Una novità eccezionale sul “Cardinale Celso Costantini e la Cina” è stata ieri offerta al pubblico. Una sezione permanente sull’illustre figura del porporato e sulle sue gesta figura ora infatti nell’ampliato e ristrutturato Museo diocesano di arte sacra in Pordenone. L’importanza dell’impresa è intuibile: trascende i confini regionali e nazionali, perché si colloca nel firmamento interculturale che unisce Oriente e Occidente del pianeta. L’inaugurazione della rassegna si è svolta ieri mattina, in concomitanza con i festeggiamenti annuali dei cattolici cinesi per la Madonna incoronata da Celso Costantini, primo delegato apostolico a Pechino, nel santuario nazionale di Sheshan, a Shanghai. All’evento hanno partecipato il vescovo di Concordia-Pordenone Giuseppe Pellegrini, autorità civili e militari locali e regionali, e un folto pubblico. Contestualmente sono stati inaugurati anche i nuovi spazi espositivi del Museo che saranno adibiti a mostre temporanee e che debuttano con la mostra monografica dedicata al settimanale diocesano Il Popolo il cui primo numero risale all’8 gennaio 1922. «Abbiamo voluto celebrare il centenario del nostro giornale – ha spiegato l’attuale direttrice Simonetta Venturin – attraverso il suo stesso valore, quello di aver saputo raccontare la storia di un secolo, percorrendo i due binari che da sempre lo contraddistinguono: raccontare la cronaca e la storia, ma anche raccontare la storia della Chiesa, sia quella universale sia quella locale».
Tornando alla rassegna dedicata al cardinale Costantini, essa è un “unicum” per il grande numero di opere artistiche cinesi e per il loro alto livello qualitativo. Costituirà certamente un polo di attrazione anche per gli eredi del Celeste Impero. L’impresa ha richiesto oltre dieci anni di lavoro, sotto la guida di monsignor Bruno Fabio Pighin, docente universitario a Venezia, grande esperto del personaggio Costantini e delle condizioni della Chiesa cattolica in Cina. A lui, direttore scientifico della nuova esposizione permanente, Avvenire ha chiesto di illustrarne il significato.
Monsignor Pighin, da dove nasce l’idea di costituire a Pordenone un’esposizione permanente dedicata al cardinale Celso Costantini e alla Cina?
L’idea è sorta dalla considerazione dell’insigne figura del porporato, dal valore delle opere artistiche che ci ha lasciato nonché dal contesto nel quale è vissuto. Egli attraversò la storia del secolo XX da protagonista, fino alla sua morte avvenuta nel 1958. Nella rassegna emergono i tratti essenziali del personaggio. Oltre che pastore esemplare, Celso Costantini fu scultore rinomato, promotore del rinnovamento dell’arte sacra in Italia e non solo, artefice della ricostruzione materiale e spirituale dopo i disastri causati dalla Grande Guerra. Amministratore apostolico di Fiume (Croazia) fronteggiò Gabriele D’Annunzio evitando un bagno di sangue alla città martoriata. Soprattutto compì gesta indelebili in Cina segnando una svolta mirante alla decolonizzazione religiosa. Vi fondò una scuola di arte cristiana tuttora attiva. “Rifondò” la comunità cattolica cinese mediante vescovi e preti indigeni. Fu tessitore dei pieni rapporti diplomatici stabiliti tra la Santa Sede e la Repubblica cinese. È riconosciuto come il principale ispiratore della politica missionaria di papa Pio XII. Salvò la vita ad Alcide De Gasperi nel 1944 sottraendolo alla deportazione nei lager nazisti. Infine fu Cancelliere di Santa Romana Chiesa. In tale veste fu in prima fila nella politica estera della Santa Sede.
Pare un progetto interessante e anche ambizioso. Chi lo ha concepito e chi si è impegnato a realizzarlo?
L’idea partì dalla Santa Sede più di dieci anni fa, in particolare dal cardinale Ivan Dias, in qualità di prefetto dell’allora Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli; fu sostenuta, tra gli altri, dal suo successore cardinale Fernando Filoni e fu incoraggiata dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato. La proposta fu accolta da monsignor Pellegrini, vescovo di Concordia-Pordenone, diocesi nella quale Costantini nacque nel 1876 e della quale fu vicario generale. La realizzazione dell’impresa non è stata facile, perché occorreva ampliare e ristrutturare l’edificio museale esistente e costituire dal nulla la nuova collezione. Ora il percorso è giunto alla meta grazie anche a contributi della regione autonoma Friuli Venezia Giulia e di altri enti pubblici e privati. La nuova sezione museale ha beneficiato di convergenze importanti: il comune di Pordenone ha concesso il lascito del cardinale Costantini custodito nel suo Museo Civico d’Arte; gli enti ecclesiastici della regione in possesso di opere legate allo stesso porporato le hanno prestate stabilmente per l’iniziativa; il “Fondo professor Antonio Bozzetto” ha devoluto alla rassegna il suo patrimonio artistico cinese di inestimabile valore».
Quali sono le caratteristiche delle opere che vengono esposte nella nuova sezione?
È impressionante il numero di opere storico-artistiche, soprattutto cinesi, che fanno parte della nuova Sezione permanente: più di centoventi. Tra esse ne sono state selezionate cinquanta per evitare il sovraffollamento dell’esposizione. Le principali opere avranno una collocazione stabile nella rassegna, mentre le altre saranno esposte a rotazione. Il livello qualitativo della mostra è molto alto, specialmente per quanto concerne i tessuti cinesi del secolo XIX, splendidamente lavorati, appartenuti alla Città Proibita di Pechino, alla religione taoista e alla liturgia cattolica della terra di Confucio. Essi, portati in Italia prima della rivoluzione maoista del 1949, sono sfuggiti provvidenzialmente alla distruzione operata dalle guardie rosse. La loro unicità ne aumenta il valore e certamente accresce l’interesse generale per l’originalità dell’esposizione».
Come si snoda il percorso espositivo nell’ampliato e ristrutturato museo?
L’itinerario si sviluppa come un “filo rosso” che attraversa l’intero Museo diocesano in Pordenone. Prende le mosse da alcuni pannelli esplicativi sulla vita del cardinale Costantini, i quali fanno da preludio a una sala dedicata alle opere storico-artistiche legate all’insigne personaggio, alle imprese da lui compiute in Cina e al loro contesto storico. Il percorso giunge poi all’area del cospicuo “Fondo professor Antonio Bozzetto”. Il traguardo è segnato nell’adiacente Auditorium, che nel corso dell’inaugurazione è stato intitolato al porporato pordenonese. Tale Auditorium ospita due sculture raffiguranti Celso Costantini, raffinati dipinti ed enormi drappi cinesi in raso di seta ricamati nei secoli XVIII-XIX con fili d’oro e policromi, ricchi di simboli della civiltà prosperata nella terra dei Mandarini, con la quale Costantini sviluppò un intenso dialogo interculturale e interreligioso. Ovviamente, a ciascuna opera è affiancato un congruo, ma agile, apparato didascalico a illustrazione della stessa. Il risultato pare eccellente. Il suo riverbero si proietta fino all’Estremo Oriente in un dialogo aperto con la grande cultura cinese.
Pentecoste. Aria fresca, alba luminosa dopo il buio della notte, primavera dello Spirito. Tutto si fa nuovo. Dio ci chiede di essere coraggiosi. Di pretendere. Di osare. Di credere che anche il peccatore più incallito e forsennato, se vuole, può accedere alla fonte del suo perdono.
Lui, altro non vuole. Se da una galassia lontana un alieno potesse vedere ciò che, in questi mesi, stanno facendo tanti uomini su questa pallina che chiamiamo terra, rimarrebbe basito. Rischierebbe l’infarto. Inventate, prodotte, vendute dagli uomini, le armi mortificano secoli di storia, di arte, di civiltà. Distruggono il creato, ma, soprattutto, feriscono e uccidono tanti esseri umani innocenti, che questa assurda guerra non vogliono. “Come sono strani gli uomini”, direbbe di noi l’alieno.
E, invece, occorre ripetere senza stancarci mai: “Come sono belli, gli uomini. Così uguali, così diversi, così originali, così interessanti. Ognuno è un universo a sé. Capace di sedurre, incantare, innamorare l’altro, innamorarsi dell’altro. Come sono belli, gli uomini, quando si fanno sentinelle e custodi attenti dei fratelli. Quando – come in questi giorni in Emilia Romagna – incuranti del pericolo, si gettano nel fango, si arrampicano sui tetti, per tentare di salvare un cagnolino, un maialetto, una mamma e i suoi bambini. Come sono belli quando sanno piangere per un dolore che non li riguarda da vicino, ma che fanno proprio. Quando si fermano o rallentano il passo per non lasciare indietro un vecchio claudicante, una nonna in carrozzina”.
Dio sogna. Proprio come noi. E proprio come accade a noi, piange. Quando gli uomini si sbranano, Dio piange. Quando il vicino da salvare diventa il nemico da ammazzare, Dio piange. Quando chi ha ricevuto la vita non sa più essere felice, Dio piange.
Pace!
Abbiamo bisogno della pace più che del pane da mangiare. Abbiamo il diritto di vivere in pace, il dovere di costruire la pace. Abbiamo la grazia di chiederla, la pace. Allo Spirito Santo, consolatore, avvocato, fuoco, soffio del Figlio, dono del Padre. Colui che fonda due persone in una. Che unisce milioni di credenti in una sola Chiesa; miliardi di uomini in una sola umanità.
Coraggio.
Avremo il coraggio, oggi, di invocarlo, il dono della pace? E credere che, in modo misterioso e vero, possiamo ottenerla? Sapremo sperare contro ogni plausibile speranza, ogni previsione, ogni strategia - politica, economica, militare –, e credere che “nulla è impossibile a Dio?” Coraggio, dunque. Presto, corriamo a Cana, e, con Maria, sgraniamo gli occhi davanti agli otri d’acqua diventati vino. Non fermiamoci, portiamoci a Betania. Gesù ha ordinato a un morto di ritornare in vita. Pazzesco.
Pasqua.
Che è successo ai codardi del Venerdì Santo? Sono irriconoscibili. Che cosa sarà mai accaduto? Dove hanno attinto la forza per affrontare i nemici che ieri li impaurivano? Chi ha dato loro il coraggio per spalancare le porte e gettarsi nella mischia? Per gridare al mondo che “ Gesù è il Signore?”.
Lo Spirito.
Vieni, Spirito Santo. Avvolgi questa nostra umanità, stupida e stupenda, insegnale a saper contare i propri giorni. Perché arrivi ad assaporare la gioia e la sapienza del cuore. Vieni, Spirito Santo. Trasforma i cuori di chi può mettere – oggi stesso - fine a questa guerra infame. La smettano di tormentarci, di tenerci col fiato sospeso. Vieni, Spirito Santo. Vieni con il dono della pace. Pace da accogliere gratuitamente e custodire faticosamente. Costa fatica, rinunciare all’amarissimo e dolciastro sapore della vendetta e dell’orgoglio.
Costa fatica, togliere qualcosa alla propria ingordigia per soccorrere, difendere, promuovere, amare il prossimo. Una fatica, però, che non stanca, non umilia, non uccide, ma, al contrario, moltiplica la pace.
Vieni, Spirito Santo, spargi a piene mani i semi benedetti della pace. Perché attecchisca e germogli il possente albero della pace che tutti gli uomini di buona volontà – credenti e non credenti – desiderano, ricercano, bramano. Buona Pentecoste.
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Esce oggi, edito da Mondadori, il libro “I miei anni con Giovanni Paolo II” (552 pagine, 22 euro). Si tratta di un ritratto intimo di papa Wojtyla nel racconto di Joaquín Navarro -Valls, per oltre vent’anni a fianco del Pontefice come direttore della Sala stampa vaticana. Nel 45° anniversario dell’elezione di Giovanni Paolo II, il volume raccoglie gli appunti personali di Navarro-Valls durante quegli anni. Pagine che, scritte sotto forma di diario e pubblicate per volere dell’autore solo dopo la sua scomparsa, offrono non solo un interessante spaccato dell’impegno della Santa Sede nel complesso intrecciarsi dell’attualità internazionale, ma svelano anche dettagli preziosi della vita quotidiana di Wojtyla. In questa pagina pubblichiamo un estratto del racconto degli ultimi momenti di vita di Giovanni Paolo II scomparso il 2 aprile 2005. Medico e giornalista, intellettuale poliglotta, Navarro- Valls è morto il 5 luglio 2017 a ottant’anni.
SE NE STA ANDANDO 1° APRILE 2005
Buzzonetti mi chiama alle sei di mattina. Le condizioni permangono gravi. Mi detta un nuovo comunicato, questa volta più esplicito. Lo diffondiamo mezz’ora dopo. Si parla di «shock settico con collasso cardiovascolare», si aggiunge che «è stata rispettata la volontà del Santo Padre di rimanere nella sua casa», e che il quadro clinico si è evoluto negativamente durante la notte. Si precisa che il papa era «cosciente, lucido e sereno», che ieri ha ricevuto l’Eucaristia – il viatico – e questa mattina ha concelebrato la Santa Messa.
Prima delle nove mi reco direttamente all’appartamento del pontefice senza passare in ufficio. Incontro prima Dziwisz e poi Buzzonetti. Vedo nel corridoio qualche vassoio con avanzi di cibo: sicuramente medici e infermieri sono stati in piedi tutta la notte. Entro nella cappella del Santo Padre e mi trattengo lì per mezz’ora. Una delle monache che si occupano dell’appartamento del papa entra portando fiori ed esce. Sull’altare, una piccola immagine di Cristo resuscitato che mettono sempre nel periodo pasquale. Quando ho finito, entro nella stanza del papa.
È nel suo letto, a cui hanno cambiato la posizione, ed è parallelo alle finestre laterali che non si affacciano sulla piazza. Dietro il capezzale, lo strumento medico di ausilio alla respirazione. È intubato con la sonda nasale per l’alimentazione; la cannula tracheale è collegata a un apparecchio di assistenza respiratoria, e uno dei medici aiuta comprimendo la sfera di gomma. In questo momento nella stanza ci sono Dziwisz, le tre suore dell’appartamento, Wanda Pó³tawska, Buzzonetti, altri due medici – uno è Polisca – con due infermieri.
Il papa è cosciente e cerca di dire qualcosa a suor Tobiana, che non riesce a comprenderlo. Suor Tobiana è inginocchiata accanto al letto e gli tiene la mano destra. Gli danno un cartoncino grande con un evidenziatore, ma mi sembra che non riescano a decifrare quello che scrive. Soffre. È evidente la difficoltà nella respirazione.
Mi fermo per un momento in preghiera. Prima di uscire, mi avvicino al papa per baciargli la mano destra: la mano è piena di ematomi causati dalle siringhe ed è molto fredda. Porta uno scapolare di lana e una croce d’oro: questa croce, mi dirà più tardi Dziwisz, proveniva dal cardinale Sapieha, che l’aveva ricevuta da Pio XII; ha delle reliquie di santi. Uscendo, vedo Sodano che parla con Dziwisz in corridoio. Si tratta di rendere pubbliche alcune nomine già approvate dal papa, per le quali si metterà in evidenza la data del giorno in cui le ha firmate.
Poi esco con Buzzonetti e parliamo della situazione. È gravissima. Rimaniamo d’accordo di vederci tutti i giorni due volte, la mattina e la sera.
Alle dodici e mezza, quando c’è il briefing con i giornalisti, regna un grande silenzio. Dico che immagino avranno molte domande, ma che risponderò solo a un paio. Non ricordo la prima. La seconda me l’ha rivolta Andreas English, un giornalista tedesco.
«Dal punto di vista personale, come vive questo momento?» È allora che la tensione si spezza, e perdo il controllo delle emozioni. Rispondo: «I sentimenti personali non hanno spazio in questo luogo… È certamente un’immagine nuova del pontificato: il papa nel suo letto, che soffre, molto sereno, con le inevitabili difficoltà a respirare». Le parole escono a singhiozzo, ho un nodo in gola, che si nota in diretta sulle televisioni di mezzo mondo. A quanto pare, molti sono stati più turbati per la mia commozione in pubblico che per i termini tecnici che stavo pronunciando sulla situazione gravissima del Santo Padre. Forse ha contribuito a far comprendere meglio che qualcosa di molto grave stava avvenendo. Si è introdotto un elemento di verità, di vera umanità, che naturalmente io non avevo voluto comunicare in modo deliberato.
Nel pomeriggio torno all’appartamento del papa. Entro nella sua stanza e vedo che è assopito. Parlo di nuovo con Dziwisz e con Buzzonetti, il quale crede che non ci sia niente da fare dal punto di vista medico. Dziwisz è sereno. Gli domando se il Santo Padre ha pronunciato qualche parola in questi giorni. Mi riferisce: «Benedico la Chiesa, benedico la mia diocesi di Roma. Benedico tutto il mondo, senza escludere nessuno». Prendo nota e conservo queste parole per trasmetterle eventualmente in un altro momento.
Verso sera vengono le tre suore che si occupavano del papa al Gemelli. Pensavo che dovessero dare il cambio alle suore polacche, ma in realtà sono venute solo a vedere il Santo Padre.
Alle sei e mezza diffondo un altro comunicato in cui si dice: «Le condizioni generali e cardiorespiratorie del Santo Padre sono peggiorate ancora. Si evidenzia una crescente ipotensione, mentre la respirazione è superficiale. Si è creato un quadro clinico di insufficienza cardiocircolatoria e renale. I parametri biologici sono notevolmente pregiudicati. Il Santo Padre – con visibile partecipazione – si unisce alle continue preghiere di coloro che lo assistono». Lascio il cellulare acceso per tutta la notte.
UN GIORNO DI TRISTEZZA E GIOIA 2 APRILE 2005
Oggi, alle 21.37 il papa è deceduto. Mi sento incapace di analizzare questa situazione: né il fatto in sé, né in relazione con la Chiesa, né in relazione a me stesso.
Sono entrato questa sera nella sua stanza. Era ancora nel letto, con una benda intorno alla testa. Non ho potuto recitare nessuna preghiera in suffragio per la sua anima. Ho la sicurezza assoluta che sta già godendo di Dio.
© Cattedra Navarro-Valls, Facoltà di Comunicazione Pontificia Università della Santa Croce, Roma, 2023
© 2023 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Nella Solennità di Pentecoste si celebra la discesa dello Spirito Santo su Maria e gli apostoli riuniti insieme nel Cenacolo. Con la Pasqua e il Natale costituisce una delle feste più importanti del calendario liturgico, e segna l’avvio della chiamata missionaria della Chiesa. Il 28 maggio 2023, Domenica di Pentecoste, alle ore 10 papa Francesco presiede la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di San Pietro.
«Quando verrà lui – spiega Gesù nel Vangelo di san Giovanni –, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Letteralmente la parola Pentecoste indica in greco il 50° (giorno). Inizialmente il popolo ebraico lo celebrava, appunto cinquanta giorni dopo la Pasqua. Era un festa agricola, di ringraziamento a Dio per i doni delle terra, che coincideva con l’inizio della mietitura del grano e i primi frutti. Più tardi su questa celebrazione originaria si innestò la memoria del dono delle Tavole della Legge fatto da Dio a Mosè sul monte Sinai. Nel rituale ebraico, a Pentecoste ci si asteneva da qualsiasi lavoro ed era previsto il pellegrinaggio degli uomini a Gerusalemme. Nella tradizione cristiana invece si attribuisce a Tertulliano (155-220) la prima testimonianza della Pentecoste come festa dello Spirito Santo. Sempre cinquanta giorni dopo la Pasqua.
La discesa dello Spirito Santo viene raccontata al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli: «Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste – recita il testo –, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi». Il testo prosegue poi con la prima predicazione dell’apostolo Pietro, che assieme a Paolo, allarga i confini del cristianesimo, sottolineando l’unità e l’universalità della fede dono dello Spirito Santo. Spirito che è concesso a tutti i battezzati e che al tempo stesso, nella fantasia e diversità dei carismi e dei ministeri costruisce la Chiesa. Inesauribile elargitore di doni, sono sette quelli che secondo l’insegnamento del profeta Isaia gli vengono attribuiti: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio. Nella vita del cristiano, ricevuti inizialmente con la grazia del Battesimo, i doni vengono confermati dal sacramento della Cresima o Confermazione.
La Liturgia è spesso arricchita da inni allo Spirito Santo: si pensi al magnifico “Veni Creator”.
Nella solennità di Pentecoste invece si recita la Sequenza:
Vieni, Santo Spirito,
manda a noi dal cielo
un raggio della tua luce.
Vieni padre dei poveri,
vieni datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto conforto.
O luce beatissima,
invadi nell’intimo
il cuore dei tuoi fedeli.
Senza la tua forza,
nulla è nell’uomo,
nulla senza colpa.
Lava ciò che è sordido,
bagna ciò che è arido,
sana ciò che sanguina.
Piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido,
sana ciò ch’è sviato.
Dona ai tuoi fedeli
che solo in te confidano
i tuoi santi doni.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.
Amen.
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Dopo tre lustri alla guida dell’associazione “Comunità Papa Giovanni XXIII”, fondata negli anni ’60 da don Benzi, Paolo Ramonda passa la mano. Saranno circa duecento delegati da tutto il mondo ad eleggere oggi e domani a Rimini il nuovo o la nuova presidente, che traghetterà nel prossimo decennio una delle realtà più attive in 42 Paesi del mondo al fianco dei “poveri”, condividendo interamente la loro vita. Dal 2007, alla morte di don Benzi, Ramonda ne era stato il successore naturale: « Ero il suo vice, ma don Oreste non aveva mai fatto pubblicamente il mio nome, è stata la comunità di fatto a scegliere».
Dopo 15 anni da responsabile generale, qual è il suo bilancio personale?
Con mia moglie Tiziana siamo padre e madre di casa famiglia da 40 anni, con tanti ragazzi diversamente abili che in questi decenni sono diventati nostri figli, quindi l’incarico si è inserito in una nostra scelta di vita già molto orientata. Quando ho accolto il mandato l’ho ritenuto un servizio, alla comunità, alla Chiesa, ai poveri. Avevo coscienza che sarebbe stato pro tempore, noi non siamo dei “professionisti” e chi fa il presidente non diventa un manager, anzi, deve mettersi il grembiule del servizio, dell’ascolto, del discernimento e anche il grembiule del coraggio di decidere, perché la nostra è una comunità con 500 strutture in 42 nazioni. È una vita “abbondante” di responsabilità e di scelte da fare, anche dal punto di vista della sostenibilità economica che va garantita… Però è stata un’esperienza meravigliosa, ho avuto l’opportunità di conoscere culture dall’Africa all’Asia, dall’America Latina all’Europa. Soprattutto di vedere l’abbondanza di famiglie, di consacrati, di sposi, di sacerdoti, di giovani, una comunità di persone che condividono la loro vita direttamente con i più poveri, nelle case famiglia, nelle comunità terapeutiche, nelle cooperative. Insomma, è un bilancio estremamente impegnativo ma positivo, croce e delizia, gioia e tribolazione.
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Onore e onere…
L’onore dura il primo giorno, quando ti danno il mandato e ci sono gli applausi. Gli oneri iniziano dal giorno seguente.
È un primo messaggio per il prossimo presidente?
Sì, però gli dico che avrà accanto una comunità matura, strutturata, che ha una necessaria organizzazione e che è sempre al servizio del carisma. Soprattutto tante persone competenti.
C’è un presidente che si augura venga eletto?
Abbiamo fatto un bel cammino di confronto in questi due anni e la comunità ha già individuato quattro o cinque persone molto valide. Certamente il decreto di papa Francesco, che ha richiesto questo rinnovamento e ha messo il limite massimo di dieci anni per i presidenti dei movimenti ecclesiali, è un suggerimento a guardare avanti. Io non indico una persona, chi verrà eletto sarà il o la responsabile con cui cammineremo, però penso che occorra dare fiducia a un giovane, che poi comunque sarà accompagnato da un’intera comunità con all’interno persone mature. Esperienza insieme a rinnovamento, continuità insieme a novità.
Il Papa invita spesso giovani e anziani a incrociare i loro talenti per un bene comune. Esattamente. Lo abbiamo già attuato, perché di 25 responsabili di zona ne abbiamo rinnovati dieci, secondo l’indicazione del Papa di inserire forze giovani. Alcuni di loro addirittura non hanno conosciuto don Oreste, ma questa è una cosa sana, tanto arriverà un tempo in cui tutti i membri della comunità non avranno incontrato il nostro fondatore: dobbiamo riferirci al carisma di fondazione, più che al carisma del fondatore, che in eredità ci ha lasciato la vita con i poveri.
Dovevate riunirvi a Cesena e finalmente in migliaia, invece dopo il Covid l’alluvione.
La Fiera di Cesena è stata giustamente destinata agli alluvionati, quindi abbiamo ripiegato su una nostra struttura di Rimini che però può accogliere solo i delegati, comunque gli unici che devono votare. Pensavamo di tornare finalmente alla normalità, invece per il quarto anno dobbiamo rinunciare, ma non abbiamo voluto rimandare perché ci siamo preparati bene: è il tempo giusto.
L’alluvione ha messo in ginocchio le vostre case famiglia in Romagna, dove vivono centinaia di disabili gravissimi. È stata un’impresa trasferirli in altre case attrezzate per le loro situazioni.
È vero, sono alluvionate molte nostre strutture, ma abbiamo fatto posto, ci siamo stretti e li abbiamo accolti tutti. Dove si viveva in dieci si vive in venti, lo abbiamo sempre fatto, nel terremoto delle Marche come in tutte le altre necessità: è la forza della comunità. Adesso i nostri figli sono in sicurezza, stiamo aspettando che l’acqua defluisca per andare a vedere i danni e ripartire. D’altronde stiamo vivendo la sorte dei tanti che hanno perso tutto, noi grazie a Dio siamo un corpo unico che si sostiene a vicenda. Inoltre abbiamo visto la solidarietà commovente di tanti giovani e anche le istituzioni stanno rispondendo bene, persino con un bello spirito di collaborazione, non è cosa da poco.
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Passando il testimone, che consigli si sente di dare?
Don Benzi aveva raccomandato, a chi sarebbe venuto dopo di lui, di fare due cose: stare in preghiera e incontrare i fratelli di comunità a tu per tu, e io le ribadisco entrambe. Aggiungerei che conservi sempre la preminenza della condivisione con i più poveri, perché questo è il quadro di riferimento che anche la gente non credente capisce, lo “specifico visibile” che non ha bisogno di parole. Quando tu vivi con bambini gravemente disabili, con chi non ha nulla e nessuno, con ragazzi che hanno malattie mentali, con le ragazze che sei andato a liberare sulla strada, in tutti i Paesi del mondo la gente si fida di te, tant’è che noi vediamo sempre tanta generosità: con migliaia di persone che tutti i giorni mangiano alle nostre mense, il bilancio da garantire è ingente, eppure non restiamo mai soli. Poi gli consiglio di valorizzare le originalità di ognuno ma sempre custodendo la comunione. E il cammino con la Chiesa: noi siamo un’associazione internazionale di diritto pontificio, quindi sempre in ascolto del Santo Padre, dei vescovi e in comunione con loro. Infine di essere voce di chi non ha voce, mettere la nostra spalla sotto la croce delle vittime ma anche denunciare coloro che queste croci le fabbricano. Noi collaboriamo con tutti, non siamo mai contro ma per, però quando l’ingiustizia lede i diritti fondamentali della persona noi stiamo con la vittima.
«Come sono belli sui monti – canta il profeta Isaia – i piedi del messaggero che annuncia la pace, del messaggero di buone notizie che annuncia la salvezza ». Come sono belli, ma anche fragili e vulnerabili, i piedi dei missionari che – in obbedienza al mandato di Cristo – solcano le strade del mondo, spinti da quell’«Andate» che ha prodotto in migliaia e migliaia di donne e uomini, lungo i secoli, fino a oggi, un impeto incontenibile, un’urgenza implacabile: che il Vangelo, la Buona Notizia per eccellenza, arrivi a tutti. Di questa schiera fa parte il frate trentino Tullio Pastorelli, 60 anni, missionario in Cile che, in aprile, è rimasto vittima di un grave incidente stradale in capitale. Tutto ciò gli è costato l’amputazione di una gamba e dell’altro piede.
Qualcosa di simile era accaduto a padre Norberto Donghi, carmelitano lecchese, nel febbraio scorso, in Centrafrica: la jeep con la quale si stava dirigendo in un villaggio della sua missione è saltata su una mina. Il settantunenne missionario è stato miracolosamente salvato, ma anche a lui, dopo una serie di ricoveri in vari ospedali, tra Centrafrica, Kenya e Italia, i medici hanno dovuto amputare un piede.
La terza storia arriva anch’essa dal Centrafrica, dove a metà aprile padre Arialdo Urbani, betharramita valtellinese, 83 anni, è saltato su una mina. Lui, fortunatamente, è rimasto illeso (come già due anni fa, in una circostanza simile); purtroppo, però, tre persone che viaggiavano con lui sono morte. Il dettaglio dei piedi amputati mi ha rimandato a una celebre preghiera citata nel Quinto evangelio di Mario Pomilio (un capolavoro che purtroppo, temo, tanti cattolici non hanno mai letto). Dice quel bellissimo testo: «Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare oggi il suo lavoro. Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri. Noi siamo l’unica Bibbia che i popoli leggono ancora, siamo l’ultimo messaggio di Dio scritto in opere e parole». Vero è che, da decenni, i missionari e le missionarie si spostano con ogni mezzo possibile.
Ma – l’ho constatato di persona, nel corso di tanti viaggi extraeuropei – c’è sempre un ultimo miglio che percorrono a piedi. Perché in certe periferie urbane i mezzi pubblici non arrivano, perché la condizione delle strade in alcuni periodi dell’anno non permette l’accesso dei mezzi a motore, o perché certi villaggi li raggiungi solo così: padre Daniele Badiali, per celebrare la Messa in alcuni caserios sulle Ande peruviane, si sobbarcava sei ore di cammino. Non so se sia retorico definire i missionari “gli ultimi nomadi”. So però che ancora esistono donne e uomini che – nell’era della realtà virtuale, dell’intelligenza artificiale e dei viaggi sulle autostrade informatiche – calpestano strade assolate, consumano suole, mangiano polvere e incontrano persone in carne e ossa. Lo fanno spesso anche in zone che i calcoli umani consiglierebbero di evitare. Zone pericolose per la presenza di “ribelli” o perché infestate da mine, tragica eredità di conflitti precedenti o ancora in corso. Conflitti derubricati, spesso, “a bassa intensità”, ma che producono migliaia di morti: mamme, papà, bambini che vengono a mancare non meno intensamente che le vittime di conflitti più mediatici. Il missionario, per definizione, non è uno che aspetta, ma si alza e va. È uno che prende l’iniziativa.
Perché un aspetto ineliminabile della fede è proprio il desiderio ardente di mettersi in gioco, sollecitato da una non meno ardente impazienza: andare per incontrare, per condividere, per annunciare, per testimoniare. E, pure, per imparare che Dio è già lì e che la Grazia, sovente, ha misteriosamente anticipato gli apostoli, di ieri e di oggi. Le vicende dei missionari feriti e i loro piedi amputati rappresentano un vibrante appello, rivolto in particolare ai giovani: chi partirà, adesso? Se «Cristo non ha piedi, ha soltanto i nostri piedi per guidare gli uomini sui suoi sentieri», chi andrà al posto loro?
Nove giovani destinati ad essere sacerdoti per sempre chiamati a svolgere il loro ministero per la Chiesa particolare di Bergamo, la terra natale di papa san Giovanni XXIII. È quanto avverrà questo pomeriggio alle 17 quando il vescovo di Bergamo Francesco Beschi nella Cattedrale di Sant’Alessandro imporrà le mani durante il rito e la Messa di ordinazione ai 9 candidati al presbiterato. Un numero considerevole quello dei preti novelli di Bergamo (una diocesi che conta una popolazione di oltre 900mila abitanti) e con un età che va dai 25 anni fino ai 39 anni. E con un filo rosso che li accomuna: l’importanza di aver frequentato le parrocchie del territorio e aver intrapreso, prima dell’ingresso in Seminario, un cammino di discernimento vocazionale.
La celebrazione sarà trasmessa in diretta su BergamoTv. Ecco i nomi dei nuovi sacerdoti e le parrocchie di provenienza: Lorenzo Bellini, 25 anni, di Telgate; Paolo Capelletti, 25 anni, di Cologno al Serio; Marco Nicoli, 27 anni, di Desenzano al Serio; Andrea Patelli, 30 anni, di Credaro; Attilio Rossoni, 39 anni, di Colognola in città; don Gabriele Trevisan, 26 anni, di Pontida; don Andrea Vecchi, 29 anni, di Villa di Serio; don Matteo Vezzoli, 27 anni, di Romano; Simone Zappella, 31 anni, di Chiuduno.
E proprio nell’edizione di ieri il quotidiano L’Eco di Bergamo ha presentato le loro storie di vocazione. Ad accompagnarli oggi nell’ultimo gradino prima della consacrazione ci sarà anche il rettore del Seminario don Gustavo Bergamelli. Ogni prete novello ha scelto un passo significativo del Vangelo che rappresenterà la bussola del futuro ministero in terra orobica. Tra i nove candidati al sacerdozio significativa è la testimonianza di Attilio Rossoni il più “anziano” tra i futuri “don” che ha scelto di entrare in Seminario a 30 anni dopo una lunga esperienza come tecnico di laboratorio in un’azienda e poi di assistente educatore nelle scuole.
A convertire il suo cuore è stata soprattutto l’esperienza di un viaggio missionario in Africa. Come pietra fondamentale del suo “Sì” a Gesù è stata la recita quotidiana del Rosario e l’aver partecipato alle attività della comunità Emmaus di Chiuduno per Marco Nicoli. Una vocazione all’insegna del servizio per gli altri è anche quella che contraddistingue la storia del 25enne Lorenzo Bellini che da giovanissimo ha scelto di fare il chierichetto e poi il catechista e dopo il liceo artistico ha intrapreso il tradizionale percorso di formazione al presbiterato. L’amore per le letture spirituali, i viaggi in Terra Santa sono stati tra le fonti di ispirazione per la chiamata al sacerdozio di Paolo Capelletti. «Un prete appassionato di Dio e degli uomini». È il biglietto da visita ma anche il programma pastorale con cui si presenta il 30enne don Andrea Patelli che spera ora di spendersi con tutte le sue forze per il suo nuovo ministero di curato d’anime nelle terra di papa Roncalli. L’annuncio ai lontani e sentirsi semplici e preti tra la gente e l’aver trascorso con gioia gli anni in Seminario. È la testimonianza che affiora dai racconti dei futuri preti orobici: Andrea Vecchi, Matteo Vezzoli e Simone Zappella. «Preti in ascolto degli altri e non solo amministratori dei Sacramenti». È l’augurio che si è sentito di rivolgere ai suoi futuri confratelli nel sacerdozio il prete bergamasco don Mattia Magoni. Un auspicio condiviso da tutti qui a Bergamo.
Una cupola che si staglia nel cielo della bassa, quasi ad elevare verso l’alto la pianura padana. Un luogo facile da raggiungere, che non impone sforzi fisici e offre a tutti riparo dal sole e dalla pioggia con i suoi ampi porticati. Una sorgente che dal 1432 rinfranca il corpo e lo spirito. Tutto questo è Santa Maria del Fonte di Caravaggio, da ieri proclamato santuario regionale della Lombardia. Oltre a essere da secoli una meta costante di pellegrinaggi, dalle prealpi all'appennino, dal lago Maggiore a quello di Garda, in questo luogo mariano della provincia bergamasca si è tenuta a maggio 2020 la preghiera di affidamento dell’Italia alla protezione di Maria nel momento più buio della pandemia. Il santuario è anche sinonimo di sinodalità e condivisione, perché da anni è scelto come sede per le riunioni della Conferenza episcopale lombarda.
Nel giorno del 591° anniversario dell’apparizione di Maria alla giovane Giannetta de’ Vacchi, «si riconosce ciò che già è un fatto: Caravaggio come punto di riferimento per il popolo dei credenti di questa terra posto proprio al centro della nostra regione, una casa ospitale a tutte le chiese» ha detto nel messaggio di saluti iniziali il vescovo di Cremona Antonio Napolioni. Come pastore della diocesi in cui si trova il santuario, ha poi sottolineato come fosse significativo che a presiedere l’Eucaristia fosse l’arcivescovo di Milano Mario Delpini, metropolita della Lombardia e successore di chi diede grande impulso alla costruzione del santuario, san Carlo Borromeo.
La processione d’ingresso formata da diaconi, sacerdoti e vescovi delle dieci diocesi lombarde si è mossa intorno alle 10,30 dal Centro di spiritualità del santuario. Da lì la discesa al Sacro Fonte per l’atto penitenziale, al termine del quale Delpini ha reso omaggio alla Vergine deponendo un mazzo di fiori bianchi davanti al mosaico che riproduce la scena dell'apparizione. La Messa è poi proseguita in basilica, alla presenza di centinaia di fedeli e delle autorità militari e civili, in modo particolare della rappresentanza della giunta regionale della Lombardia. Un’assemblea numerosa e variegata, fatta di realtà ecclesiali e civili, chiamate a vivere in fraternità e corresponsabilità.
Chiara e diretta l’omelia dell’arcivescovo, che ha riconosciuto e nobilitato la devozione facile. «Siamo radunati per onorare Santa Maria del Fonte e vorremmo imparare una devozione facile, quella alla quale ci educa e ci invita questo santuario che riconosciamo come santuario regionale» ha detto Delpini, indicando Maria come la madre che non chiede di portare altri pesi, ma che piuttosto rende più leggeri i fardelli della nostra vita, già troppo pesanti.
A Caravaggio Maria scende in mezzo agli uomini. Giannetta non la vede assisa tra le nuvole, ma vicina, davanti a sé. La Vergine poggia i piedi sulla terra, come la donna di Nazareth che «ci ospita senza dirci qualcosa da fare, ma invita piuttosto a non fare niente, a fermarsi, tranquilli, per un momento: perché la gente ha già troppe cose da fare. Asciuga le nostre lacrime e ci consola: la gente ne ha già versate troppe» ha proseguito Delpini.
Ha poi lodato la fede di chi a Caravaggio pratica una devozione facile, di chi prega come riesce e nella preghiera consegna anche le distrazioni, di chi non pretende di avere qualche speciale illuminazione, ma solo un po’ di buon senso e saggezza dei semplici. Facile è la devozione, ma facile è anche il bene che si può compiere dopo una sosta a contemplare il volto di Maria, come ha fatto Giannetta.
Al termine del pontificale, i concelebranti hanno raggiunto la navata minore della basilica per recitare l’invocazione alla Madonna davanti al gruppo statuario dell’apparizione. Prima della benedizione con concessione di indulgenza plenaria, una notizia inattesa. Sotto lo sguardo di colei che accoglie i vescovi lombardi nelle riunioni della conferenza episcopale regionale, il metropolita ha annunciato la nomina a vescovo di un figlio di questa terra. Si tratta di monsignor Michele Di Tolve, sacerdote ambrosiano chiamato a servire la Chiesa come ausiliare di Roma.
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«Fervorosi e controcorrente». Sono le due parole con cui il quotidiano francese La Croix sintetizza i risultati di un sondaggio che ha commissionato per delineare il profilo spirituale e anche l’orientamento socio-politico dei circa 30mila giovani che parteciperanno alla Giornata mondiale della gioventù (Gmg) di Lisbona. Risultati a cui ha dedicato la prima pagina dell’edizione di oggi.
L’80% degli intervistati dichiara di avere una vita di preghiera, il 75% di partecipare alla Messa almeno una volta alla settimana, il 24% più volte alla settimana. «Assistiamo a un rapporto molto forte, a cattolici che sono affascinati dalla Messa», la quale «occupa un posto centrale nella loro esperienza spirituale e quindi nella loro identità» commenta sul quotidiano francese il sociologo Yann Raison du Cleuziou.
Interrogati sulle loro aspettative riguardo alle celebrazioni eucaristiche domenicali, gli intervistati hanno parlato della ricerca di «un momento di incontro intimo con Gesù», di «rigenerazione spirituale» e della «celebrazione di un mistero sacro». Il tema della comunità, di un momento di celebrazione comunitario sembra essere in secondo piano, rileva sempre Raison du Cleuziou.
Il sondaggio evidenzia un interesse relativamente diffuso per il rito romano tradizionale, precedente alla riforma liturgica del 1969, la “Messa in latino” insomma: il 19% lo trova «rivitalizzante» facendone esperienza di tanto in tanto; l'11% lo ama quando il rito post-conciliare, l’8% lo preferisce a quest’ultimo. Solo il 12% lo giudica «un inutile ritorno indietro».
«Questa vicinanza al rito preconciliare può sorprendere» scrive La Croix, «tuttavia, questa fluidità tra i riti non è nuova, è solo accentuata». Per Raison du Cleuziou «i giovani non sono interessati alle querelle conciliari», in particolare alle querelle liturgiche, «si tratta di una gioventù cattolica priva di compartimenti» da questo punto di vista.
Altri dati. Il 51% degli intervistati ha contemplato in qualche momento l’idea di diventare sacerdote o religioso/a. Il 56% considera positivo l’essere identificato come cattolico fra i propri coetanei. «Una postura senza inibizioni» nota La Croix, «mentre si assiste a un restringimento della base sociale del cattolicesimo».
Sulla provenienza sociale dei 30mila diretti a Lisbona, il quotidiano francese sottolinea la disponibilità economica per sostenere i 900 euro – cifra approssimativa - del viaggio, che spingere verso l’alto il ceto di appartenenza dei giovani, o meglio le categorie professionali dei genitori.
Sull’orientamento politico, il 38% dice avere una sensibilità di «destra», il 14% di «estrema destra», l’8% di «centro», il 7% di «sinistra» e il 5% «ecologista». «Non è il cattolicesimo che si sposta a destra – commenta sempre Yann Raison du Cleuziou – ma è il cattolicesimo di destra che si perpetua meglio di quello di sinistra».
Altra domanda posta dal sondaggio: quale ruolo dovrebbe avere la Chiesa nella società? Il 59% ha aderito alla risposta «un faro che mostra il cammino nelle tenebre». La loro fiducia non sembra scossa dagli scandali sugli abusi sessuali nella Chiesa, che sono stati un tema centrale negli ultimi anni al di là delle Alpi. Per il 35% gli abusi sono «la conseguenza di personalità perverse che hanno tradito la propria vocazione» e la loro percezione della crisi «è quella che mette meno in questione le strutture istituzionali» sottolinea Raison du Cleuziou.
Sul ruolo delle donne nella Chiesa, il 33% pensa che siano «sufficientemente riconosciute», il 31% ritiene senza che ci sia bisogno di più riconoscimento ma «senza bisogno di modificare l’accesso al diaconato o al sacerdozio» riservato agli uomini.
Sul tema delle persone omosessuali, il 28% pensa che «hanno tutto il loro posto nella Chiesa», per il 25% «i cattolici non devono essere giudicati o identificati per il loro orientamento sessuale» e un altro terzo pensa che abbiano «tutto il loro posto nella Chiesa nella misura in cui non promuovono l’omosessualità come uguale all’eterosessualità». Per il 20% circa che rimane «non si può essere cattolici e praticare l’omosessualità».
Conclude La Croix riportando la valutazione di Charles Mercier, autore nel 2020 di un libro sulla storia delle Gmg (L'Eglise, les jeunes et la mondialisation: Une histoire des JMJ): «Questi giovani che andranno alla Gmg, fiduciosi nei confronti della Chiesa ma meno nei confronti del mondo che li circonda, in maggioranza conservatori e molto praticanti, sono nel solco di coloro che li hanno preceduti. Questo tipo di raduno attira di fatto cattolici convinti, che desiderano vivere un'esperienza fondativa e rassicurante». Per Mercier «questo incontro è un'occasione unica di comunione in una stessa fede attraverso una grande folla, mentre vivono in società che diventano sempre più plurali e secolarizzate».
Nella Settimana Laudato Si’ 2023 (la settimana dedicata alla lettera enciclica Laudato Si’ di papa Francesco) le suore dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (Uisg) presentano nove raccomandazioni per affrontare le sfide del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento, con particolare attenzione alle persone vulnerabili.
1. Azione economica: sostenere un nuovo impulso a un’azione collettiva orientata ai valori, al fine di costruire l’infrastruttura finanziaria necessaria per un’economia improntata allo sviluppo sostenibile.
2. Azione educativa: supportare le istituzioni e le iniziative che trasmettono conoscenza, sensibilizzano l’opinione pubblica e coinvolgono gli attori locali in modo sostenibile.
3. Azione legislativa e legale: incoraggiare i governi e le organizzazioni internazionali a mettere in agenda le questioni relative alla sostenibilità ambientale, realizzando misure concrete per garantire l’inclusione.
4. Azione ambientale e sociale: sottolineare l’interconnessione dell’azione ambientale e sociale come l’unica via per raggiungere la giustizia sociale.
5. Impegno religioso: sfruttare il radicamento e la portata dell’impegno religioso per garantire il successo delle iniziative ambientali.
6. Partenariati, istituzionalizzazione e accreditamento: istituzionalizzare il rafforzamento degli strumenti legati alle donne e alla fede e ampliare i partenariati laico-religiosi con organismi nazionali e internazionali accreditati;
7. Dialogo integrativo: promuovere il dialogo come meccanismo integrativo in grado di amplificare le voci ai margini e garantire un ruolo guida nel processo decisionale globale per le comunità locali che affrontano sfide ambientali.
8. Media e arte: incanalare i ruoli dei media e dell’arte nell’educazione pubblica, modificando la narrativa sul degrado ambientale e focalizzando l’attenzione globale sulle questioni locali.
9. Ricerca scientifica: utilizzare il potenziale della ricerca e dell’istruzione per aiutare sia i leader che le comunità locali a prendere decisioni informate e pianificare azioni concrete.
«Per affrontare alla radice le cause dei problemi generati dall’attività umana e dai nostri sistemi di profitto dobbiamo immaginare una transizione che investa tutte le aree della nostra vita – afferma suor Maamalifar M. Poreku, coordinatrice della campagna ambientale Uisg "Seminare speranza per il pianeta" –. Come suore cattoliche, abbordiamo in questo modo l’implementazione degli esiti di COP27 e COP15: come una sfida olistica per rafforzare la nostra cura per il Creato. Dobbiamo incoraggiare i leader globali a pensare fuori dagli schemi quando si tratta di impegni finanziari e di cambiamenti allo stile di vita, per cercare soluzioni radicali a sfide radicali»”.
Secondo quanto affermato pochi giorni fa dall’Organizzazione meteorologica mondiale, è probabile che le temperature globali nei prossimi cinque anni oltrepasserano, almeno temporaneamente, la soglia di surriscaldamento di 1,5°C stabilita dagli Accordi di Parigi.
“Un’alleanza tra i popoli, i governi e le organizzazioni internazionali è essenziale per proteggere la nostra casa comune e portare le voci degli esclusi al centro del dialogo, abbandonando lo spreco e l’avidità in vista di un’economia rigenerativa, in equilibrio con la natura e i bisogni umani – aggiunge Suor Patricia Murray, sSegretaria ssecutiva della Uisg –. Il ruolo delle religiose si è tradizionalmente limitato all’istruzione, all’assistenza sanitaria e allo sviluppo delle comunità. Eppure ci sono molte aree di advocacy per un cambiamento di sistema in cui le suore possono svolgere un ruolo di primo piano, soprattutto per quanto riguarda l’ambiente. Il potenziale dell’impegno religioso deve essere pienamente sfruttato. Il tempo sta per scadere e l’umanità non può permettersi di perdere altro tempo”.
La Uisg è l’organizzazione ombrello per le Superiore delle congregazioni femminili cattoliche, che conta 1.900 membri in rappresentanza di oltre 600.000 suore nel mondo. Per saperne di più CLICCA QUI
Papa Francesco ha scelto un prete ambrosiano da lui ben conosciuto e stimato come nuovo ausiliare della sua diocesi. Ha nominato infatti vescovo ausiliare di Roma monsignor Michele Di Tolve finora parroco di San Giovanni Battista e di Sant’Ambrogio ad Nemus in Rho, assegnandogli la Sede titolare di Orrea.
Monsignor Di Tolve è nato il 19 maggio 1963 a Milano ed è stato ordinato presbitero il 10 giugno 1989. Dal 1989 al 1996 è stato vicario parrocchiale dei Santi Martiri Gervaso e Protaso a Novate Milanese, poi fino al 2007 di Santa Maria Ausiliatrice in Cassina de’ Pecchi. Quindi dal 2007 al 2014 è stato responsabile del Servizio per l’Insegnamento della Religione Cattolica e del Servizio per la Pastorale Scolastica (2007-2014). Il 1° settembre 2014 è stato nominato rettore del Seminario di Milano e rettore del Quadriennio teologico. Dal settembre 2020 era parroco a Rho.
Ricevendo lo scorso 25 marzo i fedeli dalle parrocchie di Rho Papa Francesco ha manifestato apertamente la sua stima per monsignor Di Tolve, ringraziandolo calorosamente per il suo apostolato. «Saluto tutti voi e in particolare monsignor Michele Di Tolve, il vostro Parroco, che conosco da tanti anni e che ringrazio per le sue parole», aveva confidato il Pontefice all’inizio del suo discorso.
E poi aveva aggiunto: «L’ho conosciuto appena nominato cardinale: ero andato a visitare una mia cugina e lei mi ha parlato di un vice-parroco eccezionale che avevano lì, “guarda, lavora quel prete!” – “Ah sì? Fammelo conoscere, ma non dirgli che sono un cardinale” – “No, non lo dirò”. Mi sono tolto l’anello, siamo arrivati in oratorio e lui andava da una parte all’altra, si muoveva come un ballerino con tutti… Così l’ho conosciuto. E così è rimasto per tutta la vita: uno che sa muoversi, non aspetta che le pecore vengano a cercarlo. E come rettore del seminario ha fatto tanto bene, ai ragazzi che si preparano al sacerdozio, tanto bene. Adesso, come parroco, fa tanto bene e per questo vorrei davanti a tutti voi dare testimonianza e ringraziare per quello che sta facendo: grazie, grazie!»
«La Chiesa ambrosiana – ha dichiarato l’arcivescovo di Milano Mario Delpini - è lieta e onorata dell’attenzione del Santo Padre e di poter offrire alla Diocesi di Roma un collaboratore apprezzato, dedicato, generoso».
Monsignor Di Tolve sarà consacrato vescovo a Milano, in Duomo, sabato 2 settembre alle ore 10.30.
Oltre a essere luoghi di culto, loro compito fondamentale, gli edifici sacri riqualificano il territorio. Parlano gli architetti Botta, Portoghesi e Leoni.
Chiesa è anzitutto la comunità delle persone «ma lo spazio fisico dell’edificio chiesa – osserva l’architetto Mario Botta, uno dei più proliferi progettisti di edifici di culto contemporanei – è fondamentale per predisporre agli atti liturgici, alla meditazione, alla preghiera. L’ambiente invita al silenzio, alla pace, al raccoglimento: una condizione nella quale non può essere gettato di colpo chi vive nel mondo attuale pieno di immagini, suggestioni e frastuoni. È necessaria una mediazione, e questa avviene per gradi, nel passaggio attraverso la piazza, il sagrato, il colonnato».
Le chiese offrono momenti di pausa nelle città e la continuità dello spazio urbano vi trova un’oasi che a chi passa ricorda come la vita non possa restringersi negli angusti limiti di obiettivi parziali, del tempo che fugge. La loro presenza è tanto più necessaria dove maggiore è la confusione e più evidente l’assenza di bellezza. Com’è scritto nella Nota pastorale “La progettazione di nuove chiese” «il rapporto tra chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto a un ambiente urbano non di rado anonimo»: qui la presenza di una chiesa è «capace di orientare e organizzare gli spazi circostanti ed essere segno dell’istanza divina in mezzo agli uomini». Infatti le chiese e i centri parrocchiali, oltre a offrire ambienti dove sono accolti giovani e adulti di ogni provenienza, sono anche chiamati a porre al primo posto la bellezza, anche nelle periferie dove la speculazione edilizia l’ha totalmente trascurata.
«Una bellezza che – continua Botta – l’architettura oggi ricerca nelle forme essenziali: nei miei progetti le geometrie primarie sono elementi chiarificatori, capaci di dare allo spazio quell’ordine che rimanda al concetto di cosmo. Siamo bombardati da immagini e forme continuamente cangianti: abbiamo bisogno di momenti che interpretino il distacco dalla quotidianità ma questi non devono risultare estranei alla cultura contemporanea. Per cui non si possono più progettare edifici in stile. Gli stili passati testimoniano il passato: grande, importante e destinato a restare. Ma per noi ormai sono lontani». Eppure la chiesa reca un messaggio sempre attuale, che supera il tempo. E, come nota Paolo Portoghesi, artefice di tante chiese, tra cui il complesso interparrocchiale di San Benedetto a Lamezia Terme, «oggi costruire chiese che abbiano il crisma dell’artisticità non basta perché i fedeli si sentano a casa propria e, come diceva papa Benedetto XVI, invitino Dio a entrare.
Contemporaneità e artisticità a volte comportano la secolarizzazione, quella malattia sottile che interrompe il dialogo col divino. Max Weber la definiva il disincanto dal mondo. Il problema è che dopo il Concilio Vaticano II non sono emerse soluzioni universalmente valide. Le ragioni sono tante, tra cui il funzionalismo ch’è tuttora imperante e non è più ispirato da una fede profonda. La paura di sembrare conservatori porta a evitare la continuità con la tradizione. Tipico esempio di fraintendimento è il tema della chiesa dei poveri, sotto la cui avvincente etichetta s’è offerta a volte ai fedeli una chiesa impoverita, che accettava la secolarizzazione come qualcosa da estendere al mondo religioso. Forse ciò che serve è invece quella ricchezza spirituale che non costa niente ma manca sempre più nel mondo dei media e dei social: è necessario incontrarla nelle chiese. E dove trovarne esempi se non nell’eredità storica, anche recente, che nella sua straordinaria ricchezza e diversità può offrirci quel che serve a ridare attualità al discorso evangelico?
Ma ovviamente la tradizione va pensata, come lo è stata sempre dagli artisti creativi, come una fiamma accesa da custodire non come mero ossequio ai tempi passati». Le chiese antiche, da tutti ammirate, romaniche barocche o gotiche, sono perlopiù state costruite con investimenti oggi inimmaginabili – si pensi alla ricchezza del campanile di Giotto a Firenze o all’imponenza di tante cattedrali ovunque in Italia. Anche oggi la Chiesa sa come donare bellezza alle città, contribuendo a conservare le chiese antiche, che costituiscono il più importante patrimonio storico architettonico esistente e, ove necessario, a erigerne di nove: se un tempo erano le comunità locali a sostenere i costi necessari per questi scopi, oggi in gran parte essi sono coperti dai contributi dell’8xmille.
«Le chiese antiche – osserva Luigi Leoni che, insieme col compianto padre Costantino Ruggeri ha progettato decine di chiese e cappelle, e disegnato migliaia di vetrate in tutto il mondo – esprimevano l’identità locale ed erano frutto di comunità radicate nel territorio. Ma oggi la comunità ha allargato i propri confini. È una comunità universale, come universale è la Chiesa: dunque la casa della comunità, la chiesa, è chiamata a esprimere la cultura dello stare assieme non solo nel luogo, ma anche nell’insieme del mondo, attraverso segni che siano ben leggibili. Per questo è importante che le creazioni architettoniche e artistiche siano ispirate dallo Spirito, il solo che dà valore e rende eloquente la bellezza.
Come? Attraverso espressioni che comunicano gioia. Penso al cammino compiuto dalle creazioni di padre Costantino, marcato dai richiami alla Vergine: dalla prima opera, il santuario di Santa Maria della Gioia a Varese, alla grande aula celebrativa per il santuario della Madonna del Divino Amore a Roma, nata dalla semplicissima idea di sollevare una zolla di prato dove inserire le ampie vetrate che danno l’idea di una grotta inondata di luce azzurra, alla nuova chiesa dedicata a Maria Theotokos, la Madre di Dio, presso la Grotta del latte a Betlemme. Tutte architetture semplici, ma tutte piene di gioia. Quella gioia che l’abbraccio della comunità alla luce del Padre celeste sempre comunica alle persone e diffonde nelle città».
Committenti e progettisti in dialogo sin dalla fase di ideazione
Tra i richiami essenziali per l’edificazione dei luoghi di culto, c’è la Nota pastorale “La progettazione di nuove chiese”, pubblicata nel 1993 dalla Commissione episcopale Cei per la liturgia. Un testo che, si legge nella premessa, vuole essere «un riferimento e uno stimolo al dialogo tra committenti e progettisti che deve iniziare nella fase stessa dell’ideazione e configurazione di un nuovo spazio sacro e svilupparsi nella fase successiva dell’arredo e della realizzazione».
Già ce l’aveva detto, il Papa, nel discorso che spesso cita come un compito a casa ancora da svolgere: «Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti». Era il 10 novembre 2015, e da allora le parole pronunciate da Francesco al Convegno ecclesiale nazionale sotto la volta del Brunelleschi in Santa Maria del Fiore (un luogo che contribuisce a renderle permanenti) restano come un appuntamento che continua ad attenderci: «Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà».
La forza, la novità, anche la poesia di quelle immagini è poi fluita in tanti percorsi durante questi anni nei quali diocesi, parrocchie, realtà associative, noi cattolici, tutti ci siamo sentiti spinti a comprendere quali domande stessero sorgendo da una società in impetuoso cambiamento. Da noi stessi, in fondo, se abbiamo il coraggio di ascoltarci davvero. E tanto più è accaduto con la cesura di una pandemia che ci ha fatto fare i conti con la linea di faglia tra l’essenziale e il superfluo. Dentro i passi del Cammino sinodale avviato due anni fa e ora a un punto di svolta c’è tutta la suggestione esigente e affettuosa delle immagini che il Papa ci consegnò come un invito, del quale col tempo abbiamo iniziato a capire l’ineludibilità.
Il suo “sogno” di una Chiesa «inquieta nelle inquietudini del nostro tempo» è tornato ieri in un altro discorso destinato a scavare un solco: nelle parole che Francesco ha rivolto ai referenti diocesani del Cammino sinodale italiano c’è infatti il ritratto di una Chiesa che sa «mettersi in ascolto di un’umanità ferita ma, nel contempo, bisognosa di redenzione» perché noi tutti che ne facciamo parte siamo «chiamati a raccogliere le inquietudini della storia e a lasciarcene interrogare, a portarle davanti a Dio, a immergerle nella Pasqua di Cristo» che dalla maestosa cupola fiorentina ancora invita a fidarsi, a uscire, a non avere paura. Inquieti, non intimoriti. Ecco, la paura: è «il grande nemico di questo cammino», nasce dal sentirsi incompresi da una mentalità e una cultura che sembrano andare dalla parte opposta rispetto a tutto ciò in cui crediamo e speriamo, lasciandoci delusi, smarriti, persino risentiti davanti a idee e fenomeni che non si comprendono, con l’istinto difensivo di chiudere porte e finestre per sentirsi al riparo. Ma così non si incontra nessuno: ci si isola, forse immuni da contagi, ma separati dalla storia, lasciata scorrere con le sue logiche come se non ci riguardasse, con risposte sorpassate a domande tutte nuove. Una fede che si limita a consolare e proteggere e che non interroga più disincarna la Chiesa, la rende immune da quella «vulnerabilità» che può apparire una debolezza e invece, nel dizionario del Papa, è la condizione per camminare «con gioia, con umiltà, con creatività». Per lasciare un segno.
Quant’è scomoda, l’inquietudine: eppure è la stessa scòrta da Agostino nel cuore dell’uomo come garanzia di una ricerca inesauribile di Dio, che ci attende in ogni ferita della storia. Siamo chiamati a guardarci dal rischio di ritrovarsi nel sepolcro delle quattro sicurezze che sembrano bastare e possono far sentire tranquilli, ma avvolti in quella pace che è l’autoreferenzialità rispetto alla quale il Papa non si stanca di metterci in guardia. Ieri l’ha ribattezzata «teologia dello specchio» e «neoclericalismo di difesa», patologie generate da «un atteggiamento timoroso» col quale ci si taglia fuori dalla vita del mondo. Ma è la realtà che ci attende, con le sue contraddizioni, a volte incomprensibili (se non irritanti): girarle le spalle sdegnosamente equivale a chiudere il Vangelo nella cassaforte delle proprie certezze presunte e non verificate alla prova della strada e dell’umanità. Quella di adesso, non di ieri.
È ciò che il cardinale Zuppi, aprendo lunedì l’assemblea della Cei, aveva definito «uno stile di Chiesa », tutto dentro un Cammino sinodale che «deve avvenire nell’esperienza concreta, accettando l’imprevedibilità dell’incontro, misurandosi con le domande che agitano le persone e non quello che noi pensiamo vivano, per trovare assieme le risposte». L’inquietudine, detta in altre parole. Solo l’inquietudine del cammino ci mette al riparo dal «rischio di un ripiegamento identitario», quello che il presidente dei vescovi definisce «dei pochi ma puri» che poi però – invulnerabili e tranquilli – si scoprono «irrilevanti nella vita di troppi e nella storia, nascondendo il talento per paura o pigrizia». E tacciono, o restano non udibili dal mondo. Una Chiesa che condivide le inquietudini di tutti invece genera il bisogno di parlare e farsi intendere: « La Chiesa sinodale – dice Zuppi – deve essere comunicativa ». Altro che porte sbarrate: qui risuona il mandato agli evangelizzatori di ogni tempo. E questo è il nostro.
"La vita non si compra mai". A proposito dell’utero in affitto. La missione in Ucraina vuole favorire il dialogo. Parlando dell’incarico ricevuto da papa Francesco. Per l’Emilia Romagna gli stanziamenti siano immediati e non si perda tempo. E per quello che riguarda la vicenda di pedofilia che ha coinvolto un laico della diocesi di Tivoli, la Chiesa locale ha parlato chiaro e «non accettiamo accuse di atteggiamenti omertosi». Sono alcuni degli argomenti affrontati dal cardinale Matteo Zuppi durante la conferenza stampa di ieri pomeriggio, a conclusione della 77.ma assemblea generale dei vescovi. Il presidente della Cei, che aveva al suo fianco il segretario generale e arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi, oltre che il portavoce Vincenzo Corrado si è anche soffermato sulla lotta alla povertà, sulla necessaità di alloggi a prezzo popolare, sia per gli studenti fuori sede che per le famiglie e sulla ripartizione dell’8xmille, che fa del bene sia all'Italia che alla Chiesa, attiva energie ed è immagine di un fisco solidale.
Sulla questione degli abusi, Zuppi ha fatto notare che "la giustizia è una cosa molto seria: non c’è bisogno di giustizialismo. Invocare il giustizialismo è sempre pericoloso per la giustizia. È la nostra preoccupazione e il nostro interesse collaborare”. E venendo in special modo al caso emerso a Tivoli ha agggiunto: “Mi auguro che non ci sia bisogno di colpire qualcuno e comunque non spetta alla Cei”. L’atteggiamento della diocesi di Tivoli e Palestrina, a partire dalle dichiarazioni del vescovo e poi del responsabile della tutela sui minori, ha aggiunto a sua volta Baturi, “è stato quello della grande e immediata attenzione all’assunzione di responsabilità nella condanna e nell’affronto del problema”.
Lo stesso Baturi ha poi ricordato che in Italia “non esiste un obbligo giuridico, ma i vescovi già nel 2019 hanno parlato di obbligo morale, a cui ci atteniamo, e di collaborazione con le autorità statali”. Tutto ciò, ha spiegato, “con alcuni vincoli: la verifica che l’accusa sia fondata, dopo l’indagine previa; che la denuncia non incontri l’opposizione del minore; che non sia in gioco la salute del minore per un rischio imminente”. Dopo il primo Report nazionale sugli abusi, ha ricordato inoltre il segretario generale della Cei, durante l’Assemblea straordinaria in programma ad Assisi dal 13 al 16 novembre verrà diffuso il secondo Report, stilato anche grazie alla collaborazione di enti di ricerca qualificati, come l’Istituto degli Innocenti di Firenze e il Centro di ricerca di vittimologia dell’Università di Bologna. Mentre prosegue la collaborazione con il Dicastero della Dottrina della Fede per la ricerca sui casi degli ultimi vent'anni.
Sulla missione di pace per l'Ucraina il cardinale Zuppi ha spiegato che consisterà nel "portare la vicinanza alle vittime di questa guerra" e "favorire, se e come possibile, il dialogo e la pace. E' indispensabile trovare una via d'uscita dopo tante sofferenze". Alla domanda se si recherà sia a Kiev che a Mosca, Zuppi ha risposto con un "no comment". Mentre ha detto di affrontare questo incarico "con sofferenza" proprio legata a quella delle persone che stanno subendo la guerra. "Ho però il sostegno del Papa, della Segreteria di Stato e di tante persone".
Per quanto riguarda infine l'8xmille, sia Zuppi, sia Baturi, si sono detti preoccupati per il calo delle firme e delle somme a favore della Chiesa cattolica. Ma entrando nelle spiegazioni tecniche, il segretario generale ha fatto notare che questo è dovuto anche al fatto che i dati si riferiscono al 2020, anno della pandemia, con l'economia praticamente ferma. Ciò ha fatto calare il gettito Irpef e dunque anche l'8xmille da distribuire. Il Calo rispetto all'anno scorso è stato di 100 milioni, ma gli interventi di carità, è stato spiegato non ne avranno a soffrire, dato che la Cei integrerà con altri fondi, frutto di accantonamenti e residui degli anni precedenti.
Sgomento e dolore hanno manifestato i fedeli della comunità cattolica di Floridablanca, nel dipartimento colombiano di Santander, per la notizia della morte, probabilmente violenta, ieri nella sua chiesa del sacerdote Héctor Josúe Garza.
Il religioso, riferisce Radio Blu di Bogotà, era da cinque anni "l'amato e conosciuto" vice parroco della chiesa di Santa María de Cañaveral della città. Il suo corpo senza vita è stato rinvenuto da un sacrestano che ha avvertito la polizia, giunta sul posto insieme ad agenti della criminale e a magistrati della Procura.
È stata aperta una indagine per confermare le cause del decesso, precisa l'emittente, ma secondo le prime informazioni disponibili fornite dalle autorità, accanto al corpo sarebbe stato rinvenuto "un oggetto capace di causare un trauma".
Un residente del quartiere dove si trova la chiesa ha dichiarato che "non sappiamo molto bene cosa sia successo, ma il sacerdote era molto conosciuto nella zona, chiediamo che venga fatta un'indagine approfondita".
“Continuate a camminare”. “Fare Chiesa insieme”. “Essere una Chiesa aperta”. E infine “essere una Chiesa ‘inquieta’ nelle inquietudini del nostro tempo”. Sono queste le “consegne” che papa Francesco ha donato ai partecipanti all’Incontro Nazionale dei Referenti diocesani del Cammino Sinodale Italiano ricevuti in udienza stamani nell’Aula Paolo VI.
Con un discorso in cui ha elogiato la “bella esperienza di ascolto dello Spirito” in atto, pur evidenziando “l’impressione” che comunità, curie e parrocchie siano “ancora troppo autoreferenziali”, vittime di una sorta di “neoclericalismo di difesa”. E in cui ha ribadito che il protagonista del percorso sinodale è sempre lo Spirito Santo, che a volte provoca “disordine” ma poi ricompone tutto creando “l’armonia”.
All’inizio del suo intervento il Pontefice ha sottolineato che l’udienza “si colloca nel vivo di un processo di Sinodo che sta interessando tutta la Chiesa e, in essa, le Chiese locali, nelle quali i Cantieri sinodali si sono costituiti come una bella esperienza di ascolto dello Spirito e di confronto tra le diverse voci delle comunità cristiane”.
Di qui l’esortazione a “proseguire con coraggio e determinazione su questa strada, anzitutto valorizzando il potenziale presente nelle parrocchie e nelle varie comunità cristiane”. Esortazione accompagnata da “alcune consegne”.
Prima consegna: “Continuate a camminare, lasciandovi guidare dallo Spirito”, sulla scia del Convegno ecclesiale di Firenze, servendo il Vangelo “in stile di gratuità e di cura, coltivando la libertà e la creatività proprie di chi testimonia la lieta notizia dell’amore di Dio rimanendo radicato in ciò che è essenziale”. Perché una Chiesa “appesantita dalle strutture, dalla burocrazia, dal formalismo faticherà a camminare nella storia, al passo dello Spirito, incontro agli uomini e alle donne del nostro tempo”.
Seconda consegna: fare Chiesa insieme, sulle orme del Concilio Vaticano II. Perché “ogni battezzato è chiamato a partecipare attivamente alla vita e alla missione della Chiesa, a partire dallo specifico della propria vocazione, in relazione con le altre e con gli altri carismi, donati dallo Spirito per il bene di tutti”. Infatti c’è bisogno di comunità cristiane “dove tutti possano sentirsi a casa, dove le strutture e i mezzi pastorali favoriscano non la creazione di piccoli gruppi, ma la gioia di essere e sentirsi corresponsabili”.
Terza consegna: essere una Chiesa aperta. Infatti riscoprirsi “corresponsabili” nella Chiesa “non equivale a mettere in atto logiche mondane di distribuzione dei poteri”, ma “significa coltivare il desiderio di riconoscere l’altro nella ricchezza dei suoi carismi e della sua singolarità”. In questa prospettiva “possono trovare posto quanti ancora faticano a vedere riconosciuta la loro presenza nella Chiesa, quanti non hanno voce, coloro le cui voci sono coperte se non zittite o ignorate, coloro che si sentono inadeguati, magari perché hanno percorsi di vita difficili o complessi”. “Dovremmo domandarci – è la richiesta di Francesco - quanto facciamo spazio e quanto ascoltiamo realmente nelle nostre comunità le voci dei giovani, delle donne, dei poveri, di coloro che sono delusi, di chi nella vita è stato ferito”. Perché, avverte il Papa, fino a quando la loro presenza “resterà una nota sporadica nel complesso della vita ecclesiale”, la Chiesa “non sarà sinodale”, ma “sarà una Chiesa di pochi”.
A questo punto il Pontefice annota che “volte si ha l’impressione che le comunità religiose, le curie, le parrocchie siano ancora troppo autoreferenziali”. “Sembra – soggiunge - che si insinui, un po’ nascostamente, una sorta di ‘neoclericalismo di difesa’, generato da un atteggiamento timoroso, dalla lamentela per un mondo che non ci capisce più, dal bisogno di ribadire e far sentire la propria influenza”. Francesco specifica, a braccio, che il clericalismo dei preti e dei vescovi è “perversione”, e quello dei laici o delle laiche è “dieci volte tanto”, è “terribile”. Ma il Sinodo, esorta Francesco, “ci chiama a diventare una Chiesa che cammina con gioia, con umiltà e con creatività dentro questo nostro tempo, nella consapevolezza che siamo tutti vulnerabili e abbiamo bisogno gli uni degli altri”. E a questo proposito cita una frase di don Primo Mazzolari: “Che contrasto quando la nostra vita spegne la vita delle anime! Preti che sono soffocatori di vita. Invece di accendere l’eternità, spegniamo la vita”.
“Siamo inviati – è il commento del Papa - non per spegnere, ma per accendere i cuori dei nostri fratelli e sorelle, e per lasciarci rischiarare a nostra volta dai bagliori delle loro coscienze che cercano la verità”. Prendendo spunto dalla domanda del cappellano di un carcere italiano, che gli chiedeva come far sì che l’esperienza sinodale vissuta in una casa circondariale possa poi trovare un seguito di accoglienza nelle comunità, papa Francesco ha aggiunto un’ultima consegna: essere una Chiesa “inquieta” nelle inquietudini del nostro tempo.
“Siamo chiamati – spiega il Pontefice - a raccogliere le inquietudini della storia e a lasciarcene interrogare, a portarle davanti a Dio, a immergerle nella Pasqua di Cristo”. E “formare dei gruppi sinodali nelle carceri vuol dire mettersi in ascolto di un’umanità ferita, ma, nel contempo, bisognosa di redenzione”. Così la comunità cristiana “è provocata a uscire dai pregiudizi, a mettersi in ricerca di coloro che provengono da anni di detenzione, per incontrarli, per ascoltare la loro testimonianza, e spezzare con loro il pane della Parola di Dio”. E “questo è un esempio di inquietudine buona”, “esperienze di una Chiesa che accoglie le sfide del nostro tempo, che sa uscire verso tutti per annunciare la gioia del Vangelo”.
Infine Francesco ribadisce che è lo Spirito Santo “il protagonista del processo sinodale: è Lui che apre i singoli e le comunità all’ascolto; è Lui che rende autentico e fecondo il dialogo; è Lui che illumina il discernimento; è Lui che orienta le scelte e le decisioni. È Lui soprattutto che crea l’armonia, la comunione nella Chiesa”.
E conclude a braccio osservando che se a volte nel processo sinodale si nota un certo disordine bisogna ricordare la mattina di Pentecoste, quando c’era un “disordine totale” provocato dallo Spirito Santo. Ma poi fu lo stesso Spirito Santo a creare “l’armonia”.
Coraggio e unità. Sono queste le coordinate del Cammino sinodale della Chiesa in Italia, indicate questa mattina, giovedì 25 maggio, dal cardinale Matteo Zuppi. Il presidente della Conferenza Episcopale Italiana presiede la Messa con tutti i vescovi riuniti per l'assemblea annuale all'altare della Cattedra nella Basilica Vaticana. "Coraggio è anche lo stimolo a trovare nuove vie di trasmissione della fede, ad annunciare il Vangelo in ogni circostanza, a non aver paura di prendere il largo", sottolinea il porporato nell'omelia. "Coraggio - aggiunge - è l’espressione di Dio, che conosce la fatica della testimonianza. Vivere per il Vangelo ci fa confrontare con il nostro limite, con la durezza del mondo, con la forza del male che i cristiani conoscono perché amano e non aspettano qualche pandemia per combatterlo". Riprendendo l'esempio di san Paolo, condotto in catene a Roma per un processo ingiusto, il cardinale, invita a "trasformare le difficoltà in opportunità" e a liberarsi "da ogni catena e da quel veleno pericoloso che è il pessimismo, che può essere accompagnato da giudizi intelligenti ma che diventa sempre indifferenza. Tutto può cambiare e niente è impossibile a chi crede".
Zuppi ha poi messo l'accento sull'unità, sottolineando "la fatica benedetta di questi anni del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia: quella di camminare insieme, al passo con il Risorto e in dialogo con il mondo". Ricordando quanto disse il Papa all’inizio del percorso («Siete venuti da tante strade e Chiese, ciascuno portando nel cuore domande e speranze, e sono certo che lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità»), il presidente della Cei nota che "non c’è comunione senza l’azione dello Spirito e la nostra docilità a lasciarci guidare dallo Spirito". Il che significa che bisogna stare lontani "dai piccoli interessi, dagli affanni di Marta, dai protagonismi che riempiono di orgoglio, dai programmi vuoti di amore che ci rendono sicuri ma
lontani dai pellegrini".
Coraggio e unità sono dunque per il cardinale, "i due binari del percorso che la Parola di Dio ci indica oggi attraverso la liturgia
eucaristica: il coraggio che solo l’amore può generare in noi, per ascoltare, discernere e decidere per Dio e per il bene della Chiesa; e l’unità. Cioè pensarsi insieme, a tutti i costi, non uguali, anzi ancora più diversi perché finalmente e liberamente se stessi perché in relazione gli uni agli altri. L’unità è santa e non a caso è sempre legata alla pace, perché la guerra inizia quando si accetta la
divisione. L’unità ha sempre al centro Gesù, dietro cui camminare e da amare nella comunità e nei suoi membri di diritto che sono i suoi fratelli più piccoli, i poveri, i sofferenti, i forestieri, i nudi, gli assetati di vita e di speranza, figli affamati di amore e di pane. Perché tutti siano una sola cosa nell’amore".
Il cardinale ricorda anche "l’angoscia che grava nell’anima del popolo ucraino che anela alla pace e quanti piangono qualcuno che non è tornato più, inghiottito dalla macchina di morte fratricida che è la guerra". E mette in guardia da una Chiesa che sia solo "idealizzata o virtuale". La Chiesa è fatta dai volti della gente. E se "veniamo tutti dalle nostre tante Emmaus e portiamo con noi la tristezza di quei pellegrini con il cuore gonfio di disillusione, ferito, aggressivo e amaro perché le speranze erano finite", dobbiamo andare oltre "gli orizzonti mediocri di Emmaus" evitare di fermarsi "a discutere tutti i giorni del passato ma senza futuro, fuori dalla storia".
Bisogna essere invece "un popolo" e una "famiglia che ci chiede di vivere con lo stile e i sentimenti della famiglia, non da funzionari anonimi, anche zelanti ma con il cuore e gli affetti da un’altra parte o ridotti solo al proprio protagonismo o ruolo. Questa è la casa di un Padre che ricorda sempre che tutto quello che è suo è nostro, e anche viceversa, che tutto ciò che hai diventa davvero tuo proprio perché insieme. Solo un cuore largo e cattolico ci aiuta da misure avare e paurose e a scoprire e riscoprire il mondo senza confini"
Al momento della preghiera dei fedeli si è pregato anche per il papà di monsignor Domenico Pompili, vescovo di Verona, deceduto ieri.
Un pensiero per quanti hanno camminato con lui e «hanno creduto all’amore di Dio» e l’incoraggiamento ad «andare avanti» senza indugi e senza paura. Padre Sergio Natoli, sacerdote siciliano dell’Ordine missionario oblati di Maria Immacolata, l’amico dei migranti del quartiere palermitano di Ballarò, è morto ieri e lo ha fatto nello stesso modo in cui è vissuto: con cuore innamorato. «Non temete perché Dio ci ama sempre, sempre, sempre, sempre» è stato l’ultimo invito, lanciato in punto di morte e raccolto da chi gli era accanto in un audio che è subito diventato virale. Era destinato a quanti hanno con lui fondato e formato l’“Arcobaleno di popoli” – stile missionario, ma anche nome di una vera associazione no profit – più variegato e coeso che la Sicilia abbia mai visto. E probabilmente non solo la Sicilia. Perché padre Natoli era a Palermo, il sacerdote di quella Festa dei popoli che riuniva insieme filippini, mauriziani, ghanesi, tamil, cingalesi, italiani, latino-americani e gente proveniente da altri Paesi dell’Africa francofona ed anglofona e dall’Est europeo. Era il parroco che celebrava una Messa in cui ciascuno trovava – nelle musiche, nei riti, nelle diverse lingue delle Letture, nell’Eucaristia - una parte di sé. Era il missionario del Vangelo di quell’accoglienza e quella integrazione che si fonda sulla Parola di Dio e che diventa un’assemblea che è espressione della cattolicità della Chiesa. Era ambasciatore di «quel Regno di Dio che si instaura anche attraverso le diversità degli uomini e delle donne di buona volontà che desiderano camminare insieme nel medesimo territorio».
Padre Natoli aveva 74 anni (era nato a Patti) e da diverso tempo conviveva con un tumore che gli ha reso la vita difficile ma al quale non ha permesso di rallentare il suo servizio, neanche quello di consigliere ecclesiastico dell’Ufficio diocesano Migrantes di Palermo. Monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore generale della Fondazione Migrantes (organismo pastorale della Cei), ne ha lodato l’impegno: «Ha lavorato e si è prodigato con iniziative significative, come la Festa dei Popoli, per richiamare l’attenzione verso il mondo della mobilità. Ma non solo: tante le sue opere di solidarietà e di accoglienza». Da Roma, dove si trova per i lavori della 77ª Assemblea Generale della Cei, l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, ha ricordato «l’unzione dell’incontro con lui, lo scorso 18 maggio, e il balsamo della benedizione che mi ha dato. La Chiesa di Palermo – ha detto - è ricca della sua testimonianza e della sua gioia e passione missionaria».
Ma il ricordo più bello, ieri, è stato ancora un “arcobaleno”: un convenire multicolore di persone di diverse etnie che hanno reso omaggio a padre Sergio nella chiesa Santa Maria dei Miracoli – di cui era rettore - a Piazza Marina. Il suo corpo resterà lì fino a questa sera e poi i funerali, domani, nella parrocchia San Nicolò da Tolentino con la sua Comunità Oblata di Maria Immacolata, in via Maqueda.
«Credo che ci troviamo davanti a una decisione in linea con il cammino che si sta compiendo verso il Sinodo di ottobre ». Non pare affatto stupita Antonella Sciarrone Alibrandi, sottosegretaria del Dicastero vaticano per la cultura e l’educazione, della decisione di permettere ai laici - e ai non vescovi - presenti al Sinodo anche di votare annunciata nei giorni scorsi. « Papa Francesco sottolinea con forza la centralità del popolo di Dio nelle dinamiche ecclesiali - aggiunge - e quindi questa decisione di ammettere al voto anche i non vescovi si incornicia in un percorso intrapreso da papa Francesco nel suo pontificato».
Dunque un atto atteso?
In parte me lo aspettavo, proprio per il fatto che al centro del Sinodo vi è la sinodalità, tema che per sua natura dovrebbe portare ad allargare lo sguardo all’intero popolo di Dio, che è fatto dai battezzati, uomini e donne, laici e laiche, consacrati e consacrate. E poi penso che una spinta verso questa decisione sia maturata non solo per volere del Papa, ma sia emersa anche nel corso dei lavori preparatori che hanno coinvolto la base della Chiesa, le parrocchie, le diocesi.
Realtà nelle quali la presenza femminile è già significativa.
Possiamo dire di sì. A volte mi sembra che le Chiese locali, sul coinvolgimento delle donne, siano un po’ più avanti della Chiesa “centrale”, se possiamo usare questo termine. Sono tante le donne presenti nei Consigli pastorali parrocchiali e diocesani. Io stessa faccio parte di quello diocesano a Milano e con me sono molte le donne presenti. Ma ribadisco che il tema della sinodalità, già di suo, deve far riflettere sulla dimensione globale del popolo di Dio.
Papa Francesco in questi anni ha nominato diverse donne in ruoli di gestione dentro la Curia Romana e negli organismi vaticani. Anche lei è stata nominata al Dicastero per la cultura e l’educazione. Mi pare stia crescendo la presenza di donne laiche.
È vero. Se all’inizio vi è stata una scelta che coinvolgeva donne consacrate, sempre di più il Pontefice sta scegliendo anche donne laiche. Ma va detto che lo stesso percorso è stato compiuto anche per la presenza maschile, dove i laici sono cresciuti solo negli ultimi anni e in almeno due casi sono laici i responsabili di Dicasteri importanti: quello della Comunicazione e la Segretaria per l’economia . Si può dire che il Papa sta rendendo visibile il fatto che la Chiesa non è soltanto una realtà in mano ai vescovi o, al massimo, ai consacrati. Al contrario ne siamo responsabili tutti noi che abbiamo ricevuto il Battesimo, uomini e donne.
Da laiche e da consacrate come vivete questo momento storico? Vi confrontate tra voi sull’impegno al quale siete state chiamate?
Ci stiamo conoscendo con il tempo. In alcuni casi la conoscenza era precedente ai nostri incarichi. Penso a suor Alessandra Smerilli. Più che creare rete tra noi, penso sia importante valorizzare il mix di figure che si stanno creando nei Dicasteri. Del resto io vengo dal mondo accademico e questo lavorare insieme - uomini e donne, con le proprie specificità e competenze - è sempre stato un metodo che ho perseguito.
Il maggior coinvolgimento dei laici - uomini e donne - nella vita della Chiesa appare non solo utile, ma persino indispensabile. Ma i laici sono preparati a questo coinvolgimento? Ad assumersi questi impegni?
Bella domanda. Penso che per un laico non sia facile assumere un ruolo dentro la struttura della Chiesa. Certo si portano competenze specifiche, un certo sguardo. Tutto questo è necessario, però non sufficiente. Mi spiego. Ci sono due rischi. Il primo è quello che spesso evoca lo stesso papa Francesco: scimmiottare con il proprio comportamento preti e suore perdendo la propria specificità di laici. Il secondo è quello di entrate in questa realtà senza tenere in conto la sua specificità, quasi una entrata in gamba tesa, verrebbe da dire.
Qual è il punto di equilibrio?
Sicuramente è quello di entrare in queste realtà imparando a guardarsi attorno, a conoscere i meccanismi, ad apprendere lo spirito che anima questi organismi. Direi imparare a conoscere lo stile della casa, perché non siamo all’interno di un’azienda o di una società. Ci sono priorità e attenzioni che dobbiamo rispettare anche come laici. Non vuol dire affatto adeguarsi alla situazione, ma di non dimenticare la specificità della struttura in cui operiamo, la Chiesa.
Forse servirebbe un percorso di formazione?
Basterebbe vivere in comunione, in sinodalità all’interno della propria comunità parrocchiale. Sarebbe una scuola importante, una formazione che permetterebbe ai laici e alle laiche di assumere compiti sempre più impegnativi nella Chiesa a tutti i livelli. Cammino lungo e complesso, ma di certo non impossibile.