (Cam). Sono 1.300 i delegati provenienti da tutta America, dal Canada alla Terra del Fuoco, per parlare del presente e del futuro missionario del continente attorno al tema: “Con la forza dello Spirito, testimoni di Cristo”. Il cardinale Baltazar Enrique Porras Cardozo, arcivescovo emerito di Caracas, ha celebrato l’Eucaristia di apertura dove si è letto il messaggio che papa Francesco ha inviato, nel quale esprime vicinanza e incoraggiamento. E la prassi missionaria del Pontefice, con le varie proposte di Chiesa in uscita, è stata costantemente ricordata durante il congresso.
Dopo l’apertura nell’auditorium Juan Pachín Vicéns a Ponce i lavori sono poi proseguiti negli ampi spazi della vicina Pontificia Università Cattolica, con la relazione iniziale dell’arcivescovo di Caracas. «Il Vangelo non arriva nello zaino del missionario», ha affermato il porporato salesiano, «arriva prima, con lo Spirito, forza che scombina i nostri piani spesso accomodanti, che ci spinge dall’autoreferenzialità alle strade del mondo». «Calle! Calle! Calle!», cioè strada,strada, strada è uno degli slogan più scanditi nel Palazzetto dell’Università Cattolica di Ponce dove si radunano i delegati, per dire che l’evangelizzazione si fa tra la gente, a contatto con la realtà di tutti i giorni. Al Congresso sono presenti delegazioni di tutti i Paesi americani tranne quelle di Nicaragua e Haiti, chiaro segnale di una situazione politica molto delicata e di una Chiesa sotto tiro. Il Congresso, organizzato dalle Pontificie Opere Missionarie Continentali – il sesto da quando abbraccia l’intero continente, il decimo se si contano anche i precedenti solo riferiti all’America Latina – offre spaccato della dimensione missionaria americana. Si respira entusiasmo, una Chiesa viva, gioiosa, giovane, «ancora troppo poco missionaria ad gentes» è stato ribadito più volte. È tempo di andare, anche se i missionari ad gentes, ovvero in altri contesti da quelli di origine, sono cresciuti notevolmente in questo ultimo decennio e la pandemia ne ha solo rallentato il flusso. Per loro ha parlato Ana Ivelisse Rodri´guez Ruiz della Comunità di Villaregia, portoricana di origine, missionaria in Burkina Faso con esperienze anche in Perù e in Italia. Presente alle giornate di Porto Rico l’arcivescovo Emilio Nappa, presidente delle Pom, che ha ringraziato per l’enorme lavoro fatto dalle direzioni generali delle Pom dei singoli paesi (900 solo i volontari presenti nelle giornate di Porto Rico) e dal coordinamento continentale e ha ricordato il messaggio di papa Francesco per Giornata missionaria mondiale appena vissuta: «La missione è movimento, implica sempre un mettersi in moto». «A volte – ha sottolineato Nappa – si può girare il mondo intero rimanendo sempre chiusi in se stessi. Altre volte, invece, pur rimanendo nello stesso luogo ci si apre a condividere le ansie e le gioie di un’umanità sconosciuta e sconfinata. Anche la nostra Chiesa, qui in America, è chiamata a mettersi in movimento per essere autenticamente missionaria». La Chiesa italiana è rappresentata dal vescovo Michele Autuoro, presidente della Commissione episcopale per l’evangelizzazione e la cooperazione dei popoli, da don Valerio Bersano e don Marco Testa di Missio. Afferma Autuoro: «Qui al Cam di Porto Rico si respira entusiasmo: ci sono tanti laici e laiche, tanti giovani che desiderano condividere l’esperienza di Chiesa e lasciarsi appassionare dal dono dello Spirito Santo per annunciare il Vangelo. Come Chiesa italiana è importante esserci pensando anche all’evangelizzazione partita dalle nostre terre e arrivata su queste terre americane. Forse questi incontri sono anche in parte frutto del lavoro di tanti e tante missionarie. Noi oggi in Europa, in Italia, dovremmo farci contagiare dall’entusiasmo di queste Chiese per trovare strade nuove per l’evangelizzazione». Presenti al Cam di Porto Rico anche non pochi missionari italiani che lavorano in America Latina: Paolo Andriolli, saveriano, vescovo ausiliare a Belem (Brasile), don Giuseppe Spiga, fidei donum in Brasile, padre Stefano Raschietti, saveriano in Brasile, Daniela Andrisano, fidei donum di Treviso in Ecuador, Rita Usai della comunità di Villaregia a Portorico, unica presenza missionaria italiana sull’isola.
?N?ella città vecchia di Goa in India si è aperta solennemente oggi l’esposizione delle reliquie di san Francesco Saverio (1506-1552), grande evento spirituale che ogni dieci anni vede convergere migliaia di pellegrini in questa città del sud del Paese che custodisce le spoglie del grande missionario dell’Asia. In Italia nella Chiesa madre dei gesuiti il Gesù all’Argentina a Roma è custodito l’avambraccio destro del grande missionario in un reliquiario d’argento.
Popolarmente conosciuto come «Gõycho Saib» – cioè il patrono di Goa – il gesuita spagnolo Francesco Saverio, tra i primi compagni di Ignazio di Loyola, proprio qui sbarcò nel 1542 e ne fece poi la base per i suoi viaggi missionari, fino alla morte sopraggiunta il 3 dicembre 1552 sull’isola di Shangchuan, alle porte della Cina.
Fu un pioniere della diffusione del cristianesimo in Asia, in qualità di rappresentante della monarchia portoghese. Nel 1927 la Chiesa cattolica lo ha proclamato patrono delle missioni assieme a santa Teresa di Lisieux. Francesco Saverio era nato in Navarra nel 1506 e a Parigi aveva incontrato Ignazio da Loyola, con il quale condivise l’avventura della fondazione della Compagnia di Gesù. Nel 1540 venne mandato verso l’Oriente come missionario: mentre stava progettando di portare il Vangelo in Cina morì a causa di una polmonite sull’isola di Shangchuan nel 1552. Paolo V beatificò il Saverio il 21 ottobre 1619 e Gregorio XV lo canonizzò il 12 marzo 1622 assieme ad Ignazio di Loyola, Teresa d'Avila, Isidoro l'agricoltore e Filippo Neri.
Nel 1545 partì per la penisola di Malacca, in Malaysia, dove incontrò alcuni giapponesi che gli proposero di estendere l'evangelizzazione al Giappone, dove pure arrivò nell'agosto 1549 a Kagoshima. Là capì l'importanza della Cina, dove poi si diresse: ma, ammalatosi durante il viaggio dalla Malacca all'isola di Sancian, morì nel 1552, senza poter ricevere alcun sacramento e privato di una sepoltura cristiana. Il suo corpo fu portato a Goa, dove si trova ancora oggi nella chiesa del Bom Jesus.
L’esposizione iniziata questo venerdì – come documenta oggi in un ampio servizio Asia News - durerà per 45 giorni fino al 5 gennaio 2025, andandosi così a intrecciare con l’inizio del Giubileo della Chiesa universale. Le reliquie – abitualmente custodite nella basilica del Bom Jesus – sono state portate oggi solennemente in processione alla Cattedrale, dove resteranno esposte ogni giorno dalle 7 alle 18 al culto dei fedeli, rinnovando così una lunga tradizione di venerazione spirituale.
Accolti dall’ arcivescovo di Goa e Darman, il cardinale Filipe Feri Ferrao numerosi vescovi indiani e oltre 400 sacerdoti hanno concelebrato nella liturgia eucaristica inaugurale presieduta nella Basilica del Bom Jesus dall’arcivescovo di Delhi, Anil Joseph Couto, davanti a più di 40mila fedeli. Nella sua omelia il porporato ha descritto san Francesco Saverio come «un uomo in missione», sottolineando come la sua vita fosse una testimonianza vivente della proclamazione della salvezza in Cristo. L’arcivescovo Feri Ferrao ha esortato i fedeli a trarre ispirazione dalla sua dedizione, imitandone il fervore nella discepolanza e la sua coraggiosa testimonianza del Vangelo. «Siamo messaggeri della Buona Novella» è il tema scelto per l’esposizione di quest’anno, che si riflette nelle Messe quotidiane celebrate in lingua konkani e in inglese per i milioni di devoti attesi.
Io credo che in quei giorni, i giorni della loro canonizzazione, in piazza San Pietro, Pier Giorgio e Carlo non ci saranno. Perché loro sono davvero santi.
Uomini del silenzio, e il silenzio pretende sempre un vuoto da abitare. Così quel giorno ci salverà provare a immaginare Frassati aggrappato alla parete di una montagna, come crocifisso alla pietra del Sinai, leggero e commosso dalla silenziosa bellezza del creato. Oppure ci converrà sederci accanto al maestoso silenzio di Carlo Acutis immaginandolo sprofondato nel mistero dell’adorazione eucaristica. Canonizzare un santo è abilitare una distanza tra l’acclamazione e il mistero, tra la folla e l’intimità, e sperare che in noi fragoroso esploda il desiderio di un rinnovato fecondo silenzio.
Non ci saranno Pier Giorgio e Carlo, e forse il rito di canonizzazione, la luce mondiale concentrata sulle loro storie fatalmente trasformate in evento, provocherà smarrimento in noi. Non ci saranno perché nessun santo si lascia trovare alla luce, perché i santi abitano l’ombra, scendono nelle pieghe di ciò che siamo, percorrono le sofferenze, scelgono davvero le periferie nascoste. Metterli in luce, moltiplicarne le immagini, paradossalmente fotocopiarne i tratti (anche quello di Carlo Acutis che in una frase mirabile invitava i giovani all’unicità) servirà solo a sancirne l’assenza. E sarà una benedizione. Perché quella loro assenza spingerà qualcuno di noi a mettersi in ricerca della loro testimonianza non alla luce delle vite esposte ma nelle ombre, nelle nostre di ombre. E così, sprofondando nelle oscurità che ci spaventano, troveremo il Cristo, Vivo, vera luce dei santi.
Acutis e Frassati il giorno della loro canonizzazione non ci saranno, come Cristo smarrito al Tempio ormai loro abitano la Gerusalemme eterna. Ma questo smarrimento sarà per noi una sorta di miracolo. I santi abitano le distanze per abilitarci alla ricerca, una ricerca personale, unica, nostra. Loro non ci saranno così noi, smarriti e preoccupati come Maria e Giuseppe, potremo tornare a Gerusalemme, da mendicanti, da mancanti, da uomini e donne che davano per scontato, sbagliando, di avere Gesù nella carovana della propria storia. E non lo troveremo tra parenti e conoscenti, tra le parole consumate e i riti rassicuranti. I santi ci smarriscono per abilitarci a rimetterci in cerca di Cristo, a farlo da capo, in una conversione continua.
Acutis e Frassati non ci saranno, perché i santi sono come sepolcri vuoti il giorno di Pasqua, aggrapparsi alle reliquie, esporne i corpi, cristallizzarne le forme è pericoloso, e loro, i santi, lo sanno. Loro che ripetono, come il Risorto alla Maddalena, “non mi trattenere”, loro ormai testimonianza di un Vuoto, di un vuoto che è Segno, a resuscitare il divino che abita ognuno di noi.
Quel giorno Pier Giorgio e Carlo non ci saranno, lì in piazza, ma ci sarà tantissimo spazio per le vite di chi continua a raccontare l’importanza delle loro storie. Saranno in tanti, tantissimi, ed ognuno racconterà il loro santissimo tradimento dell’originale. Sarà bellissimo e inevitabile. Saremo sommersi da una marea di interpretazioni e questi sono i veri miracoli, i frutti, ma loro, gli originali, non ci saranno, perché i santi sono lame appuntite, incidono la carne delle nostre abitudini, ci provocano ad essere partoriti di nuovo, e il sangue sarà nostro. I santi abilitano la testimonianza dell’Unico.
Quel giorno in piazza san Pietro qualcuno cercherà di tracciare un profilo di quelle due vite straordinarie. Saranno parole perfette e luminose ma, come ogni narrazione, saranno anche un solenne fallimento. La vita dei santi è come il profumo, non lo puoi imprigionare, ci saranno parole come cocci del vaso di nardo, i santi sono la frantumazione che abilità l’eternità del profumo.
Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis, come tutti i santi, quel giorno non ci saranno, perché i santi sono come Cristo che si nasconde, che fugge dalle acclamazioni per il bisogno di abitare le notti in cerca di intimità con il Padre, non ci saranno perché come il Maestro non smettono di seminare domande. Ad orecchi attenti, a sera, quando la piazza sarà finalmente vuota, qualcuno sentirà cristallina la domanda di Cristo “chi cerchi?”. I santi sono punti interrogativi, ventri gravidi di possibilità. Sono il Vuoto che permette il cammino, il nostro.
Dietro a quelle vetrate policrome già aggredite dalle fiamme, brilla ora una luce che annuncia una rinascita. Al calar della sera tanti fedeli, non solo parigini, contemplano quel chiarore, con il cuore gonfio d’una certezza: la Cattedrale di Notre-Dame è tornata ad essere una “casa”, da quando la sua porta centrale si è aperta, venerdì scorso, per il ritorno della Vergine con il Bambino, la statua trecentesca simbolo della venerazione mariana a Parigi, rimasta intatta in mezzo al rogo del 15 aprile 2019 e poi trasferita nella vicina chiesa di Saint-Germain-l’Auxerrois.
«Scatto foto per mia madre di 85 anni, malata, che voleva esserci. L’ultima volta, invece, ero venuto per mia sorella colpita dal cancro», ci ha detto Jean-Vianney, giunto dall’estremo Nord francese, proprio all’inizio della toccante processione con fiaccole dietro la statua, partita dal sagrato della chiesa in cui ha trovato “rifugio”. Emozionatissima anche Marie-Danielle, originaria della Martinica: «Maria è uscita vittoriosa dalle fiamme. Eppure, nella sua piccolezza, non ha mai cercato il primo posto». Da parte sua Robert-Paul, parigino, anch’egli con la fiaccola in mano, è stato impressionato dalla «portata storica del cantiere».
Fra canti intonati alla Vergine, immaginette sacre offerte ai fedeli, pause per le tappe dei Misteri della Gioia del Rosario, il fiume di fedeli ha catturato gli sguardi pure dei turisti, costeggiando fra l’altro i grandi magazzini La Samaritaine, dal nome d’ispirazione evangelica, prima della traversata della Senna sullo storico Pont Neuf e del passaggio davanti al Mercato dei fiori non lontano dalla Cattedrale. Su ogni parafiamma di carta, le tracce sempre diverse lasciate dalla cera sciolta, quasi a sottolineare l’originalità di ogni percorso di fede, alcuni dei quali “innescati” dal rogo epocale.
Per la solennità dell’Immacolata, le celebrazioni del 7 e 8 dicembre, con personalità religiose, politiche e dello spettacolo, riconsegneranno definitivamente Notre-Dame al culto, ai parigini, al mondo. Ma per i vertici diocesani della capitale, prima dell’altisonante ouverture ufficiale, occorreva una premessa incentrata sull’umiltà della fede d’ogni giorno che non cerca i riflettori. Proprio questo il senso della processione, in presenza di migliaia di fedeli d’ogni generazione, rimasti poi sul sagrato della Cattedrale per ammirare, appena oltre l’ultimo recinto del cantiere, l’ingresso discreto della statua nella navata centrale. Un emozionante passaggio di luce si è così schiuso all’improvviso, prima di una veglia di preghiera all’esterno animata da giovani.
«Portiamo in cuore la gioia per tutto ciò che ha seguito questo rogo. Per tutto ciò che si è vissuto attorno a questa cattedrale da cinque anni», ha detto l’arcivescovo di Parigi Laurent Ulrich, aggiungendo: «L’imprevisto di Dio è una costante della scoperta da parte del popolo che siamo, lungo i secoli, quando non attendevamo più nulla e tutto era scoraggiante. Invece Dio è lì, esprimendo la sua presenza, la sua attenzione, la sua tenerezza per tutta l’umanità». Per padre Stéphane-Paul Bentz, cappellano della Cattedrale, «la processione ha voluto accompagnare la Vergine nella sua casa. Una casa che è di nuovo abitabile e quasi pronta», come ha detto ad Avvenire, aggiungendo: «È stato un po’, simbolicamente, il trasloco della Vergine, se così si può dire, e la ritroveremo per la festa d’inaugurazione. Abbiamo voluto che tutto fosse semplice e per tutti, senza limiti d’accesso per nessuno».
Fra i presenti c’era anche Henri d’Anselme, il fedele 26enne divenuto celebre come «l’eroe con lo zaino di Annecy», dal nome della città in cui l’anno scorso aveva coraggiosamente placato con altri la furia di un attentatore sanguinario armato di coltello, ottenendo poi per questo la Legion d’Onore e un invito ufficiale alla cerimonia d’apertura di Notre-Dame. Del resto, al momento del suo atto eroico, il giovane stava compiendo a piedi proprio un giro fra le cattedrali di Francia: «È oggi la Vergine a prenderci per mano come bambini, verso questa Cattedrale che è una casa per gli uomini e per Dio. Notre-Dame ci apre le porte del Paradiso».
In queste settimane d’attesa palpitante della riapertura, parole come “speranza”, “unità”, “trascendenza” risuonano attorno a Notre-Dame che irradia nuovamente luce. Presso il vicino Museo di Cluny, si può già visitare la mostra “Far parlare le pietre”, dedicata agli straordinari resti architettonici decorativi ritrovati durante gli scavi di consolidamento. «Vedrete, la Cattedrale sarà più bella che mai», ha invece ribadito lunedì Philippe Jost, a capo del cantiere, durante un evento di presentazione della copertura eccezionale che i media francesi internazionali (France Médias Monde) hanno previsto per la riapertura. La sorprendente campagna mondiale di raccolta di fondi, forte di 340mila donatori, ha superato di 140 milioni di euro i bisogni della ricostruzione. Così, saranno possibili pure dei restauri che erano stati sempre procrastinati.
Non c'era né il luogo esatto né l’ora. Il vescovo Maksym Ryabukha è entrato oggi nella sua diocesi. Ma con una celebrazione clandestina per ragioni di sicurezza, seppur alla presenza del capo della Chiesa greco-cattolica, l'arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk, e del nunzio apostolico in Ucraina, l'arcivescovo Visvaldas Kulbokas, entrambi arrivati da Kiev. Una liturgia “segreta” e carbonara, l’unica consentita a Zaporizhzhia, città a cinquanta chilometri dalla linea di combattimento dove nell’ultimo mese, a cadenza settimanale, si ripetono attacchi massicci di missili e droni che seminano morte e distruzione nei quartieri residenziali.
È l’ultimo capoluogo dell’esarcato greco-cattolico di Donetsk che resta in mano ucraina e che, quindi, può accogliere lui come pastore e l’intera curia. Perché Ryabukha è il nuovo vescovo di Donetsk, città “catturata” da Mosca. Metà della sua diocesi è sotto il controllo di Putin. E le truppe del Cremlino avanzano. Anzitutto nella regione che dà il nome alla diocesi e che il leader russo ambisce a espugnare. Ma anche nell’oblast di Zaporizhzhia dove si fa sempre più concreto l’incubo di una nuova offensiva su vasta scala. «L’esercito russo sta spostando gruppi di soldati in posizioni avanzate a sud di Zaporizhzhia e si sta preparando per operazioni d’assalto», spiega il portavoce delle forze di difesa dell’Ucraina meridionale, Vladyslav Voloshyn. Il suo è un vero campanello d’allarme. «L’attacco potrebbe iniziare a breve: non parliamo nemmeno di settimane; ci aspettiamo che accada da un giorno all’altro», sostiene.
È l’effetto domino della “corsa” russa che strappa nuovi villaggi in Donbass e che dall’est del Paese si sposta verso sud, in direzione di Zaporizhzhia, territorio che Putin detiene per due terzi e che ospita la centrale nucleare più grande d’Europa, già governata dai tecnici inviati dal Cremlino. Non è un caso che il capo delle forze armate ucraine, Oleksandr Syrsky, abbia visitato i battaglioni schierati lungo il fronte della regione. «Il nostro compito - è il messaggio lasciato dal generale - è rafforzare la salvaguardia delle truppe e garantire la massima stabilità della linea di difesa». Viene accelerata anche la costruzione di ulteriori fortificazioni intorno al capoluogo. «La protezione della città sarà completata presto», assicura il capo dell’amministrazione regionale, Ivan Fedorov.
Secondo un’ipotesi avanzata dai media locali, i militari di Mosca vorrebbero spingersi in avanti per almeno trenta chilometri fino a stringere in una morsa la metropoli, circondandola dal lato orientale e meridionale. E avrebbero come obiettivo anche quello di allentare la difesa dell’esercito ucraino intorno al sito atomico. Congetture a parte, i segnali di un’escalation ci sono tutti.
In ventiquattro ore si arriva a superare anche i 500 attacchi nell’area. E si moltiplicano le evacuazioni. «Non resistevamo più sotto i razzi russi», sospira Tatyana, 35 anni, madre di tre bambini, che dal villaggio di Primorye, a ridosso dei campi di battaglia, è stata sfollata dalla polizia e ha scelto di trasferirsi a Leopoli. Stessa sorte per Anastasia, 25 anni, e per sua figlia di quattro mesi. «Un drone ha colpito mio marito e mia nonna nel cortile di casa», racconta. Oleksander e Yuriy, 56 e 63 anni, sono stati trovati sotto le macerie di una palazzina bombardata a Stepnogorsk, insediamento in prima linea.
Gli scontri si intensificano soprattutto nel segmento est della regione che guarda verso il Donbass. Orikhiv e Robotyne sono località strategiche su cui si concentra l’attenzione russa. Ma a preoccupare è anche l’eventuale caduta di una serie di insediamenti nella vicina oblast di Donetsk: se finissero sotto Mosca, verrebbe presa anche la superstrada che arriva a Zaporizhzhia e che diventerebbe una testa di ponte verso il capoluogo per i soldati di Putin.
«Rispetto della parola data, coerenza di vita e onorabilità». Questi i tre punti chiave dell’omelia pronunciata dal prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, cardinale Marcello Semeraro, durante la celebrazione nazionale della Virgo Fidelis, patrona dell’Arma dei Carabinieri, svoltasi nella Basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino, concelebrata dall’ordinario militare per l’Italia l'arcivescovo Santo Marcianò, alla presenza di rappresentanti di Governo, istituzionali e dei vertici dell’Arma, al cui nuovo Comandante Generale, Salvatore Luongo, il porporato ha rivolto gli auguri di buon lavoro al servizio del Paese.
Ricorre quest’anno il 75° anniversario del patronato della Vergine. Un compleanno significativo ha sottolineato il cardinale, soffermandosi «sull’importante titolo», fedele, «parola questa che oggi viene semplificata, ma che nel linguaggio antico è ricca di significati non solo nel contesto religioso ma anche nella vita sociale».
Il cardinale si è poi soffermato sul vice brigadiere Salvo D'Acquisto (1920-1943) annunciando che «ormai è imminente la conclusione del processo di beatificazione del servo di Dio Salvo D'Acquisto che potrà essere onorato con il titolo di venerabile».
Il comandante generale dei carabinieri, Salvatore Luongo, ha ricordato come «la scelta della Madonna Virgo Fidelis, quale protettrice celeste dell'Arma, è evidentemente ispirata alla fedeltà, insieme di virtù e impegno morale di ogni soldato che serve la Patria, nonché valore peculiare dell'Arma dei Carabinieri, sintetizzato nel motto Nei secoli fedele».
Il generale Luongo ha concluso preannunciando la consegna della Targa di Benemerenza Icaro, attribuita, per l'anno 2023, alla memoria del carabiniere Vittorio Iacovacci, Medaglia d'Oro al Valore Militare, caduto il 22 febbraio 2021 unitamente all'ambasciatore Luca Attanasio a Goma, nella Repubblica Democratica del Congo. Dopo la funzione religiosa sono stati premiati gli assistiti più meritevoli dell'Opera nazionale di assistenza per gli orfani dei Militari dell'Arma dei Carabinieri, l'ente morale di natura privatistica che dal 1948 assiste gli orfani tramite un piccolo contributo volontario mensile elargito dai militari di ogni ordine e grado dell'Arma. A seguire, si è svolta la cerimonia di scoprimento dell'opera "Virgo Fidelis" all'interno del Sacrario delle Bandiere al Vittoriano.
Monsignor Renato Tarantelli Baccari è il nuovo vescovo ausiliare e vicegerente della diocesi di Roma. Lo ha nominato papa Francesco assegnandoli la sede titolare di Campli. Finora coordinatore dell’ambito giuridico e amministrativo della medesima diocesi, Tarantelli Baccari è nato il 25 aprile 1976 a Roma. Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza e la licenza in Diritto canonico, venendo ordinato presbitero il 22 aprile 2018. Attualmente svolge gli incarichi di vicario episcopale giuridico-amministrativo e coordinatore dell’ambito giuridico e dell’ambito dell’amministrazione dei beni e delle risorse del Vicariato di Roma, di rettore della Chiesa di Santa Maria del terzo millennio alle Tre Fontane, di primicerio delle Arciconfraternite del Santissimo Sacramento e di Maria Santissima del Carmine e di Maria Santissima del Buon Consiglio e dei Pellegrini.
A dare l’annuncio della nomina è stato nel Palazzo Lateranense il vicario generale della diocesi di Roma monsignor Baldo Reina che ha augurato al nuovo vicegerente di saper servire al meglio una Chiesa «che merita tutti i nostri sforzi». Dal canto suo Tarantelli Baccari ha ricordato come la diocesi di Roma sia attesa da «un tempo di grazia, che non è solo il Giubileo. Un tempo - ha aggiunto - in cui mi impegno, davanti a tutti, a sostenere il nostro vescovo (il Papa ndr) e te (monsignor Reina ndr), che sei il suo vicario. Mi impegno a servirvi in questo grande compito che il Signore vi ha affidato di pascere le sue pecorelle che sono a Roma».
Figura presente già dalla metà del XVI secolo, il vicegerente coadiuva il vicario generale di sua santità per la diocesi di Roma nell'attività di governo.
Si profila un nuovo assetto pastorale per Venezia centro storico. Il patriarca Francesco Moraglia, infatti, in una lettera rivolta a sacerdoti, consacrati e fedeli, ha annunciato l’avvio del processo di accorpamento delle parrocchie, dopo un lungo periodo di riflessione e discernimento nel corso della visita pastorale che si avvia a conclusione e nell’alveo del cammino sinodale della Chiesa italiana. L’inverno demografico, che ha ridotto il numero di residenti nella città d’acqua a meno di 50 mila, il calo delle vocazioni e la diminuzione del clero, nonché la riduzione generale della partecipazione alla vita ecclesiale delle comunità, cui fa da contraltare l’arrivo di milioni di turisti, hanno suggerito di fare un passo in più rispetto alle collaborazioni pastorali già avviate. Il prossimo anno vedrà la nascita formale di 6 parrocchie in luogo delle 19 precedenti: San Pietro apostolo (dall’unione di San Pietro, San Giuseppe, San Francesco di Paola e Sant’Elena a Castello); Santi Giovanni e Paolo (dall’unione dei Santi Giovanni e Paolo e San Francesco della Vigna); San Salvador e Santo Stefano (dall’unione di San Zaccaria, San Moisè, San Salvador, Santo Stefano e San Luca, comprendente l’area marciana); Santa Maria Gloriosa dei Frari (dall’unione di Frari, Tolentini e San Pantalon); San Giobbe (dall’unione di San Giobbe, Santi Geremia e Lucia e San Girolamo); e Santa Eufemia (dall’unione del Redentore e Sant’Eufemia nell’isola della Giudecca). Fondamentale sarà la corresponsabilità dei laici a fianco dei sacerdoti.
«La visita pastorale – scrive Moraglia – ha mostrato alcune comunità affaticate per le mutate condizioni sociali e demografiche, ma anche la vitalità di parrocchie che hanno colto l’opportunità e il valore di essere in collaborazione pastorale, non rinunciando alle proprie identità e caratteristiche ma vivendole come arricchimento reciproco in spirito di condivisione e di accoglienza». Il patriarca di Venezia parla di «passo non più procrastinabile» in un contesto in cui «il numero delle parrocchie è ormai sproporzionato con alcune che da anni non riescono più a vivere alcune dimensioni essenziali per la vita di una parrocchia, dalla catechesi dell’iniziazione cristiana alla pastorale giovanile fino alla cura e all’animazione della liturgia». Ogni parrocchia avrà un parroco e alcuni sacerdoti collaboratori. «Una sarà la chiesa parrocchiale – spiega Moraglia – punto di riferimento della comunità stessa e nella quale si vivranno le celebrazioni principali dell’anno liturgico. Nelle altre chiese, a seconda delle possibilità, potranno esserci la celebrazione eucaristica – festiva o in alcuni giorni feriali della settimana – e anche alcuni momenti di preghiera come i vespri, l’adorazione eucaristica, la lectio divina e il santo rosario che, animati da un gruppo di fedeli, potranno essere un’ulteriore e valida opportunità spirituale offerta a tutti, per chi abita lontano dalla chiesa parrocchiale e per chi è di passaggio in quella zona». Compresi i milioni di turisti, soggiornanti e giornalieri, che tutto l’anno arrivano a Venezia e ne frequentano l’enorme patrimonio artistico-culturale, formato anche da diverse chiese.
Il dialogo come vocazione, come dovere, come stile. Quanto mai necessario oggi con l’aggravarsi del conflitto mediorientale, escalation che chiama le fedi a dare ancora più forza al gene dell’incontro, presente nel Dna di ogni religione. «Penso che il dialogo faccia parte della natura religiosa dell’essere umano – sottolinea monsignor Paolo Martinelli, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, che comprende gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen –. Nessuno può concepirsi isolatamente. La stessa autocoscienza dell’uomo è destata dal fatto di essere chiamati per nome da qualcuno. Un bambino – secondo una nota immagine usata da Urs von Balthasar – è introdotto alla coscienza di sé perché è chiamato da un altro, dalla voce della madre e dal suo sorriso; nel dialogo al bambino si dischiude l’intero orizzonte dell’essere, nella sua bellezza, bontà e verità. Questa dinamica non riguarda solo l’inizio della vita umana. Riguarda tutta l’esistenza». Una prospettiva quanto mai presente nel cristianesimo. «La struttura dialogica – prosegue Martinelli - ha per noi fondamento nello stesso mistero di Dio Trinità. Il Dio della fede cristiana è il Dio-che-parla, come diceva Origene di Alessandria. Noi siamo creati ad immagine e somiglianza di Dio che è in sé stesso eterna comunicazione di amore. In questa prospettiva, la radice del dialogo tra persone di religioni e fedi diverse è da una parte la stessa natura umana che ci accomuna, dall’altra è la stessa esperienza religiosa, in cui l’uomo è chiamato ad uscire da sé stesso verso l’Altro, verso Dio; un dialogo che passa sempre attraverso gli altri che incontriamo».
Ed è appunto all’insegna del dialogo l’incontro “La Sapienza attraverso le tradizioni. Un’eredità del passato, una garanzia per il futuro”, tenutosi il 20 novembre presso l’Abrahamic Family House di Abu Dhabi per i vent’anni della Fondazione Oasis, centro internazionale che promuove la conoscenza del mondo islamico e l’incontro tra cristiani e musulmani.
La Fondazione Oasis è frutto di un’intuizione geniale e profetica del cardinale Angelo Scola. Da una parte raccoglie il bisogno delle comunità cristiane ed in particolare dai vescovi che vivono ed operano in Paesi a maggioranza islamica, di avere un confronto e degli strumenti per dialogare con il mondo islamico; dall’altra parte nasce dalla consapevolezza del mescolamento dei popoli – il meticciato di civiltà e di culture - grazie al movimento migratorio in atto dalle proporzioni inedite che richiede una conoscenza reciproca tra Occidente e mondo musulmano. Il metodo fondamentale di Oasis è quello della testimonianza dove cioè le persone si incontrano e comunicano da libertà a libertà la propria esperienza religiosa, superando vicendevoli pregiudizi e stereotipi, imparando a conoscersi veramente e a stimarsi.
Tra i protagonisti dell’appuntamento Sarah Stroumsa (Hebrew University di Gerusalemme), Ahab Bdaiwi (docente di pensiero islamico alla Leiden University) e Martino Diez (Fondazione Oasis).
Il fatto che Oasis nel XX anniversario della sua fondazione abbia dedicato un incontro al tema della sapienza è significativo perché la sapienza tematizza il rapporto tra la fede e la visione della vita. Nella sapienza la religione esce dalla tentazione di concepirsi come un sistema astratto di dottrine per essere, invece, esperienza umana illuminata dallo Spirito di Dio infuso nel cuore di chi crede.
Lei ha svolto una relazione sulla teologia sapienziale in Urs von Balthasar.
In von Baltasar il tema della sapienza è molto articolato. Nella TeoLogica afferma che non esiste nessun’altra verità al di fuori dell’amore tra il Padre e il Figlio nello Spirito Santo. La verità di Dio è una verità amante, una verità amorosa e amabile. L’amore trinitario è il fondamento di ogni vivente. Non a caso il tema della sapienza in Balthasar si esprime in particolare nel rapporto tra teologia e spiritualità, teologia e santità, teologia e preghiera, come dimensione sponsale tra Cristo e la Chiesa, tra Dio e l’anima credente. San Bonaventura da Bagnoregio, molto stimato da Balthasar, diceva che lo scopo della teologia è “ut boni fiamus”, perché diventiamo santi, conformandoci alla sapienza divina che per noi è Cristo crocifisso e risorto, datore dello Spirito senza misura.
L’incontro, organizzato dalla chiesa di San Francesco della Abrahamic Family House insieme alla Fondazione Oasis e all'Ufficio per il dialogo interelligioso ed ecumenico del Vicariato apostolico dell'Arabia meridionale, si è svolto proprio presso la Abrahamic Family House che anche architettonicamente richiama alla vicinanza tra le religioni.
Esprime in un modo emblematico un nuovo capitolo di storia del rapporto tra le religioni: in un’unica realtà troviamo tre luoghi di culto delle tre religioni che in modi diversi si relazionano alla figura di Abramo. È un invito alla conoscenza reciproca e al rispetto vicendevole.
La struttura è un richiamo al Documento sulla fratellanza umana firmato ad Abu Dhabi, nel 2019 da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib.
La prospettiva espressa dal documento chiede un cambiamento di mentalità che riguarda tutti i credenti. Che le religioni si aprano alla conoscenza reciproca e alla collaborazione per l’umano che abbiamo in comune, per la pace, per la salvaguardia del creato, per la promozione di relazioni fraterne e per l’aiuto di chi è nel bisogno. Si tratta di riscoprire e vivere la pertinenza antropologica di ogni autentica esperienza religiosa. Questo cammino ha bisogno innanzitutto di percorsi educativi.
Alla luce dei conflitti in corso e di un’aggressività sempre più manifesta, ci sarebbe davvero bisogno di sapienza. Da dove ripartire per darle spazio, per farla agire?
Dall’umanità che abbiamo tutti in comune. Come afferma il documento sulla Fratellanza Umana, occorre combattere ogni uso ideologico della esperienza religiosa, ogni violenza perpetrata in nome di Dio. Per questo si deve superare l’utilizzo nazionalistico della religione. Per sua natura l’esperienza religiosa è esperienza di pace con Dio, con gli altri e con sé stessi. La prima sapienza di cui abbiamo bisogno è quella di ripartire dall’umano comune. Nel documento sulla Human Fraternity si afferma che «Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera». Dio vuole che ci trattiamo tutti come fratelli e sorelle. Ogni guerra va contro il comandamento di Dio. Dio è sempre il Dio della pace e della misericordia.
Sono 468 le case di vita contemplativa in Italia, dove vivono circa 4.200 religiose di voti perpetui, 270 di voti temporanei e oltre 300 tra postulanti e novizie. Questo stando agli ultimi dati riportati nell’Annuario pontificio aggiornati al 2022. Si tratta di un tesoro umano e spirituale che la Chiesa oggi invita a ricordare nella preghiera, rendendo grazie per questa presenza e ricambiando l’orazione incessante con cui le suore di clausura sostengono la vita della Chiesa stessa.
Ogni 21 novembre si celebra infatti la Giornata pro orantibus, che fu istituita da papa Pio XII e si tenne per la prima volta nel 1953. In quell’anno nacque anche il Segretariato Assistenza Monache – oggi è anche un po’ la sua festa – che opera in collegamento con il Dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica promuovendo iniziative per i monasteri femminili e rispondendo a richieste che giungono da diverse parti del mondo.
L’ente nacque dopo la seconda guerra mondiale quando sempre papa Pacelli fece inviare questionari a tutti i monasteri per capire le condizioni in cui versavano dopo il conflitto. Dalle risposte si capì allora che le monache avevano molti bisogni ma, soprattutto desideravano sentirsi sostenute dalla Chiesa.
Oggi nel calendario liturgico ricorre la Presentazione della Beata Vergine Maria, che richiama l’episodio narrato dai vangeli apocrifi della consacrazione al servizio del Tempio di Gerusalemme della Madonna, che vi fu accompagnata dai genitori Gioacchino e Anna e vi rimase fino all’età di 12 anni
«Occorre fare di più e con più coraggio». Il cardinale Matteo Zuppi chiede un cambio di passo per fermare la guerra in Ucraina. Perché «la pace non è mai debolezza ma forza, tanto più se garantita seriamente in un quadro credibile e forte». Il presidente della Cei chiama in causa «la comunità internazionale». E lancia un monito alla Ue, schiacciata su posizioni belligeranti: «Ricordiamoci che l’Europa è nata per immaginare la pace, impensabile fra popoli che si erano combattuti per secoli».
Le sue parole risuonano nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma scelta dall’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, per portare intorno all’altare, nella Messa presieduta da Zuppi, le sofferenze e le speranze della sua gente a mille giorni dall’inizio dell’invasione russa. Ma anche per ringraziare «il Papa per tutte le iniziative volte a sostenere il popolo ucraino» e il presidente della Cei «che, in quanto inviato speciale del Pontefice per la pace, sta aiutando a rimpatriare gli ucraini dalla prigionia, fra cui bambini, detenuti di guerra, membri del clero incarcerati, giornalisti, civili e militari, ma anche i corpi dei nostri difensori uccisi», dice Olena Zelenska. La moglie del presidente Volodymyr Zelensky è in prima fila nella celebrazione di oggi pomeriggio. Al suo fianco la figlia del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Laura, ma anche le first lady di Lituania, Serbia e Armenia riunite per «condividere gli orrori dell’aggressione russa e dell’oblio cosciente della verità», afferma l’ambasciatore Yurash.
Descrive una «notte ancora profonda» il cardinale Zuppi nell’omelia. E ricorda «l’insistenza commossa di papa Francesco che non si arrende di fronte alla guerra e non si stanca di domandare se abbiamo fatto tutto il possibile» per una svolta. Poi ripete un interrogativo: «Quanto manca al giorno della pace?». Francesco, sottolinea il presidente della Cei, «cerca di affrettarlo chiedendo di favorire il dialogo». Dialogo che «non è arrendevolezza ma via per ottenere ciò che altrimenti si misura solo con le armi». Quindi l'invito «il coraggio di fermarsi non per perdere, ma per vincere con il negoziato». Eppure, in mezzo alle bombe e alle battaglie, ci sono persino «luci di vita e di vicinanza che rendono umano anche quello che più disumano non potrebbe essere», dice il porporato. E cita qualche esempio: i «bambini ucraini accolti questa estate in tante famiglie italiane», «la solidarietà che ha mobilitato le parrocchie nella Penisola», l’«accoglienza dei profughi» che, aggiunge Zuppi allargando lo sguardo oltre l’emergenza di Kiev e lanciando un monito alla politica italiana, «va sempre assicurata, anche con corridoi umanitari e di lavoro».
È la moglie di Zelensky che racconta i «cuori feriti» della nazione invasa per «le perdite quotidiane» e per l’«ansia nei confronti dei nostri cari». Ma anche i suoi desideri. «Il Paese vuole vedere tutti i suoi figli a casa e ambisce a una pace giusta a duratura». Necessità di cui si fa interprete anche Zuppi quando avverte che «pace e giustizia sono unite come due sorelle inseparabili: infatti l’una aiuta, permette e difende l’altra». Nella Basilica che è la “casa” della Comunità di Sant’Egidio di cui il cardinale è uno dei nomi illustri, i volti dei romani si mescano a quelli degli ucraini, con le coccarde gialle e blu sugli abiti. Fra loro il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, e il presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, a fare gli onori di casa con il rettore monsignor Marco Gnavi. Numerosi i sacerdoti ucraini. E i seminaristi greco-cattolici che studiano nella capitale.
Per Olena Zelenska la celebrazione con Zuppi è uno degli ultimi appuntamenti della sua giornata romana. Al mattino visita l’ospedale Bambino Gesù dove sono stati accolti e curati 2.500 bambini ucraini grazie all’azione della Santa Sede. E la first lady viene ricevuta anche in udienza privata da Francesco che torna ancora a parlare dei mille giorni di invasione russa. «Una ricorrenza tragica per le vittime e per la distruzione che ha causato. Ma allo stesso tempo una sciagura vergognosa per l’intera umanità», chiarisce durante l’udienza generale in piazza San Pietro. E, incontrando i partecipanti al Colloquio del dicastero per il Dialogo interreligioso che si sta tenendo in Vaticano, spiega che l’attualità di un mondo «diviso e lacerato da odio, tensioni, guerre e minacce di un conflitto nucleare», come si legge anche «sui giornali», deve spingere «a pregare e a operare per il dialogo, la riconciliazione, la sicurezza e lo sviluppo integrale dell’intera umanità».
Nel corso del Giubileo 2025 verranno canonizzati i beati Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati. Mentre il prossimo 3 febbraio in Vaticano si terrà un importante Incontro Mondiale sui diritti dei bambini. Il duplice annuncio è stato dato da Papa Francesco questa mattina, nel corso dell’udienza generale del mercoledì. Insieme ad un nuovo accorato appello per porre termine alla guerra nella «martoriata» Ucraina, «sciagura vergognosa» per l’umanità. «L'anno prossimo, durante la Giornata degli adolescenti, canonizzerò il beato Carlo Acutis, e nella Giornata dei giovani canonizzerò il beato Piergiorgio Frassati», ha detto a sorpresa il Papa durante il saluto ai fedeli di lingua italiana davanti a migliaia di fedeli presenti in piazza San Pietro. Nel Calendario dell’Anno Santo il Giubileo degli adolescenti è programmato tra il venerdì 25 e la domenica 27 aprile e quello dei giovani dal lunedì 28 luglio alla domenica 3 agosto. Circa le date precise, il vescovo di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino monsignor Domenico Sorrentino ha scritto che la canonizzazione di Acutis sarà domenica 27 aprile alle 10.30 in Piazza San Pietro.
«In occasione della Giornata Internazionale dei diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza che si celebra oggi, - ha poi rivelato Francesco - desidero annunciare che il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l'incontro Mondiale dei diritti dei bambini intitolato “Amiamoli e proteggiamoli” con la partecipazione di esperti, di personalità di diversi Paesi». «Sarà l'occasione per individuare nuove vie volte a soccorrere e proteggere milioni di bambini ancora senza diritti, che vivono in condizioni precarie, vengono sfruttati e abusati e subiscono le conseguenze drammatiche delle guerre», ha sottolineato il Pontefice aggiungendo con un sorriso: «C'è un gruppo di bambini che sta preparando questa giornata. Grazie a tutti voi». E subito un gruppo di bambini, accompagnati da padre Enzo Fortunato ed Aldo Cagnoli – i promotori della Giornata Mondiale dei Bambini - è andato dal Papa per salutarlo e ringraziarlo. In piazza San Pietro questa mattina era presente anche Olena Zelenska, consorte del Presidente dell’Ucraina, che ha avuto una udienza con Francesco. E il Papa nei suoi saluti ha rinnovato il suo appello per la pace. «Ieri – ha detto - si sono compiuti mille giorni dall'invasione dell'Ucraina. Una ricorrenza tragica per le vittime e per la distruzione che ha causato. Ma allo stesso tempo una sciagura vergognosa per l'intera umanità». «Questo però - ha sottolineato - non deve dissuaderci dal rimanere accanto al martoriato popolo ucraino, dall'implorare la pace e dall'operare perché le armi cedano il posto al dialogo, lo scontro all'incontro».
Nell’Udienza di oggi Francesco, riprendendo il ciclo di catechesi “Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza”, ha incentrato la meditazione sul tema “ I doni della Sposa. I carismi, doni dello Spirito per l’utilità comune”. Dopo aver parlato nei mercoledì passati dell’opera santificatrice dello Spirito Santo che si attua nei sacramenti, nella preghiera e seguendo l’esempio della Madre di Dio, Francesco ha affrontato il tema dei carismi personali e comunitari. Questo secondo modo di operare dello Spirito Santo nella Chiesa, ha spiegato, «non è destinato principalmente e ordinariamente alla santificazione della persona, ma è destinato al “servizio” della comunità». Il carisma poi è «il dono dato “a uno”, o “ad alcuni” in particolare, non a tutti allo stesso modo, e questo è ciò che lo distingue dalla grazia santificante, dalle virtù teologali e dai sacramenti che invece sono gli stessi e comuni per tutti». I carismi sono insomma «i “monili”, o gli ornamenti, che lo Spirito Santo distribuisce per rendere bella la Sposa di Cristo». Per Francesco la riscoperta dei carismi avvenuta sulla scia del Concilio Vaticano II fa sì che «la promozione del laicato e in particolare della donna venga inteso non solo come un fatto istituzionale e sociologico, ma nella sua dimensione biblica e spirituale». I laici, infatti, «non sono una specie di collaboratori esterni o delle truppe ausiliari del clero, ma hanno dei carismi e dei doni propri con cui contribuire alla missione della Chiesa». Non solo. Quando si parla dei carismi «bisogna subito dissipare un equivoco: quello di identificarli con doti e capacità spettacolari e straordinarie; essi invece sono doni ordinari – ognuno di noi ha il proprio carisma - che acquistano valore straordinario se ispirati dallo Spirito Santo e incarnati nelle situazioni della vita con amore».
E una tale interpretazione del carisma è importante, perché «molti cristiani, sentendo parlare dei carismi, sperimentano tristezza e delusione, in quanto sono convinti di non possederne nessuno e si sentono esclusi o cristiani di serie B». Infatti «non ci sono cristiani di serie B ognuno ha il suo carisma personale o comunitario». L’udienza si è conclusa con il cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Famiglia Agostiniana, la Fondazione Pro Musica e Arte Sacra, i volontari de “Il Testimone del volontariato Italiano”. Un saluto «con affetto» Francesco lo ha riservato gli Allievi Carabinieri della Scuola di Velletri, che hanno ricevuto la cresima («li incoraggio nel loro cammino di fede a servizio della collettività»). Quindi un pensiero ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Francesco ha ricordato che domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dell'Universo, con l’invito a ciascuno «a riconoscere la presenza del Signore nella propria vita, così da partecipare alla costruzione del suo Regno di amore e di pace». Domani poi la Chiesa farà memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio, e si celebrerà la Giornata pro Orantibus. «Alle sorelle claustrali chiamate dal Signore alla vita contemplativa, - ha detto il Papa - assicuriamo la nostra vicinanza. Non manchi ai monasteri di clausura il necessario sostegno spirituale e materiale della comunità ecclesiale».
Un noto commentatore sportivo definisce così le grandi parate dei portieri di calcio, finendo per banalizzarne il significato. Certamente però i miracoli sono eventi straordinari e tutt'altro che facili da riconoscere. Già, cosa fare per capire se un fatto che ci è capitato è dovuto a una serie di circostanze particolari o all'azione di Dio? Se ne parla nel nuovo episodio di Taccuino celeste il podcast di Avvenire dedicato ai temi della fede cristiana. Punto di partenza: la definizione di miracolo, con cui si intende un evento non dovuto a cause naturali ma frutto di un intervento divino. Concetto che porta con sé tutta una serie di domande: perché alcune richieste di miracoli vengono esaudite e altre no? Questi interventi sono riservati solo a Dio o possono essere realizzati anche dai santi? I miracoli negano la scienza?
Quesiti cui prova a rispondere Taccuino celeste, spazio che negli ultimi episodi precedenti si è occupato, tra l’altro, di come si vestono i preti nella vita di tutti i giorni, dei passi necessari per diventare santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Pubblichiamo parti dell’intervista, inedita in italiano, raccolta nel 1983 dal Passauer Bistumsblatt col cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, e dedicata all’Anno santo della Redenzione proclamato da Giovanni Paolo II per il 1950° della morte e resurrezione di Gesù. Il testo fa parte di In dialogo con il proprio tempo (Libreria Editrice Vaticana), il nuovo volume, suddiviso in tre tomi per un totale di 1.688 pagine, dell’Opera Omnia di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, in corso di pubblicazione per Lev. Il volume raccoglie tutti i libri-intervista firmati dal cardinale Ratzinger-Benedetto XVI, così come tutte le sue interviste ai più diversi mezzi di comunicazione, da quando era teologo e docente negli anni ’60 fino al papato, e sarà in libreria dal 25 novembre. Il volume, curato da Pietro Luca Azzaro e Lorenzo Cappelletti, verrà presentato domani alle 17 alla Lumsa di Roma (via di Porta Castello 44). Sono previsti i saluti di Francesco Bonini, rettore della Lumsa, di padre Federico Lombardi, presidente della Fondazione Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, e di Lorenzo Fazzini, responsabile editoriale della Lev. Intervengono l’arcivescovo Georg Gänswein, nunzio apostolico in Lituania, Estonia e Lettonia, già segretario particolare di Benedetto XVI, e Gian Guido Vecchi, vaticanista del Corriere della Sera. Modera Pietro Luca Azzaro, curatore dell’Opera Omnia.
Il senso e lo scopo dell’Anno santo non sono di fare notizia sui giornali. Sicuramente l’Anno santo non può essere celebrato nel modo in cui si manifesta la gioia – peraltro del tutto legittimamente – per una vittoria calcistica. L’Anno santo s’indirizza a dimensioni più nascoste dell’uomo e che tuttavia sono quelle centrali per la sua vita nel suo complesso. In ultima analisi si tratta della questione della redenzione, vale a dire della questione di ciò in cui consiste l’umano: come deve diventare la vita perché io possa essere felice di essa? La questione se sia poi un bene essere uomo s’impone sempre più, e proprio in un tempo in cui la paura per il futuro provoca la domanda se – anche solo fra trent’anni – si potrà ancora essere felici di essere uomini. In questo senso l’Anno santo tocca senz’altro, dunque, il nocciolo del sentimento dell’esistenza, della paura esistenziale e anche delle speranze di questo tempo. Si tratta in primo luogo di dire che la redenzione c’è; la prima parola dell’Anno santo – credo – è innanzitutto redenzione, e poi penitenza. E redenzione nel presente, non solo nel futuro. Sarebbe uno sbaglio se, al contrario, si trasponesse la redenzione nel passato e si dicesse che è accaduta 1950 anni fa. Bisogna invece dire che con quello che allora è accaduto è stato posto in essere un presente che permane e che continua a generare speranza. C’è una risposta al nostro domandare. Non siamo dimenticati. Un amore indistruttibile ci attende e ci dischiude futuro. Solo a partire da questa realtà, che ci chiama, può anche svilupparsi la risposta dell’uomo. Nell’ambito di questa risposta la penitenza rappresenta un momento importante: essa significa organizzare diversamente la propria vita, uscire dal tran tran quotidiano degli affari e andare incontro all’essenziale, alla speranza vera, e dunque significa essere anche capaci di ammettere la colpa. In tutta questa struttura della redenzione, della speranza, del Vangelo, il riconoscimento della colpa, il cambiare se stessi nella penitenza, ha un senso. A mio parere, la ricerca di come poter cambiare se stessi per cambiare il mondo è molto forte proprio nella generazione più giovane. La penitenza è dunque da riferire alla questione del trasformare il mondo e del trasformare se stessi, ed è un tema che sta perciò al centro del nostro presente.
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Una delle caratteristiche dell’Anno santo sono le indulgenze. (...) Com’è possibile rendere più comprensibile il loro senso a cattolici e non cattolici?
(...) L’indulgenza rappresenta, per l’uomo peccatore e graziato, un invito ad approfondire il suo rapporto con Dio. Oggi è soprattutto un invito alla preghiera, ai sacramenti e alla comune testimonianza della fede, ad esempio nella forma di un pellegrinaggio. L’elemento più importante del superamento interiore della colpa, dunque, è, nella sua forma attuale, l’approfondimento e la vivificazione del rapporto con Dio. Vanno aggiunti altri due aspetti. Ci si può e ci si deve innanzitutto chiedere: in base a che cosa in fondo la Chiesa può ridurre questo dato del tutto personale, il superamento esistenziale della colpa? (...) La remissione in quanto tale – questo è chiaro – proviene da Cristo, dalla libertà della sua grazia, e da nient’altro. Ma qui non si tratta più di questo elemento propriamente teologico, la remissione, ma dell’elemento antropologico: come possa l’uomo, in quanto uomo, elaborare la colpa, viverla umanamente nello spazio della remissione. Non è forse questo qualcosa di talmente personale che non ci può essere l’intervento di alcuna potestà ecclesiastica? La risposta classica recita: la “copertura” per il condono sta nel “tesoro della Chiesa”, vale a dire in quel sovrappiù di bene che c’è nel mondo grazie al vivere e al patire dei santi con Cristo. L’idea dunque è questa: quando è in gioco l’acquisizione umana della grazia, gli uomini possono riconoscere che fra loro non c’è solo solidarietà del peccato, ma anche solidarietà della grazia. (...) Nel mondo non c’è solo una riserva di male, ma anche un sovrappiù di bene. Anche nelle cose più personali, quali il superamento interiore della colpa e la grazia, non siamo individui rigidamente separati gli uni dagli altri; anche in questo caso c’è solidarietà. Possiamo, per così dire, aggrapparci gli uni agli altri, prendere in prestito la libertà che l’altro ha già trovato per essere portati anche da essa. L’indulgenza mette semplicemente in pratica questi convincimenti. A questo si aggiunge un altro aspetto. (...) L’indulgenza esprime la certezza della fede che le porte tra la vita e la morte non sono completamente chiuse; che – nella corrente di bene, nella profonda comunione spirituale che unisce i credenti fra loro – è come se tendessimo le nostre mani verso i morti, potendo dar loro un segno di amore, anche senza sapere nello specifico che cosa avvenga. Per l’amore è data una permeabilità tra vita e morte, che è messa in pratica nell’indulgenza.
Nella bolla d’indizione del Giubileo il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) esprime un desiderio, esortando tutti quelli che credono in Cristo a incontrarsi. In questo modo il Papa si è rivolto anche ai cristiani evangelici, agli ortodossi e agli anglicani. Quali possibilità di un cammino comune può offrire l’Anno santo? (...)
Noi non abbiamo solo un comune pensiero di fondo, viviamo di una comune realtà. Cristo è morto e risorto e ha mandato lo Spirito. (...) L’Anno santo ruota tutto attorno al centro del messaggio cristiano delle origini. Esso vuole raccogliere la Chiesa cattolica attorno a questo centro. Con ciò esso è anche un invito a tutti gli altri a cercare in quest’Anno santo di fare memoria del centro comune, che costituisce la nostra unità. Proprio le Chiese scaturite dalla Riforma sono molto impregnate dall’idea della penitenza, dall’idea che l’intera vita cristiana sia penitenza, dalla teologia della croce. Per converso, la Chiesa ortodossa è segnata dalla gioia della risurrezione e dalla forza già presente dello Spirito Santo. Si possono così sviluppare diverse espressioni, che provengono dalla medesima chiamata, di ciò che l’Anno santo intende essere. In questo senso l’Anno santo potrebbe diventare anche un Anno dell’unità dei cristiani. (...)
La preghiera (recitata da Giovanni Paolo II all’apertura dell’Anno santo, ndr) culminava con queste parole: «Aiutaci a cambiare la direzione delle crescenti minacce e sventure nel mondo contemporaneo! Risolleva l’uomo! Proteggi le nazioni e i popoli! Non permettere l’opera di distruzione che minaccia l’umanità contemporanea!». L’Anno santo può effettivamente fornire un contributo alla soluzione dei problemi che oggi gravano sull’umanità?
Dall’Anno santo sicuramente non ci si devono attendere soluzioni immediate a problemi di tipo politico o economico, ma la predisposizione di quelle premesse di tipo etico senza le quali le questioni mondiali di tipo economico o politico divengono sempre più irrisolvibili. (...) Se l’Anno santo ruota attorno al tema della “redenzione”, la questione è: come si può giungere a un modo giusto di essere uomini? Come può l’umanità trovare la via del futuro? La questione della redenzione è una questione classica di tutte le religioni. Per le religioni asiatiche, per il buddhismo come per l’induismo, il motivo dominante è cercare di sfuggire a ciò che è insopportabile nella nostra esistenza empirica. Le tre grandi religioni teistiche – ebraismo, cristianesimo, islam – hanno la loro radice comune nella promessa abramitica e, di conseguenza, nella speranza della terra in cui si possa vivere, nella speranza della restaurazione del paradiso terrestre. Ma anche nel più forte movimento antireligioso del nostro tempo, il marxismo, è questa eredità abramitica a rappresentare il vero impulso originario e al contempo la promessa che lo rende affascinante. Anche qui il punto di partenza è la ricerca della redenzione, la ricerca di un umano non più alienato ma che ha ritrovato se stesso. Così quest’Anno santo è anche un richiamo perché riconosciamo personalmente di nuovo ciò che è originariamente umano e non puramente cattolico in senso particolare della nostra fede. Quanto più in noi stessi ciò ridiventa esperienza e riconoscimento, tanto più possiamo immetterlo nella situazione generale degli uomini. La radice più profonda di tutti i grandi problemi politici ed economici che ci opprimono, infatti, sta nel declino delle basi spirituali dell’uomo. Il fatto che movimenti come il marxismo siano tanto forti non deriva innanzitutto dal fatto che abbiano avuto a loro disposizione una forza politica, quanto dal fatto che un’ideologia si è imposta come risposta all’uomo che non riusciva più a trovare queste risposte nella tradizione cristiana. Ora che è seguita la rassegnazione ed emerge l’incapacità di risposta di questi tentativi, si presenta una possibilità del tutto nuova di reimparare a testimoniare il realismo del fatto cristiano e a immettere nel dibattito del nostro tempo ciò che di integralmente umano in esso si esprime.
© LIBRERIA EDITRICE VATICANA «Fra gli uomini non c’è solo solidarietà del peccato, ma anche solidarietà della grazia. L’indulgenza mette in pratica questi convincimenti» Il cardinale Ratzinger porge la croce a Giovanni Paolo II durante la Liturgia della Passione nel Venerdì Santo del 2004 / Siciliani
Secondo le categorie della geopolitica, incombe ancora sui Balcani l’incubo della Grande Serbia. E il barometro continua ad annunciare “burrasca” fra Belgrado e due Paesi limitrofi: il Kosovo che, secondo lo Stato da cui si è dichiarato indipendente nel 2008, resta una provincia da riannettere; e il Montenegro che accusa la nazione vicina di mire espansionistiche. Tensioni che, fra alti e bassi, segnano il quotidiano di dieci milioni di abitanti. Se, però, il punto di vista diventa quello della Chiesa cattolica, allora Serbia, Montenegro, Kosovo e Macedonia del Nord vivono già nel segno della fraternità. Come testimonia la Conferenza episcopale dei Santi Cirillo e Metodio che riunisce i vescovi delle quattro realtà nazionali. «Mettiamo in pratica ciò che tutta l’area dei Balcani desidera: vivere in pace e in armonia gli uni con gli altri e gli uni accanto agli altri. Non abbiamo la bacchetta magica per cambiare l’intera regione, ma possiamo essere profezia di una nuova coesistenza», spiega l’arcivescovo Ladislav Nemet. Il presule guida l’arcidiocesi di Belgrado e presiede la Conferenza episcopale internazionale dei Santi Cirillo e Metodio. Ed è uno dei nuovi ventuno cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.
Viene da chiamarlo un “globetrotter” perché parla sette lingue ed è stato nelle Filippine e in Ungheria, in Italia e in Austria, prima di tornare da vescovo nella sua terra d’origine, la Serbia, dove è nato 68 anni fa. Una berretta senza confini, sui passi del carisma missionario della Società del Verbo Divino in cui Nemet è entrato a 21 anni grazie a uno degli zii materni. «Quando seppe che volevo diventare prete - racconta ad “Avvenire” - mi rivelò di essere un verbita, ma clandestino perché a quel tempo in Ungheria gli ordini religiosi erano stati messi al bando. Non dimenticherò mai quel colloquio che ha segnato per sempre la mia vita. Del resto ancora oggi mi sento innanzitutto un missionario del Verbo Divino». E adesso anche una berretta-ponte: fra Est e Ovest dell’Europa; e fra il cristianesimo orientale e quello occidentale in una nazione dove la mentalità prevalente (insieme con le sue forze politiche) vuole che ogni serbo debba essere di per sé ortodosso. La religione del 90% della popolazione. Eppure, quando il Pontefice ha annunciato la porpora per Nemet, è arrivato anche il messaggio affettuoso del capo della Chiesa ortodossa serba, il patriarca Porfirije, che ha definito la scelta di Francesco un «riconoscimento per la nostra patria». «Viviamo in un’epoca dove i rapporti fra le nostre Chiese sono ben più positivi rispetto a 30 anni fa - sottolinea l’arcivescovo -. Anche Porfirije gioca un ruolo importante e, con il suo stile aperto, la sua esperienza multiculturale e la sua gentilezza, ha fatto molto perché a noi cattolici sia permesso di vivere in modo più sicuro e sereno in Serbia». Un avvicinamento che ha lasciato ipotizzare anche il primo viaggio di un Papa nel Paese, dopo l’invito delle autorità di Belgrado. Ma davanti ai giornalisti il futuro cardinale mette le mani avanti soprattutto considerando certe titubanze ortodosse: «Il Papa non si recherai mai in una nazione dove le altre realtà religiose non sono d’accordo. Ma la speranza della visita c’è tutta».
Eccellenza, la guerra in Ucraina ha congelato il dialogo ecumenico con la maggioranza del mondo ortodosso?
«A livello globale è una visione condivisibile, ma non in Serbia. Qui la Santa Sede e il patriarca serbo non hanno mai interrotto i rapporti. Anzi, si sono intensificati. Ad esempio, a settembre il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, è stato fra noi: il patriarca lo ha invitato nella sua residenza e poi è venuto alla Messa nella Cattedrale cattolica».
Lei è uno dei vicepresidenti del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. Il continente fa poco per la pace?
«L’Europa è troppo frammentata per avere un significativo peso politico nel mondo. Quasi tutti i “grandi” Paesi agiscono per i propri interessi. Così non sentiamo la voce dell’Europa di fronte ai conflitti che insanguinano l’umanità e alla possibilità di aprire negoziati. La Ue è utile solo dal punto di vista economico, non per apportare cambiamenti sulla scena politica internazionale».
Lei ha denunciato più volte le divisioni fra Est e Ovest dell’Europa. Che cosa sta accadendo?
«La storia europea ci insegna che il continente si è sviluppato quando è stato segnato da una visibile unità politica e sociale. Cito l’Impero Romano o il regno di Carlo Magno, ma anche il Medioevo delle università e degli ordini religiosi. Oggi manca un dialogo reale, aperto, onesto. Ed è ormai anacronistico ritenere che alcune nazioni debbano avere un ruolo di leadership. La mancanza di dialogo vale anche per la Chiesa. Ma ad agosto, prima del Sinodo a Roma, si sono riuniti a Linz i partecipanti europei all’Assemblea in Vaticano. L’atmosfera è stata molto buona e tutti hanno potuto parlarsi e ascoltare a vicenda. Secondo l’opinione di un paio di vescovi, l’evento si è svolto senza “autorità ecclesiastica” e coloro che si considerano gli innovatori si sono tenuti alla larga».
È stato missionario nelle Filippine. Ora è l’Europa una terra di missione?
«Sicuramente. Quando sono rientrato dall’Asia nel 1990, ho compreso quanto il nostro continente, che per centinaia di anni ha portato il Vangelo nel globo, si muovesse ormai verso altri orizzonti. Certo, non è la geografia che determina l’impegno missionario. Ogni continente è terra di missione in sé: non c’è eccezione. E ogni situazione di vita è una sfida alla missione. Inoltre tutti siamo chiamati ad annunciare il Vangelo alle genti: vicine o lontane».
I cattolici sono una piccola minoranza: il 5% in Serbia o lo 0,2% in Macedonia. In gran parte di radici ungheresi, ma c’è anche chi è d’origine slava: croati, bulgari, cechi, slovacchi. Si corre il rischio di essere discriminati?
«Grazie a Dio, in tutti i Balcani regna la pace: quindi anche noi, come Chiesa delle minoranze, viviamo un clima di distensione. Stiamo molto meglio rispetto ad alcuni decenni fa, anche se abbiamo ancora margini di miglioramento. Tuttavia, è importante che i credenti lavorino insieme per una società riconciliata: siano essi ortodossi, cattolici, evangelici o rappresentanti della comunità musulmana».
La Serbia e la Macedonia sono tappe della rotta balcanica, la «via di terra» verso l’Europa dei migranti in fuga da guerre, miseria, persecuzioni.
«Chiunque non sia contagiato dal nazionalismo si rende conto che il fenomeno migratorio fa parte della storia dell’umanità. Purtroppo l’Europa si sta chiudendo in se stessa; si moltiplicano gli atteggiamenti xenofobi; dilaga una politica sovranista. Nel frattempo si dimentica la crisi demografica che sta guastando molti Stati del continente. Allo stesso tempo abbiamo milioni di lavoratori a basso costo che sono trattati come schiavi. Papa Francesco parla chiaramente delle quattro azioni fondamentali, ossia accogliere, accompagnare, sostenere e integrare, che possono aiutare ad affrontare la questione migranti».
La Serbia è considerata vicina alla Russia. Il Papa, anche grazie alla missione affidata al cardinale Matteo Zuppi, mantiene aperto un canale con Mosca.
«Il popolo russo è un grande popolo. Ha dato molto alla cultura e allo sviluppo umano. Ho letto i classici russi mentre ero al liceo: Tolstoj, Dostoevskij, Pasternak, Solzenicyn. Quando sono stato in Russia, sono rimasto colpito dall’ospitalità. È necessario rispettare questa grande nazione e al tempo stesso accettare che la società non sia governata solo da regole di stampo occidentale. Pertanto dobbiamo fare il possibile affinché la Russia non si senta esclusa dalla famiglia europea».
Lei ha partecipato all’ultimo Sinodo in Vaticano. Possiamo parlare di “rivoluzione” sinodale nella Chiesa?
«Questa dimensione era già presente nel primo millennio della Chiesa. Ma ciò di cui stiamo parlando oggi è del tutto nuovo. Finora non ci sono mai stati così tanti laici preparati che sanno dialogare in maniera paritaria con il clero, portando la freschezza di cui abbiamo davvero bisogno. Il Concilio ha aperto la Chiesa al mondo. Adesso, con il processo sinodale, la comunità ecclesiale è chiamata a lasciarsi alle spalle un approccio rigido e stantio per spalancare le porte a tutti».
Al Sinodo si è discusso del ruolo delle donne nella Chiesa e anche di diaconato femminile. Ma nel Documento finale il paragrafo sul “genio femminile” ha avuto il maggiore numero di voti contrari.
«Anche nel 2015, durante il Sinodo sulla famiglia, il punto che aveva ricevuto più “no” era stato quello sui sacramenti per quanti vivono relazioni irregolari. C’è chi teme - non importa se vescovo, prete o laico - che una valorizzazione della donna non sia in linea con gli insegnamenti di Cristo. Le paure vanno comprese, anche se oggi nella Chiesa si manifesta una maggioranza che la pensa diversamente. Una maggioranza che non è il risultato di un iter democratico ma del cammino sinodale. Il Battesimo che rende partecipi del sacerdozio comune dei fedeli ci incoraggia a un serio rinnovamento. Serve trovare risposte pastorali nuove anche in questo ambito. E non sono ammessi ulteriori ritardi».
Mille giorni di guerra sono stati mille giorni di solidarietà della Comunità di Sant’Egidio in Ucraina. Grazie a una radicata presenza nel paese dal 1991, Sant’Egidio fin dai primi giorni dopo l’invasione russa ha realizzato un’estesa rete di aiuti umanitari, in grado di rispondere ai bisogni crescenti della popolazione. L’impegno dei membri di Sant’Egidio in Ucraina, alimentato da una catena di solidarietà che parte dall’Italia e altri paesi europei, ha consentito, tra l’altro, di aprire cinque centri per sfollati interni (3 a Kiev, 1 a Leopoli e 1 a Ivano-Frankivsk) che sostengono 10mila persone al mese, e di inviare medicinali in più di 200 strutture sanitarie nelle regioni orientali e meridionali del paese, maggiormente colpite dalle operazioni belliche. Sono state inoltre aperte 9 Scuole della Pace per bambini che hanno sofferto il trauma della guerra nell’ambito di un più ampio sostegno che ha raggiunto circa 10mila minori.
In mille giorni di guerra sono stati inviati 153 carichi, per un totale di 2400 tonnellate di aiuti umanitari e un valore di 27 milioni di euro. 450mila persone hanno ricevuto generi alimentari, abbigliamento, prodotti per l’igiene personale, mentre 2 milioni di persone hanno usufruito degli aiuti sanitari di Sant’Egidio.
L’Ucraina ha bisogno di pace e l’impegno umanitario ne tiene viva la speranza. Per alimentarla c’è bisogno di un sostegno largo e generoso, che non può affievolirsi, ma anzi deve rafforzarsi: dopo mille giorni di guerra, investire sull’aiuto alla popolazione è l’unico modo per dare un futuro all’Ucraina, perché la solidarietà costruisce già oggi un pezzo di pace.
Questa cosa forse un po’ “oscura” fuori dalla Chiesa che è il Cammino sinodale, in realtà, può aiutare l’intero Paese a guardare con fiducia al proprio futuro. Ne è convinto Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di Ipsos e membro del Comitato nazionale del Cammino sinodale.
Con il Cammino sinodale la Chiesa si mette in discussione per continuare a parlare alla società di oggi. Qual è dunque il quadro sociale di partenza entro cui si muove questo sforzo?
Il quadro di partenza è caratterizzato da un clima sociale piuttosto negativo, segnato da una successione di crisi dall’inizio del decennio: la pandemia, l'inflazione, la crisi energetica, le guerre e così via. Queste cosiddette policrisi stanno creando disorientamento, incertezza, preoccupazione che portano spesso a un atteggiamento di ripiegamento difensivo rispetto a tutto ciò che ci circonda, alle minacce vere o presunte. Però il clima sociale attuale è anche figlio di un cambiamento di lungo periodo, che riguarda gli ultimi tre decenni e che potremmo definire un cambiamento antropologico, caratterizzato da tre elementi.
Quali sono questi elementi?
Il primo è questa crescente divaricazione tra la dimensione individuale e il senso di appartenenza a una collettività più ampia, quello che Francesco chiama lo scisma tra l’io e il noi. C'è un investimento solo sul se, sull’io, sulle relazioni sociali ristrette e tutto quanto è più lontano viene vissuto o come molto distante o come minaccioso addirittura. Tutto ciò ha un impatto molto forte anche sulla fiducia: quella nelle istituzioni si è fortemente indebolita. Tale frattura verticale si aggiunge a una frattura orizzontale che si esprime in un senso di coesione che è piuttosto limitato. Un secondo aspetto molto importante è la frammentazione identitaria, cioè l’assenza di una visione unica e coerente del sé, che porta a due grandi conseguenze: la multiappartenenza (non c'è un ambito prevalente di cui io mi sento parte) e a contraddizioni enormi nei comportamenti individuali di cui non si è consapevoli.
E il terzo elemento?
È la netta prevalenza delle percezioni sulla realtà: in Italia, più che in altri Paesi, siamo portati ad amplificare la portata dei fenomeni, soprattutto quelli che ci preoccupano di più. Così il Paese viene percepito come “distopico”, un luogo dove, a dispetto di quello che dicono i dati, si pensa ci siano tanti crimini, tanti disoccupati, tanti anziani, tanti immigrati (e potrei continuare con tutti gli altri indicatori). Questo si traduce anche molto spesso in una ignoranza di quelli che sono gli aspetti positivi del Paese. Pochi sanno, infatti, che siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa, il primo nella raccolta differenziata dei rifiuti.
E questa visione riguarda anche i credenti?
Sì, su questo non c’è differenza tra credenti e non credenti. Anche i credenti vivono questa frammentazione identitaria e il Vangelo conforma sempre meno il comportamento del credente che tende a tenere conto o a rifiutare il messaggio evangelico in base a quello che è più o meno in sintonia col proprio stile di vita.
E il Cammino sinodale come potrebbe contribuire a cambiare le cose?
È evidente che il Camino sinodale potrebbe rappresentare un antidoto a questo a questo clima. Lo può fare grazie al metodo che si è scelto di seguire, partendo proprio da questa attenzione all’ascolto lungo tutto il processo. Uno stile, che oggi non è scontato, nel momento in cui una parte rilevante degli italiani mette in discussione la democrazia “perché la mia voce non conta, perché non vengo ascoltato”. Il secondo elemento è l'idea del cambiamento: è interessante vedere come tutti reclamino il cambiamento ma nessuno agisce per il cambiamento perché il cambiamento ci mette in discussione mette in discussione i nostri punti fermi, i nostri diritti acquisiti. In politica questa cosa è un aspetto che ingessa la proposta politica dei partiti, che usano proposte o frasi a effetto immediato, che però poi evaporano, perché non perseguono le vere riforme. Queste, infatti, sono sempre impopolari: c’è questa resistenza da parte dei cittadini nell'accettare i cambiamenti, soprattutto nel momento in cui non si conosce il percorso e non si conosce l'approdo. Ogni transizione, invece, ha vincitori e vinti, ma se non si fa niente il Paese si ingessa nel presentismo. Quindi l'idea che la Chiesa decida di mettersi in discussione e proceda verso cambiamento è un altro elemento estremamente importante. L'idea di mettersi in cammino, di immaginare un futuro, sapendo che per cambiare c’è bisogno di tempo, di riflessione, di confronto, è un metodo che è in contrasto rispetto al “tutto e subito” degli ultimi tempi. La Chiesa sta dando un segnale importante da questo punto di vista.
Ma come si potrà portare questo processo fuori dalla Chiesa?
Una volta completato tutto questo Cammino sinodale, l'elemento decisivo sarà come comunicarlo in maniera efficace a chi non ha partecipato a questo percorso sia tra i credenti che tra i non credenti. E questo processo può donare uno sguardo meno severo, meno pessimista uno sguardo più benevolo nei confronti degli altri: non si tratta di “buonismo” ma di affermare che pur nelle difficoltà c’è una speranza ed è necessario trovare le forza e le risorse per andare avanti, senza chiudere in una inutile “retropia”, la nostalgia del passato di cui parlava Bauman. Perché in realtà non abbiamo mai vissuto in un'epoca con le opportunità che offre questo nostro tempo. In questo senso lo sguardo positivo ma consapevole sulla realtà che il Cammino sinodale potrà offrire al l’Italia sarà prezioso anche per la politica e per chi guida il Paese.
Donne sole in fuga dalla guerra, vittime di tratta e mutilazioni. Sono alcune delle terribili esperienze di cui sono pieni gli occhi delle ragazze che bussano alla porta di Casa Betania, struttura di accoglienza per donne e minori richiedenti asilo, aperta a Ferrara dalla Caritas diocesana grazie ai fondi 8xmille, indispensabili per mantenere e assistere le famiglie monogenitoriali al femminile che non rientrano in progetti finanziati da servizi sociali e prefettura e che dunque, altrimenti, non avrebbero dove stare. La struttura - inaugurata nel 2014 nei locali di un ex convento femminile in via Borgovado - può ospitare 30 persone, tra ragazze e bambini. A chi la visita si presenta su tre piani: al primo e al secondo trovano spazio un dormitorio con 12 posti letto, 11 stanze singole e doppie e quattro mini appartamenti con cucine private o condivise dove le ospiti possono preparare i pasti e attraverso l’alimentazione confrontarsi con la cultura delle altre coinquiline e delle otto operatrici. Il piano terra invece è riservato alla lavanderia, cui si accede su turni, l’ambulatorio medico (aperto anche alle persone in difficoltà esterne a Casa Betania), il chiostro dove sono state interrate piante officinali, alberi da frutto e un piccolo orto, e i locali per le attività e la socialità.
Le ragazze sono molto giovani, in media hanno tra i 20 e i 30 anni, e viaggiano con bambini dagli zero ai 14 anni. Fino a qualche anno fa arrivavano soprattutto dalla Nigeria, oggi - oltre alle profughe in fuga dall’Ucraina - provengono in larga parte da Costa d’Avorio e Camerun. "Spesso - spiega Maria Teresa Stampi, che da sette anni lavora come operatrice nella struttura d’accoglienza - si tratta di persone che dopo essere scappate dal proprio Paese hanno trovato lavoro in Tunisia e più recentemente, in seguito all’inasprimento dell’odio nei confronti degli stranieri, hanno dovuto andarsene anche da lì. Sono persone che hanno subito traumi e violenze: storie strazianti con cui sono obbligate a fare i conti, una volta in Italia, dovendo raccontare il proprio passato per sottoporre la richiesta di asilo".
Perciò a Casa Betania le donne vengono accolte e affiancate anche a livello medico, legale e psicologico. "Quando le ragazze arrivano - continua Stampi - sono molto spaesate. Non conoscono la lingua né la cultura e spesso nemmeno esattamente il luogo in cui sono finite. La prima cosa da fare è dare loro un orientamento spazio-temporale. Poi, a poco a poco, cerchiamo di inserirle nel tessuto della società: si spiega come si accede ai servizi e come ci si muove in città". L’accoglienza può durare da uno a tre anni con l’obiettivo di condurre le donne all’autonomia: anzitutto logistica, come iscrivere i bambini a scuola oppure andare a fare un esame del sangue da sole, e poi economica.
In questo senso un ruolo importantissimo lo svolge la scuola di italiano che a Casa Betania frequentano i bambini, con corsi pomeridiani, ma soprattutto le donne suddivise per classi a seconda del livello e seguite quotidianamente da una docente specializzata in insegnamento L2 (quello dedicato agli stranieri).
e tanti volontari. "La lingua - spiega Stampi - è un requisito fondamentale per l’integrazione e l’autonomia. Chi la impara e ottiene la certificazione ha accesso a corsi professionalizzanti per diventare operatrice sociosanitaria oppure cuoca e così accede a lavori anche a tempo indeterminato". Altrimenti è difficile: già i tempi di rinnovo per il permesso di soggiorno sono lunghissimi e spesso rendono impossibile tenere un impiego; se in più non si padroneggia la lingua si trovano solo lavori in campagna e stagionali.
Casa Betania è un calderone di culture e di personalità variegate. "A volte - confida Stampi - è molto difficile la convivenza: sono donne che arrivano da parti del mondo completamente diverse, con mentalità ed esperienze opposte. Eppure riescono a vivere insieme e ad aiutarsi. Ho visto persone che non parlavano una lingua in comune e che pure, nelle difficoltà, si sono date una mano. La nostra è una piccola buona esperienza, che fa poca notizia, ma esempio di quell’umanità invisibile e diffusa che tiene insieme il mondo. A me le ragazze di Casa Betania hanno insegnato ad ascoltare, a non dare niente per scontato e che i problemi - e loro ne hanno visti numerosi e di atroci - ci sono ma si possono affrontare senza farsi sopraffare, con coraggio".
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«La nostra istituzione non vuole essere un collegio, ma un vero e proprio rifugio per i fanciulli abbandonati, dando per ora la preferenza agli orfani di guerra, i quali sono la sacra eredità di chi tutto sacrificò per la patria. Non delimitiamo confini alla Provvidenza: i primi saranno sempre quelli del rione, ma se anche di fuori qualche voce dolorosa di bimbo invocherà il nostro aiuto, se i mezzi e il locale ce lo permetteranno, apriremo le nostre braccia!». Con queste parole don Giulio Facibeni raccontava nel 1924 l’apertura del primo orfanotrofio con il quale nasceva a Firenze, nel quartiere di Rifredi, l’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa.
Iniziava così una storia lunga un secolo fatta di carità, di accoglienza, di apertura alla vita, di attenzione ai bisogni sempre nuovi che via via si affacciavano. Una storia che ancora prosegue, perché la Madonnina del Grappa è attiva ancora oggi nel servizio ai poveri, ai giovani, ai carcerati. L’Opera ha aperto sabato 9 novembre le celebrazioni che durante quest’anno centenario permetteranno di ricordare le radici: non solo come rievocazione del passato, spiega don Vincenzo Russo, che oggi la guida, ma per raccontare un’esperienza viva: «Vivere il centenario è, ancora, andare incontro alle persone e alle famiglie che vivono vecchie e nuove povertà e che bussano alle porte dell’Opera».
Il nome – Madonnina del Grappa – è legato all’esperienza che don Giulio Facibeni (dichiarato venerabile da papa Francesco nel 2019) fece come cappellano militare durante la Prima Guerra mondiale. In mezzo alle granate e ai colpi dei fucili, raccolse le implorazioni dei suoi soldati che in punto di morte gli raccomandavano i figli rimasti a casa. « Ho fisso nell’animo – scrive – lo sguardo invocante e riconoscente dei feriti; l’atteggiamento, sublime nella maestà del sacrificio, di coloro che altri chiamano morti, ma che noi sentiamo così vivi, così presenti». Tornato in parrocchia, al centro della sua attenzione restano i piccoli, gli orfani, i bambini bisognosi: con il desiderio di non limitarsi all’assistenza durante il giorno, come già aveva fatto, ma di poter dare loro una famiglia. La casa, candida e bella come don Giulio la sognava, verrà inaugurata il 4 novembre del 1924.
L’Opera si caratterizzò subito per il suo stile evangelico: cieca fiducia nella Provvidenza e accoglienza verso tutti i bisognosi. Facendo ogni sforzo per non dire no a nessuno. L’arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli, nell’aprire il centenario, ha detto che «nella figura del venerabile don Giulio Facibeni troviamo un modello di un uomo che seppe lasciarsi guardare dal Signore. Salì sul Monte Grappa come assistente dei soldati e scese come padre dei loro orfani. Proprio su quel monte accompagnando i morenti seppe essere un riflesso della misericordia del Signore stesso, attraverso l’intercessione di Maria a cui volle dedicare la sua opera, di cui oggi celebriamo il centenario».
E' una parola “caustica” per la pelle di Israele, ancora ferita dal massacro del 7 ottobre. Non solo per le sue implicazioni giuridiche. L’impiego del termine «genocidio» associato al conflitto a Gaza fa male ai discendenti dei superstiti della Shoah, il genocidio per antonomasia, perché la categoria è stata codificata sui contorni dello sterminio nazista.
L’ultimo libro di Luigi Giussani Una rivoluzione di sé. La vita come comunione (1968-1970), curato da Davide Prosperi e pubblicato da Rizzoli, è stato presentato giovedì 14 novembre presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Il volume raccoglie gli interventi svolti fra 1968 e il 1970 da don Giussani presso il Centro culturale “Charles Péguy”, dal quale sarebbe poi sorto il movimento di Comunione e Liberazione. Durante l’incontro, organizzato da Comunione e Liberazione e dal Centro Culturale di Milano (CMC), sono intervenuti Onorato Grassi, docente emerito di storia della filosofia medievale alla Lumsa; Silvano Petrosino, docente di antropologia filosofica all’Università Cattolica; Alessandro Poltronieri, dottorando di filosofia teoretica all’Università di Bari; Eugenia Scabini, docente emerito di psicologia sociale all’Università Cattolica e co fondatrice del centro culturale “Péguy” nel 1964. A moderare l’incontro è stato Francesco Cassese, responsabile della Fraternità di Comunione e Liberazione per la siocesi di Milano.
Di seguito, alcuni estratti degli interventi:
Francesco Cassese: «Giussani colse l'istanza profonda del sommovimento culturale e sociale del Sessantotto, che indicava il risveglio del desiderio di autenticità nella vita e di cambiamento del mondo, ma sviluppò una proposta per molti versi controcorrente: mentre tutti volevano imporre le proprie immagini rivoluzionarie della politica e della società, Giussani continuò a sostenere che solo nella comunione cristiana è possibile sperimentare la vera liberazione, cioè l'avvento di un mondo più umano concretamente sperimentabile dalla persona».
Eugenia Scabini: «Giussani in quel periodo era nel pieno della sua maturità, eppure si trovava in una situazione precaria. Nel 1965 Gioventù Studentesca viene riconosciuta ufficialmente dalla Diocesi di Milano, ma a Giussani (che aveva dato vita a GS) viene chiesto di proseguire i suoi studi negli Stati Uniti. Al rientro, scopre che circa metà dei “suoi” ex studenti hanno preso strade diverse che sottolineavano l’impegno etico e sociale piuttosto che l’aspetto religioso. Quindi mortificazione e dolore fanno da sfondo agli interventi che si leggono in questo testo. Eppure, da Giussani noi non sentimmo mai una sola parola di recriminazione. Non ha mai fatto trapelare scoraggiamento, abbattimento e perplessità. Ha reagito rilanciando i suoi pochi rimasti, un piccolo gruppo, ai quali comunicò l'annuncio cristiano con una forza e una radicalità che si ritrova in questo volume, che è un testo veramente radicale. Quando ci trovammo la prima volta con lui nel 1968, delle 180 persone che erano lì, una sola proveniva dall’esperienza iniziale di GS, ma per Giussani è un'unità profonda, è la storia che continua; ne è rimasto uno solo, ma quell’uno contiene tutti gli altri, perché è unito agli altri toccati dallo stesso avvenimento».
Onorato Grassi: «Questo volume ci fa capire come è nato o rinato il movimento. Giussani era un lottatore, era come se vedesse qualcosa presente in quel momento e usava le parole per descrivere quello che stava avvenendo davanti ai suoi occhi in quel gruppetto di persone, in quella amicizia in cui lui riscopriva il Mistero che si incarna in un particolare. Era rimasto solo un “piccolo resto”, ma quel resto può cambiare tutto. Neanche Giussani immaginava cosa sarebbe stato, ma non contava cosa sarebbe avvenuto, contava quello che c'era lì.Dopo il Vaticano II c'era un'aria di cambiamento nella Chiesa e nella società. Giussani è unodei pochi a dire che sarebbe tutto inutile se il cambiamento non riguardasse la persona, l'io. Capisce inoltre che non è un progetto di liberazione a mettere insieme le persone, ma è “qualcosa che viene prima” che crea la comunione ed è questa che libera l’uomo. Da qui l’ordine dei fattori nel nome “Comunione e Liberazione”».
Silvano Petrosino: «Di solito i libri riportano tesi “esterne” a chi scrive, invece questo non è un libro di filosofia o di teologia, mentre Giussani è personalmente “dentro” al discorso che sta facendo. Si può essere contro Cl o non condividere le analisi o le scelte del movimento, ma se si ha un minimo di onestà non si può non riconoscere l'autenticità del discorso, di cui questo libro fa emergere il momento sorgivo. Ratzinger distingue tra un Gesù “reale” e un Gesù “storico”. È quello che in questo volume fa anche Giussani, quando nota che la cristianità è finita (oggi lo dicono tutti, lui lo diceva nel 1968…) e pone il problema dell’incontro reale con Cristo. Oggi nessuno nega la storicità di Gesù, ma il problema è come fare a compiere il passaggio al reale. Per questo io penso che Giussani sia stato un padre della Chiesa esattamente perché compie questo passaggio: non ha paura di dire che la cristianità è una forma, mentre il cristianesimo è un avvenimento».
Alessandro Poltronieri: «Giussani in questi incontri si rivolgeva a giovani tra i 25 e i 30 anni, e lui non ha voluto risparmiare a nessuno la sua proposta di un cristianesimo esigente e radicale. Quindi ho letto questo libro cogliendolo innanzitutto come una provocazione per me. Giussani afferma che gli apostoli “credettero per una presenza con una faccia ben precisa”. Ecco, se il cristianesimo viene destituito del suo carattere storico di avvenimento, non può avere la forza di cambiare l'uomo di oggi, nel 2024. Giussani si chiede come quell'incontro avviene ora, e risponde: attraverso la comunione dei credenti. Per Giussani, il metodo dell'Incarnazione è vero oggi come all'inizio. Cristo non è una lontananza nella nebbia del passato, ma è una realtà presente, è la realtà della Chiesa non in termini generici, ma come presenza reale lì dove sei».
«Tante volte come missionari ci siamo sentiti dei “fuori legge” che non significa solo rompere gli schemi, ma trasformare le cose dall’interno, come lievito nella pasta». Così don Giuseppe Pizzoli, direttore della Fondazione Missio ha tracciato le conclusioni dei lavori del Forum missionario che si è tenuto dall’11 al 14 novembre a Montesilvano. «Sostituiamo la parola potere con le parole abilità, prossimità, impegno, prendersi cura», ha suggerito Pizzoli. La Chiesa missionaria in questo senso ha un ruolo fondamentale: «riconciliare tutto ciò che è posto nel segno della divisione», andando oltre la tentazione del potere, ha suggerito il filosofo Roberto Mancini. «Nel messaggio evangelico i cristiani devono saper assumere la direzione di vita annunciata: servizio e cura anziché potere», ha ribadito il docente di Filosofia teoretica, tra i relatori della kermesse alla quale hanno preso parte 230 persone. Convertirsi, significa «uscire dalla cultura della separazione che vede l’altro ridotto a estraneo, la felicità ridotta a chimera e i morti ridotti ad un nulla».
Fin dal titolo, “Cantiere Missione”, il forum di Missio ha voluto tracciare un orizzonte ampio: quattro giorni di incontri, scambio, testimonianze e laboratori per riflettere su una nuova rotta. Dai laboratori tematici è emerso il desiderio di essere “profetici”: la base chiede «comunità aperte e meno clericali», maggiore attenzione «ai fragili, ai giovani, ai poveri, alle Chiese sorelle». Desidera «manifestare la gioia di essere cristiani» attraverso il «coraggio di partire» per dar seguito «all’integrazione tra culture». «Pensiamo spesso che profezia sia rompere gli schemi – ha ribadito don Pizzoli - ma non è solo questo. La trasformazione non fa rumore, è silenziosa, è efficace», lavora sotto traccia.
«Per andare avanti nella nostra missione dobbiamo essere capaci anzitutto di disimparare - ha suggerito padre Dario Bossi, comboniano, da molti anni in Brasile - per fare spazio allo spazio dell’altro». Mettere da parte i protagonismi, imparare dal basso, alla «cattedra dei poveri», apprendere percorsi per stare al passo con i tempi. Padre Dario ha raccontato la sua storia di redenzione con gli impoveriti del nord-est brasiliano, dove le multinazionali minerarie sfruttano il territorio. Paola Caridi, giornalista, storica e scrittrice esperta di Medio oriente e Palestina ha parlato in modo molto esplicito del genocidio di Gaza. «Quello che sta succedendo dentro Gaza viene descritto spesso come qualcosa che non riguarda esseri umani ma oggetti. Noi vediamo solo frammenti di carne e non ne riconosciamo l’umanità». A Gaza «stiamo assistendo ad un genocidio», ha detto Caridi. Suor Rosemary Nyirumbe dall’Uganda ha condiviso la sua “intuizione creativa” per trasformare in dono la vita delle donne ugandesi vittime dei guerriglieri, grazie ad una macchina da cucire. Donne rapite e coinvolte loro malgrado nella guerra, oggi sono risorte. Padre Filippo Ivardi, comboniano da Castel Volturno ha parlato della rete di bellezza sorta nella «discarica dei popoli». «Siamo a due passi da tutto, tra Caserta e Napoli, lungo la via Domiziana: in 27 km sono rappresentati 92 stati al mondo. I più numerosi sono nigeriani e ghanesi, arrivati nel corso degli anni». Giacomo Crespi e Silvia Caglio, coppia missionaria fidei donum di Milano per sei anni sono stati in missione a Pucallpa, in Perù. «Eravamo stranieri in terra straniera ma non ci siamo mai sentiti soli. Al rientro in Italia abbiamo vissuto la difficoltà di tornare in un mondo che sentivamo non più nostro». Padre Alejandro Solalinde dal Messico ha detto: «penso che la migrazione non sia solo un fenomeno di per sé ma il segno più importante dei tempi: uno specchio attraverso il quale possiamo vedere la nostra anima. Noi siamo loro e quando loro camminano anche noi camminiamo».
«Noi come gruppo animatori ci impegniamo a non creare queste situazioni nella nostra comunità, infondendo i buoni valori nei ragazzi come il rispetto, la pazienza, l’ascolto, la fiducia, la gentilezza, l’empatia». È un passaggio della preghiera preparata dal gruppo di animatori della diocesi di Concordia-Pordenone che questa sera verrà recitata nel corso della Veglia per le vittime e degli abusi. Una delle cento e più iniziative che da questo fine settimana e per i prossimi quindici giorni vengono organizzare nelle comunità ecclesiali del nostro Paese in occasione della quarta Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, che si celebra oggi in tutta Italia e che è dedicata al tema «Ritessere fiducia» . Obiettivo - dell'iniziativa di Pordenone, come di tutte le altre in programma - quello di raccogliere l’invito del Consiglio permanente della Cei per un momento di riflessione e di confronto da dedicare alla prevenzione e alla sensibilizzazione su un tema complesso, delicato ma sempre più fondamentale. Promuovere cioè una nuova cultura della generatività, capace di mettere al centro i minori e le persone più fragili. Che non significa soltanto sconfiggere la piaga degli abusi in tutte le diverse declinazioni – di potere, spirituale, sessuale – ma costruire una Chiesa in cui la fraternità prenda il posto del clericalismo.
Ecco perché la quarta Giornata di preghiera, pur importante in sé, diventa davvero rilevante per come è stata preparata e per quello che riuscirà a suscitare. La presenza di un Servizio per la tutela dei minori in tutte le 226 diocesi italiane e l’attività dei 108 centri d’ascolto – di cui tanti interdiocesani – racconta di un impegno ormai condiviso e convinto. Per tutti, tra le attività più urgenti, c’è la formazione.
«Negli ultimi due anni – raccontano Flora e Michele De Leo, coppia referente del Servizio diocesano della diocesi di Concordia-Pordenone – abbiamo affrontato con i seminaristi vari aspetti del problema, da quelli legali a quelli psicologi. Nella nostra équipe diocesana abbiamo psicologi, avvocati, educatori, canonisti, esperti di pastorale e non è stato difficile quindi gestire questi momenti di approfondimento». Le proposte formative sono state rivolte anche ai sacerdoti, alle parrocchie, agli educatori di Azione Cattolica, alle religiose. «Abbiamo anche preparato un volumetto per sintetizzare i sussidi diffusi dal Servizio nazionale – aggiungono i coniugi De Feo, che hanno alle spalle vent’anni di impegno nella pastorale familiare – in modo da fornire un testo più agile sul pensiero della Chiesa. E abbiamo visto che si tratta di un aiuto gradito».
Spiegare e formare non significa naturalmente mettere in secondo piano le ferite da risanare. Don Andriano Di Gesù, referente del Servizio interdiocesano Lazio Sud che coinvolge le diocesi di Gaeta, Agnani-Alatri, Frosinone-Veroli-Ferentino, Latina-Terracina-Sezze-Priverno, Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo, spiega che negli ultimi due anni il Centro d’ascolto online ha fatto soprattutto da catalizzatore per uomini e donne desiderosi di raccontare il loro dramma esistenziale. Nella maggior parte dei casi abusi risalenti a vari decenni or sono, tutti risolti anche dal punto di vista giudiziario, ma le cui ferite interiori non si sono richiuse. «Queste persone – racconta don Di Gesù – hanno soprattutto il desiderio di parlare, di aprire il cuore, perché la sofferenza di un abuso, anche risalente a molti anni fa, non è mai davvero superata». In questi casi alle persone incaricate di gestire lo “sportello”, tutte con grande sensibilità umana, non rimane che condividere il dolore: «Sono pratiche che non si archiviano mai. Non è che risolto il caso, si possono dimenticare. Credo che una Giornata di preghiera come quella che celebriamo oggi – riprende il referente del Centro interdiocesano Lazio Sud – serva appunto a far capire a tutte le vittime che non ci dimentichiamo di loro, che la Chiesa intera soffre per un fratello o per una sorella ferita». L’importante, fa notare ancora il sacerdote, che non siano parole di vago conforto, ma diventino un percorso riparativo autentico, sia a livello spirituale, sia – quando è il caso – sotto il profilo della giustizia civile e penale. Perché in questo ambito lo sforzo è quello di “ritessere fiducia”, con un impegno comune capace di coinvolgere Chiesa e società. Che è proprio il titolo del convegno organizzato dal Servizio interdiocesano Lazio Sud per il prossimo 27 novembre, con gli interventi della presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori, Chiara Griffini, e della responsabile dell’Area salute e welfare del Censis, Ketty Vaccaro.
Obiettivi ad ampio spettro – educativi, culturali, formativi, spirituali – che si ritrovano anche nell’attività del Servizio diocesano per la tutela dei minori di Bologna, dove quest’anno la Giornata di preghiera non verrà celebrata con un evento centrale, ma con decine di proposte locali, nelle parrocchie e nelle comunità. Lo racconta don Gabriele Davalli, direttore dell’Ufficio famiglia e membro della Commissione diocesana per la tutela dei minori. «Con la nostra referente, Giovanni Cuzzani, che è psicologa, e con la responsabile del Centro d’ascolto, Maria Parma, avvocato, abbiamo deciso che tanti eventi su scala ridotta potessero essere più coinvolgente rispetto alla grande celebrazione in cattedrale». A Bologna, accanto all’impegno nella formazione con molti fronti aperti (diaconi, insegnanti di religione, educatori Agesci), sono arrivate anche varie richieste di aiuto al discernimento da parte di sacerdoti. «Ci sono alcuni episodi che non possono essere definiti abusi, ma situazioni particolari che però non vanno trascurate né banalizzate. Di fronte alle varie richieste – prosegue don Davalli – decidiamo in équipe il modo migliore per intervenire e affrontare il problema da varie prospettive. Sappiamo che gli abusi rappresentano una spirale subdola, dall’abuso di potere si può passare a quello di coscienza e poi a quello sessuale. Non è sempre facile educare a questa consapevolezza». Da una parte il rischio – come mettono in luce tutti gli addetti ai lavori – si chiama negazione, dall’altra tentativo di ridimensionare, minimizzare. «Ecco – conclude l’esperto – questi sono gli atteggiamenti negativi che dobbiamo superare. E una Giornata come quella di domani può servire a ribadire con forza che tutti insieme, come Chiesa, abbiamo imboccato un’altra strada».
Intanto da ieri, MilanoSette, il dorso settimanale di Avvenire per l’arcidiocesi ambrosiana, ha avviato una rubrica dedicata alla tutela dei minori. Sarà un vocabolario della prevenzione. Ogni mese, una parola. Si parte da “fiducia”. Riconquistarla sarà un grande traguardo.
Tra i tanti insegnamenti controcorrente che ci vengono dal Vangelo uno dei più originali, e per certi versi rivoluzionari, riguarda la grandezza. Cioè il Signore ci insegna che la via privilegiata per essere grandi agli occhi di Dio è farsi piccoli. Che non significa falsa modestia ma rinunciare al proprio narcisismo, svuotarsi il più possibile della propria rivendicata autosufficienza per lasciare spazio all’amore di Dio, in modo da lasciarsene guidare. Ma “diventare piccoli” è anche sinonimo di libertà. Pensiamo ai bambini: dicono quello che sentono dentro perché hanno il cuore leggero, senza inutili vincoli, così da poter più facilmente volare in alto. Lo ricorda in questa breve meditazione spirituale don Luigi Pozzoli (morto nel 2011 a 79 anni), per oltre vent’anni parroco di Santa Maria del Paradiso a Milano nonché autore di tanti fortunati volumi, tra cui appunto “Elogio della piccolezza”.
«Dio non vuole gente che abbia delle virtù, ma fanciulli che egli possa prendere come si solleva un bambino, in un momento, perché è leggero e ha grandi occhi; non è una santità a basso prezzo, ma una “piccola via”, per collegare la santità allo spirito d'infanzia evangelico, che è spirito di semplicità, di fiducia, di abbandono incondizionato alle iniziative di Dio. C'è un complotto dei “grandi” contro l'infanzia forse? Basta leggere il vangelo per rendersene conto. Leggeri, come quella lunga schiera di piccoli che attraversano la storia senza che la storia parli di essi: sono uomini e donne che hanno nel cuore le parole della leggerezza, che sono capaci di solitudine e silenzio, che sono guariti da ogni smania di apparire e da ogni pretesa di sapere. Ancora la domanda: perché Dio si è convertito al fascino della piccolezza? Perché la piccolezza è libertà. Chi è evangelicamente piccolo, non solo è leggero, ma anche libero. È il bambino che può dire tutto quello che vuole, non l'adulto. Potremmo dire: i bambini sono «pericolosi» perché non hanno il buon senso di tenersi per sé la verità. Allo stesso modo i piccoli del vangelo sono le persone più libere. E si potrebbe facilmente dimostrare che le persone grandi e «pesanti», attaccate al potere e alle cose, non sono libere. Nessuno è più libero di Gesù, perché nessuno è più povero di lui. È povero di beni, è povero di legami familiari, è povero di successi umani. Per questo, non avendo nulla da difendere è libero anche di fronte alla morte».
Se la Chiesa deve cambiare per continuare a parlare al mondo allora deve prima di tutto pensare a come trasformare se stessa, senza chiedere che a mutare siano prima di tutto gli altri. Ecco perché oggi alla comunità cristiana «è richiesta una dieta, è chiesto di liberarsi da pesantezze che la affliggono»: per farlo basta che segua lo stile emerso con chiarezza nel percorso di questi ultimi tre anni con il Cammino sinodale. È l’arcivescovo Erio Castellucci, vicepresidente della Cei e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, a fare luce su come guardare avanti dopo l’intensa esperienza della prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, che ha visto mille delegati dalle 226 diocesi italiane convenire nella basilica di San Paolo Fuori le Mura. Lo fa chiudendo i lavori, al termine della restituzione dei lavori di confronto ai cento tavoli e degli interventi dei delegati, nell’ultima mattina di lavori dell’Assemblea. «L’organizzazione di questo evento – ha detto il presule – è già di per sé esperienza di Chiesa sinodale». L’auspicio, allora, è che lo stile del dibattito che ha brulicato tra le sedie e i tavoli in basilica, fatto di ascolto, dialogo e partecipazione, espressione concreta di tutto quel lavoro capillare compito in tre anni sul territorio di tutta la Penisola, incida profondamente nelle Chiese locali.
Infine, ha concluso Castellucci, l’esperienza sinodale ha dotato chi vi ha preso parte «di una vista più profonda; ci ha abituato a scrutare le pieghe della nostra storia, cogliendo con umiltà sia le ferite dentro e fuori la Chiesa, sia i raggi di speranza e di vita, che abitano il quotidiano delle case e delle strade e che spesso restano sepolti sotto la coltre delle cattive notizie. Anche in questi giorni, ai nostri tavoli, abbiamo fatto circolare esperienze belle e positive, autentiche spie della crescita del Regno di Dio nel nostro tempo. Sono solo germogli, ma la sfida della ricezione sinodale sarà poi quella di sostenere questi stili perché diventino strutturali nelle nostre Chiese».
Chiuso questo capitolo, quindi, è il tempo di guardare avanti: lo hanno ricordato tutti i delegati presenti anche nel messaggio inviato al Papa in risposta alle parole che lui stesso aveva mandato all’inizio dei lavori. Nel testo, letto dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, i rappresentanti delle diocesi italiane rivolgono il lodo grazie al Pontefice per il sostegno e l’incoraggiamento ricevuti. «La nostra gratitudine diventa adesso impegno nel tradurre in decisioni e scelte concrete le riflessioni raccolte nelle fasi di ascolto e discernimento di questi anni di Cammino sinodale e dai lavori di queste giornate», sottolinea, poi, il messaggio. «È il tempo di realizzare quella missione nello stile della prossimità, che aveva animato san Paolo – prosegue il testo –. Il libro degli Atti racconta che i primi passi della sua missione sono avvenuti con altri apostoli e discepoli come Barnaba e Giovanni, prendendo letteralmente il largo per fondare e sostenere le comunità cristiane primitive. Sentiamo anche noi questa vocazione ad una missione condotta non in solitaria, ma insieme, per portare con coraggio e speranza il Vangelo, anzitutto attraverso la testimonianza dell’amore fraterno».
Anche per Zuppi, le giornate di lavoro a Roma sono state particolarmente intense, percorse da un profondo sentimento di gioia. Giorni in cui, secondo il porporato, si è respirata una «sobria ebbrezza». Un atteggiamento che fa riflettere davanti a un mondo ferito, rabbuiato, sofferente e segnato dalle guerre: «Di fronte a questo mondo – ha detto Zuppi – la Chiesa ha espresso la sobrietà che nasce dall’essere consapevoli, ma non scettici, senza supponenze ma con convinzione, senza enfasi, ma con consapevolezza della storia». Ma serve anche l’ebbrezza: «Non dobbiamo avere paura di essere contenti, di provare questa gioia – ha auspicato Zuppi –, semmai dobbiamo avere paura di perderla». All’Assemblea sinodale, ha proseguito il cardinale, «forse non abbiamo capito tutto, ma proviamo ebrezza per questa esperienza di Chiesa, per una Chiesa con le ammaccature che non abbiamo nascosto, ma anche capace di esprimere maternità ad esempio verso i fragili e verso gli ultimi». E i poveri, ha ricordato Zuppi inserendosi così nella celebrazione della Giornata mondiale del povero, «sono la prima attenzione che chiedono alla Chiesa di uscire. La Chiesa non esiste senza i poveri, perché altrimenti diventa un club in cui ci si parla addosso». Ecco il compito allora: «Essere costruttori di comunità, essere famiglia: perché – ha notato il cardinale - se non siamo famiglia difficilmente aiuteremo le famiglie».
La rotta in qualche modo è tracciata, anche se non definita, come ha ben sottolineato monsignor Valentino Bulgarelli, segretario del Comitato nazionale del Cammino sinodale: «Non c’è un documento scritto nei cassetti, lo stiamo costruendo assieme», ha notato il sacerdote riferendosi alla fase di rielaborazione delle sintesi e poi di confronto nelle diocesi che si svolgerà nei prossimi mesi fino alla seconda Assemblea sinodale.
Un lavoro da vivere nella gioia: ad auspicarlo è stato, durante la preghiera delle Lodi che hanno aperto l’ultima giornata di lavoro, il vescovo di Cassano all’Jonio, Francesco Savino, vicepresidente della Cei: «Di quanta gioia abbiamo bisogno! Essa manca, ci insegna papa Francesco, quando restiamo una Chiesa autoreferenziale – ha notato nella sua meditazione –. Uccidono la gioia le prudenze ipocrite, quelle tese a non perdere favori e vantaggi, a non avere noie coi potenti. Uccidono la gioia gli eterni rinvii, il far finta di non avere sentito, il rinviare di commissione in commissione, la bugia insistente che “i problemi sono altri”: sono sempre altri, mai quelli che il popolo ha inteso, mai quelli che hai visto tu, mai quelli che ci caricano di voglia di rimboccarci le maniche e lavorare insieme». E poi un appello forte a laiche, laici: «In forza del vostro Battesimo scuotete la nostra Chiesa perché il clericalismo sia vinto. Esso imprigiona anche noi vescovi e tanti bravi preti in un sistema di sicurezze e di distanze, di temporeggiamenti e di rinvii a fronte dei quali abbiamo gente che muore, italiani che non sanno cosa sperare, migranti criminalizzati e deportati, diritti calpestati e doveri dimenticati, carismi soffocati e profeti isolati».
«Desidero che i miei amici incontrino Gesù in modo semplice, perché un incontro autentico è anche semplice, e semplicità spesso è sinonimo di cura – sottolinea Matteo Spadini, 20 anni, delegato alla Prima Assemblea sinodale per la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, uscendo dalla Basilica di San Paolo fuori le Mura, durante una pausa dai lavori nei tavoli –. Non possiamo sbagliare comunicando in modo non comprensibile, e il Sinodo in questo può fare molto bene alla Chiesa».
Cento tavoli sinodali e, attorno a ciascuno, seduti uno accanto all’altro, tantissimi giovani che per un giorno intero si sono confrontati alla pari con vescovi, sacerdoti, religiosi, suore e laici adulti. L’ingresso della Basilica, che ospita fino a oggi la Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, ieri si è riempito delle voci dei circa mille delegati, dalle diocesi di tutto il Paese, al lavoro insieme sulle 17 Schede tematiche. Proprio dalle parole dei giovani sono emerse la grande passione per la realtà ecclesiale e le spinte più forti verso un cambiamento sempre più urgente.
«La vita cristiana deve arrivare a toccare la quotidianità dei giovani, altrimenti non ha senso», continua Matteo che studia all’università e fa parte della Pastorale giovanile. L’Assemblea gli sembra lo specchio di una Chiesa autenticamente sinodale, che fa sedere un giovane «allo stesso tavolo di un vescovo per confrontarsi su come portare agli altri Gesù nella maniera migliore». Quella che sogna è una comunità cristiana «che riesca a parlare alla ferialità di ciascuno, nelle sue sfumature più luminose e più buie». Un’ultima sottolineatura riguarda la comunicazione. «Mi stanno a cuore le modalità con cui la Chiesa sceglie di raccontare le questioni più importanti della vita – conclude Matteo –, troppo spesso resta ingessata nella formalità».
Sul tema dell’attenzione alla marginalità, invece, si sofferma Giulio Lago, che ha 25 anni, nella vita fa lo psicologo ed è delegato della diocesi di Vicenza. «La Chiesa che sogno è una casa per tutti – racconta –, che rimette al centro chi è spinto ai margini della società. Una Chiesa che sappia tornare al messaggio autentico di Gesù, che non ha parlato solo a una categoria di persone e non ha mai emarginato nessuno». E poi aggiunge: «La società sta cambiando, stanno nascendo forme nuove di pensiero, e ci viene chiesto di cambiare mentalità sulle questioni giovanili, sui migranti, sulle nuove forme di affettività e sul supporto alle famiglie. Come Chiesa dobbiamo raggiungere questi “ambienti”, dovremmo “uscire” come ci chiede papa Francesco, uscire talmente tanto da rischiare anche di starci male».
E “uscire” è cosa da cuori giovani e appassionati, come ha ricordato lo stesso Pontefice ieri all’udienza per i vent’anni del Consiglio nazionale dei giovani. «È importante dunque sapere che i giovani italiani sanno essere artigiani di speranza perché sono capaci di sognare – ha sottolineato il Papa –. Per favore, non perdete la capacità di sognare: quando un giovane perde questa capacità, non dico che diventa vecchio, no, perché i vecchi sognano. Diventa un “pensionato della vita”. È molto brutto. Per favore, giovani, non siate “pensionati della vita”, e non lasciatevi rubare la speranza!».
Antonina Bommarito, invece, ha 23 anni e studia Beni culturali all’Università di Palermo. È a Roma come delegata dell’arcidiocesi di Monreale. «A toccarmi più di tutti è il tema della missione – spiega la giovane, che fa parte del Cammino neocatecumenale – soprattutto perché molti ragazzi non credono più nella Parola, non pensano sia utile per la vita». Nel suo tavolo di lavoro, il tentativo è stato quello di «cercare un metodo per far riscoprire la bellezza del Vangelo che è una Parola di felicità, di gioia, di libertà». Quella che desidera Antonina è una Chiesa «che sappia ascoltare tutti e lasciare che tutti possano esprimersi, andando incontro in prima persona a chi è lontano». Una richiesta importante, poi, è per il mondo adulto. «Spesso i giovani vengono messi a tacere dai più grandi, come se i loro problemi non fossero mai all’altezza. Invece molti di noi vivono sofferenze anche nuove, esistenziali, profondissime e servirebbe un ascolto che non giudica».
La Chiesa che sogna Pasquale Ciuffreda, che ha 26 anni ed è delegato dell’arcidiocesi di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo, è una Chiesa «permeabile all’umano, che si lascia “attraversare” dal vissuto degli uomini e delle donne, e che sa ascoltare le domande di senso dei giovani». Una Chiesa sinodale, dunque, che «parli con la prima persona plurale: il noi. Un “noi” in cui tutti possiamo essere protagonisti, dove tutti siamo sullo stesso livello, dove le nostre idee sono messe a disposizione di tutti, per essere davvero Chiesa missionaria». I giovani, aggiunge Pasquale che vive il suo cammino di fede in Azione Cattolica, «ci chiedono di essere più attraenti, perché molte volte non sappiamo essere una Chiesa gioiosa, che sa contagiare con la felicità. La sfida, per giovani e adulti, è quella di mettersi in dialogo con queste persone, un dialogo che spesso non è fatto di parole ma di gesti, di emozioni che sanno fare breccia nei cuori».
«La Chiesa che sogno è aperta all’accoglienza, è gioiosa, lieta e sempre in cammino verso gli altri, testimoniando con i fatti l’amore di Cristo – afferma Maria Chiara Galli, 26 anni, delegata dell’arcidiocesi di Modena-Nonantola –. Vorrei che non avessimo paura del confronto e che usassimo i termini giusti, chiamando le cose con il loro nome, senza giri di parole. Termini che incarnino il momento che stiamo vivendo. Ecco, sono convinta che questa Assemblea darà molti frutti, porterà a molti cambiamenti, senza snaturare la bellezza di ciò che siamo».
«L’introduzione della seconda edizione del Messale Ambrosiano è occasione per riprendere il tema del celebrare, per rendere le celebrazioni attrattive e edificanti per tutto il popolo di Dio». Inoltre: «Il Messale può essere illuminante anche per la preghiera personale. Per noi ambrosiani, la ricchezza dei prefazi è un’autentica miniera di spiritualità». Così l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, scriveva nella proposta pastorale 2024-2025 Basta. L’amore che salva e il male insopportabile.
Ebbene: il giorno è arrivato. Oggi – 17 novembre, prima Domenica dell’Avvento ambrosiano – entra in vigore il nuovo Messale. O, più precisamente, la seconda edizione del Messale Ambrosiano, la cui prima edizione – realizzata durante l’episcopato del cardinale Giovanni Colombo – risale al 1976, mentre l’ultimo aggiornamento è del 1990 - quando era arcivescovo il cardinale Carlo Maria Martini.
Annunciata da Delpini lo scorso 20 febbraio, in Duomo, al termine della celebrazione penitenziale quaresimale per il clero, la seconda edizione è stata promulgata il 28 marzo, Giovedì Santo, durante la Messa Crismale. Oggi alle 17.30 in Cattedrale Delpini presiede la Messa della prima Domenica d’Avvento (nel corso della quale si ricorda anche l’80° di Coldiretti: diretta su chiesadimilano.it e sul canale YouTube della diocesi). E si servirà del nuovo Messale: che lo stesso presule – ieri sera nella chiesa dell’oratorio San Rocco di Seregno (Monza), in occasione della veglia d’inizio Avvento con i 18 e 19enni – ha idealmente consegnato ai giovani della diocesi perché se ne facciano “ambasciatori” nelle comunità.
La seconda edizione del Messale sarà utilizzata non solo nelle parrocchie di rito ambrosiano dell’arcidiocesi di Milano, ma anche nelle parrocchie delle diocesi di Bergamo, Lodi, Lugano e Novara che seguono lo stesso rito. Il libro liturgico – ricorda inoltre una nota diffusa dall’arcidiocesi – è stato inviato ad altre chiese fra cui le quattro Basiliche papali maggiori, a Roma, la basilica di San Francesco ad Assisi, i santuari mariani di Loreto, Lourdes e Fatima, la Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme e quella della Natività a Betlemme.
Il nuovo Messale – che ha comportato anche un intervento di ripensamento grafico – è il frutto di un importante lavoro di revisione che ha riguardato sia la composizione sia il contenuto. Le novità qualificanti? Anzitutto: la riorganizzazione del Tempo Ordinario, le cui 32 domeniche – in linea con la nuova scansione dell’Anno Liturgico – sono state ripartite nei Tempi “dopo l’Epifania” (dall’Epifania alla Quaresima) e “dopo Pentecoste” (dalla Pentecoste all’Avvento). L’introduzione di nuovi santi e beati ha inoltre reso necessario un aggiornamento del Santorale o “Proprio dei Santi”. Ora, dunque, ci sono le Messe complete di figure care ai fedeli ambrosiani come santa Gianna Beretta Molla (28 aprile), san Paolo VI (30 maggio) e i beati Alfredo Ildefonso Schuster (30 agosto) e Carlo Gnocchi (25 ottobre). Sul piano dell’aggiornamento del linguaggio: alcuni testi liturgici sono stati rivisti per renderli più attuali e vicini alla sensibilità contemporanea. Sul versante dei nuovi testi liturgici: sono stati introdotti nuovi brani, come un secondo prefazio per la domenica della Santissima Trinità, e la Messa “Chiesa dalle genti”, arricchendo e rinnovando così la preghiera liturgica ambrosiana. Una particolare attenzione è stata inoltre posta alla revisione delle Messe per i defunti. L’obiettivo: esprimere meglio il senso della morte e l’annuncio della speranza cristiana nella vita futura.
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«Padre, fonte della vita, con umiltà e umiliazione ti consegniamo la vergogna e il rimorso per la sofferenza provocata ai più piccoli e ai più vulnerabili dell’umanità e ti chiediamo perdono». Fanno abbassare lo sguardo, risuonano sotto la pelle e toccano le profondità del cuore queste parole pronunciate nella maestosa e solenne cornice della Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma. Parole che segnano la sera romana, poco dopo il tramonto, ieri sera, quando tutti i delegati dell’Assemblea sinodale delle Chiese in Italia le hanno pronunciate assieme: cardinali, vescovi, preti, diaconi, religiose, religiosi, laiche e laici, uniti in questa richiesta di perdono per una delle macchie più gravi e pesanti nel cammino della Chiesa. Hanno un peso, quelle parole, perché lì, in quell’aula che per tre giorni si è animata di tutta la bellezza della vita ecclesiale, ci sono idealmente tutti, a partire da quei pastori, che per loro mandato hanno il compito di vegliare sulle persone che si affidano alla comunità cristiana, specie i piccoli e i fragili.
Ed è proprio sfruttando quel senso di affidamento e di fiducia che chi compie abusi genera ferite profonde non solo nelle vittime, ma anche in chi appartiene alle rete di relazioni delle vittime, come i familiari. Ecco perché «Ritessere fiducia» è il tema scelto per questa quarta Giornata nazionale di preghiera per le vittime di abusi, che si terrà domani. Una ricorrenza che la Chiesa italiana, però, ha voluto anticipare proprio con le preghiera dei Vespri di ieri sera, alla fine delle giornata centrale di lavori della prima Assemblea sinodale.
Di fronte al dramma degli abusi, ha detto il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, nell’omelia durante i Vespri, «non volgiamo lo sguardo da un’altra parte», perché «uno strappo come l’abuso non può essere sanato da una nuova toppa ma solo da una nuova veste, da un cambiamento radicale di cultura, di metodo, di cuore, un cambiamento che richiede l’infinita pazienza del dolore espresso e ascoltato, la speranza alimentata e valorizzata, la fiducia riannodata».
La celebrazione di ieri sera, ha spiegato alla stampa Chiara Griffini, presidente del Servizio nazionale per la tutela dei minori della Cei, «è stata un gesto importante e doveroso. Nella fase narrativa si sono costituiti 50mila gruppi di ascolto – ha sottolineato Griffini – e dalla sintesi di questo capillare lavoro sul territorio è emersa la forte richiesta di saldare il debito di ascolto con coloro che sono stati feriti dagli abusi nella Chiesa. La preghiera per le vittime all’Assemblea, quindi, è un passo in questa direzione, è un passo per aiutare a ritessere la fiducia ed esprime un impegno più deciso da parte della Chiesa italiana a rendere sempre più sicure le comunità cristiane, non solo per i minori – ha chiosato Griffini – ma per chiunque ne incroci il cammino».
Il materiale di riflessione per la quarta Giornata nazionale di preghiera e sensibilizzazione per le vittime e i sopravvissuti agli abusi, in particolare il commento biblico, è stato preparato da persone che stanno cercando con fatica di ritessere la fiducia spezzata in loro da abusi subiti in prima persona o dai loro figli da parte di sacerdoti e operatori pastorali laici. «È un gruppo di persone che incontra regolarmente la presidenza e la segreteria della Cei e da questi incontri sono nati, in maniera spontanea, questi testi: non si può pregare per le vittime senza dare voce alle vittime – ha sottolineato ancora Chiara Griffini –. E nel cammino di preparazione alla Giornata questo gruppo ha riconosciuto un impegno importante nella cura delle ferite. Una via – ha concluso la presidente del Servizio per la tutela dei minori – che non può sostituirsi ai necessari procedimenti giuridici, ma che è necessaria per accompagnare chi vive questo dolore».
Il cambiamento richiesto, ha notato da parte sua Baturi, «è possibile imparando ad amare gratuitamente i nostri piccoli, senza possessività e violenza, senza alcuna pretesa. La vita nostra per la loro felicità. Per noi, oggi, tale cambiamento è parte della grazia della fede, della scelta di seguire il Signore per guardare i piccoli come lui li guarda, per amarli come lui li ama. Così la gratitudine della fede diviene cura. Guardiamo questa immagine posta davanti a noi – ha concluso l’arcivescovo –: sappiamo essere gli occhi, gli orecchi, le braccia di Cristo per ogni piccolo affidato alle nostre cure».
La preghiera del povero
Papa Francesco, nell’anno 2017, ha istituito la Giornata Mondiale dei Poveri intendendo così essere risposta della Chiesa intera ai poveri (dolore, emarginazione, sopruso, violenza, torture, prigionia e guerra, privazione della libertà e della dignità, ignoranza e analfabetismo, emergenza sanitaria e mancanza di lavoro, tratta e schiavitù, esilio e miseria) perché non pensino che il loro grido sia caduto nel vuoto. Ecco i temi delle Giornate Mondiali dei Poveri:
Il 13 giugno 2024, nella memoria liturgica di S. Antonio da Padova, patrono dei poveri, papa Francesco ha inviato alla Chiesa universale un messaggio molto bello per l’VIII Giornata Mondiale dei Poveri dal titolo «la preghiera del povero sale fino a Dio» (Sir 21,5). Il testo biblico mette in evidenza come i poveri hanno un posto privilegiato nel cuore di Dio, a tal punto che, davanti alla loro sofferenza, Dio è “impaziente” fino a quando non ha reso loro giustizia. Nessuno, proprio nessuno è escluso dal suo cuore!
La giornata mondiale dei poveri è diventata un appuntamento annuale che invita ogni credente e ogni comunità ad ascoltare la preghiera dei poveri, prendendo coscienza della loro presenza e necessità. Ascoltare i poveri significa anche essere discepoli dei poveri; sì possiamo andare alla scuola dei poveri! Essi, in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, remano contro corrente evidenziando che l’essenziale per la vita è ben altro.
Nel suo messaggio, Papa Francesco ci invita, in cammino verso l’Anno Santo 2025, a custodire «i piccoli particolari dell’amore» nella fedeltà quotidiana: fermarsi, avvicinarsi, dare un po’ di attenzione, un sorriso, una carezza, una parola di conforto...
Un aspetto, a mio parere molto importante, è richiamato al n. 5 del messaggio del Papa: la preghiera. “Abbiamo bisogno di fare nostra la preghiera dei poveri e pregare insieme a loro. È una sfida che dobbiamo accogliere e un’azione pastorale che ha bisogno di essere alimentata. In effetti, la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria”.
Mani per la preghiera
Il quarto centenario della fondazione della Congregazione della Missione è, non solo per i Missionari vincenziani ma per tutta la Chiesa, per tutti i credenti un invito alla preghiera, ad avere mani per la preghiera.
Anche in questa seconda riflessione vi propongo un dipinto su tela Uomo in preghiera dell’artista bosniaco, fuggito dall’assedio di Sarajevo, durante la guerra nei Balcani degli anni ’90, Safet Zec. L’artista raffigura un uomo che proprio nella preghiera, trova la luce e la speranza nell’oscurità.
Questa immagine può essere accompagnata dall’icona biblica della guarigione del sordomuto (Marco 7,32-37): «Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: "Effatà", "Apriti"».
Il testo biblico rivela che il profondo legame tra l’amore a Dio e l’amore al prossimo deve entrare anche nella nostra preghiera. In Gesù, vero Dio e vero uomo, l’attenzione verso l’altro, specialmente se bisognoso e sofferente, Lo portano a rivolgersi al Padre, in quella relazione fondamentale che guida tutta la sua vita. Ma anche viceversa: la comunione con il Padre, il dialogo costante con Lui, spinge Gesù ad essere attento in modo unico alle situazioni concrete dell’uomo per portarvi la consolazione e l’amore di Dio. La relazione con l'uomo ci guida verso la relazione con Dio, e quella con Dio ci guida di nuovo al prossimo.
Vincenzo de’ Paoli tra servizio e preghiera
Vincenzo, toccato dalla vicinanza con i poveri, ebbe su di loro uno sguardo teologico, uno sguardo cioè che Dio, nella storia della salvezza, ha mostrato di avere verso il popolo dell’alleanza, ridotto in miserevoli condizioni: lo sguardo onnicomprensivo dell’amore di misericordia, che e` stato reso trasparente e inconfondibile dallo sguardo con cui Gesu` accarezzava peccatori, sfortunati e deboli.
I poveri divengono per Vincenzo il punto maggiormente sensibile della sua coscienza, al cui contatto il suo spirito vibrava. Jean Calvet (un suo biografo) scrive: “Egli sentiva, credeva che realmente, senza metafora, il mendicante, lo straccione era suo fratello. Se tutti i giorni faceva sedere alla sua mensa due poveri della strada e voleva servirli lui stesso e` perche´ vedeva in loro Gesu` Cristo, ma prima di tutto e` perche´ vedeva in loro i suoi fratelli. E poiche´ fratelli infelici, pensava che meritassero questo sguardo particolare: li considerava suoi “padroni e signori”[1].
Ritraducendo con altro linguaggio una sua esortazione in favore dei poveri, possiamo riascoltarlo in queste parole: “Guardate i poveri, osservateli bene. Sono rozzi, abbruttiti dal dolore e dalla fame. Sporchi. Non hanno quasi l’apparenza umana. Eppure, girate la medaglia e vi vedrete l’immagine del Figlio di Dio, che ha assunto nella sua passione in croce quel loro volto sfigurato e umiliato!”[2].
Per Vincenzo, ogni povero era un volto carico di storia. Un volto da decifrare e da amare con tenerezza e cordialità riconoscendo il mistero stesso del Dio che si e` fatto uomo ed ha condiviso il disagio dell’umano.
A tal proposito, ricordo un testo tratto dal Regolamento della Carità femminile di Montmirail dove Vincenzo educa al servizio e alla preghiera: Entrando da un malato lo salutera` amabilmente, poi avvicinandosi al letto con un volto modestamente lieto, l’invitera` a mangiare, gli alzera` il cuscino, accomodera` la coperta, mettera` il tavolinetto, il tovagliolo, il piatto, il cucchiaio, pulira` la ciotola, versera` la minestra, mettera` la carne nel piattino, fara` dire la preghiera di benedizione al malato e prendere la minestra, gli tagliera` la carne apezzetti, lo fara` mangiare dicendogli qualche parolina santamente allegra e di conforto per rallegrarlo, gli versera` da bere, lo invitera` di nuovo a mangiare. Finalmente, quando avra` finito il pranzo, dopo aver lavato piatti e posate, piegato il tovagliolo e tolto il tavolinetto, fara` dire la preghiera di ringraziamento al malato, e subito lo salutera` per andare a servire un altro[3].
Non dimentichiamo che il povero, la gente, le “cose da fare” non distolsero Vincenzo dal cuore della sua esperienza con Dio, nella preghiera: Dedito continuamente alla preghiera, non era distratto dalla contemplazione dei misteri divini, ne´ dalla gente, ne´ dagli affari, ne´ da cose liete o tristi: infatti teneva Dio sempre presente nella sua mente, e con grande impegno e sante industrie era riuscito a far si` che tutte le cose che si presentavano ai suoi occhi gli richiamassero alla mente il loro Creatore; esprimendo a modo loro la gloria di Dio e le lodi divine, lo spingevano alla contemplazione della bellezza celeste. Percio` era sempre modesto, mite, mansueto e benigno, conservando in tutte le cose una meravigliosa uguaglianza di spirito: non si lasciava esaltare dalle cose liete ne´ turbare dalle avversita`, poiche´ poteva dire col profeta: “Avevo sempre Dio davanti ai miei occhi perche´ egli e` alla mia destra affinche´ non sia scosso”.
Conclusione
Il Signore ci conceda di essere capaci di una preghiera sempre più intensa, per rafforzare il nostro rapporto personale con Dio Padre, allargare il nostro cuore alle necessità di chi ci sta accanto e sentire la bellezza di essere «fratelli nel Figlio» (Lumen gentium, 62) per costruire fraternità e amicizia sociale (Fratelli tutti, 6).
Le parole da mettere al bando: “si è sempre fatto così”, immobilismo, individualismo, lettura negativa. Quindi paura. Le parole, invece, da promuovere: Chiesa in uscita, ascolto, cammino, compagni di strada, sinodalità, conversione pastorale, sguardo positivo sui fenomeni sociali. Parlando con i mille delegati che nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, a Roma, stanno partecipando alla Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, il primo cambiamento che si coglie è quello del vocabolario. E poiché per chi crede in Cristo le parole sono importanti, non si tratta solo di un cambiamento formale. In questo caso, verrebbe da dire, la forma è sostanza.
Milena Libutti, delegata della diocesi di Palermo, mette l’accento sul «momento veramente straordinario per la Chiesa che stiamo vivendo. Un tempo che segnerà importanti cambiamenti». L’esempio più lampante è la diversità di sguardo. «Stiamo leggendo questo tempo con occhi positivi e siamo testimoni di sinodalità. In questi giorni sediamo allo stesso tavolo, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici uomini e donne. E parliamo tutti in virtù di un ministero battesimale. Mi sembra bellissimo poterci confrontare così. Solo cinque anni fa una cosa simile non riuscivamo neanche a immaginarla. E allora di tutto questo bene dobbiamo essere testimoni anche all’esterno. Il senso di comunità che respiriamo qui possiamo offrirlo al mondo come antidoto all’individualismo imperante. Perché ancora oggi il Signore semina il bene nella storia dell’uomo».
La parola che Simona Pancaldo, delegata della diocesi di Albano, mette in evidenza è domanda. Anzi, domande. «Dobbiamo chiederci che cosa serve oggi per entrare in relazione con l’uomo di questo tempo. Riconoscere i bisogni spirituali e le urgenze. E rinnovare il modo di entrare in relazione con le persone». In altri termini «la Chiesa deve cambiare il proprio linguaggio e le prassi di evangelizzazione». Come? «Uscendo per portare il Vangelo là dove ci si dovrebbe occupare del bene di tutti. Tornare ad abitare i luoghi della cultura, della politica, della società civile, essere capaci di influenzare le decisioni fondamentali».
Ma per fare questo, serve appunto una conversione pastorale. Marcello Musacchi, della diocesi di Ferrara-Comacchio, nell’Assemblea svolge la funzione di facilitatore. Deve cioè mettere tutti a proprio agio nello scambio di idee intorno al tavolo. «Sta emergendo – sottolinea – una triplice conversione: soggettiva (la nostra idea di cristianesimo deve essere più aperta e meno radicata al “si è sempre fatto così”), comunitaria (“perché la prima forma di comunicazione, soprattutto verso gli altri, è la comunità e quindi se noi non viviamo per primi la comunità, le nostre parole perdono efficacia”) e poi strutturale. È un impegno grande. In sostanza dobbiamo cambiare il nostro modo di entrare in contatto con gli altri. Fare meno gli arrivati ed essere soprattutto persone comunicano cominciando dall’ascolto». Secondo Musacchi «si ascolta ancora poco». Un aspetto che ne influenza altri. Il facilitatore lo esprime così: «Siamo stanchi di essere fuori dalla cultura, dobbiamo ricominciare a dire delle cose importanti sul piano sociale e politico. Ma per fare questo bisogna percorrere le strade polverose delle crisi esistenziali e delle grandi domande della gente».
Alla necessità di concretezza, dopo tre anni di lavoro, si richiama anche Marco Peduzzi della diocesi di Biella. «Vedo l’urgenza di far fronte all’emorragia di uomini e donne che si allontanano dalla comunità ecclesiale e più in generale proprio dalla fede cristiana. Negli anni Settanta del secolo scorso uno slogan in voga era “Cristo sì, la Chiesa no”. Oggi il no si è esteso anche a Cristo. Di qui la necessità di puntare tutto nuovamente sulla centralità di Gesù, dando valore ai germogli che già ci sono».
Per Nunzia Lestingi, delegata della diocesi di Fabriano-Matelica, il fenomeno degli abbandoni è particolarmente accentuato tra i giovani, ma è un segnale che va interpretato. «Secondo me ci stanno chiedendo di uscire fuori dalla nostra comfort zone (la parrocchia, i gruppi, le chiese di pietre), per raggiungerli nei luoghi in cui essi trascorrono le loro giornate, per imparare i loro linguaggi e ascoltare ciò che vogliono. Che poi è esattamente quello che faceva Gesù, andando in mezzo alla gente». Il cantautore Ultimo ha detto di non conoscere nessuno che vada in Chiesa o voti. «Non stento a crederlo – riprende Nunzia –. Tradotto, vuol dire che i luoghi istituzionali come possono essere le chiese e i posti del voto i giovani non li riconoscono più come propri. Sicuramente c’è da fare un grande lavoro di cultura, che attingendo al tesoro della tradizione, sappia parlare a queste persone con un linguaggio nuovo. Non dobbiamo avere paura di essere come i primi cristiani che hanno annunciato il Vangelo in un mondo pagano».
Don Paolo Pala, delegato della diocesi di Tempio-Ampurias, riassume così ciò che finora è emerso. «Abbiamo preso coscienza, come dice il Papa, di essere in un cambiamento d’epoca, di essere minoranza, ma soprattutto della necessità di farci compagni di strada degli uomini e delle donne del nostro tempo. Questo ci porta verso un’azione pastorale di risposta, piuttosto che di proposta. Risposta – spiega il sacerdote – a tutte le domande che emergono: dalla questione della vita a quella di come intendere la fede, se in maniera privatistica o comunitaria». Parole nuove dunque. Perché la paura e la nostalgia del passato non abbiano più l’ultima parola.
La data indicata è il 9 novembre. Quel giorno le Chiese particolari, le diocesi sono invitate, anzi «esortate» a ricordare i santi e i beati, come anche i venerabili e i servi di Dio appartenenti ai rispettivi territori locali. Non si tratta di aggiungere una festa alla celebrazione dei patroni ma «di promuovere con opportune iniziative al di fuori della liturgia, oppure di richiamare all’interno di essa, ad esempio nell’omelia o in altro momento ritenuto opportuno, quelle figure che hanno caratterizzato il percorso cristiano e la spiritualità locali». Lo chiede il Papa in una Lettera nella quale sollecita le Conferenze episcopali a, «eventualmente», cioè senza obbligo, elaborare e proporre indicazioni pastorali e linee guida. Attraverso questo nuovo segno, in vigore dal 2025, le singole Comunità diocesane - scrive il Papa – avranno l’opportunità di «riscoprire o perpetuare la memoria di straordinari discepoli di Cristo che hanno lasciato un segno vivo della presenza del Signore risorto e sono ancora oggi guide sicure nel comune itinerario verso Dio, proteggendoci e sostenendoci».
Non una festa in più
La lettera è anche l’occasione per riproporre, alla luce dell’Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” la chiamata universale alla santità, richiamando l’esempio di quei santi della porta accanto, che magari senza clamori o gesti memorabili hanno testimoniato il Vangelo giorno dopo giorno., Cioè, aggiunge papa Francesco, «coniugi che hanno vissuto fedelmente il loro amore aprendosi alla vita; uomini e donne che nelle varie occupazioni lavorative hanno sostenuto le loro famiglie e cooperato alla diffusione del Regno di Dio; adolescenti e giovani che hanno seguito Gesù con entusiasmo; pastori che mediante il ministero hanno effuso i doni della grazia sul popolo santo di Dio; religiosi e religiose che vivendo i consigli evangelici sono stati immagine viva di Cristo sposo. Non possiamo dimenticare i poveri, i malati, i sofferenti che nella loro debolezza hanno trovato sostegno nel divino Maestro». Tutti noi, aggiunge il Pontefice, «siamo chiamati a lasciarci stimolare da questi modelli di santità, tra i quali emergono anzitutto i martiri che hanno versato il proprio sangue per Cristo e coloro che sono stati beatificati e canonizzati per essere esempi di vita cristiana e nostri intercessori. Pensiamo poi ai venerabili, uomini e donne dei quali è stato riconosciuto l’esercizio eroico delle virtù, a quanti in singolari circostanze hanno fatto della loro esistenza un’offerta d’amore al Signore e ai fratelli, come pure ai servi di Dio di cui sono in corso le cause di beatificazione e canonizzazione».
L'iter per diventare santi
Quanto all’iter per diventarsi santi, il primo passo è essere morti in fama di santità, cioè essere stati nell’opinione comune uomini e donne dalla vita integra, ricca di virtù cristiane. La prima fase della causa avviene a livello diocesano raccogliendo documenti e testimonianze su chi da questo momento è detto servo o serva di Dio. Terminata questa tappa la documentazione passa al dicastero delle cause dei santi che sovrintende, tramite un relatore, all’elaborazione della cosiddetta positio, il volume che sintetizza le prove raccolte. Se dall’esame fatto da un gruppo di consultori storici e teologi e poi dei vescovi e dei cardinali membri del dicastero, risulterà che il servo di Dio ha vissuto in modo eroico le virtù cristiane, egli sarà dichiarato venerabile. A questo punto per essere proclamato beato occorrerà un miracolo, cioè una guarigione inspiegabile scientificamente ottenuta per sua intercessione. Si viene infine riconosciuti santi una volta accertato un secondo miracolo. Fanno eccezione i martiri, cioè persone uccise a causa della loro fede, che vengono proclamati beati senza bisogno di un miracolo.
La Dedicazione della Basilica Lateranense
Tornando alla decisione del Papa, il 9 novembre si celebra la Dedicazione della Basilica Lateranense. Dedicazione compiuta da papa Silvestro I nel 324. Costruita dall’imperatore Costantino, la Basilica fu più volte distrutta e sempre ricostruita. L’ultima volta nel 1724 sotto il pontificato di Benedetto XIII. Fu allora che la festa della dedicazione venne stabilita ed estesa a tutta la cristianità.
Autorità (del vescovo o del parroco) e sinodalità non è detto che facciano rima. Anzi, spesso vengono viste in conflitto tra loro. Ma è proprio così? Don Matteo Visioli, docente di diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana e al San Pio X di Venezia, propone una lettura diversa e più approfondita della secca alternativa. «Quella della sinodalità è una dimensione attraverso cui il vescovo e il parroco possono esercitare la propria autorità – afferma lo studioso -. Ci possono essere tanti modi per esercitare questa autorità. C’è quello che il Sinodo dei vescovi ha definito “monarchico”, in un certo senso assoluto. E quello che il magistero di Francesco ci sta aiutando a comprendere, e cioè di una modalità di esercizio dell’autorità nella Chiesa portata avanti con stile sinodale».
Tradotto in termini pratici?
Significa che l’autorità resta in capo al vescovo e al parroco, i quali devono prendere le decisioni e devono assumersene la responsabilità ultima. Ma nel fare questo discernimento non sono svincolati dal popolo di Dio loro affidato. Sapendo che il popolo è a sua volta infallibile in credendo, dice la teologia cattolica, cioè che lo Spirito Santo parla al cuore non solo di alcune persone ma di tutti i battezzati. È un cammino ancora lungo, ma i passi compiuti finora sono promettenti.
Qual è il modello a cui riferirsi? Il Papa mi sembra abbia escluso quello delle assemblee parlamentari.
Sì, la sinodalità non è un parlamento, perché la Chiesa non è una democrazia, ma è mistero di comunione e quindi è abitata da altre dinamiche. Ma ciò non esclude, pur non potendo far valere il criterio della maggioranza nel prendere le decisioni, che il popolo di Dio possa essere consultato su alcune delle principali questioni la cui decisione resta in capo al vescovo o al parroco. Di solito le democrazie passano attraverso una fase di elaborazione, poi di votazione e la maggioranza prevale. Il fatto che la Chiesa non sia una democrazia non esclude che chi la governa ai diversi livelli possa chiedere la manifestazione di una volontà ai singoli fedeli che passa anche attraverso un voto, dopo un dibattito e il discernimento necessari. Questo non significa trasformare la Chiesa in una democrazia, ma vuol dire che chi governa necessita di acquisire una volontà anche attraverso lo strumento del voto.
Come intendere questo voto: deliberativo o consultivo?
È certamente consultivo. Io non condivido la tesi di chi lo vorrebbe deliberativo. Propendo maggiormente per una Chiesa che riduca la distanza tra il consultivo e il deliberativo cosicché chi governa, pur chiedendo un consiglio, sia chiamato a non distanziarsi da questo consiglio, soprattutto quando è prevalente, a meno che non vi siano ragioni di coscienza o veramente fondate per cui ci si debba discostare. Il consiglio in questo caso diventa vincolante perché basato sul fatto che il discernimento avviene attraverso tutto il popolo di Dio o una sua parte. E quindi chi ha l’autorità non può “tradire” l’orientamento del popolo di Dio anche se questo orientamento viene espresso attraverso un consiglio e non attraverso una deliberazione. Il mio desiderio sarebbe quello di poter crescere verso una maggiore rilevanza e dignità del consigliare nella Chiesa al punto da ridurre la distanza tra deliberazione e consiglio e quest’ultimo resti vincolante per chi deve decidere.
E nel caso in cui il consiglio vada palesemente contro la dottrina, la tradizione, il magistero?
Allora l’autorità è legittimata a discostarsi dalla maggioranza che si è espressa attraverso il voto. Ma deve rendere ragione del perché in coscienza non può seguire l’orientamento maggioritario del popolo di Dio. Dovrebbero però essere casi estremi.
Ma alla fine tutto questo gran discorrere di simili temi non è che nasconde, da parte di alcuni laici, la volontà di comandare di più e quindi avere più potere?
Dipende sempre dal valore che diamo alla parola potere. Se è l’esercizio della dignità battesimale posso dire sì: è una questione di potere, ma in senso positivo, cioè di potestà che coinvolge in modo attivo ogni battezzato nella vita della Chiesa anche nel suo momento decisionale. Se invece potere ha un valore negativo, come prevalentemente succede, allora cade tutto questo discorso, poiché non si può comprendere la sinodalità, soprattutto quando viene applicata al processo decisionale, se questa idea di potere in senso negativo in qualche modo la inquina. Il presupposto è l’esercizio di una potestà da parte di ogni fedele, laico o non laico, rispetto al battesimo che vive e che esercita con carismi e ministeri diversi. È vero però che i due concetti di potere spesso vengono confusi e questo può creare degli equivoci.
È corretto affermare che il discorso deve essere ricondotto alla comunione?
Certamente. La sinodalità è un’espressione della comunione ecclesiale, nel senso che la prima si comprende pienamente nella logica della comunione. Al di fuori di questa logica si cade in una questione di esercizio di potere che anziché illuminare può generare frustrazione in chi ha delle aspettative di un certo tipo e poi non le vede realizzate.
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«Il bene comune, alla base del pensiero sociale della Chiesa, riassume in sé tutte le condizioni che garantiscono la dignità umana che, come ho più volte chiarito, si concretizza in tre diritti inviolabili: la terra, la casa e il lavoro. In vista del Giubileo ho chiesto alla mia diocesi di dare un segno tangibile di attenzione alle problematiche abitative affinché, accanto all’accoglienza rivolta a tutti i pellegrini che accorreranno, siano attivate forme di tutela nei confronti di coloro che non hanno una casa o che rischiano di perderla. In questa prospettiva, desidero che tutte le realtà diocesane proprietarie di immobili, offrano il loro contributo per arginare l’emergenza abitativa con segni di carità e di solidarietà per generare speranza nelle migliaia di persone che nella città di Roma versano in condizione di precarietà abitativa».
Così scrive il Papa in una lettera per il Giubileo ai parroci, ai religiosi e al clero della diocesi di Roma. «Le istituzioni e le amministrazioni ai vari livelli – si legge ancora nella lettera – insieme alle associazioni e ai movimenti popolari, si stanno organizzando per rafforzare la risposta di accoglienza e di solidarietà verso questi fratelli e sorelle, operando in collaborazione tra istituzioni e società civile, e la Chiesa è chiamata a contribuire. [...] Le persone da accogliere saranno seguite dalle istituzioni e dai servizi sociali, mentre le associazioni e i movimenti popolari forniranno i servizi alla persona, le attività di cura e i beni relazionali che contribuiscono in modo fondamentale a rendere l’accoglienza degna e a costruire fraternità».
Con i suoi 30mila fedeli, quasi tutti stranieri, la comunità cattolica di Tunisia si colloca in una posizione di estrema minoranza in un Paese di 12 milioni di abitanti quasi esclusivamente musulmano La tradizione cristiana, però, è antichissima e sono molte e pregevoli le vestigia risalenti ai primi secoli dopo Cristo. In questi ultimi decenni, la Chiesa di Tunisia è cambiata molto. Ma l’impegno resta sempre lo stesso: rimanere aperta al dialogo e all’incontro, che si realizzano soprattutto nella presenza in vari contesti e nell’attenzione ai più deboli e vulnerabili, con uno sguardo rivolto anche ai popoli subsahariani che arrivano o transitano dal Paese e un altro al Mediterraneo verso il quale si avventurano pure molti giovani tunisini.
A guidare l’unica grande diocesi del Paese c’è, dallo scorso 4 aprile, l’arcivescovo Nicolas Lhernould, francese di 49 anni, che di questa Chiesa è “figlio”. È stato infatti ordinato qui nel 2004 e, dopo due anni come vescovo di Costantina in Algeria, è tornato a Tunisi.
Eccellenza, quali sono gli aspetti che caratterizzano la Chiesa tunisina?
«Ci sentiamo una famiglia e questo lo condividiamo con tutte le Chiese del Nord Africa. Quella della Tunisia, in particolare, è una famiglia che ha origini molto antiche. I primi martiri risalgono al II secolo. Ma è anche una Chiesa che è cambiata molto dopo l’indipendenza del 1956. Se un tempo era più francese e italiana, anche per la presenza di molti siciliani, adesso è davvero internazionale, multietnica e multiculturale. Siamo una Chiesa universale in miniatura».
Una ricchezza, ma anche una sfida.
«Non è sempre facile. È la bellezza dell’amore fraterno vissuto nella diversità e nella piccolezza. Siamo per molti versi una Chiesa fragile e parca di mezzi, sia in termini di personale sia di risorse economiche. Ma continuiamo a portare avanti la nostra testimonianza in questa realtà musulmana, anche attraverso alcune opere e piccole strutture».
Rispetto ad altre realtà del Nord Africa, in Tunisia è ancora permesso alla Chiesa di gestire alcune scuole. Come sono percepite dalla società tunisina?
«Abbiamo nove scuole, dalle materne alle medie, con circa seimila studenti. La nostra attività educativa è apprezzata. C’è fiducia. Noi seguiamo i programmi dello Stato, compreso l’insegnamento della religione musulmana. Vorremmo contribuire a crescere buoni cittadini e anche buoni fedeli nella loro religione, nell’apertura umana e culturale all’alterità».
Oggi però molti si lamentano che il livello generale dell’istruzione si stia abbassando, mentre cresce la sfiducia nel futuro anche a causa della crisi economica che sta mettendo in difficoltà molte famiglie. È così?
«L’educazione è sempre stata un pilastro del modello sociale tunisino. Ora, però, tante famiglie fanno fatica a mandare tutti i figli a scuola. E molti giovani pensano di poter avere un futuro solo altrove. È come se mancasse la speranza, malgrado una resilienza notevole del popolo tunisino in generale. Noi vorremmo lavorare per tenere viva e contribuire a sviluppare una speranza comune».
Quali forme di dialogo portate avanti con il mondo musulmano?
«Un proverbio di qui dice che “non si sceglie la casa ma il vicino”. Quindi crediamo molto nei rapporti della vita quotidiana come base per qualsiasi dialogo. Questo fa parte anche del nostro modo di radicarci in questa società, riconoscendoci autenticamente come cittadini del Paese. Dopodiché portiamo avanti anche alcune opere di carità che non vogliono in nessun modo avere un’impostazione paternalistica, ma che intendono aiutare le persone in difficoltà a rialzarsi e a riprendere in mano le loro vite».
In ambito culturale, l’Istituto delle belle lettere arabe (Ibla) dei Padri Bianchi resta un punto di riferimento?
«È certamente un luogo privilegiato di dialogo. Così come lo sono altre iniziative più specifiche come i centri culturali e le biblioteche della diocesi, o il Gruppo di ricerca islamo-cristiano (Gric)».
A livello di Conferenza episcopale del Nord Africa (Cerna), quali sono i punti comuni su cui state lavorando?
«Cerchiamo di portare avanti una riflessione teologica sulle tematiche della missione. La modalità in cui la viviamo noi – a partire dalle icone bibliche della Visitazione e dell’Epifania –, in un contesto in cui il nostro fratello è musulmano, significa innanzitutto essere dono gratuito per l’altro. È la nostra peculiarità».
Lei è impegnato anche nella teologia dal Mediterraneo. Quale contributo può dare la sponda Sud?
«Il processo voluto da papa Francesco nasce dalla consapevolezza che ci sono temi che ciascuna Chiesa e ciascun popolo non possono affrontare da soli, da quello dell’educazione alle questioni sociali, dalla giustizia e pace all’ecologia sino al dialogo interreligioso. Credo che questo percorso possa costruire fraternità e soluzioni concrete davanti alle sfide comuni, attingendo al meglio delle risorse umane e spirituali di ciascuno. È un’esperienza positiva di reciproca fecondazione di riflessioni e buone pratiche».
Un tema comune, molto sensibile, è quello dei migranti. In quale modo lo affrontate?
«Credo sia importante interrogarsi innanzitutto sulle cause profonde che spingono le persone a spostarsi e che riguardano spesso conflitti, crisi climatica, diseguaglianze, ma anche il desiderio di un “paradiso” che spesso non c’è. Dopodiché, per quanto ci riguarda, cerchiamo di mettere in campo la pastorale del Buon Samaritano, aiutando le persone che soffrono e provando a sollecitare i migranti a ritrovare una bussola e a domandarsi quale sia davvero il loro progetto di vita.
Si respira aria di Concilio nella Basilica di San Paolo II, dove il primo annuncio del Vaticano II venne dato da san Giovanni XXIII nel 1959. Ma si sente insieme anche il profumo del Giubileo della speranza, cioè del futuro. Di cui non bisogna avere paura, come scrive il Papa. Francesco ha inviato ieri un suo messaggio alla prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia, letto ai mille delegati dal cardinale presidente della Cei, Matteo Zuppi. I lavori, infatti, si sono aperti nel pomeriggio nel grande tempio romano dedicato all’Apostolo delle genti. Scrive dunque il Pontefice: «Non abbiate paura di alzare le vele al vento dello Spirito». E perciò i cattolici italiani sono «chiamati a guardare alla società in cui viviamo con uno sguardo di compassione per preparare il futuro, superando atteggiamenti non evangelici, quali la mancanza di speranza, il vittimismo, la paura, le chiusure. L’orizzonte si apre davanti a voi - esorta papa Bergoglio - continuate a gettare il seme della Parola nella terra perché dia frutto».
È un invito che risuona più volte nel corso dei lavori della prima giornata. A partire dal momento di preghiera ecumenico (nell’assemblea c’è la presenza di sette rappresentanti di Chiese cristiane in Italia), poi nei saluti monsignor Antonello Mura, vescovo di Nuoro e Lanusei (e membro della presidenza del Comitato del cammino sinodale), del cardinale James Harvey, arciprete della Basilica di San Paolo fuori le Mura, dell’abate dom Donato Ogliari «e naturalmente nell’intervento iniziale del cardinale Zuppi.
«Il Signore chi chiama e ci manda, oggi in questo mondo difficile e terribilmente sofferente che impaurisce e sembra cancellare il futuro», nota il porporato. Ma il suo è un messaggio di speranza. «In una società sempre più fratturata siamo chiamati a rammendare quel tessuto di relazioni e di umanità che costituisce il patrimonio vero del nostro Paese, le sue radici più profonde». È vero, c’è la guerra («cui «non vogliamo abituarci», forse «preghiamo troppo poco per la pace») e nella società italiana cresce il clima conflittuale: «La spietata avanzata del numero dei femminicidi, la crescita della violenza tra i giovani, l’inasprirsi del linguaggio sempre più segnato dall’odio, i casi di antisemitismo, che non possiamo tollerare, sono come semi che da sempre il male getta nei cuori e nelle relazioni delle persone e contaminano i cuori e i linguaggi». È così che nascono i sentimenti cattivi. Un mondo di “Io” soli finisce facile preda di questi sentimenti. Persone con poca fede finiscono prigionieri della paura», sottolinea Zuppi.
Una strada per sottrarsi a tutto questo è il dialogo. «Fare qualcosa insieme, costruire insieme, fare progetti non da soli, fra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà». Anche nell’ambito politico. Il presidente della Cei spiega: «Non dobbiamo mai smettere di lavorare con pazienza e intelligenza per l’unità del nostro Paese, certo, nella laicità e nel pluralismo delle politiche e delle opinioni, ma sfuggendo alla banalizzazione della vita, al nichilismo, all’aggressione e alla contrapposizione come modalità del parlare e del decidere». La Chiesa è madre di tutti, sottolinea il porporato. «Leggere e qualificare le sue posizioni in un’ottica politica, deformando e immiserendo le sue scelte a convenienze o partigianerie, non fa comprendere la sua visione che avrà sempre al centro la persona senza aggettivi e limiti». Come Chiesa, aggiunge il cardinale, «di tempo in tempo, con la nostra esperienza umana dell’Italia, maturata tra la gente, esprimiamo “preoccupazioni” che non sono mai per dividere o alimentare contrapposizioni, ma per fortificare quel bene comune che esiste e che va perseguito e difeso».
Tra le preoccupazioni più urgenti il presidente della Cei indica la denatalità, «che ha raggiunto livelli preoccupanti». Eppure, fa notare, «tutti sappiamo che non basta combattere la denatalità senza una cultura della speranza nel futuro e senza preoccuparci di evitare l’emorragia di giovani dal nostro Paese e dalle aree interne. Il futuro dipende dalle politiche in favore della natalità, ma anche da politiche della casa, da politiche attive del lavoro e da autentiche politiche di integrazione dei migranti: tutti questi aspetti insieme saranno in grado di generare un’alba nuova all’orizzonte».
La Chiesa non vuole restare nelle sagrestie. Anzi, insiste Zuppi davanti all’assemblea in cui sono presenti anche il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il nunzio in Italia, l’arcivescovo Petar Rajic, vuole essere «più partecipativa e missionaria». E su questo panorama si staglia l’orizzonte del Giubileo. « Quante ombre lunghe del pessimismo, dello scetticismo, ma anche del nichilismo si stendono sulla vita - dice Zuppi -. È la sfida: camminare con speranza con tanti italiani e italiane, con tanti credenti magari un po’ spenti o rassegnati. Una nuova passione per il mondo deve percorrere le vene delle nostre comunità. Una nuova passione per il mondo deve percorrere le vene delle nostre comunità»., conclude Zuppi.
Parole che trovano un’eco anche nell’intervento di Erica Tossani della presidenza del Comitato nazionale. «Siamo qui per questo - sottolinea - perché è la passione per l’umanità e il Vangelo che ci brucia dentro».
A metà del decennio la Chiesa italiana raccoglie le proprie forze migliori per gettare il cuore oltre l’ostacolo, ri-progettarsi e tracciare rotte per continuare a dare risposte agli interrogativi più profondi delle donne e degli uomini del nostro tempo. E aiutarli così a orientare la loro vita e quella del Paese. Lo fa dandosi appuntamento a Roma, nella basilica di San Paolo fuori le Mura, per la prima Assemblea sinodale. Un evento che rappresenta un ulteriore concreto passo decisivo nel Cammino sinodale partito quattro anni fa con l’intento, come auspicato più volte da papa Francesco a partire dall’enciclica Evangelii gaudium, non di occupare spazi ma di avviare processi.
Testimoni di questo movimento, che ha coinvolto centinaia di migliaia di persone, saranno i circa mille delegati dell’Assemblea: tra loro, oltre ai vescovi, saranno presenti i componenti del Comitato del Cammino sinodale, i delegati di ciascuna Chiesa locale e alcuni membri designati dalla presidenza della Cei. Le loro voci e le loro storie s’incroceranno in un incontro, che, come spiegato dagli organizzatori, vuole prima di tutto essere «un’esperienza di Chiesa, un’occasione per costruire e curare relazioni».
Ecco perché l’intera dinamica che si è scelto di mettere al cuore del Cammino sinodale è quella della “piramide rovesciata”: non grandi documenti pensati nelle stanze di pochi responsabili, ma una raccolta di vita che parta dalla quotidianità di chiunque “viva la Chiesa” in qualsiasi modo. Questa visione ha guidato l’intero percorso, avviato nel 2021 e scandito in tre fasi: quella narrativa (2021-2023), quella sapienziale (2023-2024) e quella profetica (2024-2025).
Tutto facile, sereno e ben ordinato quindi? Per nulla: essendo il Cammino sinodale non un “evento a latere” della vita della Chiesa ma un’esperienza intensamente calata nell’ordinario svolgersi delle attività delle comunità locali, esso ne ha incrociato e assunto tutte le difficoltà e i rallentamenti. Ma in questo caso gli ostacoli hanno rappresentato una ricchezza in più, indicando con ancora maggiore chiarezza i nodi da sciogliere, le scelte da prendere con coraggio, le priorità da curare.
Ma come si è arrivati fin qui e di cosa parleranno i mille delegati a Roma, riuniti da oggi e fino a domenica? Come detto, il Cammmino è stato aperto nel 2021, ma di fatto ha le proprie radici nel Convegno ecclesiale di Firenze del 2015, quando il Papa invitò la Chiesa italiana a fare proprio lo stile sinodale, tornando sul tema anche nel 2019. In questo modo, di fatto, l’intero percorso raccoglie il compito, che per la Chiesa italiana hanno avuto i Convegni ecclesiali di metà decennio: fermarsi a fare il punto della situazione, mettere in file le priorità cui dare risposta, cercare il modo migliore per continuare a essere una presenza efficace tra la gente, nel cuore dell’Italia. Tutto questo, per il decennio degli anni ’20, quindi ha preso la forma di un’esperienza sinodale, scandita, appunto, in tre tappe, in grado di coinvolgere attivamente fin dai primi passi mezzo milione di persone.
E ha generato uno spazio, che ha messo in luce non solo le potenzialità e le risorse ma anche le «annose questioni che affaticano il passo», come sottolineano i documenti di sintesi: «Il clericalismo, lo scollamento tra la pastorale e la vita reale delle persone, il senso di fatica e solitudine di parte di sacerdoti e di altre persone impegnate nella vita della comunità, la mancanza di organicità nella proposta formativa, l’afasia di alcune liturgie». La consapevolezza condivisa è quella legata alla necessità di superare «una visione di Chiesa costruita intorno al ministero ordinato per andare verso una Chiesa “tutta ministeriale”, che è comunione di carismi e ministeri diversi».
Si parte da qui, quindi, per dare forma a un cambiamento concreto e non solo di facciata o di intenzioni. Lo ha ricordato bene anche Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale, in un’intervista ad Avvenire al termine dell’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi: «Per noi è questa la fase finale del Cammino sinodale, che poi sarà, speriamo, la fase iniziale di un rinnovamento. Raccogliamo i frutti di questi anni».
Questo pomeriggio, dopo i saluti del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, e di Erica Tossani, membro della presidenza del Comitato del Cammino sinodale, sarà proprio Castellucci a tenere la relazione introduttiva, mentre Pierpaolo Triani, membro della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro ai tavoli, cui sarà dedicata la giornata di domani.
A guidare il confronto saranno i Lineamenti, i cui contenuti (approfonditi in questi giorni anche da Avvenire attraverso diverse interviste) sono tutti orientati a una visione missionaria della Chiesa e riguardano numerosi temi come il rapporto con la cultura, i linguaggi della comunicazione e della liturgia, l’ascolto e la valorizzazione dei giovani, i percorsi di iniziazione cristiana, la formazione dei formatori, dei responsabili, dei sacerdoti, l’impegno nella carità, la ministerialità, gli organismi di partecipazione, la presenza, il servizio e i ruoli di responsabilità delle donne, l’organizzazione amministrativa, la riforma delle curie, la struttura sul territorio, la trasparenza nella rendicontazione. Dai tavoli di questi giorni uscirà uno “Strumento di lavoro”, che saranno offerti alle diocesi. La loro restituzione sarà al centro del dibattito della seconda Assemblea ecclesiale (31 marzo-4 aprile 2025), che produrrà delle “proposizioni” destinate al vaglio della prossima Assemblea generale della Cei, chiamata a poi a offrire delle indicazioni pratiche concrete. Ma anche quelle non saranno un punto di arrivo, bensì il punto di partenza di un cammino di cambiamento ormai non più rinviabile.
La Chiesa non sa parlare al mondo contemporaneo? Alla domanda posta dai ricercatori del Censis, nell’ambito della rilevazione sulla fede degli italiani, il 51,2% degli intervistati ha risposto positivamente. La proporzione è lievemente più alta tra le donne – 52,2% contro il 50,1% degli uomini – e fra i giovani sotto i 33 anni, 57%. Lo pensano soprattutto i cattolici non frequentanti – 56,1% – mentre fra i praticanti la percentuale cala nettamente al 29%. Quest’ultimo dato, però, non fa che ribadire un fatto: la comunità ecclesiale ha difficoltà a narrarsi nel senso più autentico oltre il ristretto circuito degli intimi. Non riesce a farsi prossima – con la parola e con la testimonianza – a quanti sono considerati più lontani.
Si potrebbe parlare di un problema di comunicazione. Il punto è che, nell’accezione standard, viene impiegato troppo spesso come sinonimo di marketing. Il racconto come un “make up” per rendere attraente agli occhi di eventuali clienti un dato prodotto nel mercato della fede. Non è questa la comunicazione che alla Chiesa fa difetto e di cui deve appropriarsi o, meglio, riappropriarsi. Da questa convinzione – emersa con forza dall’ascolto delle diocesi e delle realtà locali durante il biennio narrativo – il Cammino sinodale ha messo in moto un percorso di riflessione sul linguaggio e la comunicazione, oggetto di una delle cinque commissioni tematiche che hanno lavorato nella fase sapienziale. Dai territori era emersa la richiesta di un linguaggio meno paludato, retorico, avvitato su se stesso, che conservasse e restituisse la freschezza della Buona Notizia. Come trasformarla in prassi quotidiana? Il discernimento comunitario ha consentito di mettere a fuoco un concetto essenziale: la comunicazione non è questione di comunicazione. Riguarda – come si legge nel paragrafo 21 dei Lineamenti – «che cosa la Chiesa è disposta a mettere in comune con il mondo, che immagine ha di se stessa e cosa vuole raccontare».
La forma logora, dunque, rivela un nodo di sostanza da sciogliere. Il percorso di ascolto è stato un laboratorio per maturare uno stile più fedele al Vangelo. Porgendo l’orecchio alla «vita delle persone, con i suoi diversi linguaggi dettati dalle situazioni (gioie e fatiche, scelte e tappe, relazioni, lavoro, festa, affetti), la comunità cristiana può anche cambiare linguaggio: non per un semplice lavoro strumentale di adattamento e condiscendenza, ma per un esercizio spirituale di riconoscimento del vissuto umano come luogo teologico, in virtù del principio dell’incarnazione». Facendosi carne, il Creatore azzera la distanza con la creatura nella convinzione che, solo nel condividere un tratto di strada, possa avvenire quel mutamento del cuore – la metanoia – in cui il soggetto incontra la salvezza. Il modello, pertanto – che ha accompagnato nella riflessione anche i lavori della commissione incaricata di fare discernimento sul tema – è Gesù maestro anche di comunicazione. Dall’analisi dei suoi incontri con l’umanità del tempo, emerge un metodo peculiare – il metodo, appunto, che Dio adotta nei confronti dell’essere umano – in cui la forma esplicita la sostanza. A chiunque – Matteo il pubblicano, il giovane ricco, la Samaritana, l’adultera, il centurione – dà gratuitamente affetto, amicizia e considerazione. Non esige il cambiamento come pre-requisito della sequela. Ha e, per questo, dà fiducia all’interlocutore: l’occhio del Figlio – come l’occhio del Padre – vede chiaramente il peccato ma è capace di guardare oltre perché sa che chi gli sta di fronte è ben più del singolo sbaglio, pur grave o gravissimo. Quella dalla gabbia della condizione di peccatore è la grande liberazione del Maestro. La sola in grado di generare processi di conversione autentica. «Tutti, tutti, tutti», allora, non è un cedimento alla moda del momento. È fedeltà a Colui che era capace di riconoscere dignità a chi nemmeno riteneva di averne. Di non imprigionare l’altro in una definizione categorica. Di sfidare cliché culturali consolidati. Di dire la verità senza impiegarla come arma per ferire.
Un altro dato della ricerca del Censis è estremamente importante: il 72,2% degli intervistati ritiene la dimensione spirituale molto o abbastanza importante. Il cuore dell’umanità dell’Italia secolarizzata del Ventunesimo secolo continua ad avere sete di infinito. Archiviato il regime di cristianità, il cattolicesimo può e deve innaffiare i germogli di Regno sparsi nelle pieghe di questo cambiamento d’epoca.
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«Non posso fare a meno di sottolineare quanto sia toccante il fatto che il più famoso studioso di Cromwell al mondo stia per essere ordinato sacerdote cattolico». Chi fosse entrato per caso lo scorso 21 settembre nella Cattedrale di Norwich e avesse sentito anche solo queste parole dell’omelia del vescovo Peter Collins avrebbe capito che l’occasione era più che singolare, si può dire eccezionale. L’uomo a cui il pastore della diocesi di East Anglia si stava rivolgendo, seduto in camice bianco ai piedi dell’altare, era John Morrill, storico insigne, docente emerito all’Università di Cambridge, un’autorità sulla guerra civile inglese e in particolare sul leader dei puritani Oliver Cromwell. All’età di 78 anni, sotto gli occhi delle sue quattro figlie e di centinaia di fedeli, Morrill è diventato presbitero. «La seconda svolta della mia vita» ci dice al telefono.
Qual è stata la prima svolta, professore e ora reverendo Morrill?
La conversione al cattolicesimo. Sono nato nel 1946 vicino a Manchester in una famiglia anglicana. Mio padre lo vedevo spesso inginocchiato accanto al letto a pregare, mia madre era una persona meno devota ma molto impegnata in parrocchia. Io però ho perso la fede quando ero studente universitario a Oxford. Ero arrabbiato con Dio perché non esisteva e volevo che esistesse, ma non riuscivo a trovarlo. Ho passato diverso tempo senza riuscire a entrare in una chiesa.
Che cosa l’ha cambiata?
Mia moglie ha avuto un grande ruolo, che ho capito meglio con il tempo. Ci siamo incontrati a Oxford quando avevamo vent’anni, nel 1966. Nel giro di tre mesi ci siamo fidanzati, dopo due anni ci siamo sposati. Lei era cattolica. Per il matrimonio, che è stato celebrato con il rito misto, fui però io a chiederle se e a celebrarlo poteva essere un domenicano che avevo conosciuto, padre Geoffrey Preston. Io vivevo in una residenza anglicana che stava vicino al priorato dei domenicani e qualche volta al pub lì vicino si vedevano anche loro. Così il nostro matrimonio fu celebrato da un domenicano, in una chiesa dei gesuiti con un discorso tenuto da un pastore anglicano.
Cosa è successo poi per farla approdare al cattolicesimo?
Quando mia moglie andava a Messa io restavo a casa, senza problemi, non ho mai cercato di dissuaderla dal seguire la sua fede, anzi in fondo la invidiavo. Ero diventato amico con padre Preston, che ogni tanto andavo a trovare, un tipo fisicamente imponente, caloroso e accogliente. Gli esponevo i miei problemi, i miei ragionamenti, ma più che discutere con me lui mi ascoltava, forse perché aveva capito che dal mio groviglio mentale non sarei uscito per via puramente intellettuale. Ogni volta che lo lasciavo mi sentivo meglio ed era il motivo per cui tornavo poi a trovarlo. Nel 1977, quando aveva solo 41 anni, io ne avevo 31, padre Preston morì, per un arresto cardiaco dopo un intervento chirurgico. Al suo funerale mi colpì il fatto che anche in chiesa si percepiva quel senso di pace che provavo quando stavo con lui. All’istante mi resi conto che quando parlavo con quel domenicano stavo parlando con Dio. Era Dio che stava ad ascoltarmi. Quello fu un momento di conversione. Sono stato accolto nella Chiesa cattolica l’8 dicembre del 1977.
A quando risale invece la sua vocazione di storico?
Ho avuto molti buoni insegnanti alla grammar school, me ce ne fu uno che mi fece appassionare alla storia. A sedici anni sapevo che non c’era nient’altro che avrei voluto studiare. Quell’insegnante era figlio di un minatore, era cresciuto in condizioni molto difficili, ma aveva ottenuto una borsa di studio per Oxford e aveva sempre desiderato poter mandare qualche studente al suo vecchio college di Oxford. Fu lui che mi disse: “Penso che ti piacerebbe andare al Trinity College”, e così feci. Fu lui anche a introdurmi allo studio di Oliver Cromwell.
La sua conversione al cattolicesimo le causò problemi nel mondo accademico?
Quando mi convertii ero assistente a Cambridge. Il master del college dove mi trovavo mi scrisse una lettera piuttosto sgradevole. Il cappellano del mio college di Oxford gli aveva garantito che ero un buon anglicano. Lui pensava che i cattolici non avrebbero dovuto avere ruoli di tutoraggio nei confronti degli studenti, ruolo a cui dovetti rinunciare.
Quale parte della storia dell’Inghilterra come potenza anticattolica le causa più sofferenza?
La distruzione e il saccheggio dei monasteri, oltre 800, le terribili bugie che furono raccontate sulla corruzione nei monasteri. I monasteri offrivano assistenza ai pellegrini, ai viandanti, davano ospitalità gratuita. Nel 1530 fornivano quasi tutti i servizi educativi e sociali del Paese. E furono annientati da un re paranoico nei loro confronti perché appartenevano a ordini religiosi internazionali su cui lui non poteva avere il controllo che aveva sul clero secolare.
E Cromwell?
La figura di Cromwell è più complessa di quanto molti pensino. Aveva una profonda fede e cercò di vivere in base ad essa. Pur non condividendone la forma, da cattolico, ho però potuto coglierne l’autenticità. Ciò che gli inglesi fecero in Irlanda in quel periodo fu grave, per altro non meno di vicende che vediamo accadere anche oggi. Ad esempio nel 1641 il 60% delle terre irlandesi era di proprietà dei cattolici, nel 1660 la percentuale era scesa al 20: il 40% era stato tolto ai cattolici e dato ai coloni protestati. Tuttavia, Cromwell non è da biasimare personalmente per tutto ciò che fu commesso allora. Cercò in molti modi di limitare la portata di ciò che avveniva e lo fece in virtù della sua fede cristiana.
Come è maturata in lei l’idea del sacerdozio?
Nel 1996 sono diventato diacono permanente, un ministero in cui ho sempre creduto molto. Per questo quando mia moglie è morta, nel 2006, ho resistito alla proposta del vescovo di diventare sacerdote. Mi sembrava, accettando, di accreditare l’idea che i diaconi sono persone frustrate, che vorrebbero diventare preti ma non possono. Non era il mio caso. C’è stato un lungo discernimento, che è passato anche per il parere delle mie figlie. Un passaggio decisivo è stato il ritiro spirituale che ho trascorso a Mount St. Bernard, l’unico monastero dei cistercensi della stretta osservanza – i trappisti – in Inghilterra. Un monaco di grande esperienza, che vive lì dal 1964, mi chiese cosa avessi intenzione di fare in quei giorni. Io dissi che avevo portato dei libri con me, che avrei letto, fatto lunghe passeggiate. “Non leggerai nulla, tu starai da solo con Dio” mi rispose. Vicino alla foresteria c’è la ricostruzione di un Calvario con un grande crocifisso. Ho passato molto tempo semplicemente a guardarlo. È stata un’esperienza potente.
Come ha vissuto la sua prima Messa da sacerdote?
È stato emozionante. Volevo in qualche modo che anche mia moglie fosse presente. Lei aveva una voce molto bella, così per la processione finale ho usato una registrazione che avevo di lei che cantava un brano composto da padre Joseph Gelineau, religioso francese che negli anni ’60 era molto popolare nella musica sacra, sul cantico dei tre giovani gettati nella fornace dal re Nabucodonosor, nel Libro di Daniele: una celebrazione di Dio e di tutto ciò che ha fatto per noi nella creazione.
«Non funzionerà nulla se non smettiamo di trattare la questione delle donne come un tema fra gli altri. Questa Chiesa ha bisogno di donne e uomini insieme, attratti dalla stessa promessa evangelica di una fioritura della vita». Così Lucia Vantini, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, va al cuore di una delle questioni chiave affidate al Cammino sinodale delle Chiese in Italia, come emerge dalla Quarta Parte dei Lineamenti per la Prima Assemblea sinodale. Che si apre oggi a Roma. E vede Vantini fra i partecipanti. Membro del Comitato nazionale del Cammino sinodale, la teologa è – nella sua diocesi, Verona – da pochi mesi delegata episcopale per la Prossimità. Il che permette a lei, donna e laica, di partecipare ad esempio al Consiglio presbiterale.
Tema molto sentito e cruciale – come emerge dalle sintesi diocesane – è anzitutto quello della presenza, del servizio e dei ruoli di responsabilità delle donne. Perché – come denunciano i Lineamenti – ci sono ancora tante resistenze? E quali vie praticabili sono suggerite per incrementare la presenza delle donne nei ruoli di responsabilità pastorale?
Sì, è un tema cruciale soprattutto per una comunità che voglia ripensare sé stessa alla luce del Vangelo. Ciò è vero almeno per due motivi. In primo luogo, perché senza le donne la storia cristiana sarebbe addirittura irraccontabile. In secondo luogo, perché la comunità nata dalla Parola del Cristo è fatta di discepole e discepoli che camminano insieme e che si lasciano guidare da un Dio vivente che, come scrive san Paolo, si fa prossimo al di là delle differenze etniche, sociali e sessuali.
Alla luce di queste evidenze minime, possiamo dire che le resistenze che si materializzano verso le donne, verso la loro presenza nei luoghi di decisione e di responsabilità pastorale, sono molto simili a quelle che ha incontrato Gesù: vengono tutte dal potere inteso come dominio e dalla paura di perdere qualcosa che non si dovrebbe nemmeno avere. Nei femminismi, queste resistenze vengono espresse attraverso immagini legate al cristallo, un materiale che non si vede ma che si fa sentire non appena lo si trova sulla propria strada: noi donne conosciamo il soffitto di cristallo, perché spesso urtiamo con qualcosa di nascosto che ci impedisce di arrivare nei luoghi dove si decide; conosciamo i recinti di cristallo, perché a volte sentiamo che i nostri fratelli non sono con noi e per quieto vivere o disattenzione si tengono lontano da ciò che ci sta a cuore; e conosciamo anche la “scogliera di cristallo”, quello strano fenomeno per cui solo nei periodi di grave crisi il mondo sembra accorgersi di noi per affidarci un ruolo tanto importante quanto estremamente rischioso.
Però vorrei ricordare anche un’accezione positiva del termine “resistenze”, che i Lineamenti non menzionano ma che possiamo comunque riconoscere tra le righe. Si tratta delle resistenze del nostro desiderio femminile che ci spinge a esserci comunque, nonostante tutte le fatiche e le ingiustizie. Si tratta dell’ostinazione appassionata di chi continua a credere in un sogno comune offrendo la propria intelligenza, le proprie narrazioni, le pratiche e le visioni profetiche condivise con altre e altri. Le vie “praticabili” emergono da queste resistenze positive, se solo sappiamo ascoltarne la voce.
Tema di fondo decisivo è il rapporto corresponsabilità-missione. I Lineamenti parlano di Chiesa battesimale “quindi aperta ai ministeri” e di “Chiesa tutta ministeriale”: cosa si intende? Nei Lineamenti, partendo dalle sintesi diocesane, si evocano anche nuovi ministeri ed emerge la necessità di una cura della dimensione vocazionale dei percorsi formativi...
L’idea di una Chiesa tutta ministeriale è problematica, perché rimanda a qualcosa di irreale: che nella comunità credente tutti i soggetti siano investiti di un ministero. Ciò non è vero e non sarebbe nemmeno sensato desiderarlo. Per questo motivo i Lineamenti mettono l’espressione tra virgolette e si affrettano a toglierla da ogni ambiguità: si vuole semplicemente portare l’attenzione sulla necessità che tutte e tutti mettano i propri carismi e le proprie competenze a servizio della Chiesa in modo che il popolo di Dio possa goderne. Non si creda che questa specificazione sia un modo per abbassare i sogni di una comunità giusta e profetica, perché essa custodisce la valorizzazione radicale del nostro battesimo: la corresponsabilità trova lì, non in altro, la propria matrice d’autorità e la propria energia pratica. Come ha detto Donata Horak in uno degli incontri di quest’anno con papa Francesco e il C9, «è l’iniziazione cristiana la fonte dalla abilitazione fondamentale di ogni battezzata/o a esercitare il munus regendi, a servire nella Chiesa anche in uffici e ruoli di potere». Si tratta però di uscire dalla logica che pensa e ordina il mondo secondo binomi irrigiditi, perché la linea di demarcazione tra carisma e istituzione, servizio e potere, misericordia e giustizia, mariano e petrino, femminile e maschile è sempre più complessa di come noi la disegniamo per riuscire a orientarci nel mondo.
In questa cornice, possono trovare senso nuove ministerialità ma anche nuove forme narrative, formative, liturgiche e pratiche, per una espressività evangelica condivisa e nutrita delle nostre differenze senza che queste diventino motivo di discriminazione o di gerarchizzazione. I Lineamenti, per esempio, ricordano che si potrebbe immaginare l’apertura al servizio della predicazione anche a soggetti laici che ne abbiano la competenza e il carisma. Ciò contribuirebbe a dilatare l’orizzonte del discorso attraverso altre forme di vita, altre biografie, altre esperienze. È appena uscito Senza indugio. Omelie per l’anno C, a cura del Coordinamento teologhe italiane. Si può già cominciare a sentire l’effetto che fa.
Come promuovere lo sviluppo del ministero del parroco in forma sinodale? Nei Lineamenti si parla ad esempio della formazione di équipe ministeriali…
La vita di un parroco oggi è particolarmente affaticata e caricata di aspettative e di responsabilità difficili da gestire. Per una serie di ragioni storiche ma anche per alcune mancanze nella formazione teologica e ministeriale, finiscono per cadere su una persona sola incombenze di ogni tipo, alcune molto lontane dall’espressività ministeriale in senso stretto. La sete di spiritualità del clero più giovane, a volte sbilanciata sul versante emotivo, si spiega anche con la fatica di mantenere uno spazio di silenzio e di cura di sé e della propria fede. Allo stesso tempo, questo è un momento storico di crisi del cristianesimo, con le chiese che si svuotano, la Bibbia che va in dissolvenza, il mondo giovane che gravita altrove. La fatica si associa così alla malinconia della storia, e ciò può rivelarsi particolarmente drammatico sul piano delle biografie singolari ma anche su quello delle vite comunitarie.
Che fare, dunque?
Occorre partire dalla formazione in senso autenticamente sinodale, sviluppando tutti gli anticorpi possibili per eventuali clericalismi ingiusti, paternalismi dannosi ed eroismi narcisisti. È sempre l’alterità a custodire la nostra identità e la nostra differenza, e questo vale anche per chi fa il parroco. Un parroco non dovrebbe trovare una comunità che gli faccia da specchio, ma una comunità che sappia modulare nel senso della condivisione, della sinodalità e della corresponsabilità le sue parole, le sue prassi e i suoi sogni, ma anche le sue fatiche, le sue malinconie e le sue mancanze. Proprio oggi (ieri per chi legge, ndr), nel consiglio presbiterale della mia diocesi, ho sentito un prete affermare che lui non può immaginare il suo ministero senza pensarsi dentro un orizzonte di corresponsabilità missionaria e che per lui è prassi quotidiana la collaborazione con laiche e laici, anche riguardo aspetti celebrativi che per molte parrocchie risultano impraticabili.
Da dove viene questo guadagno simbolico e la forza di questo posizionamento pratico? Perché altri non sentono la stessa cosa, pur abitando lo stesso contesto? Come possiamo arrivare a questo frutto dello Spirito senza lacerazioni? Occorre agire a tanti livelli: educativi, formativi, canonici, teologici ed esperienziali. Per quello che vedo io, però, non funzionerà nulla se non smettiamo di trattare la questione delle donne come un tema tra gli altri, come un problema da risolvere, come un enigma da rimuovere. Questa Chiesa ha bisogno di donne e uomini insieme, attratti dalla stessa promessa evangelica di una fioritura della vita, disponibili alla cura di un mondo devastato, capaci di stare nella parzialità delle proprie differenze senza trasformarle né in privilegi né in difetti, solidali nella gestione dei conflitti e disposti a cercare insieme la pace.
Fa un decisivo passo in avanti la causa di beatificazione di Salvo D’Acquisto. E presto si potrebbe giungere alla dichiarazione, da parte del Papa, della venerabilità del brigadiere che offrì la sua vita in cambio di alcuni ostaggi dei nazisti nel 1943. A quel punto mancherebbe solo il miracolo. Lo scatto è avvenuto il 19 settembre scorso grazie «al felice esito del Congresso particolare sull’offerta della vita» in seno al Dicastero delle cause dei santi, come ha ricordato ieri il segretario del Dicastero stesso, l’arcivescovo Fabio Fabene, intervenendo al convegno “Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita”, i cui partecipanti saranno ricevuti questa mattina in udienza da Francesco. La giornata conclusiva del simposio è stata dedicata proprio alla terza via della santità - cioè l’offerta della vita - introdotta come fattispecie a se stante e perciò distinta dalle altre due (martirio ed eroicità delle virtù) da un motu proprio del Papa, Maiorem hac dilectionemdell’11 luglio 2018. In pratica vi si stabilisce che è possibile proclamare la santità di coloro che siano morti per amore del prossimo, affrontando un pericolo che quasi certamente li avrebbe condotti alla fine della propria esistenza. Si pensi a un medico morto per curare i malati di una grave epidemia, avendo contratto egli stesso la malattia, o al caso di Gianna Beretta Molla, che non volle abortire al fine di curarsi da un tumore e che morì una settimana dopo aver partorito la sua terza figlia. Ora il sacrificio di Salvo D’Acquisto rientra in questa nuova fattispecie. Monsignor Fabene ne ha ricordato ieri le complesse tappe. «Dapprima l’inchiesta diocesana fu sulle virtù in grado eroico. Poi, arrivati gli atti processuali alla Congregazione delle cause dei santi, si è ritenuto di mutarne il lemma alla fattispecie del martirio. Ma il Congresso peculiare dei Consultori teologi il 30 novembre 2007 giudicò gli elementi probatori non sufficienti a dimostrare che si sia trattato di un vero e proprio martirio. Con Maiorem hac dilectionem anche la causa di Salvo D’Acquisto ha trovato una fattispecie più idonea e consona». Per cui ora essa sarà sottoposta alla sessione ordinaria dei cardinali e vescovi (probabilmente entro il prossimo febbraio) e poi sarà trasmessa al Papa per la dichiarazione di venerabilità.
Dall’emanazione del motu proprio a oggi sono state istruite 13 cause per l’offerta della vita. I dati sono stati forniti da Fabene, ieri. «Di esse, 4 provengono dagli Usa, 3 dall’Italia, 2 dall’Ecuador e 2 dalla Spagna, 1 dalla Polonia e 1 altra dal Brasile. Il numero complessivo è di 17 Servi di Dio: 1 cardinale, 10 sacerdoti (2 religiosi, 8 diocesani), 1 religiosa e 5 fedeli laici di diverse età. Sette cause provengono da un cambiamento di lemma, sei sono originali».
Le altre due cause “italiane” riguardano un altro carabiniere, Albino Bandinelli, e il cardinale Ludovico Altieri, vescovo di Albano. Il primo nell’estate del 1944, pur non facendo parte dei partigiani, si spacciò per uno di loro di fronte alla minaccia del comando fascista di fucilare gli ostaggi, nonché di incendiare Santo Stefano d’Aveto, in provincia di Genova. Perciò fu ucciso. Il porporato laziale invece morì nel 1867 di colera dopo aver soccorso, senza temere per la propria incolumità, i colpiti dall’epidemia. «I martiri non sono stati e non sono degli eroi insensibili alla paura, all’angoscia, al panico, al terrore, al dolore fisico e psichico - ha detto il cardinale Marcello Semeraro, tracciando le conclusione del convegno -. Così, ad esempio, si trovano descritti eroi mitologici come Achille, noto per la sua invulnerabilità tranne che nel tallone; Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; Eracle, proverbiale per le sue straordinarie fatiche e la sua forza sovrumana. I martiri cristiani, invece, - ha aggiunto il prefetto delle Cause dei santi - non furono impassibili. Furono umani». La loro esperienza ci parla «di forza nella debolezze e di forza della debolezza», secondo l’espressione usata da Andrea Riccardi. E da questo dare la vita deve trarre forza anche la Chiesa, specie in un’epoca segnata da un’antropologia caratterizzata, come ha detto la filosofa Lodovica Maria Zanet (intervenuta insieme con il francescano Maurizio Faggioni), da individualismo, diritti senza doveri e prevalenza del virtuale sulla realtà. Per invertire la rotta.
Le sue omelie alla Messa festiva delle 21 – sempre affollata – celebrata nella chiesa milanese di San Francesco, tutt’uno con il convento dei Cappuccini di piazza Velasquez e allo storico Centro culturale Rosetum – sono per tanti come una borraccia di acqua fresca per la traversata di una settimana. Padre Roberto Pasolini da sabato 9 novembre è il nuovo Predicatore della Casa Pontificia, nominato dal Papa per succedere a padre Raniero Cantalamessa che lascia questo incarico – affidato dal 1743 a un frate minore cappuccino – dopo ben 44 anni, appena varcata la soglia dei 90.
Di anni, Pasolini, ne ha 53 – compiuti, il 5 novembre –, un legame vivo con i giovani che in gran numero ne frequentano liturgie, riflessioni e i cicli delle “Dieci parole”. Milanese, frate dal 2002 e sacerdote dal 2006, è docente di Esegesi biblica alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. La sua frequentazione viva e intima della Parola, nutrita da una spiritualità intensa (ne ha scritto nel recente Iniziazione alla preghiera, edito da San Paolo), fluisce in una predicazione coinvolgente che rende Dio presente e vicino a ciascuno, un Padre che ama pazzamente ogni suo figlio, conducendolo al bene per strade sorprendenti, da scoprire con la fiducia che dentro c’è un progetto di pienezza, fuori da compromessi e rassegnazioni: scomodo, impegnativo, inimmaginabile. È lungo questo viaggio della vita che, insieme a padre Roberto, si incontra un Gesù che sembra di non aver davvero mai conosciuto – non così “vero” –, umanissimo e divino, una compagnia esigente e illuminante sul mistero della vita personale.
L’ascolto delle sue omelie è un’esperienza talmente incoraggiante, ma allo stesso tempo diretta e senza sconti, che la loro puntuale registrazione online (gli audio nel suo canale Youtube) raccoglie ogni settimana centinaia di ascolti. Non sorprende che Pasolini sia diventato uno dei più apprezzati (e impegnati) predicatori di esercizi spirituali, animatore di incontri con giovani (seguitissimo il suo ciclo delle Dieci parole), direttore spirituale di fidanzati, confessore, amico di tutti quelli che ne cercano la parola cordiale e accogliente. E anche autore spirituale: dopo la sua trilogia sul peccato e la grazia (“ Non siamo stati noi. Fuori dal senso di colpa”; “È stato Dio. Dentro una vita nuova”; “Saremo noi. Immersi nell’amore più grande”) ha impressionato Un giorno smetteremo di morire, narrazione di respiro autobiografico (illuminante l’intervista di Monica Mondo per Soul su Tv2000).
«I sentimenti che provo in questo momento sono ambivalenti – riflette Pasolini parlando con Avvenire –: da una parte provo una grandissima gioia e gratitudine per una chiamata grande, meravigliosa che ho ricevuto, dall’altra un senso di timore e inadeguatezza davanti a un compito che mi sembra enorme e di fronte al quale mi sento così piccolo. Provo ad aggrapparmi a ciò che in momenti come questo mi fa sempre camminare con speranza: se Dio ora mi chiede di compiere questo passo mi darà anche la forza di attraversarlo. Di certo raccogliere l’eredità di padre Raniero Cantalamessa, del quale sono sempre stato sin dal mio ingresso nell’ordine un profondo estimatore per le sue meditazioni e i suoi libri, trovando sempre in lui una grande ispirazione, mi dà la vertigine. Provo a credere che se ora è a me che viene chiesto di portare avanti questa tradizione, che ha un grande valore per la Chiesa e anche per il nostro ordine, vorrà dire che potrò farlo in un modo che corrisponde a me e in cui potrò manifestare semplicemente me stesso, senza sentirmi nella necessità di un confronto con chi mi ha preceduto. Avanzo con gioia e timore, e con grande fiducia che sarò comunque accompagnato da tutte le persone che mi hanno aiutato in questi anni a maturare la comprensione della Parola di Dio. E proverò a farla risuonare nel cuore della Chiesa, affidandomi al Signore».
Il passaggio di testimone dopo tanti anni pone sulle spalle di Pasolini – come lui stesso riconosce – un’eredità di grande spessore: umana, spirituale, teologica. Ed ecclesiale: «Sono al quarantaquattresimo anno di attività – disse nel luglio scorso padre Cantalamessa ad Avvenire per i suoi 90 anni –. Calcolando in media otto prediche l’anno, tra quelle di Avvento e quelle di Quaresima, risultano 352 prediche, corrispondenti a tantissime ore del tempo del Papa. Una bella responsabilità. Quando qualcuno mi chiede il perché di questo, rispondo – e non sto scherzando – che il motivo è che i Papi si sono probabilmente resi conto che quello è il posto dove il padre Cantalamessa può fare meno “danno” alla Chiesa...». Di sé dice che «ho continuato per tutta la vita a fare quello che facevo da bambino, quando portavo acqua ai mietitori nel campo dei nonni durante la Seconda guerra mondiale. È cambiata solo l’acqua che porto – la Parola di Dio –, e sono cambiati i mietitori, tra i quali tre pazientissimi Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco». Un’immagine simbolica che torna in un suo libro-intervista, Il bambino che portava acqua (edito da Ancora). A quella fonte che zampilla ora si accosta padre Pasolini. Con l’identica umiltà, e lo stesso fuoco interiore.
Missionario in Giappone come Francesco Saverio, secondo basco dopo Ignazio di Loyola a guidare da preposito generale la Compagnia di Gesù negli anni turbolenti del post-Concilio (1965-1983). Ma soprattutto un uomo che spese la vita per gli altri. Soprattutto i poveri e in particolare i rifugiati.
È il ritratto che probabilmente emergerà oggi a Roma con la sessione di chiusura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù, la fama di santità e dei segni del servo di Dio il gesuita Pedro Arrupe (1907-1991). L’evento si aprirà questa mattina (nel giorno, tra l’altro, in cui si ricorda la sua nascita a Bilbao avvenuta il 14 novembre del 1907) alle 12 nella Sala della Conciliazione, del Tribunale nel Palazzo Apostolico Lateranense (e potrà essere seguito live grazie al link tinyurl.com/28wwyw3s).
A presiedere la sessione sarà il prossimo cardinale e vicario del Papa per la diocesi di Roma Baldo Reina. Con il futuro porporato saranno presenti i membri del Tribunale diocesano che hanno condotto l’inchiesta: monsignor Giuseppe D’Alonzo, delegato episcopale; don Giorgio Ciucci, promotore di giustizia; Marcello Terramani, notaio attuario. Un appuntamento quello di oggi che permetterà di fare affiorare, dopo una lunga indagine durata più di 5 anni (la fase diocesana si è aperta il 5 febbraio del 2019) i singolari tratti di carità, santità, amore e obbedienza per la Sede Apostolica del servo di Dio.
Di questo è convinto il postulatore generale delle cause dei santi della Compagnia di Gesù il gesuita madrileno Pascual Cebollada. «Nel processo, il tribunale ecclesiastico della diocesi di Roma luogo in cui è morto il 5 febbraio del 1991 – spiega - ha ricevuto circa 70 testimonianze orali, e ci sono circa di 10mila pagine degli scritti inediti di Arrupe raccolti dalla Commissione storica durante questi più di cinque anni, includendo il tempo della pandemia». E annota il gesuita, classe 1960, che di formazione è un esperto di teologia spirituale: «Non era una novità, ma si conferma la grande coerenza di quest’uomo nel suo amore al Signore, alla Chiesa, alla Compagnia, con una dedizione totale a quello che considerava la volontà di Dio in ogni momento, come aveva promesso in un voto di perfezione privato fatto la veglia della sua ordinazione sacerdotale nel 1936».
Il religioso ignaziano si sofferma sull’atto solenne di oggi. «Simbolicamente – rivela – dopo giuramenti, discorsi e preghiere, si chiuderanno le scatole, i faldoni. Tutta la documentazione sigillata con la cera lacca sarà consegnata al Dicastero delle cause dei santi. La speranza è che in pochi anni, dopo la stesura della sua Positio, don Pedro, così veniva familiarmente e amorevolmente chiamato da alcuni gesuiti, possa essere dichiarato venerabile».
Una fama di santità di questo basco così singolare che continua a crescere. E testimoniata forse anche da come visse il crepuscolo della sua vita in preghiera e in silenzio. E sempre in comunione con il Successore di Pietro di allora: Giovanni Paolo II. Nell’estate del 1981 un infarto lo conduce alla paralisi e alla perdita della parola. Lasciato l’incarico di preposito generale, muore nel 1991 nell’infermeria della Curia generale dei gesuiti a Roma, vivendo questo lungo tempo di malattia pregando per la Compagnia e la Chiesa. «Sì, la nostra Postulazione Generale riceve frequentemente testimonianze scritte che vengono da luoghi e persone di estrazione culturale diverse. L’ultima, inoltrata alcuni giorni fa, di un luterano legato a Taizé che lo aveva conosciuto personalmente». E aggiunge un dettaglio: «Notizie di alcune possibili guarigioni miracolose sono pervenute alla nostra Postulazione, ma finora nessuna di esse è risultata valida per essere considerata un miracolo. Invece, grazie e favori, segni ottenuti per la sua intercessione continuano ad arrivare in modo costante e mostrano la devozione alla sua persona».
L’appuntamento di oggi consentirà di tornare con la mente al carismatico generalato di questo basco (che partecipò tra l’altro all’ultima sessione del Concilio Vaticano II nel 1965) e che da giovane gesuita si spese nell’agosto del 1945 per aiutare e venire incontro (grazie anche ai suoi studi universitari in medicina) agli sfollati e alle persone ferite di Hiroshima dopo il disastro nucleare della bomba. Padre Cebollada si sofferma su un altro aspetto: la venerazione interna alla sua Famiglia religiosa per l’illustre confratello. Molto simile a quella nutrita e coltivata negli anni da due futuri cardinali e gesuiti del rango di Carlo Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio che lo conobbero da “vicino”. «Arrupe è stato il superiore generale di entrambi, e si conserva il loro rapporto scritto, non accessibile fuori di un processo di beatificazione (sono posteriori al 1958). Ma molto di questo rapporto speciale ed epistolare è noto. E papa Francesco ha sempre mostrato con le sue dichiarazioni ma anche i gesti come quello di recarsi alla sua tomba alla Chiesa del Gesù di Roma nel 2013 la sua sincera ammirazione per il servo di Dio». E annota ancora un particolare: «Oggi i nostri novizi continuano a leggere testi rilevanti e significativi scritti dal gesuita di Bilbao per la loro vocazione. Come è singolare che più di 150 istituzioni (universitarie e non solo) della Compagnia nel mondo portano il suo nome (tra queste il “campus Arrupe” di Madrid inaugurato nel settembre scorso). Tutto questo ci mostra l’attualità degli insegnamenti di Arrupe all’interno della Compagnia di Gesù di oggi». Un personaggio don Pedro che ha lasciato un’impronta indelebile sul suo Ordine: sotto la sua guida (18 anni di governo) la Compagnia reinterpreta la sua missione come servizio della fede e promozione della giustizia: durante il suo generalato nascerà, nel 1980, il Jesuit Refugee Service. «Egli è stato “un uomo per gli altri” – è la riflessione finale -. Ed è stato un uomo straordinario in tante cose. In un tempo di fede debole lui ci ha indicato sempre anche attraverso i suoi scritti e la sua testimonianza spesso silenziosa degli ultimi anni il primato di Dio. Proprio come voleva Ignazio credeva nei rapporti personali. E aveva fiducia negli altri. Di fronte alle ingiustizie del mondo, allo sfruttamento degli ultimi e alle crisi migratorie che ancora in questo 2024 stiamo vivendo ha avuto l’intuizione più di 40 anni fa di fondare il Jesuit Refugee Service. Tutto questo ci fa pensare a quanto sia ancora attuale e profetica, a 33 anni dalla sua morte, la sua eredità per noi gesuiti. E non solo».
Dal 15 al 17 novembre si terrà a Roma la Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, una delle tappe della “fase profetica”, ultimo tratto del Cammino sinodale nazionale. Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura si ritroveranno oltre mille delegati e vescovi per confrontarsi sui Lineamenti, il testo che raccoglie i risultati raggiunti finora e propone alcune traiettorie pratiche. La Prima Assemblea sinodale è chiamata a lavorare sui Lineamenti per poi giungere allo Strumento di lavoro, in vista della Seconda Assemblea sinodale in programma, sempre a Roma, dal 31 marzo al 4 aprile 2025. La Prima Assemblea si aprirà venerdì 15 novembre con gli interventi del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e di Erica Tossani, della presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale. La relazione principale è affidata all’arcivescovo Erio Castellucci, presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale. Pierpaolo Triani, della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro. La giornata di sabato 16 sarà dedicata al confronto nei tavoli sinodali. Alle 15 è prevista la Lectio sull’icona biblica a cura di don Dionisio Candido, responsabile dell’Apostolato Biblico della Cei, mentre alle 18.30 è in programma la celebrazione dei Vespri e la preghiera per le vittime di abusi. Domenica 17, dopo la presentazione dei lavori dei tavoli sinodali, Zuppi e Castellucci concluderanno l’incontro, affidando quanto emerso alle diocesi. Alle 12.30 la Messa.
Il Cammino sinodale della Chiesa italiana «in questi tre anni ha evidenziato diversi aspetti critici, ma ci coglierei l’aspetto positivo», che è quello «della partecipazione e del desiderio di essere ancora parte attiva». Ne è convinto Simone Morandini, teologo e vicepreside dell’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” in Venezia, tra gli esperti chiamati dalla Cei nel Comitato del Cammino sinodale, guardando all’appuntamento che dal 15 al 17 novembre vedrà la Chiesa italiana impegnata nella sua Prima Assemblea sinodale, incaricata di fare sintesi sul Cammino finora compiuto e a predisporre uno strumento di riflessione in vista dell’appuntamento conclusivo del 2025. Con Morandini affrontiamo il primo dei tre ambiti (Comunicazione e prassi pastorali) individuati nei Lineamenti in vista dell’Assemblea sinodale.
Insomma professore non è il caso di scoraggiarsi davanti agli aspetti critici emersi?
Ripeto. Il Cammino, sia nella sua fase narrativa sia in quella sapienziale, ha offerto una ricchezza di istanze, permettendo a tutti di avere uno sguardo complessivo. Ora da quelle osservazioni siamo chiamati a costruire percorsi significativi. E il fatto che siano emerse criticità è il miglior segnale che non stiamo facendo un Cammino “rituale”, ma c’è volontà nelle nostre comunità di mettersi ancora una volta in gioco, di essere protagonisti. E queste mi sembrano dinamiche positive. E poi nella fase sapienziale sono emerse molte buone pratiche che dovrebbero trovare voce nell’ormai imminente Prima Assemblea sinodale. Un bagaglio utilissimo per quelle scelte, anche audaci come è scritto nei Lineamenti, che siamo chiamati a fare come comunità cattolica in Italia.
Tra i punti critici evidenziati, vi è quello della sensazione che “il discorso cristiano” sembra diventato “insignificante nella vita delle persone”. Uno scenario preoccupante. Ma è anche un processo irreversibile?
Penso che questa sensazione sia condivisa da tutte le Chiese presenti in Italia, anche se a livelli differenti. Una insignificanza che ha, però, formulazioni differenti tra le realtà ecclesiali del Nord e quelle del Sud. Una sensazione accentuata in una dinamica legata alla secolarizzazione dell’intera società. Ma anche in questo caso siamo chiamati a guardare le opportunità e le sfide che si presentano, cercando di rispondere al quesito di come situarsi in questo cambiamento che sembra dimenticare o marginalizzare il cristianesimo. Dobbiamo trovare - ed essere - quei “germogli del Regno”, capaci di far nascere e germogliare nuove modalità di testimonianza dentro l’attuale società. Compito non facile, certo, visto che la società stessa vive profonde crisi, intese come interrogativi a cui rispondere. Rispetto al passato viviamo in una società multietnica, multiculturale e anche con un pluralismo religioso. Direi che l’invito fatto dal Concilio Vaticano II, di saper “leggere i segni dei tempi”, dopo oltre mezzo secolo rimane quanto mai attuale in una società ancora più complessa di quella in cui si viveva ai tempi del Vaticano II.
Nei Lineamenti elaborati per la Prima Assemblea sinodale si esprime il rischio di “una divaricazione tra la cultura e la profezia”. Può aiutarci a comprendere meglio il rischio?
Sono fondamentalmente due. Il primo è rappresentato da coloro che esprimono la propria testimonianza con forza e radicalità, legandola a riflessioni teologiche. Il secondo è rappresentato da coloro che elaborano ricerche teoriche, che poi hanno necessità di collegarsi con il vissuto. Entrambe mancano di una collaborazione tra loro. Devo dire che nel nostro contesto di Chiesa italiana storicamente c’è un legame piuttosto solido tra l’azione pastorale e la teologia. Ovviamente in questo contesto storico è un legame che va rafforzato.
Un esempio concreto?
Penso al ruolo delle donne nelle nostre comunità. Un tema molto dibattuto all’interno delle nostre realtà e che anche al recente Sinodo dei vescovi ha trovato attenzione. E il dibattito non si è esaurito lì, visto che è un tema affidato a una delle dieci Commissioni che proseguono il lavoro di riflessione del Sinodo stesso. Altri esempi sono il lavoro che stiamo facendo all’Istituto San Bernardino con la rete teologica del Mediterraneo e quello di una “teologia pubblica ecumenica”. L’obiettivo resta quello di collegare una riflessione teologica sul tema con gli interrogativi concreti che sorgono da questi temi.
Nell’ambito del linguaggio e della comunicazione si è riflettuto anche sulla liturgia. Sconsolante il quadro che emerge: la nostre liturgie appaiono poco significative, poco attrattive e persino poco comprensibili nei loro gesti. Ma cosa è mancato all’interno delle comunità perché non si arrivasse a questo scenario?
Anche in questo caso invito a non generalizzare. Certo il disagio nel vivere pienamente le nostre liturgie esiste ed è diffuso. Ma accanto a situazioni in cui si fatica a cogliere i valori e il significato delle nostre liturgie, ci sono anche molte esperienze positive, in cui si cura moltissimo la predicazione, legandola in modo significativo alle letture proclamate nella Messa. Esperienze in cui si valorizzano simboli e gesti compiuti durante la Messa, in modo tale che chi vi partecipa li comprenda pienamente e diventi un soggetto attivo della liturgia e non uno spettatore. Non bisogna dimenticare, ovviamente, che la liturgia ha una sua dimensione di inattualità, intesa come collocazione del Mistero che viene celebrato. Ma a preoccupare è quando insorge una “incomprensibilità” del rito. C’è una Tradizione - quella con la T maiuscola - da far vivere attraverso la liturgia, ma essa non produce nulla se non si è capaci di renderla accessibile e comprensibile a chi vi partecipa. Buone pratiche esistono e potrebbero essere piste da seguire.
Altro punto dolente è la scarsa presenza dei giovani nelle nostre comunità, anche se qualche segnale positivo durante il Cammino sinodale c’è stato con la loro partecipazione attiva. Cosa rende così difficile alle nostre comunità l’essere attrattive verso i giovani?
I giovani ci sono e se offri loro degli spazi significativi di partecipazione sono presenti. Si pensi al tema del volontariato, ma anche a significative esperienze di preghiera o di Scuola della Parola. Sono tante le esperienze giovanili in tal senso presenti lungo la Penisola. Ma questi ambiti non sempre appartengono al tessuto sociale delle nostre comunità. Ecco forse occorre valorizzare quelle buone pratiche che consentono alle giovani generazioni di esprimere e vivere la propria soggettività di fede.
Quanto sono importanti il linguaggio e la comunicazione nell’ambito del dialogo ecumenico?
È centrale. Sia per il dialogo ecumenico sia per quello interreligioso. È importante rendere comprensibili i nostri valori e concetti ad altri che vivono in altri contesti culturali e religiosi. Non si tratta di modificare quello che la Chiesa definisce “il deposito della fede”, ma di attivare forme di espressione capaci di far comprendere all’interlocutore i nostri principi con un linguaggio legato all’oggi. Insomma la sfida è “come dire Gesù Cristo oggi”, come testimoniarlo, come rendere ragione della nostra fede nella società di oggi.
Compito reso ancora più complesso da una società che relega l’aspetto religioso alla vita privata. Una posizione a volte poco compresa da chi professa altre religioni.
Una buona pista di lavoro ce l’ha indicata papa Francesco con l’enciclica Laudato si’, strumento prezioso per il dibattito sulla nostra casa comune, sui temi che riguardano l’intera famiglia umana. A partire dalla Tradizione possiamo offrire un nostro contributo all’intera famiglia umana. Le nostre Chiese e le altre fedi sono chiamate a questa sfida.
I Lineamenti evidenziano che si può essere “stranieri” anche dentro la comunità ecclesiale, messi ai margini “per il proprio orientamento sessuale o per situazioni affettive e familiari ferite”. Un’altra sfida per la Chiesa?
Non si può nascondere che dentro le nostre comunità c’è chi vive la sensazione di essere marginalizzato o di sentirsi trattato come un fattore di disturbo. La sfida per tutti noi è quella invece di valorizzare le differenze che esistono dentro la Chiesa. Spero che su questo tema il confronto prosegua.
Malgrado il proverbio “l’abito non fa il monaco”, quello che indossiamo un po’ ci definisce, nel senso che rivela, almeno in parte chi siamo. Vale anche per i sacerdoti e in generale per religiosi e religiose? È la domanda cui risponde il nuovo episodio di Taccuino celeste il podcast dedicato ai temi della fede, ad approfondire in cosa crede chi crede. Al centro della riflessione il comportamento dei presbiteri nella vita tutti i giorni. Cioè, al di fuori delle celebrazioni, un prete può vestirsi come preferisce? Esistono delle regole? Il podcast affronta il tema richiamando gli abiti che caratterizzano alcuni ordini religiosi e spiegando anche perché il Papa si vesta di bianco.
Come detto, Taccuino celeste è un podcast di argomento religioso. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di come si diventa santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Terremoto nella comunione anglicana. L'arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate d'Inghilterra, in carica dal 2013, ha annunciato le sue dimissioni dopo l'accusa emersa in un rapporto indipendente di aver coperto gli abusi sessuali e psicologici sistematici nei confronti di minorenni imputati a un potente avvocato, John Smyth, scomparso a 75 anni nel 2018.
«Dopo aver chiesto il cortese permesso a Sua Maestà il Re, ho deciso di dimettermi dall'incarico di Arcivescovo di Canterbury». Si legge nella dichiarazione con cui Welby ha annunciato le dimissioni, spiegando che «la Makin Review (la revisione indipendente guidata da Keith Makin sulla gestione del caso Smyth da parte della Comunità anglicana, ndr) ha svelato la cospirazione del silenzio a lungo mantenuta sugli abusi atroci di John Smyth: quando sono stato informato nel 2013 e mi è stato detto che la polizia era stata avvisata, ho creduto erroneamente che sarebbe seguita una risoluzione appropriata. È molto chiaro che devo assumermi la responsabilità personale e istituzionale del lungo e traumatico periodo compreso tra il 2013 e il 2024».
Welby non ha resistito alle ripetute pressioni e agli appelli per farsi da parte arrivati dal clero anglicano, inclusi alcuni vescovi, e da una petizione con oltre 14mila firme. Dal Rapporto Makin era emersa un'azione di insabbiamento condotta dai vertici religiosi rispetto alle molestie e violenze compiute da Smyth. Il legale in veste di predicatore laico aveva preso di mira almeno 130 tra bambini e ragazzi nel corso di campi estivi cristiani per giovani tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 nel Regno Unito e successivamente in Zimbabwe e Sudafrica, dove si era trasferito. Il dossier sugli abusi era finito sulla scrivania del leader anglicano, come da lui ammesso, sin dall’inizio del suo mandato nel 2013.
«È mio dovere onorare le mie responsabilità costituzionali ed ecclesiastiche – dichiara Welby - quindi le tempistiche esatte saranno decise una volta completata la revisione degli obblighi necessari, compresi quelli in Inghilterra e nella Comunione anglicana. Spero che questa decisione renda chiaro quanto la Chiesa d'Inghilterra comprenda seriamente la necessità di un cambiamento e il nostro profondo impegno nel creare una chiesa più sicura. Mentre lascio la carica, lo faccio con dolore per tutte le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Gli ultimi giorni hanno rinnovato il mio profondo e sentito senso di vergogna per gli storici fallimenti nel proteggere la Chiesa d'Inghilterra». «Per quasi dodici anni – aggiunge Welby - ho lottato per introdurre miglioramenti. Spetta agli altri giudicare cosa è stato fatto. Nel frattempo, manterrò il mio impegno di incontrare le vittime». «Credo – conclude l’ormai ex Primate - che farsi da parte sia nel migliore interesse della Chiesa d'Inghilterra, che amo profondamente e che ho avuto l'onore di servire».
È così destinato ad aprirsi, in un momento di forte difficoltà per l'istituzione religiosa, il processo di successione per nominare il nuovo primate della chiesa d'Inghilterra e anche leader spirituale per 85 milioni di persone in tutto il mondo in quella che è conosciuta come Comunione anglicana.
Come spiegato dal settimanale cattolico Tablet ripreso dal Sir toccherà ora alla “Crown Appointments Commission”, una commissione formata da vescovi anglicani, scegliere il successore di Welby, selezionando due nomi da inviare al premier britannico Keir Starmer. Quest’ultimo ne sceglierà uno che verrà poi approvato da re Carlo III, che formalmente è il Capo della Chiesa d’Inghilterra. Secondo il Tablet a contare, per i candidati, saranno l’età, il sesso e la presa di posizione sul problema dell’ordinazione di donne e pastori omosessuali, due questioni che dividono profondamente la Comunione anglicana, con le gerarchie e le di solito più ferventi comunità del Global South - soprattutto africane - fermamente contrarie alla benedizioni delle unioni omosessuali, ormai ammesse in quelle del mondo occidentale. Nel 2023 dieci arcivescovi della Global South Fellowship of Anglican Churches hanno addirittura dichiarato che non avrebbero più riconosciuto l’arcivescovo di Canterbury come primus inter pares tra i vescovi della Comunione Anglicana. Tra i favoriti, secondo il settimanale cattolico, vi sono l’arcivescovo di York Stephen Cottrell che, a 67 anni, potrebbe essere troppo anziano e il vescovo di Chelmsford Guli Francis-Dehqani, donna e aperta verso la comunità Lgbt, che, per queste due ragioni, potrebbe non ottenere i voti necessari. Inoltre sarebbero in lizza anche il vescovo di Nottingham Paul Williams, quello di Chester Mark Tunner, quello di Norwich Graham Usher e quello di Leicester Martyn Snow. Chiunque sarà non avrà un compito facile.
C’è Adriano, uomo avanti d’età, che ha speso la vita nel lavoro e nella famiglia, ma ad un certo punto ha voltato l’angolo sbagliato che l’ha attratto in un vortice: il gioco d’azzardo e ora non riesce più ad arrivare a fine mese. C’è Amir, senegalese, venditore ambulante, che ha lasciato la sua terra per sentire il profumo della libertà e ogni giorno raccoglie il suo grande sacco per provare a vendere qualcosa e aiutare la famiglia in patria… Come Adriano e Amir sono in tanti a bussare ogni giorno al dormitorio "Don Tonino Bello" che, all’interno del centro storico di Salerno, accoglie ospiti in condizione cronica di disagio abitativo, accompagnandoli in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Il dormitorio è stato realizzato grazie ai fondi dell’8xmille per rispondere ai bisogni delle fasce più deboli. «Alle porte della Caritas diocesana bussano "tutti", anziani, senza dimora, migranti, persone che vivono fragilità sociali e/o culturali. Coloro che la durezza della vita ha costretto ad un tempo, più o meno lungo, di precarietà - spiega Ilaria Amoroso, membro dell’èquipe Caritas della diocesi di Salerno Campagna Acerno, area estreme povertà -. Quello che sappiamo è che dietro ogni volto c’è una storia, c’è un tempo bello, c’è la speranza di rialzarsi e andare avanti. A noi il compito di essere sentinelle per intercettare il bisogno e, in collaborazione con i servizi sociali territoriali, individuare le strategie per restituire loro la dignità di figli di Dio».
È una struttura di "seconda accoglienza", capace di accogliere fino a 25 ospiti, aperta a tutti coloro che vivono un disagio abitativo ma non economico (persone a basso reddito: pensionati o lavoratori saltuari). L’accesso avviene previo colloquio con il Centro di ascolto diocesano, ed è richiesto il versamento di un contributo solidale, concordato in base alle capacità di ognuno, e che servirà a contribuire al mantenimento della struttura stessa: utenze, migliorie, riparazioni. Lo scopo del contributo è quello di rendere gli ospiti responsabili e rispettosi del luogo dove vivono e avviarli a un graduale reinserimento sociale.
«In pratica accogliamo chi - prosegue Ilaria - tra lavoro saltuario, lavoro precario, non riesce ad arrivare a fine mese. Qui trova un pit stop, che gli permetterà di raccogliere le forze per rialzarsi e ripartire nel viaggio della vita». Come sta tentando di fare Omar, tunisino, giunto in Italia alla ricerca del padre, partito qualche tempo prima e disperso nel Mediterraneo. Omar era minorenne quando è arrivato in Italia. In Tunisia ha lasciato madre, due fratelli, una sorella, gli amici ed è approdato a Lampedusa . In quanto minorenne è stato trasferito nel centro di Salerno: la notizia della morte del padre non è stata semplice da affrontare. Così, grazie agli educatori della comunità, ha iniziato un percorso psicologico e, contemporaneamente, il percorso della scuola di italiano. Ma il tempo è passato e Omar è diventato maggiorenne. A 18 anni non si può più stare in una comunità per minori, così ha bussato alla porta della Caritas ed è stato accolto. «Ha iniziato un percorso con "Mestieri Campania" e continua a studiare e formarsi - spiega Ilaria Amoroso -; speriamo di poter dare a questo ragazzo il sogno di diventare grande in un mondo che l’ha fatto crescere troppo in fretta».
Nel centro campano si punta dunque all’accoglienza, alla reciprocità, alla donazione di sé e chi varca la soglia del dormitorio si inserisce in un percorso di famiglia. Prima di cena ci si deve occupare della propria igiene personale; poi si condivide il pasto serale e si rassetta la cucina. Dopo c’è tempo per la tv, un libro, o per chiacchierare, fino alle 22 quando si va nelle proprie camere. Al mattino, la sveglia è alle 6.30 e dopo colazione, alle 8, si lascia la struttura. C’è chi va a lavoro, chi si appresta a cercarlo e chi si incammina presso il centro di accoglienza diurno per trascorrere la mattinata per poi recarsi a mensa per il pranzo. Nel pomeriggio, abitualmente, gli ospiti che non lavorano si ritrovano nel centro diurno San Francesco di Paola e, alle 19, tornano insieme al dormitorio.
Un’esperienza in sinergia con parrocchie, associazioni e movimenti del territorio. «Queste strutture sono motivo di esperienza pratica per i gruppi, dai più piccoli ai più grandi - spiega ancora la volontaria -. Esperienze di servizio che almeno una volta nella vita vanno proposte e fatte e si ritorna sempre perché come dice san Giacomo: "Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò dalle mie opere la fede"».
Come si cerca di fare con Malik, giunto dall’Africa in nome della libertà, per la quale sono morti uomini e donne, e che cerca un riscatto qui in Italia. «Non abbiamo la soluzione e non abbiamo la bacchetta magica per riportare ciascuno indietro nel tempo e correggere o togliere i pesi della vita che hanno ridotto tanti a uno stato di bisogno. Nel nostro piccolo cerchiamo di restituire la dignità usurpata - conclude Ilaria -. Al "Don Tonino Bello", un vero porto franco, incrociamo sguardi e mani. Gli occhi sono la prima cosa che ci colpisce e sono quelli di coloro che bussano alle nostre porte. Le mani sono ciò che contraddistingue chi chiede, consumate dal duro lavoro per guadagnare e affrontare il lungo viaggio. Qui si può proprio dire "nella fatica riposo" perchè oltre a ricaricare il corpo stanco, c’è una tregua per il cuore che trova ascolto e pace».
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Sabato 16 novembre, alle ore 14.30, nella Basilica Antica del Santuario di Oropa, nel Biellese in Piemonte, si svolgerà il tradizionale rito di pulizia della Sacra Effigie. La statua della Madonna verrà portata all’esterno del sacello per consentire la pulizia che sarà effettuata con un panno di lino. La cerimonia è un gesto carico di affetto e di tradizione: una “carezza” alla Madonna. Durante il rito, si attesta che sui volti della Madonna e di Gesù non si posa mai la polvere. Questo fenomeno, a cui nessuno riesce a dare una spiegazione, viene constatato ogni anno e richiama nella Basilica Antica di Oropa sempre più fedeli. Tutti i pellegrini possono prendere parte alla cerimonia: al termine della pulizia, viene donato ai partecipanti un piccolo lino con cui possono accarezzare la Madonna prima che venga riposta nella teca.
Secondo la tradizione l’origine del Santuario è da collocarsi nel IV secolo, ad opera di Sant’ Eusebio, primo vescovo di Vercelli. I primi documenti scritti che parlano di Oropa, risalenti all’inizio del XIII secolo, riportano l’esistenza delle primitive Chiese di Santa Maria e di San Bartolomeo, di carattere eremitico, che costituivano un punto di riferimento fondamentale per i viatores (viaggiatori) che transitavano da est verso la Valle d’Aosta. Lo sviluppo del Santuario subì diverse trasformazioni nel tempo, fino a raggiungere le monumentali dimensioni odierne tramutandosi da luogo di passaggio a luogo di destinazione per i pellegrini animati da un forte spirito devozionale.
Il complesso è frutto dei disegni dei più grandi architetti sabaudi: Arduzzi, Gallo, Beltramo, Juvarra, Guarini, Galletti, Bonora hanno contribuito a progettare e a realizzare l’insieme degli edifici che si svilupparono tra la metà del XVII e del XVIII secolo. Dal primitivo sacello all’imponente Basilica Superiore, consacrata nel 1960, lo sviluppo edilizio ed architettonico è stato grandioso. Il primo piazzale, su cui si affacciano ristoranti, bar e diversi negozi, è seguito dal chiostro della Basilica Antica, raggiungibile attraverso la scalinata monumentale e la Porta Regia.
Cuore spirituale del Santuario, la Basilica Antica è stata realizzata nel Seicento, in seguito al voto fatto dalla Città di Biella in occasione dell’epidemia di peste del 1599. Nel 1620, con il completamento della Chiesa, si tenne la prima delle solenni incoronazioni che ogni cento anni hanno scandito la storia del Santuario. La facciata, progettata dall’architetto Francesco Conti, semplice nell’eleganza delle venature verdastre della pietra d’Oropa, è nobilitata dal portale, più scuro, che riporta in alto lo stemma sabaudo del duca Carlo Emanuele II, sorretto da due angeli in pietra. Sull’architrave del portale si trova scolpita l’iscrizione “O quam beatus, o Beata, quem viderint oculi tui”, che dai primi decenni del sec. XVII è il saluto augurale che il pellegrino, raggiunta la meta, riceve varcando la soglia della Basilica.
Gli appunti critici per la Chiesa dentro il quadro di una società che ancora guarda al cristianesimo come a un riferimento collettivo sono probabilmente già nell’agenda di tanti delegati alla prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia, da venerdì a Roma. Di certo la ricerca del Censis sugli italiani, la fede e la Chiesa, anticipata domenica da “Avvenire” ( tinyurl.com/4brb42hu), sta dando da pensare a monsignor Antonello Mura, vescovo di Lanusei e Nuoro, presidente dei vescovi sardi, padre sinodale per due anni in Vaticano, membro di presidenza del Comitato del cammino sinodale italiano. «Il messaggio dell’indagine – riflette – è che la Chiesa non può che mettersi in ascolto, offrendo ai cristiani di oggi non solo una serie di proposte ma il coinvolgimento nella vita comunitaria. Per farli sentire a casa».
I dati offrono un quadro in chiaroscuro. Qual è la sua impressione?
Penso che senza il Sinodo la situazione sarebbe più problematica. Il cammino sinodale ha aiutato a cogliere una Chiesa che si mette in gioco, che cerca, che non si limita ad aspettare. Il fatto che molti si dicano ancora cattolici è una base per costruire, ma rischia di restare solo un’etichetta, un’atmosfera di sottofondo, se non si trasforma in pratica, esperienza, relazione.
Cosa l’ha colpita di più della ricerca?
L’annotazione che nella Chiesa i cristiani di valore, intraprendenti, non trovino posto. Con una battuta, me lo spiego col fatto che le persone intelligenti danno fastidio dappertutto... Anche nella vita delle comunità talvolta quelli che hanno idee, e le avanzano lealmente, non sono apprezzati da una maggioranza “piatta”. Questo mi fa pensare a quanto sia importante una cultura cristianamente ispirata: perché se i cristiani di valore si sentono esclusi rischiamo di diventare Chiesa “di rifugio”, cercata da chi ha qualche problema, più che di iniziativa e proposta, rischiando di non far emergere la capacità del Vangelo di trasformare la realtà, di lasciare un’impronta sulla vita personale e la società.
Cosa legge nel valore assegnato da una larga maggioranza di italiani alla vita spirituale?
Mi provoca molto e mi spinge a chiedermi se le nostre Chiese sono capaci di cogliere questa domanda di interiorità. Chi avverte questa esigenza finisce per cercare una risposta non nella comunità ma in sé stesso, in quella fede “fai da te” che il Censis cataloga come individualismo.
Il 71% degli italiani si dice cattolico, ma è un’identità che non passa attraverso la Chiesa, visto che solo il 15% frequenta. Cosa ne pensa?
Le critiche si concentrano sul fatto che la Chiesa sia “troppo antica” ma soprattutto non abbastanza chiara. L’assemblea sinodale italiana deve aiutare a capire quali sono i punti fermi della vita credente oggi in Italia, senza restare nell’indeterminatezza. Dobbiamo sentirci interrogati da questa insoddisfazione, più ancora del rilievo sul non essere abbastanza “attuali”, anche perché tra i credenti emerge una certa “nostalgia”.
Un altro aspetto interessante è la percezione sui sacerdoti, considerati in egual misura (il 40% del campione) da cercare o da evitare. Cosa vede in questa ambivalenza?
Per com’è la società oggi, che quattro italiani su dieci abbiano stima dei sacerdoti – un dato ben al di sopra di quello della frequenza – lo considero tutt’altro che negativo. I nostri sacerdoti continuano ad avere un ruolo importante nella società. D’altra parte però il 60% chiede alla Chiesa di cambiare... E allora mi chiedo: che risposte vogliamo dare a chi è diffidente per effetto degli abusi o del ruolo ancora inadeguato assegnato alle donne?
Cosa dicono i dati della ricerca all’assemblea sinodale italiana?
Anzitutto parlano di un cambiamento necessario e del recupero di presenze che possono avere valore nella Chiesa. A Roma saranno presenti persone entrate nel cammino sinodale sin dall’inizio, gente di spessore che ha accettato di farsi coinvolgere, dando prova di grande continuità nell’impegno, con un’esperienza di Chiesa allo stesso tempo vissuta e guidata. A me sembrano l’avanguardia di quel che si potrebbe mettere in movimento.
Quali sono le sue aspettative sull’assemblea di Roma?
Spero che si riesca a far percepire l’importanza dell’aspetto comunitario della fede, sottraendo i credenti all’idea che quel che fanno nella vita di fede valga solo per ciascuno individualmente, senza uno sguardo comunitario. Vanno fatti passi avanti nella partecipazione attiva dei cristiani alla vita ecclesiale, sul piano pubblico, concreto, e anche normativo. Senza temere il cambiamento. Perché cambiare è il modo della Chiesa di vivere e di essere nel tempo.
«Decodificare per l’uomo di oggi, con l’ausilio della tecnologia digitale, l’intreccio di storia, arte e spiritualità che fanno della Basilica un unicum al mondo». Questo lo scopo del progetto “La basilica di San Pietro: AI-Enhanced Experience/Esperienza abilitata dall’AI” realizzato da Microsoft e dalla Fabbrica di San Pietro in collaborazione con la Fondazione “Fratelli tutti” e della “Missione digitale della Basilica in uscita”, presentata nella Sala Stampa della Santa Sede dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica e presidente della Fabbrica. Con lui Brad Smith, vice chairman e presidente di Microsoft. D’altronde, spiega Gambetti la Chiesa da sempre cerca «di comunicare la propria fede nel divino attraverso i linguaggi del tempo e del contesto culturale di appartenenza». In nuovo progetto si basa su tecnologie all’avanguardia e sull’Intelligenza artificiale per consentire a pellegrini e visitatori di tutto il mondo di ammirare e interagire con la Basilica di San Pietro nei suoi punti inaccessibili. In quelli che l’occhio umano non riesce a vedere. Sarà possibile riscoprire la sua storia e il suo ruolo di cuore della cristianità, nonché quello di preziosissimo scrigno d’arte e cultura dell’intera umanità. Si tratta di una scelta innovativa voluta dal cardinale Gambetti che ha trovato la piena collaborazione di Microsoft allo scopo di aprire le porte della Basilica – proprio in occasione del prossimo Giubileo - al mondo, per donare a tutti la sua spiritualità, la sua cultura e la sua bellezza. Soprattutto a coloro i quali saranno impossibilitati a raggiungere Roma nell’Anno Santo. L’AI for Good Lab di Microsoft ha elaborato la vasta mole di dati della fotogrammetria del team francese di Iconem, raccolti anche con dei droni, perfezionando il “gemello digitale” della Basilica con una precisione millimetrica. Non solo. L’intelligenza artificiale ha aiutato a rilevare e mappare le vulnerabilità strutturali della Basilica, come crepe e tessere di mosaico mancanti, per orientare al meglio i futuri lavori di conservazione.
Durante il Giubileo poi due nuove mostre immersive presso la Basilica di San Pietro, Petros Eni e Petros Eni Octagon, offriranno a pellegrini e visitatori una combinazione unica di nozioni storiche ed esplorazioni digitali, mostrando aspetti chiave nell’evoluzione della Basilica nei secoli. Intanto un sito web interattivo consentirà a chiunque, nel mondo, un “accesso diretto” alla Basilica di San Pietro attraverso modelli 3D dettagliati e contenuti educational. «Siamo giunti a definire un piano coordinato di servizi e di attività di comunicazione per una “Basilica in uscita” - spiega il cardinale Gambetti - In questi anni, non senza fatica, abbiamo affrontato la splendida sfida del rapporto tra l’uomo e la tecnica con lo spirito di fraternità, che ha animato importanti collaborazioni improntate alla circolarità, di competenze, di punti di vista e di mezzi, con il comune obiettivo di favorire la crescita umana delle persone». Inoltre «sono state create piattaforme e app per offrire servizi ai pellegrini e ai visitatori al fine di favorirne l’esperienza in San Pietro; e sono stati resi maggiormente comprensibili – tramite i linguaggi multimediali, l’impiego dell’Intelligenza artificiale e la proposta di corsi di formazione – i significati custoditi dal complesso monumentale». «Con la Basilica nello spazio digitale, inizia un nuovo processo di comunicazione, con una nuova opera d’arte che prosegue sul cammino di coloro che hanno lavorato alla bellezza del messaggio che parte dal cuore della cristianità» spiega il direttore della comunicazione padre Enzo Fortunato, anticipando che il 25 novembre verrà presentato, assieme al cardinale Gambetti, e in accordo con gli organi competenti, il piano di comunicazione della Basilica. «Siamo stati animati da un desiderio che non è semplicemente estetico o legato a un’innovazione tecnologica – aggiunge infine il coordinatore del progetto Microsoft, padre Francesco Occhetta - Molte persone cercano uno spazio sacro in cui potersi ritrovare davanti a Dio e la ricostruzione digitale della Basilica potrà aiutare questo incontro in ogni angolo del mondo».
L’Italia resta un Paese assolutamente cattolico, gli insegnamenti di Gesù sono ancora un punto di riferimento fondamentale mentre c’è diffidenza nei confronti della Chiesa, ritenuta responsabile di emarginare i laici di valore. La fotografia che emerge dalla ricerca Censis “Italiani, fede e Chiesa” è quella di un Paese la cui cultura è fortemente intrisa di simboli religiosi ma che vive la fede in modo sempre più individualistico. «C’è diffidenza nei confronti dell’esperienza comunitaria – spiega Giulio De Rita, il ricercatore del Censis che ha seguito l’indagine – si registra una dimensione sempre più personalistica della fede, che riguarda soprattutto i cattolici non praticanti cui piace vivere la vita interiore, spirituale, da soli, al limite condividendola con la famiglia o gli amici più stretti».
Si diceva della sfiducia verso la Chiesa cattolica, soprattutto nella sua dimensione comunitaria.
È un sentimento abbastanza diffuso. La Chiesa viene vista come un po’ troppo clericale, quindi non in grado di valorizzare le risorse di valore che avrebbe al suo interno.
Si guarda con meno fiducia anche ai preti?
In declino è soprattutto la figura del sacerdote clericale, quello che non sa ascoltare i cambiamenti che avvengono fuori dalla Chiesa.
Possiamo dire che il sacerdote è in calo come figura di riferimento, ma forse meno di quanto ci si potesse aspettare?Diciamo che la vita ecclesiale vissuta nella dimensione della parrocchia, comunitaria non è più così attraente. Bisognerebbe “uscire”, come dice continuamente il Papa, non stare in sagrestia a coccolare le ultime pecorelle rimaste ma andare a cercare quelle che si sono smarrite. La cosa paradossale è che gli italiani ritengono la parrocchia un luogo accogliente, il sacerdote una persona con cui ti puoi confrontare, ma non li vedono amalgamati nella società. La Chiesa in uscita non è ancora cominciata.
Però non viene considerata un’istituzione superata.
La maggior parte degli italiani le riconosce una sua trascendenza e quindi la capacità di attraversare i secoli. Quando ero ragazzino c'era una un'ideologia contraria al cattolicesimo, adesso non c’è più.
Ma forse il venir meno del rifiuto a muso duro si è tradotto in indifferenza.
L’effetto è appunto il soggettivismo, l'individualismo, il pensare soltanto a sé stessi. Tempo fa abbiamo realizzato un’indagine proprio sull’indifferenza da cui è emerso come l’unico peccato ancora sentito dagli italiani sia quello di omissione, cioè l’aver trascurato i propri talenti. La Chiesa orizzontale, che chiede di essere buoni col prossimo, alla fine non risponde all'esigenza profonda dell'uomo moderno che si domanda: “ma io nella mia vita che cosa faccio? Devo far fruttare le mie potenzialità”. Non significa soltanto fare del bene ma anche realizzarsi come persone. Bisognerebbe puntare più sulla parabola dei talenti che su quella del buon samaritano.
Il cristianesimo è la fede in Gesù, che continua ad essere un riferimento fondamentale per la vita degli italiani.
Sì, poi bisognerebbe sapere cosa significa, perché Gesù illumina ciascuno in modo differente e quindi riesce un po’ difficile incasellarlo in categorie. Però certamente sulla carta è il punto di riferimento trascendente per la maggior parte degli italiani. E dove c'è qualcuno che crede in Gesù, lì è Chiesa, lì è l'istituzione che però non riesce ad abbracciare tutto quell’oltre 70% di persone che si definiscono cattoliche.
C'è un dato in questa ricerca che l’ha sorpresa?
Direi la pervasività del sentimento cattolico e poi la risposta alla domanda, che non era mai stata fatta, sulla vita dopo la morte.
Il 58% degli italiani crede che esista, percentuale che sale all’87,7% tra i praticanti. E il 61,7% ritiene che la vita dopo la morte sarà diversa tra chi ha vissuto bene e chi ha vissuto male.
Sì, però a proposito dell’ultimo dato questa consapevolezza non orienta realmente la vita. Non si crede più nel giudizio finale. Si potrebbe spiegare questo atteggiamento con il fatto che il cattolicesimo è la religione della misericordia, che Dio perdona tutto, basta anche pentirsi un attimo prima di morire. Io però penso che alla base ci sia qualcosa di più profondo: non si intende più il peccato come qualcosa che ha a che fare con Dio, da cui siamo liberati grazie al suo perdono. Così viviamo con i sensi di colpa, che nascono dall’essere stati imperfetti, dal non aver corrisposto a quella che volevamo fosse l’immagine di noi stessi. Si potrebbe dire: non credo nel giudizio perché credo nella misericordia di Dio. In realtà non si crede nel giudizio perché ci siamo impossessati del peccato e non ce ne liberiamo più.
Dentro il cassetto della scrivania nel suo studio di avvocato a Parigi, teneva la copia di una preghiera. «E ogni tanto la tiravo fuori per leggerla», racconta Jean-Paul Vesco. Era la “preghiera dell’abbandono” di Charles de Foucauld. «Padre mio, fa’ di me quello che vuoi. Qualsiasi cosa Tu faccia di me io ti ringrazio», scriveva il “piccolo fratello di tutti” che aveva lasciato la Francia per “vivere per Dio” nel deserto africano. Un po’ come Vesco. Francese che dagli uffici lungo la Senna si è ritrovato in Algeria. Prima da domenicano. Poi da vescovo. Adesso anche da cardinale. Uno dei ventuno nuovi cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.
Sessantadue anni, originario di Lione, è arcivescovo di Algeri dalla fine del 2021 dopo aver guidato la diocesi di Orano, quella in cui era stato vescovo Pierre Claverie, domenicano come lui. Assassinato nel 1996. E beato dal 2018. «A lui devo la mia presenza in Algeria», dice Vesco. Porpora in un Paese dove l’islam è religione di Stato e dove la sfida è quella di «costruire la fraternità: cristiani e musulmani insieme», spiega ad “Avvenire”. Come richiama la basilica di Nostra Signora d’Africa che dalla cima del promontorio a nord di Algeri abbraccia il mar Mediterraneo e custodisce un’invocazione alla Madonna che è come un ponte oltre le differenze: “Nostra Signora d’Africa, prega per noi e per i musulmani”. «Ogni anno i visitatori sono 350mila e il 98% è musulmano. Consideriamola pure una chiesa dell’incontro. Condividendo lo spazio sacro, teniamo aperta la porta a quella parte del mistero che è vicinanza all’altro distante da noi e a un Dio che si mostra nel volto del prossimo, chiunque esso sia», racconta Vesco. Una berretta della “fratellanza universale”. E “aperturista” sotto molteplici punti di vista: compreso il diaconato femminile o i separati risposati. Ma anche a sorpresa. «Non me lo sarei mai immaginato. Alla gente della diocesi, che pensava me ne andassi dopo l’annuncio di papa Francesco all’Angelus, ho detto che il cardinalato non è un riconoscimento alla mia persona ma alla nostra Chiesa».
Ha dedicato la sua ultima Lettera pastorale alla fraternità. È la missione della Chiesa in Nord Africa?
«La fraternità è lo stile con cui qui testimoniamo il Vangelo. Non si tratta di ridurre tutto al dialogo. È necessario, invece, vivere insieme, lavorare insieme, sentirsi sorelle e fratelli che condividono la stessa terra. Ciò che ci unisce è infinitamente più importante di ciò che ci divide. Ovviamente non nascondiamo il nostro essere cristiani: siamo qui per questo. Ma serve un ribaltamento di prospettiva. Non dobbiamo affermare il nostro Dio, ma mostrare con la vita il Dio in cui crediamo».
I cattolici sono una piccola minoranza: 10mila su 43 milioni di abitanti. Come si vive in una nazione che è in tutto e per tutto islamica?
«Lo Stato pensa se stesso e si organizza con parametri musulmani. La nostra Chiesa è per lo più formata da stranieri, di almeno quaranta nazionalità. Per i cristiani non autoctoni la vita di fede non è problematica. La questione si fa ben più complessa per i nativi locali che sono un numero molto ridotto. Le conversioni sono difficili da accettare: sia a livello sociale, sia da parte dell’islam stesso. Così, ad esempio, sorgono problemi all’interno delle famiglie».
Lei ripete che la convivenza non è un’utopia. Quale lezione di pace dal Nord Africa?
«Non sono le differenze religiose che alimentano le tensioni. Anzi, possono favorire le soluzioni. Non siamo chiamati a convertirci a vicenda ma a creare insieme un clima di fiducia reciproca. È il grande messaggio che arriva dal Documento di Abu Dhabi che reputo uno dei più belli del pontificato e che sta orientando sia la mia vita personale sia il mio ministero episcopale. Quando nel 2019 papa Francesco e il grande iman di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno firmato il testo l’uno accanto all’altro, non erano due leader religiosi rivali, ma uniti dallo stesso sguardo sulla realtà e dall’impegno a rendere migliore il mondo».
Perché la scelta di indossare l’abito domenicano dopo essere stato avvocato?
«Avevo 33 anni quando sono entrato nell’Ordine. E per sette ero stato un legale. Eppure posso dire di aver avvertito la vocazione fin da ragazzo, a cui però ho risposto tardivamente. Sono stato impegnato anche sul versante politico e sindacale. Ma a un tratto mi sono reso conto che mancava qualcosa. Due figure forti mi sono state di riferimento: Pierre Claverie e Charles de Foucauld».
Entrambi hanno declinato il Vangelo nel Maghreb. Partiamo da Pierre Claverie…
«È stato assassinato durante il mio primo anno di noviziato. Da subito ho percepito una singolare attrazione spirituale verso di lui. Poi, a distanza di alcuni anni, quando la Provincia domenicana ha voluto riaprire una nuova comunità in Algeria, ha inviato me e un confratello. E nel 2012 la Provvidenza ha voluto che diventassi vescovo di Orano, la diocesi di Claverie. Lui ripeteva: “Nessuno possiede la verità. Ognuno la ricerca e io ho bisogno della verità degli altri”. È la mia bussola nel rapporto con il mondo musulmano. E la mia fede si è rafforzata vivendo in un Paese islamico. Infatti la presenza di altre religioni ti allarga gli orizzonti perché ti rendi conto che Dio è ben più grande dei nostri incasellamenti. Inoltre è dall’assolutizzazione della propria visione di Dio che scaturiscono i fondamentalismi».
E Charles de Foucauld?
«Mi ha sempre attratto la sua radicalità unita alla povertà. Un folle di Dio. Quando, dopo il percorso di rinascita della presenza domenicana in Algeria, sono stato costretto a lasciare il Paese perché ero stato eletto provinciale di Francia, pensavo che non avrei più toccato con mano l’esperienza di Charles de Foucauld. Invece un giorno, a Parigi, sono entrato nella chiesa di Saint-Augustin dove lui si era convertito. E ho ritrovato la sua “preghiera dell’abbandono” che ho capito di stare vivendo dopo aver rinunciato all’Algeria. Finché non è arrivata la nomina di Benedetto XVI a vescovo di Orano».
E a Orano ha vissuto la beatificazione dei diciannove martiri d’Algeria. Sacerdoti, religiose e religiosi (fra cui i sette trappisti di Tibhirine e il vescovo Claverie) uccisi nel “decennio nero” del terrorismo islamico che dal 1991 al 2002 ha fatto 150mila vittime.
«Tibhirine è oggi un luogo che attrae migliaia di persone, compresi i musulmani. La beatificazione è stata un invito a “continuare a operare per il dialogo, la concordia e l’amicizia”, aveva scritto papa Francesco. Tutti i martiri avevano deciso di restare nonostante i pericoli negli anni tragici della crisi algerina durante i quali sono stati uccisi anche 119 imam. Desideravano stare accanto alla gente come segno di speranza. Perché la fede cristiana è un messaggio di speranza. La loro è una testimonianza di fedeltà al Vangelo che si è tradotta in vicinanza al popolo».
Come si vedono dall’Algeria i viaggi della speranza dei migranti che lasciano l’Africa?
«L’Algeria è terra di partenze e arrivi. Abbiamo giovani algerini che se ne vanno in Europa o Canada; e migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana che giungono qui. Il Paese reprime in maniera dura l’immigrazione. Eppure non si tratta di numeri: sono donne e uomini che rischiano la vita in cerca di un futuro. Sulle rotte migratorie, sia nel Mediterraneo, sia nei deserti, dove i morti si moltiplicano, sta naufragando la civiltà. E, come ripete il Papa, l’accoglienza è imperativo etico. Reputo drammatico che una persona debba lasciare la sua terra, spesso ricca di risorse come in Africa, per realizzare i suoi sogni».
C’è bisogno di denunciare azioni predatorie nel continente?
«Non ci può essere sviluppo senza giustizia. Quando non si tiene conto della giustizia, si avrà l’arricchimento di pochi a scapito di molti. Ed è quanto sta succedendo ancora oggi. I Paesi che per secoli hanno colonizzato l’Africa hanno una responsabilità enorme, ma vedo nazioni del continente che stanno cadendo nelle mani di altri conquistatori».
Lei è favorevole al diaconato femminile. Perché?
«Le donne sono l’anima della maggior parte di proposte ecclesiali. Però nella Chiesa si parla di donne solo in termini di complementarità rispetto agli uomini. Invece occorre pensare nell’ottica dell’alterità. Allora mi domando: perché privarci della loro sensibilità spirituale nel commento alla Parola di Dio, a cominciare dalle Messe domenicali? Trovo difficile vedere qualcosa che si frapponga a tale prospettiva che può comprendere anche un ministero ordinato. Se vogliamo essere Chiesa cattolica, cioè universale, le donne devono avere spazio. Papa Francesco sta scuotendo la comunità ecclesiale per superare il maschilismo. La Chiesa cammina. E alcune cose cambieranno».
La Speranza è il tema del progetto triennale “The Future of Hope: an interdisciplinary dialogue”, promosso dal Centro di Formazione Integrale dell’Università Europea di Roma, con il patrocinio della FUCE (Federazione Europea delle Università Cattoliche). L’obiettivo è quello di avviare un dialogo culturale e scientifico sulla Speranza nel mondo contemporaneo, attraverso indagini, confronti e scambi accademici internazionali. I professori dell’Università Europea di Roma che coordinano il progetto sono Renata Salvarani, Docente di Storia del Cristianesimo, e Guido Traversa, Docente di Filosofia.
Quest’anno il convegno sarà a Bruxelles dal 19 al 21 novembre. Si confronteranno più di quaranta professori e ricercatori con approcci diversi, portando i risultati delle loro ricerche. Innovazione sociale, storia, teologia, medicina, ICT pianificazione del territorio, intelligenza artificiale sono i focus del dibattito intorno al grande tema della Speranza (inteso anche come visione, propensione, orientamento) che viene inquadrato nelle sue implicazioni concrete, all’interno dei contesti sociali, tecnici ed economici.
I lavori della giornata di martedì 19 novembre si svolgeranno in collaborazione con COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea. Nella mattinata si terrà una presentazione del progetto. Nel pomeriggio è prevista una serie di dialoghi tra parlamentari europei e dirigenti delle istituzioni UE con i professori e i ricercatori impegnati nei gruppi di lavoro. Gli incontri, che si svolgeranno in forma di tavola rotonda, saranno condotti dai policy advisor della COMECE, sulla base di dati e documentazione raccolti nelle precedenti ricerche.
Nelle giornate di mercoledì 20 e giovedì 21 novembre si terrà un Convegno Internazionale di taglio accademico sul tema della Speranza e sulle sue implicazioni concrete nella società contemporanea. L’incontro sarà aperto dall’intervento di Padre Pedro Barrajón, Rettore dell’Università Europea di Roma, e il coinvolgimento di atenei dei diversi Paesi, insieme con enti di ricerca come il CNR, confrontando scienze umane e applicazioni tecnologiche.
Come evidenziato dalla prof.ssa Renata Salvarani, coordinatrice scientifica dell’attività: “Guardare al futuro, pensarsi in relazione con ciò che verrà, delineare la società del domani è una sfida che chiama in causa le diverse aree scientifiche. La tre giorni include anche un Forum tra ricercatori, parlamentari europei e policy makers, che si tiene presso la sede della COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea. I decisori politici sono destinatari e interlocutori primari del progetto: da un lato le Università mettono a loro disposizione i risultati delle ricerche in corso nei diversi campi e, dall’altro, ricevono input e richieste sulle questioni emergenti. Mantenere un dialogo istituzionale sul piano della conoscenza, condividere prospettive comuni di collaborazione è uno degli obiettivi dell’iniziativa”.
Ulteriori informazioni sul progetto triennale “The Future of Hope” in questo link:
https://www.uer.it/formazioneintegrale/eccellenza-umana/the-future-of-hope
L’Italia rimane fondamentalmente un Paese cattolico, che si riconosce nei valori della fede cristiana e che dedica del tempo alla preghiera, ma la pratica religiosa sta diventando sempre più individualista e fatica a trovare posto nell’esperienza offerta dalla comunità ecclesiale. È questo ritratto, offerto da una ricerca condotta dal Censis per conto della Conferenza episcopale italiana, a provocare la Chiesa italiana, alla vigilia della prima Assemblea sinodale, in programma il prossimo fine settimana. L’indagine è stata svolta nel periodo dal 27 settembre al 1° ottobre 2024, su un campione rappresentativo di mille adulti, ed è stata realizzata proprio nell’ambito del cammino avviato dalla Chiesa italiana tre anni fa. Ne emerge una sfida epocale, con i suoi chiari punti critici ma non priva di opportunità, che possono fare da traino per un rilancio della vita di fede.
Il dato fondamentale è che gli italiani che si definiscono cattolici sono il 71,1% della popolazione: il 15,3% si dice praticante, il 34,9% dichiara di partecipare solo occasionalmente alle attività della Chiesa e il 20,9% afferma di essere “cattolico non praticante”.
Di certo, in questo quadro, il dato più significativo, quello che indica la priorità da mettere in testa alla lista delle questioni da tenere presente in un dibattito sul futuro della Chiesa, è quello riguardante i giovani: nella fascia dai 18 ai 34 anni, infatti, scende al 58,3% la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici secondo varie “gradazioni” (i praticanti sarebbero il 10,9%).
Ma cos’è che spinge il 55,8% degli italiani a una pratica saltuaria o assente, pur pensandosi cattolici? Il principale motivo pare essere una forma di “individualismo religioso”. Più di metà di coloro che di fatto rimangono distanti dalla pratica regolare (il 56,1%) dicono di farlo perché vivono “interiormente” la fede.
Questi numeri fanno il paio con quello di coloro che non si riconoscono nella Chiesa cattolica: 4 italiani su 10. Tra i praticanti, e quindi i più fedeli, poco meno del 15% dice di non ritrovarsi dentro la Chiesa così com’è oggi. Anche qui la ricerca indaga le ragioni e ne emerge che, tra coloro che non si sentono lontani da questa Chiesa, il 45,1% dice che è perché è troppo antica, il 27,8% perché non vede “una linea chiara” nella Chiesa stessa. Solo l’8,9% dice di non riconoscersi perché non ci sono donne in posizione di vertice (tra la popolazione femminile la percentuale sale al 12,4%). Il 43,6% degli italiani (il 46,5% delle donne) ritiene che la Chiesa cattolica italiana sia un’istituzione maschilista, percentuale che tra i cattolici praticanti scende al 23,9%.
«La zona grigia nella Chiesa di oggi, quindi – sostiene il presidente del Censis, Giuseppe De Rita –, è il risultato dell’individualismo imperante, certo, ma anche di una Chiesa che fatica ad indicare un “oltre”, la Chiesa ha sempre aiutato la società italiana ad andare oltre, deve ritrovare questa sua capacità, perché una Chiesa solo orizzontale non intercetta chi è ubriaco di individualismo, perché a costoro non basta sostituire l’Io con un “noi”, hanno bisogno di un oltre, hanno bisogno di andare oltre l’io; non è un caso - e dovrebbe preoccuparci come cattolici - che nel mondo stiano vincendo gli “oltranzismi”».
Le fila dei cattolici oggi si assottigliano, ma solo una minoranza crede nella filosofia del “pochi ma buoni”: il 13,9% dei praticanti pensa che vada bene così, mentre per il 60,8% la Chiesa dovrebbe adattarsi alle mutate condizioni del mondo contemporaneo. Il discredito nei confronti dell’esperienza ecclesiale viene anche da una questione dolorosa: gli abusi. Realtà che mina la credibilità della Chiesa per quasi 7 italiani su 10 (6 su 10 tra i praticanti).
Indagando le ragioni dell’abbandono della pratica all’interno della comunità ecclesiale, la ricerca del Censis rivela che al primo posto sembra esserci la tendenza, da parte della Chiesa, a emarginare i “fedeli di valore” o quelli più intraprendenti: lo pensa il 49,2% degli italiani (tra i praticanti la percentuale scende al 38,1%). Dietro, quindi, c’è il desiderio di una Chiesa più coraggiosa, capace di dare più spazio ai laici.
L’Italia nella sua identità culturale rimane cattolica: solo il 5,4% della popolazione dichiara di essere stato educato in un ambito “anti-cattolico”, mentre il 79,8% dice che la sua base culturale è di ispirazione cattolica. Infine, il 61,4% si dice d’accordo con l’affermazione che il cattolicesimo è parte integrante dell’identità nazionale (anche il 41,4% dei non credenti).
E anche i simboli religiosi continuano ad avere in qualche modo un posto: davanti al segno della croce, ad esempio, il 34,5% dice di rispettare questo gesto e per il 54,8% fa parte del sentire personale. Il 41% della popolazione, poi, si riconosce nella devozione alla Madonna, figura rispettata anche tra il 36,7% dei non credenti. Tra i credenti c’è una nota di nostalgia per i “bei riti di un tempo”: a rimpiangerli sono il 43,9% dei praticanti (solo tra il 27,8% della popolazione generale, però).
E i contenuti della fede? Per il 45,5% degli italiani le parole di Gesù sono tra gli insegnamenti spirituali migliori di cui disponiamo e per il 16,3% essi ispirano la vita. Guardando al rapporto con i preti, su 10 italiani, 4 li vedono come delle persone da cui andare a farsi consigliare, 2 non esprimono un’opinione e altri 4 rifiutano l’idea.
Per quanto riguarda l’idea di un partito dall’identità cristiana solo un italiano su dieci crede con decisione che esso potrebbe avere una certa forza nella società, il 37,4% pensa che non l’avrebbe, mentre gli altri hanno posizioni intermedie. Tra i praticanti il 23,2% appoggia l’idea di un partito con un peso nella società, il 19,4% dice con certezza che non avrebbe forza, i rimanenti pensano che ne potrebbe avere in parte, oppure non sanno dare una risposta.
Il 66% degli italiani dichiara di “pregare” o comunque di rivolgersi a Dio o ad un’altra entità superiore: lo fa anche il 65,6% dei non praticanti e addirittura l’11,5% dei non credenti. Si parla però di una preghiera legata non alla liturgia comunitaria, quanto piuttosto a situazioni esistenziali individuali: il 39,4% degli italiani prega quando vive un’emozione, il 33,5% quando ha paura e vuole chiedere aiuto. Anche tra i praticanti solo l’8,8% dichiara di pregare all’interno di un rito.
Per quanto riguarda la vita dopo la morte, il 58% degli abitanti della Penisola crede che esista (l’87,7% tra i praticanti). Tra coloro che ci credono il 61,7% ritiene che sarà diversa tra chi si è comportato male e chi invece si è comportato bene nella vita presente, pensa quindi che ci sarà un “giudizio” e questo orienta le scelte di vita per circa il 53,6%.
Sette italiani su 10 dicono che la vita spirituale resta un’esigenza importante, ma per il 52,7% si tratta di un’esperienza individuale. Ed ecco che si torna quindi alla questione iniziale, cuore anche del Cammino sinodale: come può la Chiesa oggi intercettare questi bisogni e queste esigenze dando risposte credibili ed efficaci, costruendo così comunità calde, partecipate e aperte al mondo? La sfida è impegnativa, ma la voglia di mettersi in gioco è dimostrata dalle energie spese in questi anni proprio nel cammino di confronto diffuso sul territorio e che arriverà nei prossimi giorni a una nuova importante tappa con la prima Assemblea sinodale alla presenza di mille delegati da tutte le diocesi d’Italia.
La maggior parte dei maestri dello spirito sostiene che la via più semplice per imparare a pregare è allenarsi nel ringraziamento. Dire grazie per il nuovo giorno che abbiamo la possibilità di vivere, per la natura, per una bella sorpresa. Ringraziare per le persone. Perché, anche se fatichiamo a riconoscerlo, il nostro giudizio sul mondo, se ci piaccia o no abitarlo, dipende dalla qualità delle relazioni che sappiamo costruire. Primo requisito della felicità è avere qualcuno con cui condividere successi e delusioni. Ogni nuova presenza che arriva nella nostra vita, allora, dovrebbe regalarci gioia, visto che, nell’ottica della fede, rappresenta una via preferenziale per incontrare Dio. Spesso, però non ce ne rendiamo conto. Anzi, ci comportiamo in modo diametralmente opposto facendo precedere la conoscenza da un pregiudizio negativo: «chissà perché quell’uomo si è avvicinato, chissà cosa vuole quella ragazza, io non le darò niente». In questa sua breve riflessione spirituale il gesuita e psicoterapeuta statunitense John Powell (1925-2009) ci ricorda che ogni persona è un dono di Dio e che lo siamo noi stessi. L’invito, quindi, è ad andare al di là dell’involucro, della prima impressione, per scoprire quanta ricchezza, originale e irripetibile c’è in ognuno. In particolare, il religioso racconta di avere ricevuto sul tema un articolo anonimo, di cui riassume il contenuto.
«Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti. Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente. Alcuni vengono strapazzati durante l'invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l'involucro ed è importante rendersene conto. È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall'involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c'è bisogno dell’aiuto altrui. Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati. Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono. Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia. E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni. Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu. Siamo doni vicendevoli».
«Aprite le vostre case». Nicholle Salerno cita l’appello che sua madre le ha raccontato. Viene da Brindisi, ha 29 anni e dà voce all’Italia nel Consiglio dei giovani del Mediterraneo. «Era il 1991 quando le strade della mia città si erano riempite di albanesi, arrivati attraversando il mare. La Chiesa e le istituzioni avevano chiesto aiuto alla gente. E scuole, parrocchie ma anche famiglie avevano risposto con uno straordinario slancio di generosità che ha segnato profondamente la comunità, scegliendo di condividere i propri spazi con chi era appena sbarcato». Perché, aggiunge Nicholle, «l’accoglienza non può essere delegata: spetta a ciascuno di noi». Parole che ben sintetizzano il progetto giubilare presentato ieri a Palermo dal Consiglio dei giovani del Mediterraneo, il laboratorio di fraternità e azione ecclesiale e civica voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci dell’area a Firenze nel 2022.
?“Prendersi cura: una famiglia per ogni comunità del Mediterraneo” è la sfida che i ragazzi lanciano alle Chiese di tutto il bacino in occasione dell’Anno Santo. «Attraverso le Conferenze episcopali e i Sinodi che i delegati del Consiglio rappresentano, i ragazzi vogliono essere protagonisti di un impegno nel nome dei più deboli», spiega Tina Hamalaya, originaria del Libano ma trasferitasi in Italia per lavorare con la Fondazione Giovanni Paolo II. Lei anima la segreteria della consulta internazionale permanente formata da quaranta giovani, tutti under 35, dei Paesi affacciati sul grande mare. Giovani di tre continenti, Europa, Africa e Asia, che decidono di «mettersi in cammino con quanti sono nel bisogno per curarne le ferite: siano essi migranti, rifugiati, richiedenti asilo ma anche senza fissa dimora, madri e padri in condizioni di disagio con i loro figli, donne vittime di tratta, giovani in difficoltà. In pratica, tutte quelle situazioni di fragilità che con numeri sempre più preoccupanti caratterizzano le nostre società», aggiunge Tina.
Una proposta concreta di “speranza”, come chiede il Giubileo alle porte, che ha per trampolino Brancaccio, il quartiere di Palermo che lega il suo nome al martirio di padre Pino Puglisi e che sta risorgendo sui passi del sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993. Un “maestro” dell’accoglienza degli ultimi che i ragazzi incontrano visitando il luogo del suo assassinio, entrando nella casa-museo ricavata nell’appartamento dove il prete viveva, toccando con mano le attività di promozione sociale realizzate dal Centro di accoglienza Padre Nostro che il parroco beato aveva fondato nella periferia del capoluogo. «Solo se si resta sul territorio e non si fugge davanti ai problemi, è possibile cambiare la realtà», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro, rivolgendosi ai ragazzi.
È nei Magazzini Brancaccio, complesso confiscato alla mafia e ora collegato al liceo delle scienze umane “Dolci”, che i giovani del Mediterraneo si riuniscono nella loro seconda delle tre giornate siciliane all’insegna del motto “Non c’è pace senza accoglienza”. A promuovere l’appuntamento la rete Mare Nostrum a cui la Cei ha affidato il Consiglio; a costituirla quattro realtà di Firenze che tengono viva la profezia di riconciliazione fra i popoli di Giorgio La Pira: la Fondazione La Pira, l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II. «Gesù non ha mai detto: “Scusate, non posso aiutarvi…”. - sottolinea Pilar Perez Brown, 26 anni, volto della Chiesa spagnola in seno all’organismo -. Spesso ci concentriamo su discorsi teorici, ma dobbiamo domandarci che cosa possiamo fare nel quotidiano». Ecco il percorso di ospitalità che unirà le sponde del Mediterraneo. «C’è chi pensa che incontrare l’altro o averlo in mezzo a noi significhi indebolire la nostra identità. Niente di più falso. Il Vangelo è fraternità. E il Giubileo invita a spalancare le braccia e i cuori», rimarca Pilar.
Testimonial del progetto è il vescovo latino Cesar Essayan, energico vicario apostolico di Beirut, che porta a Palermo l’orrore e le sofferenze di un popolo sotto le bombe di Israele. «Non bisogna essere ingenui: l’accoglienza può generare paure», afferma. Vale anche per il suo Libano dove, riferisce, gli sciiti di Hezbollah si mescolano agli altri sfollati. «Ma noi accogliamo tutti», chiarisce. Poi il monito: «Occorre liberare il Vangelo dalle ideologie di gruppi o partiti che l’hanno preso in ostaggio». Il presule sposa l’iniziativa del Consiglio. «Dai migranti e dai rifugiati si leva un grido: “Signore, dove sei? Perché ci hai abbandonato?”. Tocca a noi ascoltarlo e rispondere a questo appello mostrando Cristo che vive in noi. Non da soli, ma insieme». Un invito a creare ponti intorno al grande mare. E ai giovani Essayan dice: «Trascinate i vostri vescovi. La Chiesa ha urgenza del vostro coraggio».
Indirizzare e verificare le attività, la programmazione e la progettualità della Pul, dal punto di vista accademico, scientifico e didattico, nonché la sua gestione amministrativa, economica e finanziaria. Questo il compito del Consiglio superiore di coordinamento della Pontificia Università Lateranense (Pul), del quale il Papa ha nominato ieri i membri, fra i quali vi sono otto laici (di cui due donne). I nomi: l’arcivescovo Alfonso V. Amarante, rettore della Pontificia Università Lateranense; monsignor Riccardo Ferri, pro-rettore della Pul; Sabrina Di Maio, direttore gestionale Pul; Immacolata Incocciati, segretario generale Pul; monsignor Roberto Campisi, assessore per gli Affari Generali, Segreteria di Stato; Luis Herrera Tejedor, direttore della Direzione per le Risorse umane della Santa Sede, Segreteria per l’Economia; Paolo Nusiner, direttore generale dell’Università Cattolica, direttore per gli Affari Generali del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, presidente dell’Ospedale Isola Tiberina - Gemelli Isola; Stefano Fralleoni, dirigente dell’Area Servizi e del Controllo gestione dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica); Aldo Fumagalli, presidente di Beldofin srl e amministratore delegato di Albe Finanziaria; Giacomo Ghisani, direttore del Segretariato per le Partecipate, gli Affari Generali e Giuridici della diocesi di Cremona; Mimmo Muolo, vaticanista e vice caporedattore di Avvenire. La comunità studentesca della Lateranense ha raggiunto nel 2023-2024 le 1.137 unità. Gli studenti provengono da Europa (657), Africa (180), Asia (169) e Americhe (130). I laici sono 421, gli ecclesiastici 347, i religiosi 290 e i seminaristi 79. A commentare la nomina del Consiglio per Avvenire è il rettore, l'arcivescovo Alfonso Amarante.
Il rilancio dell’“università del Papa” passa anche dal contributo delle esperienze e delle professionalità dei laici. La Pontificia Università Lateranense (Pul) vuole fare di meglio e di più, e per questo, nel rinnovato Consiglio superiore di coordinamento della Pul, assieme al rettore, l’arcivescovo Alfonso Amarante, e ad altri due ecclesiastici, sono stati scelti otto laici, tra cui due donne (per le nomine papali si veda il box qui sotto). Per lavorare su tre fronti: elaborare un piano di sviluppo che tenga conto della missione dell’ateneo; individuare strategie di comunicazione per promuovere l’Università Lateranense; pianificare strategie per la raccolta di fondi.
Monsignor Amarante, che valore ha per la Pontificia Università Lateranense questo Consiglio superiore di coordinamento?
È previsto dagli statuti dell’Università, ma il Papa, quando ad agosto mi ha nominato rettore, ha chiesto che il Consiglio prendesse ancora di più in mano le sorti dell’Università, da un punto di vista “politico” e amministrativo. E la presenza dei laici in questo organismo è una ricchezza enorme: vengono del mondo accademico, gestionale, della comunicazione. Un grande supporto alla nostra missione.
Su quali direttrici si svolgerà il lavoro?
Quelle del Dna della Lateranense: insegnare materie teologico-canonistiche. Ma il Consiglio è chiamato a un piano di sviluppo sull’offerta delle materie non canoniche e non teologiche – già c’è Diritto civile, Scienza della pace, ora Ecologia e ambiente – e a diffondere nel mondo la conoscenza della Pul.
Il nuovo Consiglio dovrà anche consigliarla sulla componente gestionale. E il Papa ha chiesto di cercare risorse esterne.
È una sfida enorme. Il Papa e la Chiesa credono nella Pul, nell’istruzione in genere. E continuano a investire. Lo sforzo economico nella cultura non ha un rientro nell’immediato. Quando fu costruita la Cappella Sistina, il Papa di allora venne accusato di sperpero. Oggi è un patrimonio dell’umanità, che illustra la bellezza e comunica il messaggio salvifico. Ora ci viene chiesto di trovare partner per la nostra missione. I primi sono gli ex studenti dell’Università, ma a livello mondiale, oltre gli episcopati, ci sono tanti uomini e donne di buona volontà che condividono questa visione.
Il rinnovamento dell’università andrà anche nel senso del dialogo con la cultura laica?
Per il Santo Padre le università pontificie, in particolare la Lateranense, devono essere luogo di studio e di ricerca, ma anche di incontro culturale. Oggi lo strumento di dialogo per eccellenza è la cultura, in cui la Chiesa ha ancora da dire la sua. Fino al ’900 la cultura generalmente era fatta in ambito cattolico, con un linguaggio oggi non più adeguato. Il Papa parla di una teologia capace di avere carne e corpo, cioè di parlare lo stesso linguaggio del popolo di Dio, spesso distante dal nostro. La sfida è trovare i canali giusti per declinare il sapere teologico in sapere di vita. Se parlo di anima, immanenza, spirito, la maggior parte delle persone non capisce. Bisogna trovare nuove forme di comunicazione per far capire la bellezza della vita eterna, il senso salvifico della nostra fede. La teologia è guardata quasi con sospetto dal mondo laico, a volte nemmeno considerata come una vera scienza. Invece è una scienza del cuore, capace di dialogare con l’uomo di oggi, a partire dalle domande di senso.
Un primo segnale di rinnovamento è il monologo affidato a Giacomo Poretti - del trio Aldo Giovanni e Giacomo - all’inaugurazione dell’anno accademico, il 13 novembre?
Lo abbiamo scelto perché riesce con l’ironia a parlare a una platea molto più grande di quella che potremmo raggiungere. Parlerà dell’anima, indispensabile anche per costruire una nuova università. Un modo per fare da ponte nel dialogo culturale tra il mondo teologico, canonistico, giuridico, e il mondo laico.
Che valore hanno i corsi di Scienza della pace e di Ecologia e ambiente?
Questi due cicli nascono dalla Fratelli tutti e dalla Laudato si’. Per creare un corso di studi serve una proposta forte assieme a una progettazione con investimento sui docenti. Ci sono altri progetti, dovranno essere inerenti al magistero ma anche riconosciuti dallo Stato italiano, per offrire sbocchi lavorativi anche agli studenti laici.
Il corpo studentesco della Pul è multiculturale. Condiziona le scelte dell’ateneo?
Io parlerei di opportunità. Siamo una delle poche università pontificie con un corpo studentesco composto per il 40% da laici italiani, che studiano materie civilistiche. Il resto sono per lo più stranieri indirizzati alla vita religiosa. Il corpo docente si va internazionalizzando, siamo chiamati a trovare nuovi metodi comunicativi, sempre usando l’italiano: non avrebbe senso a Roma, dove si respira la cattolicità, studiare in inglese.
In definitiva, quali sono i tratti distintivi dell’Università del Papa?
Dal 1773, quando fu fondata, approfondisce il magistero petrino e lo sviluppa. E questo dobbiamo continuare a fare anche con i nuovi cicli di studio che offrono ai giovani laici una formazione culturale cristiana.
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Papa Francesco e Mar Awa III, catholicos patriarca della Chiesa assira dell'Oriente, hanno celebrato insieme in Vaticano il trentesimo anniversario della Dichiarazione cristologica comune tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira e il quarantesimo anniversario della prima visita a Roma di un patriarca assiro. La Dichiarazione cristologica comune, firmata l'11 novembre 1994 da san Giovanni Paolo II e dal catholicos patriarca Mar Dinkha IV, ha posto fine a 1500 anni di controversia cristologica risalente al Concilio di Efeso (431).
Mar Awa III era accompagnato dai membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell'Oriente, istituita dalla stessa Dichiarazione e che ha recentemente avviato una nuova fase di dialogo sulla liturgia nella vita della Chiesa. Nell’occasione il Papa ha annunciato l'inserimento nel Martirologio Romano di Sant'Isacco di Ninive, noto anche come Isacco il Siro, uno dei Padri più venerati della tradizione siro-orientale.
Come ricorda una nota della Santa Sede, Isacco di Ninive, monaco e vescovo nella seconda metà del VII secolo apparteneva alla tradizione pre-efesina, cioè alle Chiese di tradizione assiro-caldea. Nato nell'attuale Qatar, dove visse una prima esperienza monastica, fu ordinato vescovo della città di Ninive, nei pressi dell'attuale Mosul (Iraq), dal catholicos di Seleucia-Ctesifonte, Giorgio I. Dopo alcuni mesi di episcopato, chiese di ritornare alla vita monastica e si ritirò nel monastero di Rabban Shabur a Beth Huzaye (nell'attuale Iran sud-occidentale). Qui compose varie collezioni di discorsi a contenuto ascetico-spirituale che lo hanno reso celebre. Nonostante appartenesse a una Chiesa che non era più in comunione con nessun'altra, perché non aveva accettato il Concilio di Efeso del 431, gli scritti di Isacco furono tradotti in tutte le lingue parlate dai cristiani: greco, arabo, latino, georgiano, slavo, etiope, rumeno e altre. Isacco divenne così un'importante autorità spirituale, soprattutto nei circoli monastici di tutte le tradizioni, che lo venerarono rapidamente tra i loro santi e padri.
La santità supera le divisioni
L'inclusione di Isacco il Siro nel Martirologio romano dimostra che la santità non si è fermata con le separazioni ed esiste al di là dei confini confessionali. Come ha dichiarato il Concilio Vaticano II: «riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo talora sino all’effusione del sangue, è cosa giusta e salutare» (Unitatis Redintegratio 4). San Giovanni Paolo II, da parte sua, ha dichiarato che «la communio sanctorum parla con voce più alta dei fattori di divisione» (Tertio Millenio Adveniente 37) e che «in una visione teocentrica, noi cristiani abbiamo già un martirologio comune» (Ut Unum Sint 84).
Anche il recente Sinodo sulla sinodalità ha ricordato che «l’esempio dei santi e testimoni della fede di altre Chiese e Comunioni cristiane è un dono che possiamo ricevere, inserendo la loro memoria nel nostro calendario liturgico» (Documento finale 122). Si augura che l’inserimento nel Martirologio Romano di Isacco di Ninive, testimone del prezioso patrimonio spirituale cristiano del Medio Oriente, contribuirà alla riscoperta del suo insegnamento e all’unità di tutti i discepoli di Cristo.
Cos'è il Martirologio romano
Come noto il Martirologio romano è il libro liturgico alla base del calendario che ogni anno determina le feste religiose. Il primo fu approvato da papa Gregorio XIII nel 1586. Nato per conservare la memoria di coloro che persero la vita a causa della loro fede, i martiri appunto, inizialmente ogni Chiesa ne aveva uno. Nel XVI secolo si decise di unificare i vari martirologi in un solo elenco in cui potesseri trovare posto tutti i santi e i beati riconosciuti tali dalla Chiesa cattolica. La compilazione fu curata dal cardinale Cesare Baronio. Successivamente vi furono apportate modifiche e revisioni. L’ultima edizione del Martirologio romano risale al 2001, quella precedente era del 1956.
La misericordia di Dio
Si diceva della grande quantità di discorsi e riflessioni spirituali composti da Isacco di Ninive. Tra i cardini del suo insegnamento, la misericordia di Dio «Un cuore impietoso – scrive Isacco - non sarà mai puro. L’uomo misericordioso è medico della propria anima, e come in un vento impetuoso scaccia da dentro di sé la nebbia della tenebra. Questa è la buona ricompensa di Dio, secondo la parola dell’evangelo di vita: Beati i misericordiosi, perché su di loro sarà la misericordia. E questo, oltre che in futuro, accade in mistero anche quaggiù. Quale misericordia, infatti, è più grande di questa: che quando un uomo è mosso dalla misericordia verso un suo fratello e diventa compagno della sua sofferenza, nostro Signore preserva la sua anima dall’oscurità della tenebra, che è la geenna intelligibile, e lo avvicina alla luce della vita, perché se ne delizi? Bene ha detto il beato Evagrio: la via limpida viene dalla misericordia».
Il francescano cappuccino milanese, fra Roberto Pasolini, è stato nominato nuovo predicatore della Casa pontificia. Prenderà il posto del cardinale Raniero Cantalamessa, che ricopriva questo ruolo dal 1980, quando era stato scelto da Giovanni Paolo II per tenere le meditazioni nei venerdì di Avvento e Quaresima alla presenza del Papa e della Curia romana.
Pasolni attualmente è docente di esegesi biblica presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale a Milano, città dove è nato il 5 novembre 1971.
Ha emesso i voti perpetui nell’Ordine Francescano dei Frati Minori Cappuccini il 7 settembre 2002 ed è stato ordinato presbitero il 23 settembre 2006. Dopo aver conseguito il dottorato in Teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma, è stato docente di Lingue bibliche e di Sacra Scrittura presso lo Studio teologico Laurentianum interprovinciale dei frati minori cappuccini a Milano e a Venezia.
Oggi, oltre a insegnare esegesi biblica presso la Facoltà teologica, collabora con l’arcidiocesi ambrosiana nella formazione dei docenti di religione e con la Conferenza italiana dei superiori maggiori (Cism).
Autore di diversi articoli e libri di spiritualità biblica, si dedica alla predicazione di ritiri e di esercizi spirituali. È apprezzato in particolare anche tra i giovani, ai quali propone il percorso delle «Dieci parole», con incontri sempre molto frequentati nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, affidata alla cura dei cappuccini di piazza Velasquez a Milano.
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«Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli». Il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, inaugura a Palermo l’evento “Non c’è pace senza accoglienza”. E quando dice “noi”, intende la Chiesa, compresa quella italiana, e il mondo cattolico. Il suo è un invito alla «solidarietà», una delle declinazioni della parola «accoglienza» che, aggiunge Baturi, richiede anche «cultura» e «amicizia» facendosi prossimi «alle sorelle e ai fratelli incontrati per strada». Poi il monito: «La fede non è esclusione, ma capacità di includere». L’arcivescovo originario di Catania dà il benvenuto - in videocollegamento - ai ragazzi giunti nel capoluogo siciliano dalle diverse sponde del grande mare che formano il Consiglio dei giovani del Mediterraneo. È il laboratorio di fraternità e di impegno ecclesiale e civico voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo a Firenze nel 2022. A formarlo quaranta delegati, tutti under 35, delle Chiese legate al bacino che tornano a incontrarsi per lanciare il loro grido di apertura agli ultimi in vista del Giubileo. «La nostra esperienza di giovani di tre continenti diversi dimostra che la coesistenza è possibile, nonostante le differenze di contesti da cui proveniamo: differenze economiche, sociali, politiche», racconta Gabriel Cassar Tabone, originario di Malta, in rappresentanza dei tredici ragazzi presenti a Palermo.
Un appello che arriva mentre nella Penisola la questione migranti divide. «Oggi la parola d’ordine è “respingimenti”. Ne sono un segno i campi che l’Italia ha realizzato in Albania e che sono come prigioni», spiega l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. È lui che conclude la prima delle tre giornate di lavori, ospitata dalla Facoltà Teologica di Sicilia. E che denuncia un «Mediterraneo che sanguina». Per «i morti: 50mila in fondo al mare in trent’anni»; per «i respingimenti in Tunisia e Libia che riportano le persone nei campi o nei deserti»; per «le guerre o le dittature con sofferenze, torture e morti». Eppure, aggiunge l’arcivescovo, «attorno a noi sentiamo ripetere: “bombardiamo”, “ignoriamo”, “chiudiamoci”, “non riconosciamo”. Invece un solo vocabolo dovremmo pronunciare: “vergogniamoci”». Perego ribadisce che le «navi delle Ong non possono essere ostacolate: salvano la gente». E chiama in causa anche l’Europa: per il nuovo «patto sull’immigrazione che porterà un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati» e per il «trattamento differenziato» fra gli ucraini in fuga dalle truppe russe e «gli altri richiedenti che scappano da crisi e guerre nel mondo, non meno cruente e drammatiche». Poi, guardando al Consiglio, dice che «sono questi ragazzi a chiedere di costruire una cultura dell’incontro, come indica papa Francesco». Da qui la necessità di «lavorare di più anche nelle parrocchie italiane dove, secondo un’indagine Cei, la metà dei fedeli assidui è contraria all’accoglienza», rivela Perego. «E perché allungare i tempi per ottenere la cittadinanza italiana? Dovremmo essere felici di avere nuovi cittadini. Ed è la solidarietà che porta alla pace, quindi anche alla sicurezza delle nostre città».
A Palermo i giovani del Mediterraneo si ritrovano sui passi di due “testimoni”. Il primo è don Pino Puglisi, il prete assassinato da Cosa Nostra nel 1993, che «aveva spalancato le porte della parrocchia a bambini e anziani, a poveri ed ex detenuti e che in nome dell’accoglienza è stato ucciso per mano mafiosa», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro d’accoglienza Padre Nostro che il sacerdote beato aveva fondato nel suo quartiere: Brancaccio. E l’altro è Giorgio La Pira, nativo della Sicilia e profeta della riconciliazione fra i popoli, che vedeva «nell’accoglienza una delle sfide più alte per il Mediterraneo», sottolinea Patrizia Giunti, presidente della Fondazione La Pira che, con l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II, forma a Firenze la rete Mare Nostrum cui la Cei ha affidato il Consiglio dei giovani.
«Lo straniero e il povero non ci fanno paura», ripete don Mauro Frasi, parroco di Santa Maria al Giglio a Montevarchi, nella diocesi di Fiesole, che racconta della sua «canonica senza chiavi», con le porte aperte, diventata «casa di tutti», a cominciare dai dimenticati. «Cari giovani, aiutateci ad avere coraggio e a superare le resistenze ecclesiali e politiche», dice don Frasi al Consiglio del Mediterraneo. «L’accoglienza dovrebbe essere il cuore di ogni comunità parrocchiale», sostiene don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro a Pistoia, località finita più volte nel mirino per i migranti. Quindi la provocazione: «I migranti sono una risorsa per il nostro Paese. Dovremmo dire loro: “Benvenuti, venite...”». La Chiesa è in prima linea. «Nei decenni la Caritas Italiana ha contribuito a far crescere un sistema governativo di accoglienza», chiarisce Manuela De Marco.
Parla di «dovere dell’accoglienza» l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che sprona a ritenere l’«ospitalità un criterio di azione, a maggior ragione se ci si dice cristiani». Infatti, prosegue, non si tratta «di nascondere i migranti ma di integrarli». Perché, «là dove c’è povertà, trova terreno fertile la criminalità». E il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, presidente dell’episcopato siciliano, sollecita «un’accoglienza fatta bene, con ordine e intelligenza. Del resto è facile che chi non crede nell’accoglienza possa usare taluni episodi negativi per esigere di alzare muri».
«Perché non vai in palestra e ti dedichi un po’ a te stesso?» Flavia e Simone Violante ogni tanto lo chiedono a papà Pasquale, le cui giornate sono scandite da attività significative e appassionanti. Pasquale è uno dei quasi 5.000 diaconi permanenti italiani, che coadiuvano i pastori nelle parrocchie e nelle diocesi. «Il diacono permanente è un ministro ordinato che condivide la vocazione alla guida della comunità cristiana. Il diaconato non è – come alcuni pensano – solo un grado di passaggio al presbiterato, è una vocazione specifica all’interno del ministero dell’Ordine, ed esercita una leadership che può orientarsi in modalità e ambiti diversi da quello del parroco, ma in piena sinergia e corresponsabilità con i preti impegnati nella loro missione nelle comunità cristiane», spiega padre Luca Garbinetto, teologo pastoralista, membro della Pia Società San Gaetano di Vicenza.
La congregazione religiosa il 22 gennaio 1969 ha offerto alla Chiesa i primi sette diaconi permanenti. Sono passati cinquantacinque anni, e sul diaconato si continua a riflettere. Per fare il punto su questa presenza nella vita della Chiesa, la Conferenza episcopale triveneta ha recentemente promosso un’indagine sociologica, che ha interessato oltre il 60% dei 388 diaconi permanenti (età media intorno ai 66 anni) del Nordest. Ne sono emerse la buona qualità delle relazioni familiari (oltre l’80% dei diaconi permanenti sono coniugati) e la capacità dei diaconi di vivere il luogo di lavoro come luogo di evangelizzazione. Esercitano il loro ministero specialmente nella liturgia, nell’annuncio della Parola e della carità; la maggior parte (oltre i due terzi) opera nel contesto delle parrocchie e/o delle unità e collaborazioni pastorali. «L’indagine evidenzia anche che ci sono a volte ancora difficoltà nel riconoscere lo specifico del diacono, da parte sia della gente che dei pastori – riprende padre Garbinetto –. Ma ci sono anche bellissime esperienze con diaconi che operano in vari settori – dalla sanità alle carceri – coordinando anche il lavoro dei preti. Persiste poi una certa confusione tra diaconato permanente e diaconato transeunte, quello cioè che precede il sacerdozio. Io penso che quest’ultimo andrebbe radicalmente ripensato. E andrebbe trovata una risposta sul senso della specificità del ministero diaconale, che è sacramentale, e non è secondario a quello sacerdotale. Per questo, da anni stiamo insistendo con la Conferenza episcopale italiana affinché costituisca una commissione specifica». La Pia Società San Gaetano gli scorsi 18 e 19 ottobre ha promosso il convegno “Diaconi e preti insieme, per una leadership sinodale”, alla cui organizzazione ha partecipato anche Pasquale Violante, cinquantasette anni, insegnante di Fisica, e con un diploma di Magistero in Scienze Religiose. Vive a Scafati, in provincia di Salerno, diocesi di Nola, dove si divide fra il lavoro e, appunto, gli impegni da diacono, molti dei quali condivisi con la moglie. «Il ruolo della moglie accanto al diacono sposato è cruciale – ripende padre Garbinetto –. Non si tratta solo di avere il suo consenso all’ordinazione, ma dev’essere coinvolta nel discernimento vocazionale, e nella formazione iniziale e permanente».
«Quest’anno per me è stato ricco di doni – racconta Pasquale –. Ho festeggiato dieci anni da diacono e venticinque di matrimonio con Carla, di cui amo sia la straordinarietà che le debolezze. Ho sempre sentito dentro di me una spinta a seguire il Signore più da vicino, ma non conoscevo il diaconato. È stato il libro “I diaconi” di Enzo Petrolino, presidente della Comunità del diaconato in Italia, a illuminarmi. Mi sono detto: “forse il Signore mi chiama a questo”. Ed eccomi qui. Da allora sono passati vent’anni, dieci di formazione e dieci da ordinato. Ricordo ancora l’emozione di quel giorno, prostrato a terra in segno di totale abbandono alla volontà di Dio. Ma non mi sento certo arrivato. Mi sento in cammino. So di aver fatto delle cose belle, ma sento di dover ancora crescere per poter offrire al meglio il mio contributo al Regno di Dio e alle persone che mi fa incontrare ogni giorno. Ho voluto diventare diacono – testimonia Pasquale – per lo stesso motivo per il quale ho voluto sposare Carla: il profondo desiderio di sentirmi amato e di dare amore. Sì, perché al centro di ogni azione umana c’è sempre il desiderio. Sono diventato uno sposo mosso dal profondo desiderio di sentirmi amato da Carla e di donarle amore. Sono diventato un diacono mosso dal profondo desiderio di sentirmi amato dal Signore e di amarlo».
L’emozione nella voce del maestro Nicola Piovani, il sorriso del cardinale Pietro Parolin e il piccolo sussulto del pubblico alla prima nota sprigionata dal pianoforte. Al compositore, premio Oscar per la colonna sonora del film “La vita è bella” di Roberto Benigni, è andato il Premio Internazionale Achille Silvestrini per il dialogo e la pace. Un’iniziativa nata un anno fa per ricordare la figura del cardinale romagnolo scomparso nel 2019 e il suo impegno in campo diplomatico.
Il musicista romano è stato premiato ieri, 8 novembre, nel teatro di Villa Nazareth, a Roma, il collegio universitario di merito per studenti bisognosi del quale Silvestrini è stato presidente. La cerimonia è stata organizzata dall’Associazione culturale Premio
Internazionale Achille Silvestrini, a cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato una medaglia. «Il maestro Piovani - ha detto il cardinale Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, nonché attuale presidente di Villa Nazareth - con la sua arte, con i concerti anche nei luoghi di conflitto, con sue le parole e la musica, ha testimoniato non solo la necessità, ma anche la possibilità di costruire la pace con l’ascolto e il dialogo».
Parolin ha poi citato il “Canto del legno”, composizione scritta dall’artista per ricordare il naufragio di migranti a Cutro, in Calabria, nel febbraio 2023. Per registrare la musica fu realizzato un violino proprio con il legno dei barconi, grazie al laboratorio di liuteria del
carcere milanese di Opera. «Segni che - ha aggiunto il porporato - hanno avuto un grande impatto sulla pubblica opinione, anche su coloro che sono meno sensibili all’inclusione». A consegnare il riconoscimento a Piovani (una somma in denaro e una ceramica artistica di Faenza di Goffredo Gaeta, sulla quale è riprodotto uno scritto del 1988 di Silvestrini), il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona – Osimo e già segretario personale di Silvestrini. «In questo momento storico così drammaticamente segnato da conflitti, la lezione del cardinale resta un invito alla speranza e alla fiducia», ha sottolineato il porporato, a cui ha fatto eco anche monsignor Claudio Celli, vicepresidente di Villa Nazareth. «Nel suo nome e nella sua memoria, agli uomini costruttori di dialogo e di pace e a Nicola Piovani va il nostro grazie dal profondo del cuore», ha aggiunto Menichelli.
Carlo Felice Casula, responsabile culturale dell’associazione, ha letto invece la motivazione del premio: “Il riconoscimento vuole onorare non solo un talento straordinario, ma un artista che ha fatto dell'impegno civile la sua strada maestra. Unendo musica e parole, Nicola Piovani canta e testimonia i valori fondativi dell'ascolto, del dialogo, della solidarietà e della pace. Un'elegia della speranza contro il silenzio dell'indifferenza, la violenza delle disuguaglianze, i tuoni di guerra, che invita a ritrovare quel senso forte della vita capace di rendere il mondo un luogo più accogliente, illuminato dalla luce dell'umana fraternità”.
Visibilmente commosso, Nicola Piovani ha deliziato la platea al pianoforte con le note del film “La notte di San Lorenzo”. «Il dialogo e la pace sono cose serie, mentre la musica non ha contenuti, è asemantica, ma per i musicisti c’è la possibilità di affiancarsi al bene o al male – ha detto -. Sogno una realtà dove i droni lancino viveri e giocattoli, anziché bombe».
La 64ª Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM) ha visto la presenza di 80 Provinciali, di differenti Istituti religiosi, ritrovarsi, dal 4 all’8 di novembre ad Assisi.
"La ragione di questo convenire è dettata dalla volontà di camminare insieme - scrivono i religiosi in un comunicato finale -, a partire dalle differenze carismatiche di ogni Istituto di vita consacrata e da ogni Società di vita apostolica. Questo percorso di comunione, fraternità, discernimento e collaborazione è la forma attraverso la quale vogliamo essere nella Chiesa e nella società segni di futuro, imparando a leggere i segni dei tempi, imparando ad abitare dentro questi segni, perché noi siamo stati presi dal popolo e siamo stati inviati al popolo, senza privilegi, senza sconti, senza comodità".
"Il percorso di riflessione, alla scuola del cammino sinodale e giubilare della Chiesa - prosegue il testo -, l’abbiamo avviato l’anno scorso e prevede tre fasi: vedere, interpretare, scegliere. Abbiamo scelto Assisi, ha ricordato il Presidente della Cism, padre Luigi Gaetani, perché, in questo luogo di santità e di bellezza, san Francesco ha creduto che si vede veramente solo spogliandosi, perché fino a quando si è rivestiti di tanto superfluo, di idee dominanti e potere clericale, la notte abita i cuori e la vita, facendo fatica a vedere quali strade lo Spirito apre all’umanità e alla vita religiosa in questo cambio d’epoca (Assemblea 2023); il poverello di Assisi ha saputo anche interpretare, discernere i segni dei tempi, calandosi nel baratro del suo tempo, così colmo di rivalità, di guerre, di relazioni bruciate dall’odio, sapendo leggere segni di speranza nella concretezza di una carne mangiata dal dolore, nella carne di un lebbroso che non rappresentava un motivo per scartare qualcuno ma per riavvicinare la reliquia di tanta umanità messa al margine (Assemblea 2024); l’immagine di Francesco ci ricorda anche che la vita ci pone dinanzi a scelte necessarie o difficili, come quella che Lui fece ritirandosi alla Verna, credendo fortemente che solo l’amore salva, che l’amore trasfigura le cose, le persone, i sentimenti, le relazioni fino a configurarci pienamente a Cristo, fino ad edificare la civiltà dell’amore, come ricordava S. Paolo VI (Assemblea 2025)".
L’avvio dei lavori è stato segnato dalla relazione del presidente, padre Gaetani, che ha sottolineato come l’interpretazione dei segni dei tempi è l’arte che ha reso possibile ai Fondatori di dare concretezza storica ai carismi, di porre in essere segni di speranza e di futuro, coniugando sogni, visioni e mistica. La vita consacrata rimane il luogo teologico ed esistenziale dove si dà forma alla speranza attraverso una forma di vita trasfigurata dall’amore, attraverso una molteplicità di opere che sono la grammatica della tenerezza, dello sguardo colmo di compassione, che danno diritto di cittadinanza a tanta umanità che rischierebbe di restare sospesa sul baratro del nulla. Arrampicati sulla croce del mondo, attraverso il cuore e gli occhi del Figlio di Dio, i religiosi intravedono e amano, con inventiva e amore, quello che Dio non ha mai cessato di cercare e amare: l’uomo. Attraverso le crepe del cuore e della vita dell’uomo e della società, i religiosi cercano di intravedere segni di futuro, ha ricordato don Giacomo Perego, alla scuola del profeta Elia, imparando a credere che la storia la fa Dio, alla scuola di Gesù, apprendendo l’arte dell’essere dono per gli altri, pane della vita dentro le paure e le solitudini di tanta umanità, alla scuola dell’apostolo Paolo che ha saputo attraversare la notte di Damasco, quella di Antiochia fino a ritenere che la missione non è mai indolore, rispetto alla comunità, agli amici, alle consuetudini.
Suor Simona Brambilla ha letto i segni di futuro, nel rapporto tra vita religiosa e cammino sinodale, a partire dal cuore, attorno al fuoco e riparando le reti rotte della vita, delle relazioni. Ci siamo chiesti quali reti rotte è chiamata a riparare la vita religiosa, attraverso quell’arte che riannoda fili interrotti e che ricuce squarci.
L’Assemblea ha vissuto due momenti di confronto ecclesiale con il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, e con Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario della Cei. Sono stati due incontri istituzionali, mettendo a tema il rapporto sinodale e missionario dei religiosi nella vita della Chiesa italiana e le strategie di governo delle Diocesi e delle Province religiose dinanzi a questo cambiamento che, senza dubbio, comporterà un modo diverso di vivere e riorganizzarsi in relazione al popolo di Dio e al territorio.
Sono stati due incontri improntati alla stima e al dialogo, nel tentativo di superare la visione dell’uso della vita consacrata, valorizzando il riferimento a Cristo, alla vita della Chiesa come comunione e non in funzione delle opere, alla capacità di attrazione perché comunione di cose diverse, all’essere soggetti che operano un discernimento comunitario, promuovendo la partecipazione ecclesiale, la corresponsabilità dei carismi e della missione, fino alla fraternità sacerdotale e alla valorizzazione dei beni per la missione della Chiesa.
Con il padre Luigi Sabbarese si sono affrontate le strategie di governo degli Istituti religiosi e la riorganizzazione delle Province in Italia. Questa riflessione ha avuto respiro pastorale, missionario e non solo giuridico, perché ogni riforma è per la Chiesa e si fa dentro un orizzonte di partecipazione ecclesiale, tenendo conto del popolo di Dio e del territorio, come ha ricordato il Papa, sapendo prestare attenzione a non avviare processi che fanno perdere i contatti con la nostra gente e con le radici culturali, territoriali dove le nostre comunità sono piantate e dove i nostri religiosi e sacerdoti sono segni di speranza.
"La parte conclusiva dell’Assemblea - afferma il comunicato finale - ha voluto leggere i segni di speranza e di futuro anche rispetto all’impegno nel sostenere la missione della Scuola cattolica, della Formazione e della valorizzazione del Patrimonio. In particolare, l’Assemblea ha voluto rimarcare che i beni degli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno un valore sociale e che, pur essendo frutto dei sacrifici dei religiosi e della generosità dei benefattori, restano a disposizione delle persone, dei giovani e degli anziani, dei poveri e delle famiglie, dei giovani universitari che rischiano di non trovare alloggi, che vedono difficile affrontare un percorso di formazione con risorse limitate. L’Assemblea dei religiosi in Italia si impegna a promuovere e valorizzare il suo patrimonio attraverso la creazione di un “osservatorio tecnico”, per il bene di tanta parte della nostra gente, soprattutto dei poveri, continuando l’opera di servizio e di gratuità nel Paese, in collaborazione con la Chiesa italiana.
L’Assemblea ha anche affrontato, tramite padre Amedeo Cencini, il dramma e lo scandalo della violenza sui minori e le persone vulnerabili, ricordando che le vittime sono al centro della nostra attenzione, che gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica vogliono riconoscere le ferite inferte da parte di alcuni di noi e porre in essere tutti gli strumenti necessari per garantire un impegno di vigilanza e accoglienza delle denunce, rinnovando l’impegno a non accettare politiche o attitudini di saturazione, rimozione, normalizzazione o di resistenza.
La speranza non delude (Rm 5,5). Il presidente della Cism ha rimarcato che i carismi muoiono per mancanza di sguardo sul mondo, sull’umanità, per inversione di prospettiva o per la mollezza di accettare di vivere a quote normali. Il futuro della vita religiosa è tutta in uno sguardo, sta nel grido di tanta gente e nella prontezza di afferrare con mani umane, con cuore innamorato chi rischia di cadere nel vuoto. La vita religiosa non può guardare il mondo e girarsi dall’altra parte.
È una piccola campana nel chiostro che ogni domenica annuncia la Messa a Tibhirine. A distanza di quasi tre decenni dall’assassinio dei sette trappisti nel 1996 rivendicato dal Gruppo islamico armato, il monastero nel cuore dell’Algeria islamica continua a essere una “lezione” di incontro e dialogo. Tenuta viva dai religiosi di Chemin-Neuf. E capace di attrarre ogni anno migliaia di visitatori, per il 90% algerini di fede musulmana. «Sono toccati dal sacrificio dei monaci e dalla pace del luogo – raccontano i consacrati della comunità francese a vocazione ecumenica che dal 2016 ha “ereditato” il monastero –. Vogliono conoscere meglio questo episodio che fa parte della storia nazionale». Se Tibhirine è «un luogo della riconciliazione», come lo chiama Chemin-Neuf, vive al tempo stesso le tensioni religiose che si toccano con mano in tutto il Paese. I monaci vengono scortati quando escono e il complesso è presidiato dalle forze dell’ordine. Di fatto è lo specchio di una nazione dove il rapporto con il mondo cristiano è ambivalente e contraddittorio.
A Orano il centro diocesano “Pierre Claverie” accoglie ogni settimana decine di bambini musulmani per attività extrascolastiche. «Le famiglie si fidano di noi – dicono gli animatori –. I cristiani di Francia accetterebbero di affidare i propri figli a una struttura collegata alla moschea?». Eppure, stando al rapporto 2024 sull’“Indice globale di persecuzione dei cristiani”, l’Algeria è, insieme con il Laos, il Paese in cui le azioni anticristiane sono cresciute di più in un anno. Il dossier parla della «fine di un sogno» nella nazione che costituiva «un’eccezione nel Maghreb con le sue grandi chiese cristiane». E l’ultimo report di “Aiuto alla Chiesa che soffre” denuncia: «Il rafforzamento autoritario del regime che detiene il potere politico ha dato luogo a un’intensificazione delle ostilità contro le minoranze religiose». A finire nel mirino sono soprattutto le comunità cristiane riformate che vengono accusate dalle autorità di proselitismo ed evangelizzazione in una terra dove l’islam è religione di Stato, in base alla Costituzione, e il proselitismo è reato. Infatti, secondo la famigerata Ordinanza del 2006 sulle religioni non islamiche, chiunque «seduca con l’intento di convertire un musulmano» rischia tra i tre e i cinque anni di carcere.
Secondo i dati ufficiali, quasi tutti i cristiani sono stranieri e provengono per lo più dall’Africa subsahariana. Si stima siano 129mila su 43 milioni di abitanti e vivano in gran parte nella regione di Cabilia, nel nord dell’Algeria. È quella in cui è più diffusa la comunità evangelica che conta 100mila credenti e che preoccupa lo Stato per le conversioni che ha favorito. Su 46 chiese, solo quattro restano aperte. Le altre sono state chiuse per disposizione governativa dal 2017 a oggi. Aumentano anche gli interventi repressivi della magistratura: il presidente dell’Église Protestante d’Algérie, Salaheddin Chalah, è stato condannato a 18 mesi di reclusione per «culto non autorizzato»; e a Orano il giudice ha confermato la condanna a cinque anni di prigione per Hamid Soudad, cristiano che ha ripubblicato una vignetta di Maometto su Facebook. Sotto scacco i musulmani convertiti che «subiscono pressioni sociali e vengono penalizzati nelle eredità», sottolinea “Aiuto alla Chiesa che soffre” che ricorda la chiusura definitiva di Caritas Algeria «il 1° ottobre 2022 a seguito di una richiesta delle autorità pubbliche». Complicato persino ottenere i visti d’ingresso per i ministri di culto cristiani che arrivano dall’estero.
Nel documento finale del Sinodo sulla sinodalità appena concluso, il paragrafo approvato con più voti contrari è stato quello sulla presenza femminile nella Chiesa. «Non ci sono ragioni che impediscano loro di assumere ruoli guida» recita il testo, aggiungendo che anche «la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperto». Ma chi sono i diaconi? E le donne un giorno potranno esserlo? Ne parliamo con la teologa Cristina Simonelli.
Conduce Riccardo Maccioni
«Signore fa’ di me uno strumento della tua pace». È il noto incipit della “Preghiera semplice” attribuita a san Francesco d’Assisi. E quale “strumento” migliore per costruire la pace dell’Istituto musicale “Magnificat” di Gerusalemme? «Per restare in tema possiamo dire che non è una “stonatura” questo accostamento perché la musica ha un suo linguaggio e una sua etica, i musicisti non dovrebbero avere bandiere e confini, questo è quello che cerchiamo di insegnare ai nostri allievi, nell’incontro tra culture, religioni e provenienze diverse che sono il volto del Magnificat». A parlare è fra Alberto Joan Pari, minore francescano e direttore da oltre otto anni di questa scuola di musica che vede insieme docenti e studenti delle tre grandi religioni monoteiste.
Tra meno di due mesi l’Istituto “Magnificat” avvierà i festeggiamenti per i suoi trent’anni di vita all’insegna dell’armonia e non solo musicale. La sua fondazione risale infatti al 1995. Un’opera profetica sognata da padre Armando Pierucci, un minore francescano oggi considerato tra i più grandi compositori viventi di musica sacra. Nato a Maiolati Spontini (Ancona) nel 1935, oggi risiede a Pesaro dove ha vissuto per quasi vent’anni fino al 1988. In quegli anni fu anche docente di organo al conservatorio Rossini, dove si specializzò in Direzione di coro e composizione organista.
«Fu il custode di Terra Santa dell’epoca a dirmi che avevano bisogno di un organista per la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme», racconta padre Pierucci. Gli inizi non furono affatto semplici. «In sette anni non ero riuscito a persuadere neppure un ragazzo. Tutti dicevano che a Gerusalemme con la musica non si poteva vivere e così, appena li formavo, se ne andavano». Al colmo della disperazione fu sul punto di mollare. «Ma prima volli chiedere un segno al Signore e quindi mi recai in pellegrinaggio a piedi ad Ain Karem, alla chiesa della Visitazione, dove la madre di Gesù aveva proclamato il canto del Magnificat». Fu la svolta. Di lì a poco padre Armando riuscì a chiedere al Capitolo della Custodia di Terra Santa la creazione di una scuola di musica per dare continuità al suo lavoro. «Con mio grande stupore venne approvata all’unanimità – ricorda – e la chiamai Magnificat». Inizialmente la scuola era collocata nella vecchia macelleria risanata del convento. Poco alla volta si iscrissero ragazzi e ragazze cristiani, musulmani ed ebrei. I frati accettavano tutti e la scuola arrivò a contare circa duecento tra studenti e insegnanti. Quindi l’attuale Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa, decise di sostenere l’istituto che nel frattempo stava ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. «Il cardinale ci conosce bene – dice fra Alberto –, sente spesso parlare di noi e ci incontra nei vari eventi dove è invitato e dove noi suoniamo, soprattutto nella Città Vecchia dove siamo come una piccola grande famiglia». Fondamentale fu poi la decisione del conservatorio “Pedrollo” di Vicenza che riconobbe il Magnificat come sua sede distaccata. In seguito il Ministero dell’Istruzione italiano consentì di rilasciare diplomi universitari validi in tutta Europa.
«Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo avuto un piccolo terremoto interno – racconta fra Pari –. Alcune famiglie non hanno più potuto sostenere le tasse scolastiche e hanno preferito ritirarsi. Il delicato equilibrio costruito in quasi trent’anni è stato minacciato in un attimo, ma siamo riusciti a mantenere la politica fuori dalla scuola: un piccolo miracolo». Così a giugno sono tornate a iscriversi intere famiglie e oggi si contano 220 studenti e 31 insegnanti. L’orchestra degli studenti avanzati è il fiore all’occhiello della scuola e spesso si esibisce in varie occasioni. Il coro degli adolescenti sta rinascendo dopo una pausa generazionale e da un anno è stato anche avviato un progetto per il coro dei più piccoli in collaborazione con l’associazione “Andrea Bocelli”.
«Per il trentennale – continua fra Alberto – abbiamo già realizzato un logo e abbiamo in programma un grande concerto in primavera e un altro al conservatorio di Vicenza dove coinvolgeremo tutti gli studenti che hanno concluso la laurea di primo e di secondo livello: sono tre cantanti, tre pianisti, un organista, un chitarrista e una fagottista». Anche in padre Pierucci il desiderio di festeggiare è grande. Ma la gioia si trasforma in preghiera non appena la mente vola alla sua martoriata Terra Santa. Così gli occhiali si appannano: «laggiù la gente è buona – testimonia – e chiede solo di vivere in pace».
In quel tempo, Gesù, seduto di fronte al tesoro [nel tempio], osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Nella storia della Chiesa i rapporti tra vescovi e ordini religiosi sono stati non di rado piuttosto dialettici e a volte anche turbolenti. Ma non sono mancati, e non mancano, momenti di grande sintonia e di evangelica collaborazione. Un esempio in questo senso può essere la giornata di ieri ad Assisi dove è in corso la 64ª Assemblea nazionale del Confederazione dei superiori maggiori d’Italia (Cism), che riunisce i provinciali delle congregazioni religiose presenti sul territorio del nostro Paese, sul tema “Sogni di futuro”. Ospiti sono stati il cardinale di Bologna Matteo Zuppi e l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi, rispettivamente presidente e segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Il primo ha parlato del ruolo dei religiosi nella vita della Chiesa nella Penisola. Il secondo ha affrontato il tema delle “Strategie di governo delle diocesi e delle provincie religiose tra territorialità e popolo di Dio”. Entrambi gli interventi sono stati moderati, o meglio, vivacizzati, dal dehoniano padre Lorenzo Prezzi, giornalista e direttore dell’apprezzato blog “SettimanaNews”. All’incontro con Baturi ha preso la parola anche padre Luigi Sabbarese, scalabriniano, dell’Area giuridica del Cism.
Il cardinale Zuppi ha dedicato l’intera mattinata all’incontro. In un clima di grande cordialità. Il benvenuto è stato offerto da padre Luigi Gaetani, carmelitano scalzo, presidente della Cism. «Non chiediamo nulla, – sono state le sue parole – ma solo di camminare insieme per il bene del popolo di Dio». Quindi il botta e risposta con Prezzi. Diversi i temi trattati. A cominciare dall’uso dei beni. Con l’invito del presidente della Cei a discuterne «insieme» e a verificare quando sia «il caso di dare il testimone a qualcun altro» – sempre «con qualche verifica vera, seria, robusta» – magari affidando le opere ai laici. Un invito che è storicamente nelle corde del mondo religioso, basti pensare ai terz’ordini nati nel corso dei secoli. «Non facciamo – ha osservato il cardinale – come i nobili che, dilapidato il patrimonio, vanno ad abitare nell’abitazione del custode e trasformano la propria casa in un B&B». Zuppi ha poi invitato i religiosi a rifiutarsi di fare i «tappabuchi», affidandosi alla forza del proprio carisma. Invito accolto con gratitudine da padre Gaetani. Di qui l’esortazione a evitare di «diventare mediocri» e «il piccolo cabotaggio», a «pensare invece in grande» come fecero i fondatori a «reinvestire bene quello che abbiamo con fantasia e libertà evangelica». I religiosi insomma non devono limitarsi a lavorare nelle parrocchie ma devono immergersi, seguendo il proprio carisma, nella pastorale nei luoghi di misericordia come i santuari, nelle case di carità, nei luoghi di sofferenza come le Rsa e gli hospice. A creare delle piccole «Taizé» dove «i giovani possono imparare a pregare». In questo però, ha sottolineato il presidente della Cei, «la vera sfida è la comunione che dà valore a tutto». Padre Prezzi ha poi introdotto il tema degli abusi. Per Zuppi la questione rimane una «priorità» che va affrontata «con rigore e con tanta umanità, con le vittime in primo luogo» avendo però «la consapevolezza che non siamo una Chiesa di abusatori». Non è mancato lo spazio per alcune domande dei partecipanti all’Assemblea. Sulla polarizzazione esasperata che si manifesta a volte nella vita ecclesiale: per il cardinale di Bologna bisogna «difendere la comunione sempre», affrontando i singoli casi «con fermezza e pazienza». Sui rapporti, a volte difficili, tra i religiosi e il vescovo della diocesi in cui operano: «Il vescovo è un padre, aiutatelo ad esserlo, con grande libertà». Sulla questione dei migranti, «una grande sfida da affrontare con realismo e tanta umanità», con la necessità di «una politica seria di accoglienza e integrazione», e tenendo fermo il fatto che «i migranti in mare vanno soccorsi». Il Papa, ricorda Zuppi, «non dice tutti dentro, ma tutti salvi».
Nel pomeriggio è stata la volta dell’arcivescovo Baturi che senza entrare negli aspetti più tecnico-giuridici ha sottolineato il valore della vita religiosa che, ha ribadito, non deve essere relegata a fare da «tappabuchi» nell’attività pastorale delle diocesi. Lo ha fatto citando i Lineamenti della prima Assemblea sinodale delle Chiese che sono in Italia che si terrà la prossima settimana, laddove si riconosce che «per allontanare il rischio di guardare alla vita consacrata come ad una sorta di erogatore di servizi» diventa «importante valorizzare la sua partecipazione al discernimento dei carismi diffusi in tutto il popolo di Dio e alla cura del dialogo tra i diversi ministeri». Il presule, facendo riferimento anche alla vita della sua diocesi, ha in particolare osservato come i consacrati possano essere di aiuto al clero diocesano «per capire cosa sia la vita in comune». «Penso che l’esperienza religiosa – ha detto – guardata nella sua ricchezza, e non funzionalizzata alle nostre esigenze, possa aiutarci», perché, e qui il segretario generale della Cei ha fatto eco a quanto osservato in mattinata dal cardinale presidente Zuppi, «il tema di fondo è la comunione, che diventa fraternità e condivisione di beni, di risorse, di competenze in un’unica missione, e questo non lo si fa con un regolamento».
Piccoli segnali di un cammino ecumenico sui francobolli che le Poste del Regno Unito hanno deciso di dedicare alle festività natalizie di quest'anno. Un appuntamento annuale per i collezionisti filatelici britannici e non solo.
Negli scorsi anni sono stati utilizzati diversi soggetti per rappresentare il Natale. Nel 2018, ad esempio, i francobolli natalizi britannici mostravano diverse cassette postali per raccogliere le lettere da inviare a Babbo Natale.
Decisamente di carattere più religiose le emissioni degli anni successivi: nel 2018 sono stati utilizzati dei disegni della Natività, mentre nel 2020 furono scelte alcune Natività realizzate su vetrate a mosaico per la serie filatelica natalizia. Di analogo segno le emissioni del 2021 e del 2022 anche se in entrambi i casi si trattava di disegni ispirati al racconto della Natività. Lo scorso anno le poste britanniche hanno scelto come soggetti dei dipinti.
Quest'anno sui francobolli natalizi fanno il loro esordio le facciate di alcune Cattedrali, tra cui anche quella cattolica di Westminster. È una prima volta assoluta, come sottolinea il cardinale Vincent Nichols primate della Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles.
«Siamo così orgogliosi perché il fatto che la Cattedrale di Westminster compaia, per la prima volta, sui francobolli natalizi britannici vuol dire che l’immagine verrà vista da moltissime persone che capiranno che una chiesa è un posto dove Dio abita e dove il sentimento della sua presenza è intenso e garantisce conforto e consolazione» dice il porporato in un video pubblicato sul sito della stessa Cattedrale cattolica.
I francobolli sono stati realizzati dall'artista britannica Judy Joel, che oltre alla Cattedrale di Westminster, che a Londra si trova a breve distanza dalla sede del Parlamento britannico, ha proposto altri quattro francobolli ritraenti altrettante Cattedrali ma della Comunione Anglicana.
Si tratta della Cattedrale di Edimburgo, principale luogo di culto della Chiesa di Scozia; la Cattedrale di Liverpool, sede dell'omonima diocesi anglicana e considerata la più grande chiesa del Paese; la Cattedrale anglicana di Armagh nell'Irlanda del Nord; e la Cattedrale di Bangor, che è la principale chiesa della diocesi anglicana nel Galles.
Si conclude domani il 70esimo Capitolo Generale dell'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, tenutosi a Czestochowa, in Polonia. Questo evento per questi religiosi meglio conosciuti come i Fatebenefratelli ha rappresentato un momento cruciale per la riflessione, il rinnovamento e la pianificazione del futuro. Il Capitolo ha visto la partecipazione di 67 fratelli e 19 collaboratori laici, riuniti per definire le principali linee guida e raccomandazioni che guideranno la vita e le attività dell'Ordine nei prossimi sei anni. Durante il Capitolo, è stato eletto come nuovo superiore generale il fratello Pascal Ahodegnon, originario del Benin, con una lunga carriera di servizio e leadership. Entrato nell'Ordine nel 1994, ha emesso i voti definitivi nel 2003 e si è laureato in Medicina e Chirurgia a Milano. Ha ricoperto il ruolo di Consigliere Generale dal 2012, con un focus particolare sulla regione dell'Africa. Il religioso succede allo spagnolo fra' Jesús Etayo che per 12 anni ha guidato questo istituto religioso.
Si tratta di un ordine mendicante sorto in Spagna grazie a san Giovanni di Dio (1495-1550), laico spagnolo e il nome deriva dal fatto che il fondatore con i suoi primi compagni, invitava i benefattori a collaborare economicamente alle opere di carità dell'ordine dicendo «Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio». I Fatebenefratelli nascono nella prima metà del XVI secolo e tra gli obiettivi di questo istituto vi è ln particolare a cura dei malati, dei poveri e delle prostitute.
Fra Pascal è nato il 10 aprile 1971 a Savé, in Benin. È entrato nell'Ordine nel 1994, ha emesso i voti temporanei il 15 agosto 1997 e ha emesso i voti definitivi il 25 maggio 2003. Si è laureato in medicina e chirurgia a Milano, Italia. È stato eletto consigliere generale nel 2012 e rieletto nel 2019, in particolare responsabile della regione Africa. Al Capitolo generale, iniziato il 15 ottobre, partecipano sessantasette Fratelli e diciannove collaboratori che si sono uniti per le prime due settimane. Questo incontro è stato l'occasione per definire i principali orientamenti e raccomandazioni per la vita dell'Ordine ospedaliero nei prossimi sei anni.
L'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio comprende 161 comunità e 410 strutture sanitarie, sociali e medico-sociali in 54 Paesi, al servizio dei malati e dei bisognosi. È composto da 965 religiosi e 65mila collaboratori, che costituiscono la Famiglia ospedaliera di San Giovanni di Dio.
Nell'ultima settimana del Capitolo, l nuovo superiore generale formerà il suo Consiglio (composto da sei frati lo spagnolo Joaquim Erra i Mas, l'austriaco Saji Mullankuzhy, il senegalese Etienne Sene, David Lynch, superiore della Provincia del Nord America e il coreano John Jung) prima dell'adozione finale degli orientamenti e delle raccomandazioni che daranno forma al futuro dell'Ordine. Quest'anno la Polonia è il sesto Paese ad ospitare un Capitolo generale dell'Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, dopo Italia, Colombia, Spagna, Messico e Portogallo.
Oltre a san Giovanni di Dio, gli altri ospedalieri elevati all'onore dell'altare sono stati i santi Riccardo Pampuri, Benedetto Menni e Giovanni Grande e i beati Eustachio Kugler, José Olallo Valdés e settantuno martiri della guerra civile spagnola (Braulio María Corres Díaz de Cerio, Federico Rubio Álvarez e 69 compagni). L’Ordine conta oggi circa 396 strutture distribuite in 51 Paesi del mondo. Queste includono ospedali, centri di riabilitazione, case di riposo e altri servizi sociali e sanitari destinati a persone vulnerabili.
Dal 15 al 17 novembre 2024, la Chiesa italiana si prepara a un evento unico: la prima Assemblea sinodale a Roma. Ma perché questo appuntamento è così importante? E come potrebbe riguardare i giovani? Il percorso sinodale (ovvero, etimologicamente, di “cammino comune”) rappresenta un’occasione speciale per capire come la Chiesa sta cambiando e come potrà cambiare, mettendosi in ascolto delle voci di tutti, inclusi i giovani, per costruire una comunità cristiana che risponda sempre meglio alle domande e alle attese delle donne e degli uomini di oggi.
Cos’è l’Assemblea Sinodale?
L'Assemblea Sinodale è un incontro nazionale organizzato dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) per riflettere insieme sulle esperienze di fede e sulle sfide che viviamo nel nostro tempo. Il Sinodo, un percorso che papa Francesco considera fondamentale per la Chiesa del futuro, è partito nel 2021 e si sviluppa in tre fasi: la prima fase ha riguardato l’ascolto (narrativa), la seconda la riflessione (sapienziale), e ora, nella terza fase, si vuole passare all’azione concreta (profetica).
Quali sono i temi principali?
Il documento di preparazione, chiamato “Lineamenti”, invita la Chiesa a interrogarsi su come rendere il Vangelo significativo per la nostra epoca, su come ascoltare veramente le persone e su come rispondere ai bisogni di una società in rapido cambiamento. Ecco alcuni dei temi su cui si concentreranno i circa mille delegati che parteciperanno all’Assemblea:
Missione – Come la Chiesa può essere più aperta e vicina alle persone? Oggi, purtroppo, tante persone si allontanano dalla fede e la Chiesa italiana vuole cercare nuovi modi per essere presente nella vita quotidiana, accogliere e costruire relazioni vere.
Partecipazione e corresponsabilità – La Chiesa vuole una maggiore partecipazione di tutti, inclusi i giovani e le donne, nei processi decisionali e nelle attività. Il documento invita a ripensare ruoli e responsabilità, per superare la divisione tra chi guida e chi partecipa e promuovere una leadership più inclusiva.
Formazione – Molti desiderano una Chiesa che sia autentica e non solo formale. Per questo si insiste su una formazione che porti tutti, clero, religiosi e fedeli, a un annuncio del Vangelo che sia profondo e non solo superficiale.
Strutture – Non si tratta solo di fare in modo che l’amministrazione dei beni sia più efficiente, ma di rendere le strutture della Chiesa più semplici e accessibili. Spesso, la burocrazia o l’organizzazione rallentano l’entusiasmo e l’iniziativa; ecco perché l’auspicio è che il cammino sinodali contribuisca a una Chiesa più leggera e meno concentrata sui formalismi.
Perché i giovani sono importanti in questo percorso?
Papa Francesco è chiaro: una Chiesa senza giovani è come un albero senza radici. I giovani portano freschezza e creatività, e le nuove generazioni possono dare alla Chiesa una spinta verso il cambiamento e la coerenza. La loro età li spinge a cercare un senso profondo nelle relazioni e nella vita quotidiana e sono più disposti a impegnarsi per ciò in cui credono davvero. Ecco la Chiesa italiana si è impegnata in un Cammino sinodale che sappia ascoltare le opinioni e le intuizioni dei giovani.
Il ruolo delle donne e di tutti i laici
Un tema chiave è anche il ruolo delle donne. Sebbene le donne siano spesso impegnate nella Chiesa, il confronto fin qui ha evidenziato come manchino per loro ruoli di responsabilità, e il Sinodo vuole cambiare questa realtà, valorizzando le capacità femminili come parte essenziale della vita comunitaria.
Come partecipare al cambiamento?
Cosa possono fare quindi i giovani per partecipare al cambiamento? Come sempre il primo passo è la consapevolezza: sono tanti i canali attraverso i quali la Chiesa italiana sta cercando di comunicare il processo in atto (tra questi anche Avvenire e tutti i media cattolici). Inoltre, questo è il tempo per far sentire la propria voce, anche di critica, come ha chiesto lo stesso papa Francesco dell’esortazione Christus vivit.
Sono tanti, poi, i giovani che parteciperanno all’Assemblea portando il loro punto di vista su tutti i temi di cui si discuterà. Anche attraverso la loro presenza la Chiesa sta lanciando un forte appello alle nuove generazioni perché si facciano sentire, per proporre idee e per confrontarsi su questioni che li toccano da vicino. L’obiettivo finale del Cammino sinodale è quello di dare forma a una Chiesa che cammina davvero accanto a tutti. La sfida è enorme, il risultato non è affatto scontato, ma l’occasione è preziosa e si inserisce in un tempo in cui gli strumenti della comunicazione digitale permettono una partecipazione larghissima.
Guardando al futuro
Anche se questa Assemblea Sinodale non vuole dare risposte preconfezionate, l’evento può rappresentare un passo importante per la costruzione di una Chiesa capace di offrire risposte autentiche alle domande di tutti, in particolare dei giovani. Ciò che lega lo stile che la Chiesa italiana vuole dare a questa fase di cambiamento e il modo di vivere delle nuove generazioni è di certo il senso di “rischio”, come auspicato da papa Francesco, il quale ha più volte ricordato che la Chiesa del futuro è una Chiesa che si mette in gioco per la giustizia e la pace e che sa stare in mezzo alle persone, accompagnandole nella loro quotidianità.
Si aggiunge un altro neologismo al vocabolario personale di papa Francesco. «Coca-colizzazione». Il Pontefice l’ha utilizzato ieri nella visita alla Pontificia Università Gregoriana, invitando appunto a non “coca-colizzare” il sapere. «In un’università - ha detto - la visione e la consapevolezza del fine impediscono la coca-colizzazione della ricerca e dell’insegnamento che porterebbe alla coca-colizzazione spirituale. Sono tanti, purtroppo, i discepoli della coca-cola spirituale».
Profondità di sguardo, dunque. Non solo bollicine. Francesco ha unito questa sua riflessione a tante altre notazioni, durante il discorso tenuto nel quadriportico della sede dell’ateneo che deve i suoi natali a sant’Ignazio di Loyola e ancora oggi è affidata alla Compagnia di Gesù. Ad esempio, l’invito «meno cattedre, più tavoli senza gerarchie» o l’esortazione ad adoperare parole, sguardi e pensieri «disarmati» o la sottolineatura della necessità di una dottrina viva e non «prigioniera dentro a un museo», come pure di un insegnamento che sia «atto di misericordia» e mai qualcosa fatto «dall’alto in basso». Non sono mancati infine la messa in guardia dai rischi dell’intelligenza artificiale e l’auspicio di una «teologia della speranza», mentre «il mondo è in fiamme» e «la follia della guerra copre dell’ombra di morte ogni speranza».
Papa Bergoglio è stato salutato al suo arrivo di un lungo applauso e dai saluti del preposito generale della Compagnia di Gesù (oltre che vice gran cancelliere della Gregoriana), padre Arturo Sosa, e del rettore, padre Mark Lewis. Il primo ha fatto notare come «la ricerca scientifica porti alla comprensione più profonda della creazione e contribuisce ad aprire nuovi cammini alla fede che si impegna nella trasformazione della società umana per renderla più giusta, più solidale, e più rispettosa della creazione». Il rettore ha aggiunto che compito della Gregoriana, «università di tanti Papi», rimane sempre quello di «fornire una solida formazione intellettuale ai futuri ministri della Chiesa», con particolare attenzione a dignità umana, «dimensione sociale della fede», cura della casa comune, dialogo ecumenico e relazioni con le altre religioni.
Papa Francesco ha voluto innanzitutto invitare a tenere lo sguardo puntato sull’orizzonte. «Quando si cammina preoccupati solo di non inciampare si finisce per andare a sbattere. Ma vi siete posti la domanda su dove state andando e perché fate le cose che state realizzando? È necessario sapere dove si sta andando, non perdendo di vista l’orizzonte che unisce la strada di ciascuno sul fine attuale e ultimo».
Quindi ha messo l’accento sulla parola cura. «Questo è un luogo - ha ricordato il Pontefice - in cui la missione si dovrebbe esprimere attraverso l’azione formativa, ma mettendoci il cuore. Formare è soprattutto cura delle persone e quindi discreta, preziosa, e delicata azione di carità. Altrimenti l’azione formativa si trasforma in arido intellettualismo o perverso narcisismo, una vera e propria concupiscenza spirituale dove gli altri esistono solo come spettatori plaudenti, scatole da riempire con l’ego di chi insegna». A tal proposito ha raccontato anche l’aneddoto di quel professore che era talmente pieno di sé che alla fine gli studenti gli fecero trovare l’aula vuota e un cartello con su scritto: «Aula occupata dall’Ego smisurato. Nessun posto libero».
In sostanza nell’insegnamento bisogna metterci il cuore. E andare verso l’altro. Per questo il Papa ha anche richiamato la questione dell’IA. «State considerando l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sull’insegnamento, sulla ricerca? Nessun algoritmo potrà sostituire la poesia, l’ironia, e l’amore; e gli studenti hanno bisogno di scoprire la forza della fantasia, del veder germinare l’ispirazione, di prendere contatto con le proprie emozioni, e di sapere esprimere i propri sentimenti».
Infine l’invito a «deporre le armi, mettere l’altro sullo stesso piano, per guardarlo negli occhi, disarmarsi, disarmare i pensieri, disarmare le parole, disarmare gli sguardi e poi essere alla stessa altezza per guardarsi negli occhi. Non c’è un dialogo dall’alto in basso. Solo così l’insegnamento diventa un atto di misericordia». E l’esortazione ad andare incontro agli ultimi, generando «sapienze che non possono nascere da idee astratte concepite solo a tavolino ma che guardino e sentano i travagli della storia concreta e il grido dei poveri».
Nell’Università Gregoriana, che attualmente ha 2.952 studenti - uomini e donne, religiosi e laici - di 121 Paesi, hanno studiato nel corso dei secoli 27 santi, 57 beati e 16 papi. Sono ex studenti dell’ateneo dei gesuiti anche il 36% del collegio cardinalizio e il 24% dei vescovi cattolici nel mondo.
Quanti siano i santi e le sante non lo sappiamo, perché solo Dio conosce in profondità la vita di tutte le persone. Però per molti uomini e donne che hanno testimoniato in maniera straordinaria le virtù cristiane, la Chiesa cattolica è sicura: sono al cospetto del Padre buono. Ma cosa bisogna fare per arrivarci? È la domanda al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste, il podcast dedicato ai temi della fede, ad approfondire in cosa crede chi crede.. Tra gli argomenti trattati in questo numero anche la differenza tra santi, beati, venerabili, e le tappe seguite dalla Chiesa per stabiilire che una persona è santa. Si parla inoltri di miracoli e di Disma, il buon ladrone crocifisso accanto a Cristo cui Gesù promette di portarlo con sé in Paradiso.
Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga sui temi della fede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di Halloween e del suo presunto dualismo con la solennità di Ognissanti, dell’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.
Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it