Si è concluso domenica il pellegrinaggio ad Assisi di 1.900 ragazzi delle scuole medie organizzato dal patriarcato di Venezia. Tre giorni dedicati alla conoscenza di altrettanti testimoni della fede: due santi colonne della Chiesa negli ultimi 800 anni, Francesco e Chiara, e un beato morto all’età grosso modo dei giovanissimi pellegrini veneti, praticamente loro contemporaneo, sepolto ad Assisi pur essendo vissuto prevalentemente a Milano, cioè Carlo Acutis. Il momento conclusivo della tre giorni è stata la celebrazione eucaristica presso la Basilica superiore di San Francesco, presieduta dal patriarca Francesco Moraglia.
«Vi ringrazio cari ragazzi perché ci avete dato l’occasione di ricordare che annunciare il Vangelo è trasmettere la gioia di un incontro» ha detto Moraglia nella sua omelia, «il pellegrinaggio è l’unione di tre presenze: quella di Gesù che vi ha chiamati, quella del vostro sì, che avete deciso di aderire numerosi, quella infine di chi vi sta accanto. Il pellegrinaggio infatti è testimonianza ed esperienza di vita ecclesiale: nelle prossime settimane continuate a condividere le esperienze che avete compiuto in questi giorni».
«Dio ha un progetto anche per ciascuno di voi – ha detto ancora il patriarca – san Francesco si è convertito in un percorso, in un cammino. Ha incontrato il lebbroso, ha ascoltato il Crocefisso di San Damiano, ha scelto di spogliarsi dei beni paterni, ha scelto di vivere a Rivotorto e poi ha frequentato l’Eremo delle Carceri. Infine nel luogo detto Porziuncola ha sentito la chiamata a vivere in povertà».
Sempre Francesco «pone l’inizio del suo cammino come una conversione traumatica. Non sceglie il commercio, non sceglie di continuare a fare il cavaliere, rompe con le feste. Rompe con tutto questo. Diventerà l’uomo delle 5 quaresime all’anno. Francesco infatti è una sorta di problema, è una provocazione per la Chiesa, perché ci dice come il carisma sia difficile da vivere con fedeltà. Il vero protagonista nella vita è stato il Signore misericordioso. La santità di Francesco viene dal Signore e si è sviluppata proponendo una sapienza che va oltre alla sapienza degli uomini. Per questo la testimonianza di Francesco può essere un riferimento importante per noi: Venezia guardi alla testimonianza e alla spiritualità di san Francesco da cui possono venire rinnovamento e freschezza».
Al termine della Messa i ragazzi insieme a Moraglia e ai sacerdoti presenti hanno realizzato un breve video per salutare papa Francesco e ringraziarlo per i suoi 10 anni di servizio alla Chiesa universale.
I ragazzi sono stati accolti ad Assisi dal padre custode del Sacro Convento, fra Marco Moroni, e dalla sindaca della città Stefania Proietti. «Siamo particolarmente lieti dell’entusiasmo che le parrocchie respirano» aveva detto prima della partenza don Riccardo Redigolo, direttore della Pastorale dei ragazzi. La tre giorni ha pienamente confermato i buoni auspici. (Red.Cath.)
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Un appello alla politica unito a un messaggio di speranza. “È davvero per tutti tempo di scelte coraggiose e non di opportunismi”. Perché siamo a “un preludio di primavera”, dopo l’“inverno” che ha connotato gli anni passati. Lo scrive nella sua introduzione al Consiglio permanente il cardinale Matteo Zuppi. La sessione primaverile apertasi oggi, 20 marzo, ha visto il discorso introduttivo del presidente della Cei. Che ha rilanciato l’appello rivolto a settembre da Matera “ai politici, ma per certi versi a tutti e che indicava alcune preoccupazioni che chiedono di trovare risposte certe, non provvisorie, precarie, sempre parziali”. In sostanza: “Le povertà in aumento costante e preoccupante, l’inverno demografico, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, i migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche, le riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale”. Per questo bando agli opportunismi e avanti con le scelte coraggiose. Che si riferiscono a tutte le questioni citate. Non specificamente ai migranti. Tanto è vero che il riferimento alla tragedia di Cutro è contenuto in un diverso passaggio della Introduzione. Quando, dopo aver ricordato la fuga in Egitto della Sacra famiglia, il porporato ha detto: "Come non ricordare l'ultima tragedia che ha coinvolto profughi, che non hanno trovato chi custodiva la loro vita?", ha chiesto ringraziando "di cuore quanti si sono prodigati in loro aiuto, manifestazione di tanta umanità e la Chiesa di Crotone che ha mostrato il volto di madre della nostra Chiesa"
Il cardinale ha inquadrato la sua analisi nel panorama ormai post pandemico. Senza però dimenticare l’inverno attraversato, in sostanza le grandi difficoltà a tutti i livelli. In altri termini le “fragilità e sofferenze del nostro tempo e della nostra gente: inverno dell’ambiente, della società, dei divari territoriali, della denatalità, dell’educazione. Inverno secondo alcuni irreversibile. Suggerivo - ha aggiunto - di profittare di questa situazione per apprendere uno ‘sguardo dal basso’, che consentisse di commuoversi e farsi carico delle fatiche dei più poveri. Ma anche chiedevo di impegnarsi in uno ‘sguardo lungo’, di costruire con generosità e intelligenza, pensando al dopo di noi, per comunicare la speranza cristiana che con fiducia pensa che tutto possa cambiare e il deserto fiorire”.
La necessità di guardare avanti non riguarda però solo la politica e la vita sociale. Largo spazio il presidente della Cei ha dedicato anche alla situazione della Chiesa italiana, nel post-pandemia. In particolare, ha notato, il Covid "ha fatto affiorare alcune debolezze ecclesiali più o meno latenti. Non le dobbiamo osservare con pervasivo pessimismo, con quella sottile tentazione di fermarci solo sulle difficoltà, sui limiti, con quell’incredulità pratica di sapere solo vedere i problemi, interpretandoli anche in maniera raffinata ma senza credere che siano occasione per l’opera di Dio. Non dimentichiamo le tentazioni dello gnosticismo e del pelagianesimo, indicate da Papa Francesco. E non dobbiamo nemmeno correre dietro la ricerca illusoria e ipocrita di comunità perfette, ma riconosciamo nella nostra fragilità e contraddizione, i tanti comportamenti virtuosi, che non dobbiamo dimenticare né perdere perché dono dello Spirito".
Una delle preoccupazioni evidenziate è "evitare che il ricorso alla comunicazione digitale, così importante durante l’isolamento, sostituisca la presenza e diventi funzionale all’individualismo e alla patologia della paura. Penserei, per esempio, opportuno terminare con tante trasmissioni informatiche che inducono a chiudersi. Ci chiediamo: “Cosa abbiamo imparato da questa situazione di pandemia? Quali nuovi cammini dovremo intraprendere per abbandonare le catene delle nostre vecchie abitudini, per essere meglio preparati, per osare la novità? Quali segni di vita e di speranza possiamo cogliere per andare avanti e cercare di rendere migliore il nostro mondo?”. Dobbiamo nutrire una cultura cristiana, che dia significato e forma alla parola “insieme” perché “è insieme, nella fraternità e nella solidarietà, che costruiamo la pace, garantiamo la giustizia, superiamo gli eventi più dolorosi”, ha sottolineato citando papa Francesco e il suo Messaggio per la Giornata mondiale della pace 2023.
Zuppi ha messo l'accento anche sui “santi della porta accanto”. Essi, ha fatto notare, "hanno di fatto reinventato una pastorale fuori dagli abituali confini fisici e mentali delle parrocchie, mostrando tanta solidarietà, prossimità, amore gratuito. Abbiamo capito con più vivezza che l’identità della comunità cristiana non si misura soltanto in base alla partecipazione alla liturgia domenicale. La preghiera, personale e comunitaria, ha sempre un orizzonte molto più ampio, che rende la comunità cristiana quello che deve essere, una famiglia capace di fare sentire a casa, di raggiungere le persone nelle loro case perché non siano luoghi isolati o carceri di solitudine, tessendo i legami umani e affettivi comandati dall’amore cristiano. La carità appartiene di diritto all’esperienza di fede di ogni cristiano e non può essere delegata solo ad alcuni, come non può mai essere scissa dalla dimensione spirituale. Amore e verità si nutrono l’uno dell’altra".
Quanto al Cammino sinodale della Chiesa italiana, definito "volano di una riscrittura ecclesiale", il cardinale nel ricordare che viviamo "il passaggio dalla fase dell’ascolto a quella del discernimento", aggiunge: "Nessuno si illude che vi sia la soluzione ad ogni difficoltà né che questo processo sia vissuto da tutti con il medesimo slancio. Quanti si sono coinvolti in questo cammino, a cominciare dai referenti diocesani fino ai componenti del Comitato e della Presidenza del Cammino sinodale, ci raccontano la soddisfazione del percorso fatto insieme, che sta educando progressivamente tutti i protagonisti a uno stile spirituale e pastorale nuovo". Dunque "la Chiesa del post-pandemia e del Cammino sinodale si configura sempre più chiaramente come una Chiesa missionaria, della chiamata e dell’invio di ognuno, che si misura con le domande, le sfide, con la necessità di diffondere una cultura cristiana come chiave per capire e consolare la tanta sofferenza. La pandemia ha posto tutti bruscamente dinanzi ad alcune domande esistenziali fondamentali, come il senso della morte, il perché del dolore innocente, il valore tutto umano della vita dal suo inizio alla sua fine, l’importanza della gratuità, la fragilità. Mi piace immaginare una Chiesa che si faccia carico di queste domande e offra luce e speranza per nuove motivazioni che affranchino dalla paura".
Infine il presidente della Cei ha ricordato i 10 anni di pontificato di papa Francesco. "Oggi sentiamo di rivolgerGli un grande “grazie” per l’insegnamento che ci ha consegnato in questi anni. Conosciamo i Suoi discorsi e i Suoi documenti ufficiali, che hanno inciso in profondità nella vita delle nostre comunità. Abbiamo imparato ad apprezzarLo nei Suoi gesti simbolici come la preghiera del 27 marzo 2020 in una piazza San Pietro deserta o come il bacio ai piedi dei leader del Sud Sudan chiedendo il loro sforzo per la pacificazione di quella terra". E usa un'immagine suggestiva. "Papa Francesco ha assunto alcuni tratti di San Giuseppe: vediamo in Lui la cura dell’altro, la custodia dei più deboli, la solidità della fede quotidiana e il coraggio di sognare la Chiesa di oggi e di domani. Le Sue parole e i Suoi gesti sono diventati per noi un programma ecclesiale e ci offrono anche un linguaggio che avvicina tanti ed è comprensibile a tutti".
"Le Sue parole e il riferimento al discorso di Firenze - ha concluso - restano per noi una preziosa indicazione, segnano l’urgenza di tanto impegno pastorale insieme a tutto il popolo che ci è affidato e ci spingono a intraprendere con coraggio e responsabilità il nostro cammino ecclesiale".
La preghiera del Papa a San Giuseppe, che conclude l'introduzione, dice:
O Beato Giuseppe, mostrati padre anche per noi,
e guidaci nel cammino della vita.
Ottienici grazia, misericordia e coraggio,
e difendici da ogni male.
Il calendario delle celebrazioni liturgiche presiedute da papa Francesco nel mese di aprile, in cui ricorre la Settimana Santa e la solennità della Pasqua di Risurrezione, porta come prima data il 2 aprile, Domenica delle Palme.
Il Papa celebra la commemorazione dell’ingresso del Signore in Gerusalemme e la Messa della Passione del Signore in Piazza San Pietro, alle ore 10. Il 6 aprile, Giovedì della Settimana Santa, Francesco presiede la Messa del Crisma nella Basilica di San Pietro alle ore 9.30.
Il 7 aprile, Venerdì Santo, "Passione del Signore", la Cappella papale con la celebrazione della Passione si tiene nella Basilica vaticana alle ore 17. Sempre venerdì 7 aprile, il Pontefice partecipa alla tradizionale Via Crucis alle ore 21.15 al Colosseo.
La Veglia Pasquale nella notte santa è celebrata dal Papa sabato 8 aprile, in Basilica, alle ore 19.30. Il 9 aprile, Domenica di Pasqua, il Papa presiede la Messa del giorno in piazza San Pietro alle ore 10, a cui seguirà alle ore 12 la Benedizione "Urbi et Orbi" dalla Loggia centrale della Basilica vaticana.
Il calendario delle celebrazioni diffuso comprende anche il Viaggio apostolico del Papa in Ungheria nei giorni 28, 29 e 30 di aprile.
Ognuno di noi è in attesa di una mano che sappia prendersi cura della nostra vita e che ci aiuti a far sbocciare il progetto che sentiamo piantato nel nostro cuore: è questa la consapevolezza che parte il secondo numero del 2023 della rivista «Vocazioni», bimestrale curato dall’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Cei. Si aggiunge così un tassello prezioso nel cammino della rivista che quest'anno festeggia la sua 40a annata.
«Di me ha cura (Sal 40,18)» è il titolo che accompagna questo numero.
Il Salmo 40 che ispira il tema, commenta il biblista Giacomo Violi, è un testo attribuito a Davide: «È un inno di ringraziamento, di lamento e di fiducia, sentimenti tra loro inestricabilmente combinati. Tra le affermazioni più caratterizzanti troviamo: “Ecco io vengo” al v. 8 e “Il Signore ha cura di me” al v. 18, che sono al cuore di ogni vocazione».
Soffermandosi sulla dimensione della cura, nel suo editoriale don Michele Gianola, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni, ricorda che «se ci accostiamo alle persone senza questa apertura allo stupore e alla meraviglia per la loro vocazione, se non parliamo più il linguaggio della fraternità e della bellezza, i nostri atteggiamenti saranno quelli dell’invidia, dell’avversità, della paura, della sopraffazione; viceversa, se noi ci sentiamo intimamente uniti agli altri, la fraternità, la stima reciproca (cf. Rm 12,10) e la cura, scaturiranno spontaneamente.».
Il tema viene approfondito dagli interventi dal teologo don Dario Vitali, («Comunione di vocazioni»), di don Samuele Marelli, («Stare a fianco»), della psicologa Chiara d'Urbano («Una responsabilità più articolata») e del monaco Cesare Falletti, («Il sì delle nostre mani vuote»).
Infine, «Prendersi cura per non perdersi» è il titolo dell’intervento di Emanuela Vinai disponibile solo su vocazioni.online per gli utenti abbonati.
Ad arricchire la rivista, come sempre, sono le consuete rubriche che offrono spazi di approfondimento e di riflessione attingendo a diversi ambiti della vita e della cultura contemporanea.
Quando papa Francesco era entrato nella saletta di Casa Santa Marta dove aveva scelto di ricevere la delegazione informale appena arrivata dall’Ucraina per un incontro “non ufficiale” sulla guerra, la sua prima frase aveva sorpreso tutti. «“Possiamo parlare quanto ci occorre”, aveva esordito. Parole che fin da subito testimoniavano inequivocabilmente come il Papa intendesse comprendere le peculiarità del conflitto e quale fosse la percezione ucraina di ciò che era, ed è, ancora in corso», ricorda Myroslav Marynovych. Intellettuale di fama internazionale, attivista dei diritti umani fin dai tempi dell’Unione Sovietica, cofondatore del Gruppo di Helsinki in Ucraina, studioso dei rapporti fra religione e società, esperto di ecumenismo e di dialogo interreligioso, il vice-rettore dell’Università greco-cattolica di Leopoli era stato citato da Francesco nella conversione con i gesuiti in Kazakistan, pubblicata su La Civiltà Cattolica, in cui aveva svelato il suo ruolo di mediatore fra Kiev e Mosca per il rilascio dei detenuti di guerra finiti nelle mani del nemico. E durante l’incontro era stata consegnata al Papa una lista di nomi ucraini per operare uno scambio che avrebbe aperto un canale di “diplomazia umanitaria” ancora attivo e prolifico.
«Gli sforzi di Francesco in questo ambito sono stati e restano enormi – spiega il docente ad Avvenire –. E sono ipocriti i politici che attribuiscano a se stessi il merito principale della libera[1]zione dei prigionieri. Giustamente il Papa tace. Ma il suo ruolo è ben conosciuto dalle madri e dalle mogli dei nostri concittadini catturati dai russi che spesso si rivolgono al Pontefice per chiedere il suo intervento. Francesco agisce secondo quanto ha chiesto Cristo nel Discorso della montagna, ossia senza “suonare la tromba, come fanno gli ipocriti”. E sono certo che il “Padre che vede nel segreto” lo “ricompenserà”».
Professore, lei ha raccontato al Papa il conflitto. Come?
Impossibile elencare tutti gli argomenti toccati durante la nostra conversazione. Abbiamo parlato, tra l’altro, del fatto che la Russia usa non solo le armi ma anche le false informazioni. L’Ucraina è stata a lungo vista attraverso il prisma russo, anche in Vaticano. Pertanto è giunto il momento di sviluppare una prospettiva sul nostro Paese che non derivi da quella di Mosca. Poi abbiamo accennato al fatto che molti europei commettono l’errore di ritenere i russi non responsabili dell’invasione. Sì, la colpa è della leadership al Cremlino. Ma gli attacchi in Ucraina sono compiuti dai soldati russi e il popolo russo approva in gran parte la guerra. Ecco perché amare i russi significa rivelare loro la vera portata dei crimini commessi, favorendo un sincero pentimento. E al termine abbiamo discusso dei concetti di “guerra giusta” e “pace giusta”. Il Papa ha convenuto che un chiarimento sia necessario. E ha rivelato di aver già incaricato alcuni cardinali di approfondire il tema.
In questo anno di invasione Francesco ha lanciato oltre cento appelli a favore del «popolo martoriato» dell’Ucraina.
Fin dall’inizio della guerra il Papa è stato animato dal desiderio di riconciliare due popoli che in Occidente vengono definiti «fraterni» e che litigano a causa di influenze esterne. Gli ucraini, storditi dalle atrocità del conflitto, non hanno potuto fare a meno di percepire tale atteggiamento come idealistico, dietro il quale c’era un malinteso sui motivi della guerra. E dire che il Papa porta veramente su di sé le sofferenze della nostra gente. Con il passare del tempo i media nazionali hanno cominciato ad amplificare affermazioni fuori contesto di Francesco mentre certi moniti pontifici sono stati ignorati. Come è accaduto per Lettera del Papa agli ucraini dello scorso novembre che contiene messaggi molto importanti.
Il Papa ha ribadito di voler andare a Mosca e Kiev. Può fare da mediatore?
È naturale per un pastore cercare di riavvicinare le due parti in conflitto. Allora una visita nelle due capitali sembra auspicabile e giustificata, tanto più che nella storia della Santa Sede c’è stata la gloriosa pagina della media[1]zione nella crisi di Cuba del 1962. Tuttavia, a mio parere, vanno considerati alcuni elementi.
Quali?
In primo luogo, il conflitto russo-ucraino è a somma zero: appare impossibile conciliare, da un lato, il desiderio ucraino di preservare la propria libertà e la propria statualità e, dall’altro, l’ambizione russa di porre fine a tale statualità e di far rivivere un impero dissolto. In secondo luogo, la Russia moderna vive secondo una logica orwelliana dove le parole assumono un significato opposto rispetto a quello fattuale. L’aggressione voluta da Putin è «autodifesa»; i crimini contro l’umanità «la necessaria eliminazione dei nazisti». Ne deriva che la «pace» sia concepita solo come una tregua temporanea per riassettare le forze in vista di una nuova guerra e che la «riconciliazione» equivalga alla completa sottomissione degli ucraini. È possibile negoziare con queste premesse? Tuttavia, il Papa ci insegna che serve scrutare l’orizzonte per scorgere possibilità ancora non visibili o esplorate
Nella Francia minata da una secolarizzazione spinta, la speranza di una primavera della fede passa anche per le suole consumate di migliaia di padri di famiglia pronti a mettersi in marcia ogni anno sulle orme di san Giuseppe. Così, a Parigi, l’arrivo della primavera non è più segnato solo dalle rondini o dalla Festa della Musica, ma pure dal convergere verso il cuore della capitale di migliaia di partecipanti alla Marcia di San Giuseppe, pellegrinaggio che federa un centinaio di parrocchie della regione parigina.
I gruppi, generalmente composti da una trentina di fedeli, si riuniscono sul sagrato della propria chiesa parrocchiale, ricevendo una benedizione del parroco, se possibile davanti a una statua di san Giuseppe. Poi, giunge l’ora della partenza, su itinerari talora superiori ai 15 chilometri. La destinazione è ben visibile lungo ampie porzioni del tragitto, trattandosi della bianca e svettante Basilica del Sacro Cuore a Montmartre, che domina i quartieri parigini.
Ogni parrocchia può stabilire in libertà il proprio percorso, cadenzato in genere da tappe sempre molto intense, come quelle del gruppo che ci ha accolto ieri, partito da una parrocchia intitolata a san Martino nella banlieue Sud-Ovest, nonostante le proteste di piazza in corso contro la riforma delle pensioni.
Il tempo di conoscersi, di salutare la presenza di fedeli con handicap, d’attivare spontaneamente discussioni a ruota libera, fra una preghiera e l’altra anche per la pace, e giunge già il primo momento forte. La condivisione d’intenzioni di preghiera, tutti assieme in cerchio, nel verde d’un parco su un isolotto della Senna. L’occasione per vincere ogni timore, evocando, spesso in modo molto trasparente, difficoltà nell’educazione dei figli, la lotta contro gravi malattie o altre prove di salute, delle tensioni di coppia o con altri membri della propria famiglia.
Poi, si riparte, alla volta d’una visita spirituale in un seminario carmelitano nel cuore di Parigi, accedendo proprio a una chiesa intitolata a san Giuseppe, per incontrarvi un seminarista ormai vicino alla fine degli studi, pronto a parlare della propria vocazione, dei propri dubbi, del sostegno ricevuto dal padre lungo il cammino della propria vocazione. Tappa successiva, dopo un’altra mezz’ora di marcia, la chiesa della Maddalena, che sarà quella di riferimento delle Olimpiadi dell’anno prossimo, a cui dedica parole toccanti monsignor Patrick Chauvet, già rettore-arciprete della non lontana Cattedrale di Notre-Dame ancora in cantiere: «Maria Maddalena corre, corre sempre» e per questo ha tanto in comune con gli sportivi e pure con i pellegrini sempre pronti a rimettersi in moto.
Dopo un rapido pranzo al sacco, giunge l’ora dell’ascensione verso il bianco Santuario della Misericordia Divina, dov’è previsto, fino a mezzanotte, un ricco programma di celebrazioni, processioni, conferenze, Messe.
«Perché mi sono messo in cammino? Solo per cercare di far spazio, ogni giorno un po’ più, all’amore e alla bontà», ci spiega un pellegrino. Per padre Francisco Dolz, il cappellano del pellegrinaggio, «Giuseppe è l’uomo che crede che Gesù ci libererà dai peccati, accordandoci il perdono delle nostre colpe». E in proposito, il pellegrinaggio offre pure ampie possibilità d’accedere al sacramento del Perdono.
La prima scintilla storica degli odierni pellegrinaggi maschili francesi dedicati a san Giuseppe giunse nel 1976, su iniziativa di 3 laici amici. Da allora, in controtendenza rispetto ad altri eventi nazionali di preghiera, la partecipazione non ha smesso di crescere. Oggi, soprattutto a marzo o a luglio, la Francia conta circa 60 pellegrinaggi di questo tipo, come quelli a Marsiglia, Nantes, Vézelay, Montligeon, Cotignac e presso il Mont-Saint-Michel.
La comunità di Locri-Gerace alla scuola di Maria. Per cinque mesi la diocesi ha camminato, pregato, cantato, fatto festa accompagnando la statua della Madonna di Polsi che ha attraversato tutti i paesi, anche quelli più sperduti, della Locride. Ieri sera, con la liturgia presieduta dal vescovo Francesco Oliva, si è concluso ad Africo uno dei momenti più significativi pensati per l’Anno mariano indetto dal presule locrese.
Un anno straordinario iniziato il 2 settembre nel cuore dell’Aspromonte, il giorno della festa di Polsi. Da ottobre, poi, la statua lignea (l’originale in sasso rimane conservata nel suo santuario) ha visitato le 73 parrocchie e i 19 santuari diocesani accolta ovunque con grande partecipazione di fedeli. È stata una sfida quella di voler accompagnare il cammino sinodale con il tentativo di rivedere e rilanciare sotto forme nuove la pietà popolare, come aveva auspicato Oliva negli “Orientamenti per un rinnovamento della devozione mariana” presentati con la lettera Nello stupore di tutto il creato.
È vero che qua e là resistono certe manifestazioni rasentanti il folclore, ma questa peregrinatio Mariae è stata vissuta come un vero momento di grazia: la recita del Rosario, l’adorazione eucaristica e le confessioni sono prevalse su tutto il resto. I fedeli, infatti, hanno compreso e accolto quanto detto dal vescovo Oliva: «Mettersi alla scuola di Maria è ricordare Cristo con lei, imparare Cristo con lei, conformarsi a Cristo con lei, supplicare Cristo con lei, annunciare Cristo con lei».
La visita della statua della Vergine ha portato alla gente conforto dopo il lungo e difficile periodo della pandemia e in questo tempo segnato dalla guerra che non sembra fermarsi, senza dimenticare il dramma dei migranti che lungo coste calabresi e della Locride cercano una via sicura. La tragedia di Cutro da un lato e, dall’altro, l’impegno quotidiano dei tantissimi volontari, con le Caritas parrocchiali in testa, mostrano quanto sia prezioso e fondamentale l’impegno di ognuno. E l’accoglienza si apprende guardando Maria «Madre che non fa discriminazione, che accoglie tutti», ha sottolineato Oliva.
E ha aggiunto che con Maria «la nostra terra ha imparato ad aprirsi al diverso, accogliendo persone e culture diverse. È divenuto un habitat aperto al dialogo e alla convivenza pacifica, ma anche alla sinodalità. Alla scuola di Maria impariamo a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste e a non camminare da soli». Apertura ed accoglienza che sanno andare ben oltre i problemi duri ad essere superati che persistono nella Locride: «La Vergine che ben conosce la nostra terra, le sue ferite e umiliazioni, le povertà e bellezze ci indica il cammino da seguire, senza nasconderne rischi e pericoli».
Il vescovo Oliva ha incoraggiato tutti. Questo cammino deve fornire uno slancio nuovo e positivo; per la strada futura bisogna guardare con fiducia alla Madre di Dio che sostiene, incoraggia e guida. «Quando incertezze e paure sono all’orizzonte – ha detto – quando sembra di rimanere soli e il cammino si fa duro, possiamo sempre contare su Maria. E con coraggio e tanta speranza superare la notte oscura dei mali che ci rattristano».
Da domani il simulacro della Madonna di Polsi inizierà la visita delle diocesi di Reggio Calabria-Bova e di Oppido-Palmi e la peregrinatio proseguirà fino a concludersi il 31 maggio con l’incoronazione della statua lignea a Bagnara Calabra.
«Un senso di responsabilità e al tempo stesso una grande gioia mi accompagnano». Così dom Luca Fallica si è espresso subito dopo la cerimonia per l’immissione come abate ordinario di Montecassino. Una giornata assai particolare, quella del 16 marzo per dom Fallica e tutta la comunità benedettina di Montecassino, arrivata a coronamento di alcune tappe precedenti: il 9 gennaio la nomina di Fallica da parte di papa Francesco ad abate e ordinario dell’abbazia fondata da Benedetto da Norcia; l’8 marzo l’ordinazione presbiterale nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano (Fallica non era sacerdote ma, essendo Montecassino un’abbazia territoriale, non è possibile applicare quella possibilità che papa Francesco ha recentemente offerto, ovvero che vi siano anche dei superiori maggiori di comunità non sacerdoti) presieduta dall’arcivescovo Mario Delpini e con una forte partecipazione della Chiesa di Milano che ha gioito alla nomina di Fallica ad abate di Montecassino. Tra poco più di un mese, invece, a completamento del tutto, è prevista la benedizione abbaziale.
Nato a Ripatransone (Ascoli Piceno) 64 anni fa, monaco benedettino della Congregazione sublacense cassinese e iniziatore, assieme ad altri confratelli, della comunità di Dumenza (Varese), di cui è stato priore per dodici anni fino al dicembre scorso, dom Luca Fallica succede a dom Donato Ogliari, dall’8 giugno 2022 abate ordinario di San Paolo fuori le Mura a Roma; è il 193° abate di Montecassino, in linea diretta di successione da Benedetto da Norcia che la fondò nel 529.
Ma torniamo alla cerimonia di immissione, tenutasi nella sala capitolare dell’abbazia, alla presenza dell’abate presidente della Congregazione benedettina sublacense cassinese, dom Guillermo Leòn Arboleda Tamayo, e dell’abate visitatore della Provincia italiana e abate di Subiaco, dom Mauro Meacci, al termine della quale dom Luca Fallica così si è rivolto ai fedeli presenti: «Sono giorni di forti emozioni per me. Dal 9 gennaio, dopo la nomina da parte del Santo Padre, si sono succedute tappe importanti di un cammino che ora vede la mia immissione nel servizio di abate e ordinario dell’abbazia di Montecassino. Un senso di responsabilità e al tempo stesso una grande gioia mi accompagnano. Mi auguro e prego che lo sguardo paterno e benedicente di San Benedetto possa sempre vegliare sul mio cammino e illuminarmi e guidarmi in questo servizio che mi è stato affidato. Tra i segni che hanno caratterizzato il breve rito di immissione c’è anche la consegna della croce, che mi ricorda il modo nel quale sono chiamato a vivere il mio impegno, non anteponendo nulla all’amore di Cristo, a quell’amore cioè con il quale egli ha donato la vita per noi e ora mi chiama a offrire la mia esistenza per i fratelli che mi vengono affidati».
E già questa mattina ci sarà la prima uscita ufficiale del nuovo abate di Montecassino quando alle 11.30 accoglierà in abbazia la “Fiaccola benedettina pro pace et Europa una”, quest’anno pellegrina in Portogallo, anche in vista della Giornata mondiale della gioventù, e che sta toccando pure le altre città e comunità benedettine di Norcia e Subiaco. Sempre oggi, ma nel pomeriggio, dom Fallica scenderà invece a Cassino per accogliere la fiaccola insieme a tutta la cittadinanza. Martedì prossimo, festa di san Benedetto, a Montecassino verrà invece accolto il cardinale Leonardo Sandri che presiederà la solenne Eucaristia.
Questo è il desiderio e, al tempo stesso, l’insegnamento che ha lasciato suor Luisa Dell’Orto, missionaria delle Piccole Sorelle del Vangelo di Charles de Foucauld, uccisa il 25 giugno scorso ad Haiti in un agguato: continuare ad essere lì per gli altri, come ha fatto lei per una vita.
Lì nella sua Port-au-Prince, dove abitava da 20 anni, immersa nel sobborgo accanto alla popolazione locale, vivendo in mezzo ai vicini con i quali condivideva tutto: gioie e difficoltà. Lì in cité Jeremy (con cité vengono chiamati i quartieri popolari), dove sorge il Centro Kay Chal (“Casa Carlo” in creolo), l’opera che suor Luisa portava avanti convinta che educazione e formazione siano indispensabili per offrire ai ragazzi una chance di futuro.
«Il Centro ha preso vita per assicurare ai bambini un luogo dove trovare un tavolo per fare i compiti e uno spazio per giocare, cose che banalmente in cité non esistono, perché la povertà è estrema e i vicoli sono larghi appena 60 centimetri», spiega Letizia Scaccabarozzi, giovane volontaria laica di Milano, che con suor Luisa ha condiviso quasi un anno di servizio, preghiera, incontri, persino la stessa abitazione.
Il Centro Kay Chal era sorto per cercare di offrire ai più piccoli un luogo che potesse accoglierli, che potesse toglierli dalla loro condizione di strada. «Era un modo – spiega Letizia – per dare un’opportunità. Suor Luisa credeva fermamente che nel momento in cui dai una possibilità ad un bambino, investi sul suo futuro. Ad Haiti è difficile avere delle opportunità. Mi ricordo che era felicissima quando i bambini di Kay Chal le portavano la pagella scolastica, per mostrargliela orgogliosi».
L’impegno di suor Dell’Orto in Kay Chal era tanto. E come in ogni altra cosa, metteva tutta sé stessa. Il Centro, con il passare del tempo, si era arricchito di proposte e opportunità. Avevano preso il via: la scuola di alfabetizzazione al mattino, per chi non aveva accesso all’istruzione perché costretto a lavorare come “domestico” nelle case della capitale; il doposcuola al pomeriggio, per chi frequentava la scuola pubblica ma non avrebbe avuto la possibilità di fare i compiti in famiglia; le attività ricreative (come basket, capoeira, informatica, ecc.), per cercare di offrire educazione e svago. Suor Dell’Orto, in particolar modo, andava di famiglia in famiglia alla ricerca dei “restavec”, fenomeno molto diffuso nella capitale haitiana.
Succede spesso, infatti, che i figli delle famiglie più povere che abitano nelle campagne vengano mandati in città presso conoscenti che, in teoria, dovrebbero garantire l’istruzione dei piccoli in cambio di un aiuto nei lavori di casa. Di fatto, però, spesso questi ragazzi diventano schiavi domestici, e la scuola è solo un miraggio. «Luisa cercava le situazioni più problematiche per far capire l’importanza dello studio: era un lavoro delicato. E otteneva che le famiglie mandassero i “restavec” al Centro per una prima alfabetizzazione», racconta Letizia che a Ray Chal ha fatto la volontaria.
Oggi, a nove mesi dalla morte della missionaria, il Centro esiste ancora: viene portato avanti dagli animatori locali che da lei hanno imparato tutto. «D’altronde, è questo il desiderio di suor Luisa: continuare ad essere lì per gli altri, come ha sempre fatto lei. è stato molto bello che il 27 giugno, due giorni dopo la morte, in occasione del suo compleanno gli animatori abbiano organizzato una festa per lei. Si sono trovati tutti insieme per ricordarla, ma in modo gioioso».
È in sostegno di questo progetto che Missio Giovani - settore della Fondazione Missio (organismo pastorale della Cei) che promuove la Giornata dei missionari martiri in programma per il 24 marzo di ogni anno - ha scelto di destinare le offerte che verranno raccolte per l’occasione: oltre alla preghiera per coloro che hanno donato la vita per testimoniare il Vangelo, proprio come suor Dell’Orto, la proposta è anche quella di rinunciare ad un pasto del giorno e donare l’equivalente in denaro per un progetto missionario. Per l’edizione 2023, Missio Giovani ha scelto di aiutare proprio il Centro Kay Chal, «per continuare a crescere insieme a suor Luisa».
E’ possibile contribuire al progetto offrendo l’equivalente di una merenda, un pallone, materiale scolastico (quaderni, penne, matite, colori), computer portatili, ecc. facendo una donazione on line su www.missioitalia.it oppure seguendo le altre modalità indicate, precisando nella causale: Progetto 79 – Haiti.
Il 24 marzo si celebra la Giornata dei missionari martiri. Per saperne di più CLICCA QUI
Come prepararsi all'evento con 11 video:
I materiali d’animazione prodotti da Missio Giovani per la Giornata dei Missionari Martiri 2023 sono molto ricchi. Si va dagli 11 video-reportage realizzati da Luci nel Mondo che hanno come protagoniste tre donne missionarie uccise in quanto testimoni – suor Maria De Coppi, suor Luisa Dell’Orto e Luisa Guidotti Mistrali – alle riflessioni tematiche sul senso profondo della Giornata. Si procede con lo schema di Via Crucis per la Quaresima e con quello della Veglia di preghiera per le parrocchie. Ognuno dei materiali è scaricabile da www.missioitalia.it. (I.D.B.)
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Torna, per la decima edizione, “24 ore per il Signore”, iniziativa quaresimale di preghiera e riconciliazione voluta da Papa Francesco. Anche quest’anno l’evento si celebrerà nelle diocesi di tutto il mondo alla vigilia della quarta domenica di Quaresima. Oggi e domani «in preparazione alla Pasqua di Risurrezione, le chiese rimarranno aperte per un giorno intero, in modo da offrire ai fedeli e ai pellegrini l’occasione di sostare in qualsiasi momento in adorazione e l’opportunità di confessarsi», spiega la prima sezione del Dicastero per l'evangelizzazione, che ha come pro-prefetto l’arcivescovo Rino Fisichella e che promuove l’iniziativa. Quest’anno papa Francesco presiederà “24 ore per il Signore” non in Basilica Vaticana ma nella vicina parrocchia di Santa Maria delle Grazie al Trionfale. Avvenire ha intervistato il parroco, don Antonio Fois.
Don Antonio, come ha saputo della bella sorpresa del Papa?
Da monsignor Fisichella. È venuto a trovarmi una ventina di giorni fa e mi ha comunicato che quest’anno la le 24 ore per il Signore sarebbero state celebrate in questa parrocchia. La mia prima reazione è stata: «Il Papa non può farlo, allora la farà lei qui?». «No, no. Si fa qui e viene il Papa» mi ha risposto spiegandomi che si voleva dare un taglio più comunitario e pastorale, meno solenne rispetto a quello che poteva apparire nella Basilica vaticana.
Le reazioni in parrocchia?
Ho potuto comunicare la bella notizia ai nostri parrocchiani due lunedì fa. Può immaginare la sorpresa e l’entusiasmo dei fedeli! Noi siamo a ridosso delle mura vaticane e non ci aspettavamo una visita del Papa che, giustamente, privilegia nelle sue uscite le periferie urbane ed esistenziali. In tantissimi hanno chiesto i biglietti per partecipare. Anche molti giovani e giovanissimi hanno espresso il desiderio di partecipare a questa liturgia penitenziale guidata dal nostro vescovo, il Papa. Un evento internazionale fatto nella nostra realtà parrocchiale.
Come si svolgerà la visita delPapa?
Da quello che mi è stato comunicato il Papa arriverà intorno alle 16,30. Entrerà direttamente in chiesa. Non ci sarà, come normalmente avviene nelle visite pastorali, l’incontro con le varie realtà parrocchiali. Ma si recherà subito all’altare della Beata Vergine Maria, dove è custodito il Santissimo e dove si trova l’icona della Madonna delle Grazie.
Un’icona storica anche per la città di Roma…
Esatto. È venerata nell’Urbe dal 1587 quando il venerabile fra Albenzio de Rossi la portò dalla Terra Santa. Ed è stata fino agli anni Quaranta nell’antica chiesetta di Borgo Angelico. Nel 1924 il cardinale Merry del Val la incoronò in piazza San Pietro davanti, raccontano le cronache, a duecentomila romani. Una cifra davvero impressionante per l’epoca. Nel dicembre 1984 poi, quando era parroco monsignor Paolo Gillet, venne qui san Giovanni Paolo II per incoronarla di nuovo. Mi sono permesso di insistere con monsignor Fisichella perché il Papa venisse a venerarla.
Perché?
L’icona raffigura una Madonna che allatta. Immagine della tenerezza femminile e materna. Quindi può essere veramente l’icona di questa giornata dedicata alle confessioni. Icona di quella tenerezza che il Papa ci chiede di applicare nel momento in cui amministriamo il sacramento della riconciliazione.
Dopo questo momento, inizia la liturgia penitenziale…
Sì. Ci sarà l’esposizione del Santissimo Sacramento. Il Papa confesserà alcuni fedeli. Al termine ci sarà la benedizione eucaristica. Poi il Papa rientrerà in Vaticano mentre gli altri sacerdoti continueranno a confessare.
Quanti saranno i preti a confessare?
Saremo in 25 in tutto. Qui in canonica, compresi alcuni officiali di curia e studenti, siamo in sette. Poi ci sono collaboratori fissi.
Con quali criteri sono stati scelti i fedeli che si confesseranno dal Papa?
Per quanto riguarda quelli designati dalla parrocchia abbiamo privilegiato fedeli che hanno vissuto e stanno soffrendo situazioni di particolare sofferenza, come la mamma di Marco, il giovane alpinista tragicamente scomparso lo scorso ottobre durante un’escursione. Persone che potrebbero non capire qual è la volontà di Dio in quello che stanno vivendo. Le abbiamo scelte per poterle affidare alla misericordia, alla capacità di amare del Papa. Mi auguro di cuore che possa essere terapeutica per la salute delle loro anime.
Questa cerimonia penitenziale arriva dopo un lungo periodo segnato dal Covid. Nella vostra esperienza parrocchiale, come si sta vivendo questa ripresa?
C’è una ripresa, ma c’è stata anche una continuità. In piena obbedienza alla testimonianza che ci ha offerto il Papa con le sue messe mattutine a Santa Marta e con le sue preghiere solitarie in piazza noi non abbiamo mai interrotto questo servizio della confessione. Con tutte le precauzioni del caso, ovviamente. Anche quando abbiamo dovuto sospendere le liturgie abbiamo sempre esposto il Santissimo, e c’è stato sempre un sacerdote disponibile per il sacramento della riconciliazione. Questo è stato apprezzato dalla gente e ci ha garantito una ripresa forse meno faticosa rispetto ad altre realtà.
Un biglietto di ingresso per i visitatori al Pantheon, ad esclusione degli orari riservati alle funzioni religiose e alle attività pastorali. Questa la novità arrivata dalla firma della nuova convenzione sul regolamento d’uso della basilica nel cuore di Roma, siglata oggi 16 marzo nella sede del Mic, tra ministero della Cultura e il capitolo della basilica di Santa Maria ad Martyres, meglio conosciuta appunto come Pantheon. Nello specifico, il testo prevede il pagamento di un biglietto per l’accesso dei visitatori al Pantheon, che sarà consentito soltanto al di fuori degli orari riservati alle funzioni liturgiche e alle attività pastorali, affinché sia salvaguardato l’esercizio del culto all’interno della basilica.
In sostanza l’accesso ai fedeli per la partecipazione alle attività religiose e di culto sarà totalmente libero e sarà cura del ministero, tramite propri addetti, interdire durante lo svolgimento di tali attività l’accesso ai visitatori attraverso appositi cartelli esplicativi all’esterno del portone. Sarà sempre cura del ministero, provvedere prima di ogni celebrazione al posizionamento di cordoni opportunamente collocati al fine di realizzare un corridoio d’accesso interno orientato al solo spazio celebrativo, escludendo possibilità di visita al resto della basilica. Il prezzo massimo del biglietto di ingresso è fissato a 5 euro, anche se diverse categorie di persone potranno comunque accedere gratuitamente. Il 70% del ricavato andrà al ministero, il quale si farà carico delle spese di manutenzione ordinaria e straordinaria e di quelle di pulizia, tenendo anche conto delle eventuali richieste di interventi che potrebbero pervenire dal Capitolo; il restante 30% alla diocesi di Roma, che lo utilizzerà per iniziative caritative e culturali e per attività di manutenzione, conservazione e restauro di chiese di proprietà statale presenti nel territorio diocesano.
«A Roma c’è una prassi secondo la quale in nessuna chiesa si paga un biglietto di ingresso, con la quale mi trovo d’accordo, ma mi rendo conto che questo del Pantheon è un caso particolare – sottolinea monsignor Daniele Micheletti, arciprete della basilica di Santa Maria ad Martyres - Si era iniziato a parlare dell’introduzione di un biglietto già diversi anni fa. Per il Capitolo è importante che sia regolamentato l’accesso dei visitatori, poiché il Pantheon è uno dei monumenti più visitati della città. Inoltre, lo Stato ha la responsabilità del monumento, per cui ha a suo carico tutte le ingenti spese e non si poteva rimanere insensibili alle richieste del ministero». La diocesi di Roma infatti, ritenendo peculiare il valore universale e l’unicità della struttura architettonica del Pantheon, che attraverso i secoli ne hanno fatto un luogo di culto del tutto unico, necessariamente aperto a una ampia fruizione anche di studiosi e ricercatori, è concorde nell’introduzione del biglietto di ingresso.
Da lunedì 20 a mercoledì 22 marzo si svolgerà a Roma la sessione primaverile del Consiglio Episcopale Permanente. I lavori, che saranno introdotti alle ore 16 del 20 marzo dal cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi, si focalizzeranno sul programma e sullo svolgimento dell'assemblea generale in programma dal 22 al 25 maggio.
Sedici schede per «conoscersi meglio». Ma anche per combattere e cancellare «pregiudizi e stereotipi anche nelle parole e nelle immagini». Sono le sedici schede messe a punto dal gruppo di lavoro congiunto della Conferenza episcopale italiana (Cei) e dall’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei). Testi destinati ai libri di religione utilizzati nelle scuole italiane durante l’insegnamento della religione cattolica e che intendono sgomberare il campo dagli ostacoli per una conoscenza reciproca basata su dati reali. L’occasione per presentarle è la “due giorni” apertasi ieri pomeriggio a Ferrara, significativamente presso il Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis) e che oggi vivranno un momento di laboratori nei quali saranno coinvolti i docenti di religione, primi destinatari di questo complesso lavoro che ha visto una gestazione durata alcuni anni e condotta congiuntamente da cattolici ed ebrei.
«Abbiamo cercato di offrire un prodotto affinché i testi scolastici non siano più fonte di errori o pregiudizi» ha commentato rav Ariel Di Porto, che con Ernesto Diaco direttore dell’Ufficio Cei per la scuola e responsabile del Servizio nazionale dell’Irc, ha presentato le schede. «Riconosco che la Cei ha mostrato grande sensibilità nel coinvolgere il mondo ebraico nell’estensione delle schede» ha aggiunto Di Porto.
«Penso che sia una operazione importantissima per educare le giovani generazioni - ha aggiunto da parte sua Ernesto Diaco - anche perché questi libri di testo in molte famiglie rappresentano uno dei pochi testi che parlano di religione e dunque è importante che i contenuti aiutino il dialogo e una conoscenza reciproca corretta».
Proprio il tema della conoscenza che elimina stereotipi e pregiudizi è stato sottolineato anche dai numerosi interventi di saluto all’incontro. «Un esempio di come si attua il principio di responsabilità» - ha detto Noemi Di Segni presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane -. Un piccolo passo, ma allo stesso tempo grande verso l’obiettivo di una reciproca conoscenza». Sulla stessa linea anche il segretario generale della Cei, l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi (in collegamento video). «Queste schede aiutano i nostri giovani ad aprirsi alla realtà e al dialogo con gli altri - ha detto il segretario generale della Cei -. Del resto lavorare sui ragazzi e sulla loro educazione significa anche investire sulla possibilità di costruire la pace. E in questi tempi c’è ne proprio tanto bisogno». Una educazione necessaria anche a contrastare quei rigurgiti di antisemitismo che in questi ultimi tempi sembrano essere aumentati. Un caso anche a Ferrara, la città che sta ospitando questa “due giorni”, come ha ricordato il presidente della comunità ebraica di Ferrara, Fortunato Arbib nel suo saluto. «Senza una vera conoscenza - ha sottolineato l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio Gian Carlo Perego - si alimenta soltanto l’odio perché non si percepisce l’altro come proprio fratello. Ecco l’importanza del dialogo e la lotta a stereotipi e pregiudizi». Soddisfazione per questo lavoro è stato espresso anche dal rabbino capo di Roma rav Riccado Di Segni e dal presidente dell’Assemblea rabbinica italiana rav Alfonso Arbib, entrambi in collegamento video all’evento, al quale il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha voluto inviare un messaggio portato dalla responsabile della comunicazione del ministero Alessandra Migliozzi.
Da ieri sui siti della Cei e dell’Ucei sono a disposizione di tutti queste sedici schede, anche se l’evento di presentazione si è concluso con un gesto significativo: il vescovo di Forlì-Bertinoro Livio Corazza (delegato dei vescovi dell’Emilia Romagna per il dialogo interreligioso) e la presidente dell’Ucei Noemi Di Segni hanno consegnato le sedici schede ai rappresentanti di alcune case editrici di libri scolastici.
di Riccardo Maccioni
Per conoscere meglio l’altro è bene che sia lui a raccontarsi. Vale nella normale vita di relazione, a maggior ragione è regola nel dialogo tra le fedi, anche se si fondano su una radice comune. Per questo è particolarmente significativo il lavoro portato avanti insieme dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) e dall’Ucei (Unione delle comunità ebraiche italiane). Le sedici schede presentate ieri sono un modo per approfondire la conoscenza dell’ebraismo lontano dai pregiudizi che tanto male hanno provocato in passato e contribuire a sradicare sul nascere quei germogli di antisemitismo che periodicamente riemergono, pure nel nostro Paese.
Si tratta di una concreta testimonianza – spiega la nota introduttiva alle schede – di «come il processo avviato dal Concilio Vaticano II, in particolare con la dichiarazione “Nostra Aetate”, sia attivo, efficace e necessario. È per noi un punto di non ritorno – recita ancora l’invito alla lettura – che ha dato avvio a un processo irreversibile: dall’insegnamento del disprezzo all’insegnamento del rispetto fino al dialogo, al riconoscimento reciproco, all’amicizia, alla collaborazione. Un cammino lungo irto di difficoltà ma anche già ricco di frutti»,
E il fatto che questa pubblicazione sia destinata ai ragazzi e ai loro insegnanti va proprio nella direzione del laboratorio, del cantiere in cui lavorare perché diventi casa di un’autentica cultura del rispetto. In più, particolare non da poco, queste pagine di approfondimento e studio sono scritte in maniera chiara, semplice e rispondono a “curiosità di base” sull’ebraismo e chi lo professa. Comprese le domande che altrimenti non si avrebbe il coraggio di porgere.
Complessivamente le sedici schede sono divise in tre grandi aree: “i concetti fondamentali”; “la vita della comunità ebraica” e “la storia dell’ebraismo”. Tutto il necessario insomma per vincere i pregiudizi e scoprire quanto patrimonio comune unisca cristiani e ebrei. Quanto ai contenuti si parte dalla composizione della Bibbia ebraica o Tanakh e dalle diversità con quelle cristiana per poi soffermarsi sull’unità tra Torah scritta e orale, sul nome di Dio nell’ebraismo, su Israele popolo eletto, sulla relazione tra giustizia e misericordia fino al capitolo sui precetti che l’ebreo è tenuto a rispettare: 613 di cui 365 (come i giorni dell’anno) divieti e 248, il numero delle parti che compongono il corpo umano, doveri.
La seconda parte della pubblicazione riguarda invece, se così si può dire, i ritmi della comunità ebraica, il suo calendario, le feste e i riti che lo cadenzano, la centralità dello Shabbat, il sabato, e il valore del digiuno, i compiti dei rabbini, le tappe (dalla circoncisione al matrimonio alla sepoltura), che segnano l’esistenza di un fedele “normale”, la presenza femminile, il popolo d’Israele e la sua terra. L’ultimo grande capitolo o area 3, infine, tratta più direttamente i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo. A partire, e non potrebbe essere altrimenti, dalla figura di Gesù e, subito dopo, da un focus su Paolo. Quindi la storia degli ebrei italiani e il dialogo ebraico-cristiano con la svolta impressa dal Concilio Vaticano II. Il tutto presentato in estrema sintesi con il supporto di un’agile bibliografia pensata per chi voglia approfondire i contenuti della singola scheda. L’ultima, molto interessante, è dedicata al significato corretto di alcuni termini da ebreo ad antigiudaismo, antisemitismo, antisionismo, fino alle correnti dell’ebraismo. Un modo per capire quante cose non si sanno e colmare la lacuna. Sui banchi scolastici. Ma anche dopo.
«Suora, di quale cardinale è lei?». Ero nei primi mesi di lavoro all’interno della Curia romana e questa domanda ricevuta in cortile fu come uno squarcio. Quello che in ogni ambiente umano appare naturale, infatti, è meno semplice, meno ovvio di quanto si vorrebbe. C’è una stratificazione di consuetudini, di simboli e di dinamiche tanto pervasiva da divenire trasparente, invisibile, in ogni sistema chiuso.
Il Concilio Vaticano II ha segnato un’evoluzione epocale nell’autocomprensione della Chiesa cattolica, ma il passaggio dai testi alla vita in larga parte non si è ancora compiuto. Come donna è forse più facile avvertirlo. Ebbene, papa Francesco nei primi dieci anni da Vescovo di Roma ci ha molte volte sorpreso semplicemente traducendo il Concilio in gesti. Direi persino in uno stile: la sua è una quotidiana opera di traduzione del Vaticano II, un evento che, come una nuova Pentecoste, ha ristabilito il dialogo tra Chiesa e mondo contemporaneo. Siamo oggi di fronte a una partecipazione senza precedenti delle donne alla vita pubblica, in ambito professionale, politico, culturale, economico e scientifico. Le loro lotte, la nuova e diffusa coscienza della loro dignità sono uno degli esiti più importanti della modernità, in larga parte del mondo. È ben difficile per chi ogni giorno ascolta e annuncia il Vangelo non riconoscere in questo un “segno dei tempi”. Eppure, specie nel suo volto istituzionale, la Chiesa sembra non avere registrato ciò che a tutti i livelli ha reso più ricca la convivenza civile. Papa Francesco lo sa bene: molto rimane da fare, ma ci sono contesti in cui si tratta persino di iniziare. E il primo passo è apprezzare che già ora non siamo più quelle e quelli di prima. In ambito teologico questa consapevolezza ha reso possibili a ogni latitudine nuovi e importanti contributi da chi fino a pochi decenni fa non aveva nemmeno accesso alle facoltà ecclesiastiche.
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Hanno fatto rumore le parole pronunciate dal Papa qualche giorno fa: «Le donne hanno una capacità di gestire e di pensare totalmente differente da noi e anche, io direi, superiore a noi, un altro modo. Lo vediamo in Vaticano, anche: dove abbiamo messo donne, subito la cosa cambia, va avanti». In realtà, esse rivelano ancora una volta la sua principale preoccupazione: che le cose si muovano. Nei suoi primi dieci anni si è dedicato – come ama dire – ad avviare processi più che ad occupare spazi. È un atteggiamento che ritiene fondamentale per attuare il Concilio. Direi che è il movimento, il dinamismo che il Papa riconosce al Concilio stesso, in quanto avvenimento dello Spirito, che è vento, soffio, potenza. Come donna, quindi, lasciarmi interrogare e ispirare dal suo stile e dal suo magistero significa non cadere in una logica di occupazione degli spazi e, semmai, educare anche gli altri a uscirne. Occorre uscire tutti, uomini e donne, dal clericalismo. È questo il nome da dare all’invisibile atmosfera che resiste allo Spirito in nome della consuetudine. Oggi il problema non è che in Vaticano ci sia qualche donna in più, ma che una religiosa o un laico possa avere responsabilità su un vescovo o un prete. Ci vuole delicatezza, naturalmente, ma determinazione perché prenda forma una Chiesa popolo di Dio. Occorrono «mente, cuore e mani», come suggerisce papa Francesco, per demolire le logiche di potere e il carrierismo.
Ciò che conta, però, è lo scenario di insieme che così si apre e che ho davanti agli occhi ogni giorno nel Dicastero di cui sono segretario: lavorare insieme a un’unica missione donne e uomini, consacrati e laici, giovani e anziani, con provenienze geografiche, sensibilità ecclesiali e teologiche diverse. Nel nostro caso un’ottantina di persone. A Roma abbiamo un vescovo, naturalmente: papa Francesco. E con lui condividiamo il cammino. Si concretizza così la pluriformità del popolo di Dio, nel momento stesso in cui profili tanto diversi imparano a vivere e a operare in comunione. Ecco il punto: la valorizzazione non solo delle donne, ma di ciascuno. Un’alleanza tra i diversi, cui certo le donne possono dare un contributo decisivo. Sappiamo per esperienza, infatti, che cosa significa non essere visti. Tessere relazioni e sciogliere rigidità, inoltre, è qualcosa cui siamo piuttosto portate. Vorrei dire che l’alleanza uomo-donna descritta nella Genesi, quell’unità dei differenti a cui Dio affida il futuro della Terra, può realmente risplendere nel modo in cui saremo Chiesa, se attuiamo il Concilio. Uomini e donne insieme siamo l’immagine di Dio, e solo insieme possiamo far risplendere questa immagine nel mondo. Papa Francesco ci fa lasciare alle spalle molte abitudini che hanno oscurato la bellezza multiforme del disegno originario di Dio. Vogliamo che in questo non sia solo: ciò che avviene a Roma può cambiare il mondo, ma ciò che avviene nel mondo può sostenere e ispirare il successore di Pietro. Forse c’è questo nell’insistente richiesta che si preghi per lui: uno scambio di doni, un’idea di alleanza.
Segretaria del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale
Lo ricorda come un buon superiore – «lo fu solo per tre mesi, dopo il mio noviziato, quando fu mio rettore del Collegio San Miguel in Argentina» – e lo avverte ancora oggi come un parente autorevole capace sempre di infondere buoni e «bellissimi» consigli «che mi sono rimasti utili per tutta la vita». Descrive così il gesuita e patrologo José Luis Narvaja lo zio papa Francesco come un «uomo di Dio che vive soprattutto di preghiera e che ha sempre puntato più sulla forza dei gesti rispetto alle parole per andare al cuore del messaggio del Vangelo».
Sono queste le prime istantanee che affiorano dalla mente di questo religioso argentino – nato a Buenos Aires come Jorge Mario Bergoglio – nel rievocare l’illustre parente che proprio il 13 marzo di dieci anni fa veniva eletto Vescovo di Roma. Padre Narvaja è figlio una delle sorelle del Pontefice, Marta, e compirà 58 anni il prossimo 29 agosto. È un rinomato patrologo, esperto del pensiero di sant’Agostino e del teologo di origini tedesco-polacche Erich Przywara (1889-1972). Divide la sua vita accademica tra il Pontificio Istituto Biblico di Roma e l’università cattolica di Cordoba in Argentina. Il 19 marzo di dieci anni fa padre José si trovò accanto allo zio «papa Francesco» nel giorno della Messa di inizio del ministero petrino in piazza San Pietro. «Ho scoperto dalla Tv come tutti i telespettatori di questo pianeta che mio zio, allora cardinale e arcivescovo di Buenos Aires, il 13 marzo di dieci anni fa, era stato eletto Pontefice. Non ho avuto nessun preavviso telefonico – dice scherzando –. Pochi giorni dopo ho preso l’aereo da Francoforte dove allora insegnavo per partecipare anch’io alla Messa di inizio pontificato. E lì ci siamo salutati dopo tanto tempo».
Del famoso parente, con cui condivide il Dna comune della pratica degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, sottolinea l’amore per la vita semplice di Bergoglio e di «uomo normale e appassionato di cinema, teatro e sport». Come tante persone. Padre Narvaja non è il primo caso dentro la Compagnia di Gesù in cui uno zio o un parente famoso si trovi quasi a precedere e ad “anticipare” l’ingresso di un nipote all’interno della stessa Famiglia religiosa: basti pensare a Riccardo il «microfono di Dio» e Federico Lombardi o al caso dei cugini svizzeri Hans Urs von Balthasar e Peter Henrici. «Lo zio, pur essendo già una figura autorevole nell’Ordine, non ha influito in alcun modo sulle mie scelte e mi ha sempre lasciato molta libertà. La mia vocazione nella Compagnia di Gesù è stata la risposta a una chiamata del Signore. Come è capitato a tanti miei confratelli. Nulla di più».
In questi anni padre José Luis si è cimentato in un lavoro monumentale: pubblicare (la cui compilazione è durata più di un anno e mezzo) in cinque volumi nel 2019 per la Civiltà Cattolica gli Escritos, gli Scritti di padre Miguel Ángel Fiorito (1916-2005) che fu il principale maestro di spiritualità ignaziana del futuro Pontefice argentino. E fu proprio il nipote il 13 dicembre del 2019, a presentare a Roma allo zio «Jorge Mario» quest’opera imponente. «Bergoglio non è mai stato un ripetitore pedissequo degli insegnamenti di Fiorito ma ha sempre introdotto anche in questo campo degli elementi di novità. Questo omaggio pubblico al suo “maestro di discernimento” è stato vissuto da papa Bergoglio come il giusto tributo a quanto padre Miguel Ángel ha fatto anche per la forza di argomentazione delle sue tesi sempre molto equilibrate sui vari aspetti del cattolicesimo post-conciliare in Argentina e di riflesso per tutta l’America Latina e per noi gesuiti».
Padre Narvaja si sofferma nel suo ragionamento sull’importanza anche di un altro autore Erich Przywara e di un saggio da lui stesso curato e pubblicato in Italia dal Pozzo di Giacobbe nel 2013 L’idea d’Europa. La “crisi” di ogni politica cristiana in cui, a suo giudizio, si intravede molto del pensiero di Francesco sul futuro del Vecchio Continente. «Sono stato io stesso a regalarne una copia a mio zio – è l’ammissione – di questa mia ricerca. Lui ha sempre apprezzato il suo pensiero e si è nutrito da giovane gesuita di queste letture del grande teologo. Certamente è stato un suo punto di riferimento ma non l’unico. Basta rileggersi i suoi discorsi sull’Europa compreso quello per il conferimento del Premio Carlo Magno nel maggio 2016 e si comprende la grande visione di come il Papa guardi con speranza all’Europa senza ripiegamenti sul suo glorioso passato». Ma dei grandi lasciti intellettuali e pastorali dell’attuale Vescovo di Roma, secondo Narvaja, bisogna ricercarlo nel concetto a lui molto caro di «teologia del popolo». «La sua è stata una risposta e una via diversa rispetto alla strada imboccata dalla cosiddetta “teologia della liberazione” – annota –. Per lui la teologia deve essere in dialogo con la cultura e il popolo».
Un’intuizione quella di Bergoglio per una teologia sempre in ascolto delle attese del popolo di Dio che ha radici antiche. E che precedono di molti anni la sua salita al soglio di Pietro. «Se si rilegge oggi l’intervento pronunciato dall’allora padre Bergoglio nella sua veste di rettore del collegio di San Miguel nel 1985 in cui si commemorava i 400 anni dall’arrivo dei gesuiti in Argentina si scoprono molte delle intuizioni profetiche e oserei dire “creative” che Francesco avrebbe poi messo in pratica nel suo ministero petrino. In quel discorso egli infatti pose un particolare accento sulla teologia della cultura e del popolo». E osserva ancora: «Ribadì, in quel frangente, una cosa molto chiara che “il popolo per lui non è mai oggetto ma soggetto”». Di questi 10 anni di papa Bergoglio come Vescovo di Roma padre Narvaja ferma il suo sguardo su alcune istantanee. «Certamente la scelta di andare a Lampedusa a inizio del suo pontificato nel luglio del 2013. Si è trattato non di un gesto istantaneo ma elaborato a lungo e frutto di una grande preghiera. Come sicuramente il viaggio apostolico ad Abu Dhabi e la dichiarazione sulla Fratellanza umana del 2019 dove si scopre soprattutto di papa Francesco un tratto: l’importanza del dialogo e dell’ascolto dell’altro». Quale è uno dei suoi segreti? «Credo quello di pregare, essendo sempre inserito nella vita di questo mondo e stando sempre in ascolto delle attese del popolo di Dio. Un tratto da autentico contemplativus in actione». Come è giusto, a suo giudizio, celebrare questi dieci anni di Bergoglio sulla Cattedra di Pietro? «Forse nello stesso modo come lui festeggia, di solito, i suoi compleanni accanto ai bisognosi e agli ultimi». Di qui la riflessione finale: «Vorrei però sottolineare come ha detto recentemente papa Francesco che la Chiesa è nata per accogliere tutti dal povero al giovane ricco. L’annuncio della Buona Novella è rivolta a tutti gli uomini di buona volontà. Mi viene, a questo proposito, in mente quanto scriveva proprio padre Fiorito in un articolo di parecchi anni fa, pubblicato sul Boletin de Espiritualidad (quaderno numero 35) quando ricordava che all’interno della comunità ecclesiale non ci sono solo i poveri ma uno degli impegni primari è quello di stare accanto a chi soffre ed è più in difficoltà. E Fiorito aggiungeva questa annotazione: “Vogliamo una Chiesa dove non ci siano i poveri e che tutti possano godere degli stessi diritti e possibilità”. Credo che questo sia uno degli insegnamenti di Fiorito più in sintonia proprio con il magistero ordinario del suo discepolo papa Francesco».
Già il 31 dicembre i religiosi erano stati cacciati da due principali luoghi di culto della zona, la Cattedrale dell’Assunzione e la chiesa dei Santi Antonio e Teodosio che porta i nomi dei padri fondatori. Ma era rimasto nelle loro mani il cuore del santuario con le grotte che ne sono il simbolo. Adesso ecco il diktat scaturito dal gruppo di lavoro interministeriale sulle organizzazioni religiose: via definitivamente dal monastero e stop all’accordo con cui lo Stato assegna l’area alla Chiesa accusata di “contiguità” con l’invasore. Per il presidente Zelensky, la decisione è «un altro passo verso il rafforzamento della nostra indipendenza spirituale». E annuncia: «Non daremo ad alcun Stato terrorista l’opportunità di manipolare la vita spirituale del nostro popolo, di distruggere i santuari ucraini - le nostre Lavra - o di deturpare i valori in essi custoditi». Dura la risposta della Chiesa ortodossa: «Non abbiamo alcuna informazione sul fondamento giuridico di tali azioni. Pertanto l’unico motivo dello sfratto dei monaci è il capriccio dei funzionari del ministero della Cultura, proprio come era avvenuto durante il regime sovietico negli Anni ‘60». E in un video su YouTube i monaci spiegano di non essere «collaboratori russi, ma cittadini dello stesso Stato». Poi in una nota si ricorda che nell’ultimo secolo i preti sono stati espulsi dalle grotte altre due volte: negli anni Venti, dopo la Rivoluzione d’Ottobre, e sotto Krusciov. «La storia non insegna nulla. Chi pensa che una Chiesa possa essere sbarrata o trasformata in museo si sbaglia di grosso», è il monito. Il riferimento è alle parole del ministro Oleksander Tkachenk che ha chiamato le ottocento spoglie dei santi «reperti museali» mettendo in guardia i religiosi da ogni tentativo di trafugarle. Parole considerate un’«empietà» dai vertici ecclesiali.
La voglia di dare il proprio contributo c’è. E lo si vede dalla vivacità delle idee arrivate dalle diocesi e dai 377 “Cantieri di Betania” attivati al 31 gennaio. Un importante segnale di protagonismo delle Chiese locali che potrà contare su una struttura di coordinamento, appunto l’organigramma del Cammino sinodale. Anche perché, come ha ricordato l’arcivescovo di Modena-Nonantola, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale Erio Castellucci , lo scopo «non è creare delle esperienze che poi vengono archiviate», ma «prassi» e «ponti con i nuovi mondi». L’organigramma è stato presentato nel corso dell’Assemblea dei referenti del Cammino sinodale che ha visto riuniti a Roma l’11 e il 12 marzo oltre 250 referenti in rappresentanza di 147 diocesi, per confrontarsi sull’esperienza in atto e proseguire con rinnovato slancio nel percorso avviato. Al termine dell’incontro, i partecipanti hanno pregato insieme per papa Francesco alla vigilia del decimo anniversario dalla sua elezione.
Nel dettaglio il servizio di coordinamento, approvato dal Consiglio episcopale permanente, è composto dall’assemblea dei referenti diocesani del Cammino sinodale (nominati dagli ordinari del luogo), il Comitato nazionale del Cammino sinodale e la presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale. In particolare il Comitato nazionale, che resta in carica fino al 2025 e ha il compito di «studiare e promuovere iniziative volte ad animare e accompagnare il cammino sinodale», è composto dalla presidenza del Comitato del Cammino sinodale; due referenti - un uomo e una donna - per ciascuna delle 16 Regioni ecclesiastiche; un rappresentante per ciascuno degli organismi: Cpi, Cism, Usmi, Ciis, Cnal; un rappresentante per ciascuna facoltà Teologica italiana, un rappresentante della Lumsa, due dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, due del coordinamento delle Associazioni teologiche italiane; otto membri designati dalla Presidenza del Comitato, espressione di realtà sociali e culturali del Paese; altri membri designati dalla presidenza della Conferenza episcopale italiana. Infine, la presidenza del Comitato è composta da un presidente, da tre vescovi designati dal Consiglio permanente della Cei, dal segretario generale della Cei, dal segretario del Comitato nazionale del Cammino sinodale, due coordinatori per ogni commissione del Comitato e il direttore dell’Ufficio per le Comunicazioni sociali della Cei.
L’organigramma è stato presentato proprio nel corso dell’Assemblea dei referenti del Cammino sinodale svoltosi nella Capitale lo scorso fine settimana con gli oltre 250 referenti in rappresentanza di 147 diocesi, che si sono confrontati sull’esperienza in atto e proseguire con rinnovato slancio nel percorso avviato.
L’Assemblea è stata occasione per presentare una prima fotografia sui “Cantieri di Betania”, 377 appunto, di cui 101 della “strada e del villaggio”, 99 di “ospitalità e della casa”, 93 delle “diaconie e della formazione spirituale” e 84 scelti dalla diocesi. I temi spaziano da giovani, famiglie, iniziazione cristiana, carità, volontariato, lavoro, passando per fraternità, rapporto laici e consacrati, organismi di partecipazione, fino ad arrivare alle strutture ecclesiali, centralità e riscoperta della Parola, formazione, ministeri, ruolo delle donne. Tra gli 84 Cantieri individuati da ogni Chiesa locale spiccano alcuni centrati su temi “originali” e prettamente legati al territorio, come quello sulle solitudini (Rieti), lo spopolamento (Messina-Lipari-Santa Lucia del Mela), l’impegno sociale e politico (Anagni-Alatri), la giustizia e legalità (Foggia - Bovino, Oppido Mamertina-Palmi), la cura del creato (Potenza-Muro Lucano-Marsico Nuovo), l’ecumenismo (Pinerolo), le culture diverse (Bolzano-Bressanone), i giovani, la famiglia e l’accoglienza turistica (Tempio-Ampurias), i mondi “altri” (Napoli), l’ascolto dei sacerdoti da parte dei vescovi (Pozzuoli).
“In questo tempo, ci ha aiutato a capire quanto il Vangelo sia attraente, persuasivo, capace di rispondere ai tanti interrogativi della storia e ad ascoltare le domande che affiorano nelle pieghe dell’esistenza umana”. Lo scrive la Presidenza della Cei nel messaggio di auguri in occasione del decimo anniversario dell’elezione di papa Francesco: “Ci ha insegnato a uscire, a stare in mezzo alla strada e soprattutto ad per capire chi siamo. Possiamo conoscere davvero noi stessi solo guardando dall’esterno, da quelle prime periferie che sono i poveri: Lei ci ha spinto a incontrarli, a vederli, a toccarli, a fare di loro i nostri fratelli più piccoli. Perché, come ci ha ricordato più volte, la nostra non è una fede da laboratorio, ma un cammino, nella Storia, da compiere insieme”.
La Presidenza della Cei esprime la “gratitudine per aver accolto l’eredità di Benedetto XVI e per averci accompagnato, a partire dall’Anno della Fede, incoraggiandoci a vivere da cristiani nelle tante contraddizioni, sfide e pandemie di questo mondo”. “Insieme alle Chiese che sono in Italia – conclude il messaggio – Le porgiamo i più cari auguri per questo anniversario, assicurandoLe la nostra vicinanza operosa e la nostra preghiera”.