L’immagine di Babele è un rovello. La sfida drammatica di Genesi 11 ci insegue, ma continuiamo a non rispondere, perché – forse – non lo capiamo. I linguaggi non hanno più trasparenza, sono cecità di significato contro i valori di senso. E determinano, alla fine, parole di odio. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, l’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana Gianfranco Ravasi partiva da qui, dalla Bibbia, per esortare a una “Pentecoste della comunicazione”. Adesso, in pieno villaggio digitale, il francescano Paolo Benanti ci ammonisce sul “crollo di Babele”: il progetto umano ipertecnologico che vuole unire l’umanità in un’unica opera, cultura e lingua, collassa, disperde i popoli e li rende incapaci di intendersi.
È l’urgenza di riprendere tra mano i codici originari che sembrano smarriti. È la centralità della relazione, ci ricordano le Scritture, a fondare la comunicazione. Siamo iperconnessi, ma viviamo relazioni malate, spesso tossiche: in famiglia; nella vita di coppia; sul lavoro; spesso e volentieri anche nella comunità ecclesiale. Il linguaggio si sta erodendo, non è nitido, ma ambiguo; preferiamo non ascoltare, con il risultato che si moltiplica l’incapacità di gestire rapporti adulti. Il cardinale Martini amava l’espressione “folla delle solitudini”. «Fools said I you do not know, silence like a cancer grows». Ho riascoltato recentemente The sound of silence di Paul Simon e Art Garfunkel, lanciata nel lontano 1966. Per me, inesorabile boomer, una melodia emozionante. Nell’ossimoro del titolo, il suono del silenzio, c’è il tema, attualissimo, dell’incomunicabilità, del timore-tremore di restare soli con noi stessi.
Nella Bibbia – e in particolare nella vita dell’errante Rabbi galileo – troviamo invece la declinazione di quei verbi su cui potremmo intraprendere una rigenerante logopedia esistenziale. Come cittadini, come operatori della comunicazione, specie in Santa Romana Chiesa: parlare, con tutti i termini e i vocaboli che indicano la parola; e poi udire, ascoltare, vedere. Il Cantico dei cantici, nella bellezza descrittiva dell’unione tra uomo e donna, suggerisce anche la generatività della comunicazione. Tutto il contrario della deriva che stiamo vivendo in più ambiti per effetto del “marketing dell’ignoranza” – da poco descritto da un efficacissimo saggio dell’economista Paolo Guenzi, docente alla Bocconi – con le distorsioni provocate dalla “massificazione dell’eccentricità” e dalla “amazonizzazione delle aspettative”.
«Niente nostro che sei nel niente/ Niente sia il tuo nome/ Niente sia il tuo Regno/ Niente la tua volontà…».
Questa parafrasi del Padre Nostro, la più aspra che mai abbia osato la letteratura è pronunciata dal cameriere di un bar nel racconto di Ernest Hemingway «Un posto pulito e illuminato bene». Lo fa a tarda notte, dopo che con un collega più giovane si era trovato a gestire un avventore anziano, reduce dal tentativo di un suicidio, che aveva ingollato un brandy dopo l’altro. Siamo tra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Hemingway scrisse il racconto quando Hitler saliva al potere. Il nulla stava avanzando impetuoso. Oriana Fallaci, nel 1969, riprese il tema dopo i suoi reportage dal Vietnam con il libro «Niente. E così sia». Il desiderio di luce e di pulizia di quel cameriere – un posto pulito e illuminato bene – era il residuo di speranza che rimaneva. E rimane ancora oggi, in questa prima parte di millennio dove instabilità e inatteso stanno diventando elementi strutturali delle nostre vite (guerre, pandemie, crisi economiche).
Siamo nell’Anno giubilare della speranza, che papa Francesco basa sui testi paolini. Spes non confundit, la speranza non delude. Comunicarlo, in modo convincente, diventa anche una preziosa virtù civica: un imperativo categorico, un ingrediente deontologico. Ho contribuito alla mostra itinerante “Comunicare la speranza. Un’altra informazione è possibile” promossa dalla Società San Paolo e dalla Figlie di San Paolo e inaugurata in Vaticano proprio durante il Giubileo della comunicazione. L’impegno per una comunicazione di speranza – questo è il ragionamento che ha guidato me e il collega Gerolamo Fazzini con cui ho lavorato ai testi – è una passione che supera il confine tra credenti e non credenti. È passione civica per la ricerca della verità, per la difesa convinta della democrazia.
Mi preme ancora un aspetto: “il registro” della comunicazione. Siamo chiamati a vivere questo tempo presente e a volergli bene, rendendo ragione di ciò in cui crediamo, soprattutto della “speranza che è in noi” (1Pt 3,15). Ma come? Senza sentirci cittadella assediata e pronti a graffiare. Un allora giovane teologo subalpino, Roberto Repole, nel 2010 aveva opportunamente parlato di via humilitatis, la via dell’umiltà. Sì, perché la comunicazione, ci insegna la Bibbia, è una postura autorevole che affonda le radici in una buona relazione con l’altro.
giornalista e saggista
La Bibbia è un libro – o meglio, un libro di libri – che dice qualcosa sul diritto, cioè sulla regolamentazione della vita sociale. Ed è fin troppo evidente: la storia del popolo dell’Alleanza – come la storia di ogni popolo – può essere interpretata nei termini di un’esperienza giuridica, vale a dire di un diritto vissuto, sperimentato, trasmesso dalle donne e dagli uomini, in tempi e in luoghi tra i più lontani e diversi. La Bibbia può aiutare a comprendere il funzionamento del diritto meglio di uno dei tradizionali manuali in circolazione per gli studi giuridici. Il motivo è semplice: i manuali parlano solo del diritto senza toccare la vita, la Bibbia parla del diritto attraverso la vita.
Certo, ciascuna e ciascuno di noi, ieri come oggi, può strumentalizzare i diversi libri, capitoli e versetti della Bibbia, piegandoli alle proprie sensibilità intellettuali e culturali: ci si ritrova facilmente il Dio che è, al contempo, legislatore supremo e giudice; un Dio che alle volte punisce, e pure in maniera spietata e vendicativa, alle volte usa misericordia. Violenza e amore, castigo e compassione, guerra e pace, in questo contesto persino la concezione retributiva della pena («occhio per occhio, dente per dente») convive una visione riparativa del danno inflitto. Insomma, molteplici teorie sul diritto e sulla giustizia trovano senza troppe difficoltà una fonte di ispirazione a partire dal dato biblico.
Può sembrare che la babele del linguaggio corrisponda alla babele del diritto; o meglio, dei diritti. In realtà, in questa contraddizione c’è tutta l’umanità: si può partire dalle pagine sacre per comparare diversi modelli di giustizia, valutare i pregi e i difetti, e così esercitarsi al pluralismo dei valori e delle idee. Non è questa, forse, una vera e propria palestra di democrazia?
Eppure, tra le tante visioni tra di loro in competizione, una può essere considerata comune: è la visione antropologica che si dà sul diritto e sulla giustizia. Nella Bibbia le regole, in quanto tali, sono funzionali alla vita sociale. Una società non può essere data senza regole e le regole non si possono dare senza una società. Questa lettura (già nota ai romani, e che oggi definiremmo “istituzionalistica”) riconduce le norme ad un contesto di giustificazione “relazionale”. Con parole semplici: le norme nascono dall’incontro con l’Altro e con l’altro; dalla proiezione dell’Ulteriorità assoluta nell’alterità interpersonale. È facile cogliere la natura del diritto quale incontro, dialogo, momento di un necessario decentramento da sé stessi. Il diritto non può essere espressione di egoismi e di individualismi. Per questo motivo, la memoria degli orrori nazisti e fascisti conduce ad interpretare la legge in senso egualitario, nel riconoscimento dei diritti a tutte e a tutti, senza discriminazioni, alla luce della dignità della persona umana. La tragedia della Seconda guerra mondiale ha ricordato che c’è una legge naturale che iscrive la stessa volontà del Dio biblico in un ordine di giustizia.
I diritti umani nascono da questa consapevolezza ed esprimono la dimensione relazionale delle donne e degli uomini. Il diritto si definisce a partire da tale relazione e, in una virtuosa circolarità, provoca, custodisce, cura, ricompone la relazione.
Pur se interpretato come un prodotto della volontà di Dio, il diritto biblico, in fin dei conti, rimane esperienza per davvero “umana” nel suo presentarsi contraddittoria e frammentata. Non deve sorprendere ciò: la creatura partecipa attivamente all’opera del Creatore, anche per quanto riguarda il processo di produzione della norma. Ne consegue che le donne e gli uomini non sono tanto destinatari di una regola che proviene dall’alto, quanto soggetti che producono diritto, perché a immagine e somiglianza del Legislatore. Probabilmente, nei nostri ordinamenti confessionali – come il diritto canonico - potremmo pensare di iniziare a fare a meno della nozione di diritto divino, che blocca i processi di riforma delle istituzioni.
Più che una volontà immutabile, il diritto biblico appare in continua evoluzione. Il salto da una giustizia che punisce ad una giustizia che trasforma, persino in termini escatologici, è facilmente rintracciabile nel passaggio dal Primo al Secondo Testamento, in una linea di continuità giuridica mantenuta: Gesù non ha intenzione di modificare la legge ebraica, ma offre ad essa una nuova interpretazione alla luce della legge della carità. Persino la parola “perdono” acquisisce un significato inedito, che nella relazionalità giuridica ha a che fare con la misericordia, con l’amore, con la fiducia, con la speranza, con il futuro. Questi ultimi sono i lemmi di un vocabolario giuridico troppo spesso dimenticato, anche nelle nostre aule di Giurisprudenza, a favore di una cultura del diritto definita “tecnica”, che spacchetta in quattro i commi delle leggi, ma si dimentica delle esigenze che maturano nei contesti esistenziali e sociali. La Bibbia, al contrario, parte dalla multiforme e incoerente realtà della vita umana per presentarci le coordinate di una giustizia trasformativa, capace di convertire le spade in aratri e le lance in falci (Isaia 2,4). Un diritto di pace.
docente di Diritto e religione nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa
In occasione della Solennità di san Giuseppe la Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, a nome dei vescovi italiani diffonde il Messaggio per la festa dei lavoratori che si celebra il Primo Maggio. Il tema di quest'anno è "Il Lavoro, un'alleanza sociale generatrice di speranza". Un messaggio che affronta le sfide che il mondo del lavoro deve risolvere: dal lavoro da remoto, alla disoccupazione, dai lavori poveri ai problemi di conciliabilità tra lavoro e vita familiare. Di seguito il testo del Messaggio
Il lavoro, un'alleanza sociale generatrice di speranza.
La Festa dei Lavoratori, in questo Anno giubilare, vuole offrire orizzonti di speranza agli uomini e alle donne del nostro tempo, consapevoli «che il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo» (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 3). La tutela, la difesa e l’impegno per la creazione di un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, costituisce uno dei segni tangibili di speranza per i nostri fratelli, come Papa Francesco ci ha indicato nella Bolla di indizione dell’Anno giubilare (cf. Francesco, Spes non confundit, 12).
L’esperienza della pandemia ci ha consegnato un modo di lavorare nel quale è possibile coniugare in molte circostanze lavoro in presenza e a distanza, aumentando la nostra capacità di conciliare vita di lavoro e vita di relazioni soprattutto nel cosiddetto smart-working, ma rischiando anche di impoverire i rapporti umani tra i lavoratori e le stesse relazioni familiari. Un effetto strutturale e fondamentale lo sta esercitando la grave crisi demografica, per la quale vedremo nei prossimi anni uscire dal mercato del lavoro la generazione più consistente, sostituita progressivamente da un numero sempre più ridotto di giovani. Allo stesso tempo, accade qualcosa di paradossale, ossia lo sfruttamento di fratelli immigrati, dimenticando che la loro presenza può costituire un motivo di speranza per la nostra economia, ma solo se verranno integrati secondo parametri di giustizia. Inoltre, oggi, con quello che viene chiamato mismatch, ossia il disallineamento tra domanda e offerta, assistiamo contemporaneamente al fenomeno di posti di lavoro vacanti, che non trovano personale con le necessarie competenze, e giovani disoccupati che non hanno i requisiti adatti. Resta sullo sfondo, infine, la dura «legge di gravità» della competizione globale per la quale le imprese cercano di localizzarsi laddove i costi (quello del lavoro incluso) sono più bassi. E questo alimenta una spirale al ribasso su costo e dignità del lavoro.
Se il dato statistico sulla disoccupazione, in forte calo, potrebbe spingere all’ottimismo, sappiamo invece che dietro persone formalmente occupate c’è un lavoro povero. Occorre, infine, considerare la situazione delle donne, che in alcuni ambiti vengono penalizzate non solo con una minore retribuzione, ma anche con l’assenza di garanzie nei tempi della gravidanza e della maternità. Non ci sarà piena giustizia, infine, senza sicurezza sul lavoro, la cui mancanza fa ancora tante vittime. Per dare speranza occorre invertire queste tendenze: sarà uno dei segni più rilevanti del Giubileo.
Esistono tuttavia segni di speranza da alimentare per essere generativi e per far nascere e promuovere lavoro degno ma, come sempre, essi richiedono la nostra partecipazione attiva per proseguire l’opera della Creazione. Un segno di speranza è il riconoscimento nei contratti di lavoro nazionali dell’importanza della formazione permanente e della riqualificazione durante gli anni di lavoro. È necessario valorizzare, inoltre, lo strumento degli stessi contratti per impiegare le risorse a disposizione anche in forme di welfare e di assicurazione attenti alle emergenze sanitarie e familiari. È segno di speranza la creazione di relazioni virtuose tra datori di lavoro e lavoratori, dove il dialogo, la riconoscenza, i meccanismi di partecipazione, alimentano fiducia e cooperazione mettendo in moto le motivazioni più profonde della persona e facendo crescere la forza dell’impresa e la qualità del lavoro.
Come Chiesa abbiamo sentito, in questi anni, la responsabilità di impegnarci su questo fronte, non solo assicurando vicinanza e conforto a chi è in difficoltà, ma contribuendo a creare «un’alleanza sociale per la speranza che sia inclusiva e non ideologica» (Spes non confundit, 9). Lo abbiamo fatto anche con visioni che donano prospettive di speranza, come quelle dell’economia civile, e investendo in interventi generativi, volti alla creazione di una cultura del lavoro e di opportunità, come il Progetto Policoro, con il quale da trent’anni la Chiesa in Italia investe su giovani animatori di comunità formati per impegnarsi nelle loro diocesi. Negli ultimi anni essi hanno operato nel solco dell’ecologia integrale, che guarda alla sostenibilità e all’interdipendenza tra dimensione sociale ed ecosistema. Dal Progetto Policoro sono nati frutti significativi e imprese capaci di stare sul mercato e di promuovere lavoro degno anche nelle aree del Paese più disagiate.
Non ultimo, appare opportuno un appello alla responsabilità di tutti noi. L’economia e le leggi di mercato non devono passare sopra le nostre teste lasciandoci impotenti. Il mercato siamo noi: sia quando siamo imprenditori e lavoratori, sia quando promuoviamo e viviamo un consumo critico. La responsabilità sociale d’impresa è oggi un filone sempre più consolidato grazie anche agli interventi regolamentari che impongono alle aziende un bilancio sociale e prendono le distanze da comportamenti furbeschi volti solo alla speculazione. I credenti e tutti i cittadini di buona volontà sono chiamati in questo contesto propizio a stimolare le aziende a gareggiare tra loro anche sulla dignità del lavoro e a usare l’informazione sui loro comportamenti come criterio per le scelte di consumo e di risparmio.
La «mano invisibile» del mercato non è sufficiente a risolvere i gravi problemi oggi sul tappeto. È la nostra mano visibile che deve completare l’opera di con-creazione di una società equa e solidale e continuare a seminare speranza. Infatti, «i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza» (Spes non confundit, 7).
Roma, 19 marzo 2025 Solennità di san Giuseppe
La Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace
Nel Vangelo bastano pochi tocchi, o meglio è sufficiente un unico aggettivo per definire san Giuseppe: egli è l’uomo “giusto”. Ma quale fondamento ha questa virtù, dove si trovano le sue radici? Risponde il nuovo episodio del podcast Taccuino celeste che si sofferma anche sul significativo del termine padre “putativo” e sul ruolo che hanno i sogni nella vita del falegname di Nazareth, cioè veri e propri messaggi divini che lo rendono partecipe del piano di salvezza di Dio. E poi spazio ad altre domande: quanti anni aveva san Giuseppe quando nacque Gesù? È vero che nei Vangeli non parla mai? Quali Papi in particolare gli sono stati devoti? La Cartolina da Camaldoli, affidata ai monaci benedettini della comunità toscana riflette sul modello di vita illuminata dalla grazia offerto da san Giuseppe e sulla sua attualità.
Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di cosa pensa la Chiesa della cremazione, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Immergersi nella bellezza della basilica di San Pietro, scoprendone la storia e le curiosità, magari cimentandosi anche in un’esperienza interattiva di restauro. Sono solo alcune delle possibilità attraverso cui i ragazzi di tutto il mondo potranno conoscere la basilica vaticana con l’utilizzo del gioco e della intelligenza artificiale. E questo grazie a “Peter Is Here”, una nuova esperienza di apprendimento interattivo all’interno della piattaforma Minecraft Education, in collaborazione con La basilica di San Pietro, Città del Vaticano e Microsoft. Capitalizzando l’esperienza del progetto presentato a novembre “La Basilica di San Pietro: AI-Enhanced Experience”, Peter Is Here invita gli studenti a esplorare la storia della basilica attraverso gli avvenimenti chiave, «combinando innovazione e tradizione a vantaggio degli studenti», le parole con cui ha aperto la conferenza stampa di presentazione ieri a Roma Padre Enzo Fortunato, presidente del Pontificio comitato per la Giornata mondiale dei bambini, che lancia l’idea che questo «possa essere il gioco ufficiale per la seconda Giornata mondiale dei bambini nel settembre 2026».
Avvicinare la tecnologia alla persona, in più imparando mentre ci si diverte, «armando i cuori di fraternità e bellezza si può, sotto il patrocinio di San Giuseppe, lui che è stato l’educatore per eccellenza». Il cardinale Mauro Gambetti, arciprete della basilica di San Pietro, vicario generale di Sua Santità per la Città del Vaticano, e presidente della Fabbrica di San Pietro vede in «bellezza, creatività e fraternità» le tre parole chiave del progetto, che consente «con il gioco di avvicinarsi gli uni agli altri, avvicinandosi in questo modo anche a Dio». Ma anche unendo virtualmente tutti i ragazzi del mondo alla cultura, aggiunge in un messaggio video Brad Smith, vice chairman e presidente di Microsoft, secondo cui si è riusciti «a consegnare la cultura, la religione e il patrimonio di questa meravigliosa istituzione nelle mani dei bambini di ogni paese del mondo».
Peter is Here è disponibile per tutti gli utenti con licenza nella library di lezioni di Minecraft Education. Studenti e insegnanti possono accedere infatti gratuitamente a una versione prova di Minecraft Education scaricando l’applicazione e accedendo con il proprio account Office 365 o Microsoft 365 Education. «Il gioco può essere un potente strumento educativo – conferma monsignor Carlo Maria Polvani, segretario del dicastero per la Cultura e l’Educazione – perché attraverso l’aspetto ludico diventa uno strumento di cultura che permetterà a tutti gli studenti del mondo di conoscere uno dei luoghi maggiormente carico di storia».
Le scuole cattoliche di tutto il mondo (attraverso Fidae) e le scuole in tutta Italia saranno tra le prime a integrare l’esperienza di Minecraft Education nei loro programmi scolastici. A confermarlo Mauro Antonelli, capo della segreteria Tecnica del ministero dell’Istruzione e del Merito, che ha parlato di «connubio vincente tra il gaming, spesso visto con accezzione negativa e alienante, e la cultura. Tanto che per la sua inclusività e trasversalità stiamo pensando ad un modo per inserirlo nel Giubileo del mondo educativo a novembre». Ad entrare nel dettaglio del videogioco Allison Matthews responsabile di Mincraft Education di Microsoft, spiegando come il giocatore avvicinandosi ad ogni angolo della basilica avrà molte possibilità di conoscenza e definendo “Peter is Here” come «esperienza di preservazione culturale».
Il 19 gennaio 2025, in un articolo su Avvenire, Antonio Spadaro, gesuita e sottosegretario del Dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione, ha evidenziato la necessità per la Chiesa di non limitarsi a «porti sicuri», ma di abitare «luoghi esposti a venti e burrasche», sviluppando una teologia capace di rispondere dinamicamente ai rapidi cambiamenti della società. Ha quindi proposto il concetto di teologia rapida, un pensiero teologico che, senza rinchiudersi in spazi di sicurezza, abita il flusso accelerato della contemporaneità e reagisce alle rapide della storia.
Questa esigenza ha radici profonde nel mondo della cultura. Già Ezra Pound, con il suo Vortex, vedeva l’arte come un centro energetico in cui idee, immagini e influenze si scontrano e si fondono, generando qualcosa di nuovo. Il poeta non è un semplice osservatore, ma un attore attivo, capace di anticipare le trasformazioni del suo tempo. Questo concetto si ritrova nel Vorticismo, movimento artistico modernista influenzato dal Futurismo e dal Cubismo, dove l’arte non è contemplazione, ma un campo di forze in continuo mutamento. Negli anni ’60 del XX secolo Marshall McLuhan sviluppa la Dew Line - Distant Early Warning Line, ispirata al sistema radar della Guerra Fredda, per descrivere il ruolo dell’artista nella società. Per McLuhan gli artisti sono sensori anticipatori, in grado di intercettare e decodificare i segnali del cambiamento prima che diventino evidenti alla massa. Vortex e Dew Line condividono una visione comune: arte e letteratura sono strumenti di percezione avanzata. Analogamente, Spadaro propone che la teologia adotti questa stessa logica, trasformandosi in un’intelligenza attiva che abita il presente. Non più semplice archivio di saperi, ma un dispositivo capace di leggere e interpretare il contemporaneo.
Tuttavia, come per Pound e McLuhan, esiste un rischio: la sovraesposizione alla velocità e al flusso delle informazioni potrebbe compromettere il discernimento della teologia, riducendola a una reazione immediata, priva di radicamento. La sfida è dunque trovare un equilibrio tra riflessione profonda e reattività al tempo presente.
Se Pound vedeva il poeta come un canale dell’energia culturale e McLuhan l’artista come radar del futuro, la teologia rapida può essere intesa come un’ermeneutica del presente, capace di interrogare i cambiamenti e offrirne una lettura significativa. Il suo obiettivo non è solo inseguire l’accelerazione della storia, ma orientarla, dando senso alla complessità contemporanea.
Una teologia rapida, quindi, non può limitarsi a essere una cronaca del presente, ma deve mantenere una capacità di lettura profonda, evitando di diventare un semplice specchio delle mode culturali. Questo significa abitare il tempo senza esserne risucchiati, distinguere ciò che è contingente da ciò che è essenziale, riconoscere nei fenomeni culturali quei segni che indicano una direzione, piuttosto che limitarsi a registrarne le oscillazioni. In questa prospettiva, la teologia rapida non sarebbe affatto una teologia superficiale, ma un’intelligenza capace di discernere il nuovo senza perdere il legame con la profondità del sacro. Il suo compito, infatti, non è solo quello di seguire le dinamiche del mondo, ma di orientarle, offrendo alla cultura contemporanea un punto di riferimento che sappia rispondere alla complessità senza rinunciare alla verità.
In questo scenario, Gillo Dorfles, con il concetto di Horror pleni, mette in guardia contro la saturazione comunicativa, che invece di generare significato produce dispersione e caos. Se la teologia si limitasse a reagire in modo istintivo, rischierebbe di perdere il suo radicamento esegetico e critico, adattandosi alle logiche del consumo culturale anziché elaborare risposte strutturate e significative.
Per evitare questa deriva, la teologia rapida potrebbe ispirarsi alla noosfera di Pierre Teilhard de Chardin. Il gesuita e paleoantropologo francese vede l’umanità come un processo evolutivo in cui la conoscenza e le interconnessioni portano a una coscienza globale orientata verso un punto Omega, un compimento spirituale che unifica esperienza, sapere e trascendenza. Teilhard, anticipando l’era digitale, distingue tra accumulo di dati e conoscenza orientata. Se l’horror pleni rappresenta il caos informativo, la noosfera offre una prospettiva di sintesi e discernimento, distinguendo ciò che porta crescita spirituale da ciò che è solo rumore. In questo contesto, la teologia rapida può evitare la superficialità se non si limita a adattarsi passivamente alle dinamiche culturali, ma sviluppa una capacità di discernere i segnali autentici da quelli effimeri, riconoscendo nei fenomeni contemporanei non solo il cambiamento, ma la direzione verso cui esso conduce. Teilhard de Chardin ci insegna che l’evoluzione non è solo biologica, ma anche spirituale. Se la teologia rapida saprà ispirarsi a questa visione, potrà diventare un’intelligenza vivente, capace di intercettare il cambiamento senza perdere il legame con la tradizione. Potrà essere reattiva ma consapevole, dinamica ma solida, in grado di rispondere alle sfide della contemporaneità senza sacrificare la profondità della riflessione.
In definitiva la teologia rapida, assumendo il ruolo dell’artista-intellettuale come sensore delle dinamiche culturali, ha il potenziale di trasformarsi: così come l’arte è in grado di cogliere le mutazioni del linguaggio prima ancora che diventino evidenti, la teologia deve affinare la propria capacità di ascoltare, interpretare e rispondere alle sfide del presente.
Tuttavia, questa agilità non deve tradursi in un’adesione acritica alla velocità del mondo. Se la teologia aspira a mantenere la sua funzione orientativa, deve riappropriarsi del discernimento, evitando sia l’inerzia accademica sia il rischio di una deriva populista. Teilhard de Chardin offre una chiave di lettura essenziale: la coscienza umana è in evoluzione verso una sintesi superiore.
La teologia rapida, allora, non dovrebbe essere solo una risposta alle urgenze del presente, ma un metodo per orientare il futuro. Se riuscirà in questo compito, allora potrà davvero diventare non solo un sapere in dialogo con il presente, ma una teologia capace di illuminare il futuro per una Chiesa che non subisce il tempo, ma lo guida.
docente e pedagogista
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«Servo di tutti». Usa queste parole nell’omelia il nuovo vescovo di Cesena-Sarsina, Antonio Giuseppe Caiazzo, per fare intendere con quale stile intende porsi verso la porzione di Chiesa a lui affidata. L’ingresso in diocesi si è tenuto domenica scorsa - 16 marzo - in una Cattedrale, a Cesena, che non contiene i tantissimi fedeli presenti. In prima fila ci sono da una parte autorità civili e militari guidate dal prefetto di Forlì-Cesena, Rinaldo Argentieri e dal sindaco di Cesena, Enzo Lattuca, che poco prima l’ha accolto in piazza del popolo assieme ai sindaci del territorio e gli ha donato una bicicletta. Dall’altra la foltissima schiera di familiari e amici giunti da ogni parte d’Italia. Davanti a loro, trovano posto diverse persone disabili che il nuovo presule abbraccia a uno a uno prima dell’inizio della liturgia. Concelebrano 15 vescovi con il presidente della Conferenza episcopale dell’Emilia Romagna, l’arcivescovo di Reggio Emilia-Guastalla Giacomo Morandi, e oltre cento sacerdoti. Sull’altare anche una cinquantina di diaconi.
L'arcivescovo Caiazzo, che arriva a Cesena dopo nove anni trascorsi nella diocesi di Matera-Irsina e due anche in quella di Tricarico unita in persona episcopi, succede al vescovo Douglas Regattieri che ha guidato Cesena-Sarsina per 14 anni e ha lasciato per raggiunti limiti di età. «Si aprono davanti a te le porte dei cuori del territorio – dice il vescovo emerito rivolto al confratello, prima del passaggio di pastorale – che pulsa di vitalità imprenditoriale, di freschezza, di creatività, di gioiosità tipica della gente romagnola».
Al suo mare, in particolare a quello di Steccato di Cutro, nel cuore della Calabria, l'arcivescovo Caiazzo fa riferimento spiegando quale croce ha voluto baciare all’arrivo, in Cattedrale. Qualche mese, dopo la tragedia che si consumò nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023, «raccolsi su quella spiaggia due pezzi di legno di quella barca e li inchiodai a forma di croce. Oggi ho voluto baciare quella Croce per ricordare i tanti crocifissi innocenti in tutto il mondo». Poi aggiunge, «mi inginocchio davanti alla sofferenza presente nei tanti calvari degli ospedali, delle cliniche e delle case di riposo, e nelle famiglie» e rivolge un saluto e un augurio anche a papa Francesco «perché possa tornare presto a guidare la Chiesa di Gesù Cristo nel pieno delle sue forze».
«Il mio compito – descrive la sua missione Caiazzo – è stare con il gregge che il Signore mi affida, che oggi si chiama Cesena-Sarsina, comunità che diventa la mia terra e il mio popolo, che già amo e che mi impegno a servire», con il desiderio di «camminare insieme», a cominciare dal pellegrinaggio diocesano a Roma di sabato prossimo in programma da tempo. Il vescovo viene per condividere un tratto di strada e «la storia di questa terra di Romagna – dice il nuovo pastore – che ha affrontato tante prove soprattutto negli ultimi anni a causa di alluvioni, ma continua a brillare». Rivolto ai laici, specifica, che sono chiamati a portare la testimonianza cristiana «come lievito che fermenta la pasta», per costruire «ponti di fraternità, seminando pace nei solchi della nostra storia».
Prima di consegnarsi alla protezione della Madonna del Popolo, patrona della diocesi, monsignor Caiazzo ricorda i giovani incontrati il giorno precedente all’abbazia benedettina del Monte. «A voi che mi avete confortato ieri sera, dico: voglio attingere alla vostra forza e vivere con voi come viandante di speranza»Poi aggiunge, fuori testo, «non avrei mai immaginato di incontrare tanti giovani (oltre mille, ndr). Sappiate che io ci sono».
Erano i primi anni ’70 quando Guglielmo Motolese, l'allora arcivescovo di Taranto, nell’imponente Cattedrale Gran Madre di Dio, progettata da Gio Ponti, inaugurò la prima Settimana della Fede per garantire alla comunità jonica formazione umana, sociale e spirituale durante la Quaresima.
Quest’anno la 53ª edizione, che vede ogni sera relatori diversi, ha per filo conduttore “la cultura dell’incontro”. Una scelta non casuale. L’ascolto dell’altro come antidoto alle guerre, quelle nel mondo e quelle del quotidiano.
Un appuntamento, quello di quest’anno, che vuole inserirsi anche nel solco del Giubileo. Abbiamo bisogno di formarci e camminare insieme come pellegrini di speranza. "Il messaggio stavolta – ha detto durante la presentazione in episcopio l’arcivescovo della diocesi ionica, Ciro Miniero - è quello di poter cogliere quali sono i dinamismi che stanno alla base di tensioni che stanno rendendo difficile la vita del mondo intero. Le tensioni sono normali nella vita, ci indicano diversità di vedute ma il problema è se dalle diversità si arrivi a vivere uno contro l’altro. E allora bisogna riflettere su questo, per cercare invece i motivi dell’incontro e non dello scontro”.
Si parte oggi - 17 marzo - alle 19 con don Filippo Belli, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà teologica dell’Italia centrale di Firenze che incentrerà il suo intervento su cosa sia l’incontro e quanto sia essenziale nel rapporto tra società e comunità, alla luce della Parola. Martedì 18 marzo toccherà al rettore della Lumsa, Francesco Bonini, soffermarsi sulla necessità di favorire l’incontro in tre ambiti: cultura, economia e politica.
Mercoledì 19 marzo sarà ospite a Taranto il vice presidente della Comunità di sant’Egidio, Cesare Zucconi. Attraverso la sua testimonianza, racconterà della Chiesa promotrice dell’incontro con l’altro.
Giovedì 20 marzo il format cambia, con una serata di testimonianze. Cristina Castronovi, parlerà della sua esperienza di volontaria di “Operazione Colomba”, corpo non violento di pace della “Comunità Papa Giovanni XXIII”, poi l’intervista a Gennaro Giudetti, operatore umanitario già impegnato nei soccorsi in mare e in scenari di guerra, che attualmente si trova Gaza e racconterà anche dell’emergenza in corso e infine le parole di Stefano Capogna, luogotenente della Guardia di Finanza, che ha svolto il suo incarico a Lampedusa, Pantelleria, La Maddalena, Pesaro e Genova, pluripremiato per il valore e il merito. La serata sarà l’occasione per rende noti i contenuti della campagna "Figli di Haiti" di Fondazione Avvenire.
La Settimana della Fede si concluderà come di consueto venerdì 21 marzo, con la celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo di Taranto, Ciro Miniero.
Nelle prove, nelle difficoltà siamo costretti a confrontarci con ciò che è davvero importante. Un insuccesso, una malattia ci chiamano a fare i conti con l’essenziale della nostra vita. Accantonato il superfluo, restano le domande profonde: chi siamo, dove stiamo andando, con chi e per chi siamo in cammino? Il tempo di Quaresima in questo senso è un periodo privilegiato perché, invitandoci alla preghiera più intensa, alla carità e al sacrificio ci sollecita all’educazione della volontà. Classico esempio è il digiuno cristiano che non comporta solo la rinuncia al cibo ma da ogni cosa appesantisca l’anima impedendole di prendere il volo: l’orgoglio, la brama di successo, il culto di sé. Il sacrificio come palestra spirituale verrebbe voglia di dire, per liberarci dalla zavorra delle cattive abitudini, degli atteggiamenti superbi, dei progetti sbagliati che ci tengono ancorati alla terra. Lo evidenzia in questa preghiera il gesuita belga Jean Galot (1919-2008) che chiede al Signore aiuto per imparare a far digiunare le passioni, la fama di piacere, la lingua che giudica e divide.
«Fa' digiunare il nostro cuore:
che sappia rinunciare a tutto quello che l'allontana
dal tuo amore, Signore, e che si unisca a te
più esclusivamente e più sinceramente.
Fa' digiunare il nostro orgoglio,
tutte le nostre pretese, le nostre rivendicazioni,
rendendoci più umili e infondendo in noi
come unica ambizione, quella di servirti.
Fa' digiunare le nostre passioni,
la nostra fame di piacere,
la nostra sete di ricchezza,
il possesso avido e l'azione violenta;
che nostro solo desiderio sia di piacerti in tutto.
Fa' digiunare il nostro io,
troppo centrato su sé stesso, egoista indurito,
che vuol trarre solo il suo vantaggio:
che sappia dimenticarsi, nascondersi, donarsi.
Fa' digiunare la nostra lingua,
spesso troppo agitata, troppo rapida nelle sue repliche,
severa nei giudizi, offensiva o sprezzante:
fa' che esprima solo stima e bontà.
Che il digiuno dell'anima,
con tutti i nostri sforzi per migliorarci,
possa salire verso di te come offerta gradita,
meritarci una gioia più pura, più profonda».
La «memoria che inquina, fa ammalare e dà la morte», quella che non dimentica «inadempienze e cattiverie» degli altri e anche le nostre, dove «il passato diventa una discarica» per ricordi di ingiustizie subite e di parole mancate. E, invece, la memoria purificata che apre alla speranza e può ispirare il futuro.
A richiamare la possibilità di vivere il Giubileo come tempo di grazia, «proprio perché la memoria malata possa guarire e ci si possa finalmente sentire liberi e leggeri», è stato l’arcivescovo Mario Delpini che sta guidando i 3000 fedeli che hanno raggiunto Roma per il pellegrinaggio diocesano del Giubileo. Entrato nel vivo, per gli ambrosiani, con il passaggio della Porta Santa della basilica di San Paolo fuori le Mura, fin dalla prima mattina, con lo stesso Delpini in coda come gli altri, prima della Messa da lui presieduta e concelebrata da un centinaio di sacerdoti e 5 vescovi, impegnati, per oltre un’ora, a confessare i pellegrini.
Dopo il benvenuto dell’abate di “San Paolo”, dom Donato Ogliari, i 12 Kyrie hanno sottolineato la solennità della celebrazione officiata in rito ambrosiano, presso l’altare papale della Basilica che sorge sul luogo dove, secondo la tradizione, fu sepolto l’apostolo Paolo. Meta ininterrotta di pellegrinaggi, fin dal 1300 quando, in occasione del primo Anno santo, entrò subito a far parte dei percorsi giubilari e vi si aprì la Porta santa. Attraversata con un gesto simile a quello dei pellegrini del terzo millennio che, tuttavia, devono andare oltre il momento simbolico per una vera conversione del cuore, come ha suggerito Delpini.
«La memoria invece che essere malata di malessere e risentimento può essere guarita diventando un patrimonio per alimentare la riconoscenza, disponibili all’opera di Dio, e ispirando il futuro», ha sottolineato, infatti, il presule, indicando 3 frutti di questo nuovo atteggiamento. «Un primo tratto della vita nuova è la magnanimità, la generosa sollecitudine verso i poveri che diventa il criterio per gestire le nostre risorse, i nostri soldi. Le opere di misericordia corporali sono per tutti un “programma di quaresima” e il digiuno che Dio preferisce: prendersi cura e non girare lo sguardo di fronte alle povertà di oggi».
Poi, «la liberazione dal formalismo della relazione con Dio e della pratica della legge che riduce la vita virtuosa a precetti, regole, comandamenti in base ai quali giudicare gli altri». Magari senza nessun amore. Infine, la “lezione” paolina. «Quando la memoria è guarita tutto si unifica intorno al Signore, il bene e il male, il quotidiano e lo straordinario, la serietà e la dolcezza, la regola e la libertà. Non che scompaiano i problemi, non che tutto sia facile, ma tutto trova senso nel Signore. Chiediamo la grazia che in questi giorni, e in questo anno, la nostra memoria possa guarire per chiedere perdono e vivere con saggezza». Questa la conclusione dell’arcivescovo che, al termine della Messa con i vescovi e i vicari episcopali è sceso per una preghiera alla tomba di san Paolo.
“La Chiesa italiana sta accompagnando il Papa con la preghiera e con l’affetto”, in questo periodo di infermità. E la malattia, anziché togliere autorevolezza al Papa, “ha dato più credibilità e ancora più autorità al ministero di Pietro”. Francesco, infatti, ha scelto di condividere con noi “anche la sua fragilità”. Lo afferma il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in un’intervista al quotidiano Avvenire che sarà pubblicata nell’edizione di domenica 16 marzo. A proposito delle condizioni di salute del Pontefice, oggetto in questo mese di degenza, di varie fake news, il porporato afferma: “Siamo così poco abituati alla trasparenza che dobbiamo comunque renderla opaca. Come se ci fosse chissà cosa dietro. Il Papa ha voluto un’informazione assolutamente non adattata. Abituiamoci alla trasparenza. Il Papa non nasconde nulla. E liberiamoci da tante fake news”.
L’invito di Zuppi è a sostenere il Papa anche con una maggiore responsabilità di ognuno. “L’importanza del suo ministero risalta ancora di più e nella fragilità non perde nulla della sua efficacia, ma ci chiama a quello che lui ha sempre chiesto. Cioè di vivere la responsabilità nella comunione e non nella divisione o nell’affermazione di una parte sull’altra. Quindi un protagonismo che non sia mai divisivo, ma che aiuti la comunione”.
Il presidente della Cei ha descritto il rapporto tra il Papa e la Chiesa italiana nei 12 anni di pontificato come “diretto, franco, che si è espresso in due modi: tanti contatti e tanta conoscenza diretta, anche tramite le visite ad alcuni luoghi simbolo, e poi il dialogo assembleare con i vescovi”. Francesco “è il Papa del Vangelo sine glossa, del Vangelo per tutti”. E tutti “devono trovare nella Chiesa una casa e non un albergo”.
Sul cammino sinodale della Chiesa italiana, infine, il cardinale Zuppi ricorda che “la spinta del Papa è stata determinante”. E sulla prossima assemblea sinodale: “È il momento delle decisioni perché il camminare insieme trovi anche delle risposte. Tutto il cammino sinodale ha come fine non il fissare nuove regole per stare tra di noi, ma vedere come essere cristiani e comunità oggi nel nostro Paese” per annunciare il Vangelo.
Era nell'aria: il confronto dei vescovi sulla sinodalità, cioè sullo stile fondamentale che la Chiesa sta cercando di fare proprio per rispondere alle richieste che vengono dal mondo di oggi e riuscire a portare il Vangelo nella vita delle persone nel nostro tempo, non poteva considerarsi concluso con le due assemblee dell'ottobre 2023 e 2024. E, infatti, ora riparte, anzi prosegue su spinta dello stesso papa Francesco, che al termine dei lavori sinodali aveva dato disposizione perché il Documento finale fosse considerato alla stregua di un documento magisteriale, scegliendo così di non scrivere un'esortazione post-sinodale, come era avvenuto nei precedenti Sinodi.
Proprio a partire da quel documento, ora il Papa ha approvato un cammino che permetta alle comunità locali di tradurre nella pratica tutto ciò che è emerso nel lungo percorso dell'Assemblea del Sinodo dei vescovi dedicata al tema della sinodalità. Un itinerario che culminerà in un'Assemblea ecclesiale che si terrà nell'ottobre 2028 in Vaticano e che sarà scandito da alcune precise tappe. Tra queste anche un nuovo appuntamento nel calendario dei grandi eventi dell'Anno Santo: il Giubileo delle équipe sinodali e degli organismi di partecipazione in programma tra il 24 e il 26 ottobre prossimi.
L'annuncio è stato affidato a una lettera firmata dal segretario generale della Segreteria del Sinodo dei vescovi, il cardinale Mario Grech, e inviata oggi a tutte le Chiese del mondo. E tutto il processo ripartirà "dal basso", cioè coinvolgendo proprio quelle persone e quei gruppi che avevano lavorato alla grande fase di ascolto che aveva preceduto le fasi assembleari del Sinodo. «La fase attuativa del Sinodo va intesa non come una semplice “applicazione” di direttive provenienti dall’alto, ma piuttosto come un processo di “recezione” degli orientamenti espressi dal Documento finale in maniera adeguata alle culture locali e ai bisogni delle comunità - si legge nella lettera di Grech -. Al contempo, è necessario procedere insieme come Chiesa tutta, armonizzando la recezione nei diversi contesti ecclesiali. Questo è il motivo del processo di accompagnamento e valutazione, che nulla toglie alla responsabilità di ogni Chiesa».
La "valutazione" (cioè la verifica comune e condivisa di come le indicazioni del Sinodo avranno trovato applicazione nelle comunità locali) cui fa riferimento il testo è di fatto la seconda parte dell'intero processo di attuazione e avverrà su tre livelli dimensioni: nelle diocesi, a livello intermedio di raggruppamento degli enti diocesani (conferenze episcopali o simili) e a livello continentale.
Si partirà a maggio, quindi, con la pubblicazione del Documento di sostegno per la fase attuativa con le indicazioni per il suo svolgimento. Poi tra giugno 2025 e dicembre 2026 prenderanno forma i percorsi di attuazione nelle Chiese locali. Per tutto il 2027 e la prima parte del 2028, poi, ci saranno le assemblee di valutazione: nel primo semestre 2027 a livello locale, nel secondo semestre dello stesso anno a livello di Conferenze episcopali e nei primi sei mesi del 2028 a livello continentale.
Da tutto questo lavoro, a giugno 2028, uscirà l'Instrumentum laboris, che sarà il documento di base sui ci si confronterà durante la grande Assemblea ecclesiale dell'ottobre 2028.
«È di fondamentale importanza assicurare che la fase attuativa sia l’occasione per coinvolgere nuovamente le persone che hanno dato il loro contributo e restituire i frutti dell’ascolto di tutte le Chiese e del discernimento dei Pastori nell’Assemblea sinodale: proseguirà così il dialogo già avviato nella fase dell’ascolto», scrive ancora Grech nella sua lettera, ricordando quindi che questa fase è profondamente connessa con l'intero lavoro svolto fin dall'inizio.
Il percorso è lungo e articolato, quindi, e di fatto al termine l'intero processo sarà durato sette anni: dal 2021, quando si è dato avvio alla preparazione all'Assemblea sinodale, fino al 2028. Un confronto che, per volere di Francesco, ha messo al centro non tanto singoli temi, quando la questione del metodo e dello stile della Chiesa ai nostri giorni. E il dibattito ha riguardato numerosissimi ambiti, tenuti insieme dal filo rosso della "sinodalità", che non è un semplice concetto legato alla "partecipazione allargata" alle decisioni riguardanti la vita della Chiesa, ma che ha a che fare con il modo in cui si vive la fede dentro e fuori la comunità cristiana. Nell'intero processo, ovviamente, si sono toccati anche temi specifici, alcuni dei quali affidati a specifici gruppi di studio il cui lavoro è andato avanti dopo il Sinodo. Di certo i nodi principali, quelli che hanno ricevuto più attenzione anche fuori dalla Chiesa, sono la questione del ruolo delle donne nella vita della Chiesa, la necessità di trasparenza nella gestione della vita delle comunità e l'atteggiamento di responsabilità da cui nessuno, pastori e fedeli, oggi può più sottrarsi se si vuole dare credibilità a ogni azione della Chiesa nel mondo.
«Tre sono i peccati tipici del giorno d’oggi: lo stupore estinto, il realismo sfiduciato, l’impotenza rassegnata, ma noi siamo qui per ricevere la grazia di una vita nuova. Attraverseremo la Porta Santa, che è aperta, e otterremo le grazie del Giubileo, ma è aperta la porta del tuo cuore, la tua porta si apre al Signore che bussa? Noi siamo qui, non per uno sforzo in più per diventare migliori, ma per un’apertura alla docilità, perché il Signore possa farci la grazia in questi giorni e sempre».
È stata questa la consegna che l’arcivescovo, ha lasciato ai 3.000 fedeli ambrosiani, provenienti da ogni parte della diocesi, che stanno partecipando al pellegrinaggio giubilare da lui guidato. 3.000 persone di ogni età, arrivati a Roma con i sacerdoti e intere parrocchie o per una scelta personale, che hanno vissuto il loro primo momento giubilare prendendo parte alla celebrazione penitenziale presieduta da monsignor Delpini – presenti anche tutti i membri del Consiglio episcopale milanese e il delegato del Giubileo per la diocesi di Milano, don Massimo Pavanello – nella basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso. Un gioiello artistico seicentesco che è un’isola della “nazione lombarda”, come veniva chiamata, nel cuore della città eterna.
E non vi era, forse, luogo più allusivo e significativo di questa piccola “terra lombarda”, ma soprattutto diocesana, per dare inizio al pellegrinaggio giubilare della Chiesa ambrosiana, a cui monsignor Delpini ha voluto dare il titolo di “Evento di Chiesa, tempo di Grazia, cammino di Speranza”, per essere, appunto, pellegrini di speranza, come indica papa Francesco, attraversando, stamani, la Porta santa di San Paolo fuori le Mura e avviando il pellegrinaggio dalla grande basilica che porta i nomi dei patroni della diocesi.
Un luogo di culto dalle origini umilissime offerto agli scalpellini della Valtellina, giunti a Roma per lavorare, e che, poi, dopo due secoli, nel 1600, venne edificato, in 80 anni, nella forma attuale, tanto che quando verrà richiesta una reliquia, il cardinal Federico Borromeo donerà il cuore del cugino e predecessore san Carlo. Reliquia preziosissima, per l’occasione, posta in altare maggiore, per la devozione dei pellegrini. Tutti coloro (ben due i gruppi che si sono susseguiti nel pomeriggio in basilica per poter partecipare), a cui si è rivolto l’arcivescovo, dicendo: «Lo stupore per le parole di Gesù pare sia estinto e questo rende noioso essere cristiani, forse doveroso, ma noioso. Il cristianesimo noioso diventa irrilevante, come un sale che ha perso il suo sapore e non serve a niente. Lo stupore estinto estingue anche le domande e perciò l’insegnamento, il catechismo, diventano una ripetizione, la preghiera diventa adempimento, un dovere, la speranza un volontarismo. Questo pellegrinaggio vuole portare davanti al Signore tutto ciò che ci grava sulle spalle e consegnarlo perché si possa ritrovare lo stupore».
Senza dimenticare coloro, tanti anche tra i cristiani, che hanno perso la fiducia. «Ecco la tentazione che ci insidia: perdere la fiducia», scandisce, infatti, Delpini. «La parola di Gesù è troppo fragile per essere quella roccia rassicurante su cui costruire la vita. Altre parole, altre promesse, altre risorse sono più convincenti. Ascoltare e mettere in pratica la parola di Gesù non dà garanzie sufficienti: la prepotenza del male è troppo spaventosa. La sfiducia si esibisce, qualche volta, come fosse un realismo, ma in realtà è un peccato, ed è radice di molti peccati. L’animo sfiduciato si ammala di tristezza, di risentimento, di desiderio di omologazione, per essere come tutti gli altri che fanno riferimento a quello che è conveniente, di moda, rassicurante. Il compromesso sembra un’astuzia».
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Oggi per l’arcidiocesi di Agrigento è una giornata storica: a Canicattì, paese natale del beato Rosario Livatino, le spoglie del magistrato verranno traslate dal cimitero comunale alla chiesa di Santa Chiara con una celebrazione solenne. Un’intenzione che l’arcivescovo Alessandro Damiano aveva manifestato in occasione della memoria liturgica del giudice beato lo scorso 29 ottobre, e precedentemente autorizzata dal cardinal Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi.
Lo scorso 20 febbraio, inoltre, il Servizio Poste e Filatelia della Santa Sede aveva presentato francobollo e annullo postale dedicati a Livatino, definendolo «testimone di speranza e del Vangelo» riprendendo ciò che papa Francesco disse di lui in occasione del Regina Coeli del 9 maggio 2021.
La festa, in questi giorni, non è solo per la diocesi agrigentina. Tutta la Sicilia segue con interesse gli eventi attorno alla figura del giudice assassinato da un commando della Stidda il 21 settembre 1990, mentre a bordo della sua Ford Fiesta amaranto, privo di scorta, si recava a svolgere il suo lavoro.
Anche Catania fa memoria del primo magistrato beatificato dalla Chiesa cattolica, presentando con la sua storia una serie di podcast promossa dall’Ufficio delle comunicazioni sociali dell’arcidiocesi etnea: “Santi e martiri siciliani dei nostri tempi”. A questo progetto, prodotto del “Corso di formazione per animatori della comunicazione attraverso podcast e video” del quale docente è stata Ornella Sgroi - giornalista, scrittrice e autrice di vari podcast -, collaborano la Caritas diocesana e la testata locale Prospettive.
«Siamo soliti pensare – spiega Giuseppe Di Fazio, direttore dell’Ufficio Comunicazioni sociali promotore della serie – che santi e martiri siano figure lontane nel tempo, remote rispetto a noi. Con questo progetto, grazie al quale stiamo sperimentando il podcasting come mezzo di comunicazione, intendiamo presentare figure siciliane a noi più vicine o contemporanee. Persone che in vita hanno testimoniato, anche tramite il loro lavoro, la loro incrollabile fede in Cristo. Il beato Rosario Livatino rientra inevitabilmente tra queste, così come don Pino Puglisi, protagonista della puntata successiva».
La puntata, disponibile da domani su Spotify ha per titolo “Sub tutela Dei: il giudice Livatino, tra fede e giustizia”. Poco più di dieci minuti che approfondiscono il percorso umano e professionale del beato, il suo impegno nella lotta alla criminalità organizzata e il legame tra fede e giustizia fino al sacrificio estremo. “Sub tutela Dei”, locuzione latina tanto cara al magistrato siciliano, non era per lui soltanto una frase ma un motto, un principio guida: era un modo, per lui, di offrire le sue giornate e il suo lavoro sotto la protezione del Padre.
Ad approfondire ulteriormente la figura del beato all’interno del podcast - scritto da Silvana Cardì, Chiara Monteleone, Mariachiara Papa e Paola Palermo - sono don Massimo Naro, teologo e docente presso la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e don Giuseppe Livatino, cugino del magistrato e postulatore della causa di beatificazione. Oggi, in un tempo segnato da sfiducia e corruzione, il messaggio di Livatino risuona con forza.
L’appuntamento è alle 18 nella Basilica di San Pietro. Qui sabato 15 marzo è in programma la cosiddetta Statio (che significa sosta) Quaresimale. Si tratta di un rito dell’antica tradizione liturgica con la quale fedeli e pellegrini, nei quaranta giorni che preparano alla Pasqua, si radunano e fanno sosta in una delle chiese di Roma che conserva le memorie dei martiri. Scopo di questo appuntamento è prendersi una "sosta" nella vita quotidiana per dedicarsi alla preghiera e alla riflessione in unione con l’intera comunità cristiana. Più nello specifico nel sabato che precede la seconda domenica di Quaresima, la “Statio” si svolge nella Basilica papale di San Pietro. Qui, dalle 18 la processione sarà accompagnata dalle litanie dei santi fino alla Loggia della Veronica presso cui avverrà l’ostensione della reliquia della Lancia di Longino con la quale il centurione romano trafisse il costato di Cristo. Seguirà la celebrazione eucaristica all’Altare della Cattedra celebrata dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica papale di San Pietro.
La storia di Longino, il soldato della lancia
Come detto, a caratterizzare la Statio sarà l’ostensione della lancia di Longino. Si tratta del soldato di cui parla il Vangelo di Giovanni al capitolo 19. Per verificare che Cristo fosse morto, recita il testo, «uno dei soldati gli trafisse il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua». Il testo non dice niente di più del militare, neanche il nome che invece viene citato negli Atti di Pilato testo allegato al Vangelo apocrifo di Nicodemo. Il nome Longino è probabilmente una latinizzazione del greco "lonche" che significa lancia. Circa la biografia di Longino le interpretazioni sono differenti. Accanto alla biografia succitata propria della tradizione occidentale se ne trova una seconda, più diffusa tra i cristiani d’Oriente, che identifica Longino come il centurione che nel Vangelo di Matteo viene descritto a «fare la guardia» a Gesù con altri soldati e che «alla vista del terremoto e di quello che succedeva» dopo la morte di Cristo «furono presi da grande timore e dicevano: "Davvero costui era Figlio di Dio!"». Secondo una terza ricostruzione, infine, Longino sarebbe stato il centurione che comandava il picchetto di soldati messo a guardia del sepolcro di Cristo. A differenti biografie corrispondono anche diverse date in calendario, Il Martirologio Romano celebra Longino il 15 marzo mentre gli orientali, non tutti però, il 16 ottobre. Sono invece coincidenti le tradizioni occidentali e orientali circa l’evoluzione della storia di Longino che, abbandonato l’esercito e divenuto cristiano, si trasferisce a Cesarea di Cappadocia dove, per il suo impegno nella conversione al cristianesimo viene condannato alla pena capitale e muore martire per decapitazione. Secondo san Gregorio di Nissa (335 - 395 circa) Longino sarebbe stato il primo vescovo della Cappadocia.
La reliquia
Come ogni secondo sabato di Quaresima la Statio si accompagna all’ostensione della reliquia della lancia che trafisse il costato di Gesù. Conservata originariamente nel tesoro sacro di Costantinopoli, fu donata a Innocenzo VIII (al secolo Giovanni Battista Cybo de Mari), Papa dal 1484 al 1492, dal sultano Bajazet, figlio di Maometto II come ringraziamento per l’accoglienza ricevuta dal fratello Djem nel suo viaggio a Roma.
Il pellegrinaggio che, come è ovvio, è sempre più di un viaggio o di un semplice spostarsi da un luogo all’altro, perché è un camminare fisicamente e idealmente sulle strade della fede e del nostro cuore. Potrebbe essere questa la sintesi della riflessione che fra Roberto Pasolini, sacerdote dei Frati minori cappuccini francescani, predicatore della Casa pontificia, definisce, appunto «la logica di ogni pellegrinaggio».
Tanti fedeli ambrosiani guidati dall’arcivescovo Delpini vivono il pellegrinaggio giubilare a Roma dal 14 al 16 marzo: quale è lo spirito corretto con cui intraprenderlo?
«Il Giubileo è l’occasione per la Chiesa e, quindi, per tutti i cristiani di sperimentare la categoria del “viaggio santo”, che noi chiamiamo appunto pellegrinaggio e che simbolicamente esprimiamo, per esempio, andando a Roma in questo Anno Santo. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di una categoria di cui ci parla l’intera rivelazione biblica - ebraica e cristiana -, fin dai tempi dei patriarchi. Pensiamo ad Abramo che deve intraprendere un viaggio di fede per arrivare nella terra promessa con lo stesso peregrinare che farà il popolo di Israele lasciando l’Egitto. Senza dimenticare i viaggi scanditi dai canti dei Salmi che compiono tutti gli israeliti, compreso Gesù stesso, recandosi a Gerusalemme per le grandi feste».
Questo come segna il nostro presente di pellegrini di speranza?
«Tutti gli eventi che divengono riti, ci ricordano quale sia lo statuto fondamentale della vita umana - e, dunque, anche della nostra -, ossia che siamo, come dice la Scrittura e ripeteva san Francesco, pellegrini e forestieri, in questo mondo, alla ricerca di una patria. Il viaggio restituisce così la simbologia fondamentale con cui interpretare anche la nostra stessa esistenza: un viaggio da questo mondo al Padre».
Nel concetto di pellegrinaggio è presente in profondità anche un’idea di conversione?
«Certamente perché il pellegrinaggio può essere un momento aurorale, un principio. Non a caso, il passaggio attraverso la Porta santa - per noi la porta è Cristo - ci impone una verifica per cui ciascuno esprime (o dovrebbe farlo) la decisione di attingere alla misericordia del Signore, operando un rinnovamento a partire dallo scoprirci amati da Dio. E, perciò, anche disposti a mettere a frutto tale misericordia perché la nostra vita possa fiorire e tornare a essere un bene e un servizio per gli altri».
Cosa si dovrebbe portare a casa da un pellegrinaggio giubilare?
«Credo che sia un’occasione unica per rimettersi in cammino, varcando una soglia che ci mette in comunione con uno spazio diverso rispetto a quello che abitiamo quotidianamente. La speranza è che non si torni soltanto, magari, un poco emozionati, ma che il pellegrinaggio aiuti a dinamizzare ogni nostro giorno. L’auspicio è che il passaggio della Porta santa rappresenti un momento di riappropriazione del nostro battesimo e della nostra vita errante, nel senso più ampio e profondo del termine, aiutandoci a spostarci dalle nostre fissazioni per ricreare quei movimenti che spalancano le porte. Questo è il punto: varchiamo la porta di Cristo ma non servirà a molto se, poi, torniamo senza riuscire a riattraversare tutte le porte che ci mettono in comunicazione con gli altri, con la realtà che ci circonda, con una speranza rinnovata».
Esiste una cifra «francescana» del pellegrinaggio?
«Henry David Thoreau, un autore che ha scritto pagine molto belle sul viaggio, dice che quando si parte per una vetta, bisognerebbe vivere questo momento come una partenza definitiva. Credo che questo sia lo spirito del pellegrinaggio cristiano. È chiaro che tutti vogliamo tornare alle nostre abitazioni, però la metafora del pellegrinaggio ci dovrebbe restituire l’idea che possiamo davvero guardare avanti con uno sguardo più fiducioso, anziché ripiegarci sempre sui beni che possediamo, sulle cose che abbiamo acquisito, cioè su quello che invecchia la nostra vita. Questa, forse, è la caratteristica anche francescana del pellegrinaggio: un cristiano che lascia tutto e si rimette in cammino - come fece Francesco - perché sa che il suo vero tesoro è il cielo, è il regno di Dio, la casa del Padre».
www.chiesadimilano.it/milano-sette
Non aveva ancora compiuto 27 anni, il giovane don Concezio Chiaretti, quando il piombo dei carnefici nazisti gli tolse la vita sul Monte Tilia, assieme a 22 suoi concittadini. Era il 7 aprile di ottantuno anni fa. Ma quella storia di altruismo, coraggio e perdono evangelico non è mai stata dimenticata dagli abitanti di Leonessa, borgo montano del Reatino, nel Lazio, di cui era stato parroco. L’hanno custodita e tramandata per decenni, fino ad affidarla al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che ha chiesto al capo dello Stato di concedere al sacerdote martire un'alta onorificenza. E ieri, su sua proposta, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito la medaglia d’oro al merito civile a don Chiaretti, ritenuto uno «straordinario esempio di virtù civiche e di umana solidarietà, condotte fino all’estremo sacrificio».
Concezio era nato in Canada il 7 luglio 1917 da una famiglia di emigranti partiti da Leonessa. La mamma, Maria Carocci, e il papà, Agostino, manovale iscritto al partito socialista, erano andati oltreoceano in cerca di fortuna. Ma non la trovarono e qualche anno dopo tornarono nella valle del Reatino, assieme al ragazzo. Presero a vivere in via Boccarini, nel centro del paese, sostentandosi con la coltivazione di un piccolo podere e con la paga che Maria riceveva in cambio delle faccende domestiche per un’altra famiglia. Concezio era un bambino buono e don Pio Palla, parroco della chiesetta di San Pietro, lo prese sotto la sua ala protettiva. Lo fece studiare finché venne ammesso al Seminario di Assisi. Don Chiaretti fu ordinato sacerdote il 13 luglio 1941, quando l’Italia era entrata in guerra da un anno e un mese. Ma nel 1942 fu arruolato nella Julia, divisione del corpo degli Alpini, come cappellano militare. Poi gli venne imposta una licenza di convalescenza per le cattive condizioni di salute. Tornato a casa, si legge nella motivazione della medaglia, «durante l’occupazione tedesca si prodigò per difendere la popolazione del Comune di Leonessa e portarle soccorso». Un prete e insieme un buon samaritano, sempre pronto ad aiutare il prossimo.
Ma i nazisti, come in altri luoghi d’Italia, se la presero con gli abitanti del borgo. Ancora una volta, come il Buon Pastore, don Concezio non abbandonò le sue pecorelle. E, prosegue il testo della motivazione, «dopo aver tentato invano di dialogare coi tedeschi per scongiurare ulteriori eventi tragici, nel Venerdì Santo del 1944, mentre era in fila per essere fucilato assieme ad altri compagni, li confortava». E, «dopo essersi inginocchiato e aver invocato il perdono per i carnefici, veniva barbaramente trucidato da un plotone delle SS». Era giovane, ma dimostrò un coraggio e una dignità che ancora oggi i suoi compaesani ricordano. «L’alta onorificenza è una bellissima notizia che riempie di orgoglio ogni appartenente alla comunità di Leonessa e dell’intero Reatino - osserva commosso Paolo Trancassini, deputato di Fdi, che aveva riferito dell’eccidio del ‘44 al ministro dell’Interno -, perché il riconoscimento va a un uomo che per tutti noi, a distanza di tanti anni, rappresenta una figura simbolica e un luminoso esempio di fede, generosità e coraggio».
Centoquarantasei catecumeni a Quimper e Léon (+ 62%), 154 a Metz (+ 85%), 199 a Rennes (+ 19%), 610 a Pontoise (+ 15%), 628 a Lione (+ 40%), 670 a Versailles (+ 30%)... I numeri che arrivano dalle diocesi francesi, riportate dal settimanale Famille Chrétienne, fanno intravedere un forte aumento rispetto allo scorso anno degli adulti che durante la prossima veglia di Pasqua riceveranno i sacramenti dell’iniziazione cristiana. Ma già nel 2024 i catecumeni erano stati oltre dodicimila, cioè il 31% in più rispetto al 2023 e il 120% in più rispetto a dieci anni prima. Si conferma insomma una tendenza che può sorprendere, ma che non è solo della Francia, si riscontra in misura diversa anche nel vicino Belgio – che ha visto raddoppiati i catecumeni negli ultimi dieci anni – o al di là della Manica, nel Regno Unito, dove in diocesi come Cardiff, Brighton e Salford i catecumeni sono pressoché raddoppiati rispetto a solo dodici mesi fa. In Francia però a questo fenomeno se n’è aggiunto nei giorni scorsi un altro che ha attirato l’attenzione dei media anche laici: il boom di partecipazione ai riti per l’inizio della Quaresima, il mercoledì delle Ceneri, insieme a una crescente visibilità di giovani influencer sui social network che esibiscono con fierezza il segno delle ceneri e parlano con altrettanta chiarezza di digiuno e altre pratiche ascetiche.
Una sintesi dell’accaduto l’ha fatta il quotidiano cattolico La Croix, non certo incline a pose identitarie, raccogliendo la testimonianza di père Benoist de Sinety, parroco a Lille ma molto noto anche a Parigi, la sua diocesi di provenienza e di cui è stato vicario generale. «I sacerdoti sono rimasti sbalorditi perché, dalla piccola chiesa di campagna alla grande parrocchia del centro città, a tutte le ore il numero di partecipanti alla Messa delle Ceneri è esploso – ha raccontato père De Sinety –. Nella mia parrocchia alla Messa delle 19.30 siamo passati da 400 persone a quasi mille. Erano soprattutto giovani tra i 16 e i 20 anni, che non avevamo mai visto. Sono arrivati spesso in gruppo e diversi di loro non erano cristiani. Ho quindi lanciato un appello al catecumenato: abbiamo ricevuto una ventina di candidature! Vedremo come tutto ciò si evolverà, intanto è molto incoraggiante e allo stesso tempo lascia spiazzati». Alla domanda su perché ciò sia accaduto, il sacerdote risponde così: «Non lo so spiegare esattamente, ma una cosa è certa: il diffondersi del Ramadan nella società provoca non direi tanto una risposta militante, quanto una presa di coscienza dei giovani di cultura cristiana che anche loro hanno una via su cui possono progredire spiritualmente. Inoltre gli influencer cattolici giocano un ruolo, vista l’età dei partecipanti. L’anno scorso, quando si stava già osservando un certo fermento, alcune ragazze sono venute nella mia parrocchia perché un’influencer l’aveva pubblicizzata sui social network. L’entusiasmo dei giovani credenti è contagioso. Non hanno più paura di invitare i loro amici a Messa, una libertà paradossale in un’epoca in cui non si parla più di Dio». Ancora: «I riti sono scomparsi nella nostra società, ma sono necessari e i giovani ne sentono il bisogno. Uscendo dalla chiesa, ho visto che conservavano sulla fronte la croce di cenere senza volerla cancellare. Cosa che i giovani non facevano così facilmente prima». «La cosa meravigliosa – aggiunge père De Sinety – è che tutto questo avviene nel momento in cui la Chiesa cattolica è minata da divisioni e scandali. In mezzo a tutto questo Dio ci coglie di sorpresa, sommergendoci di persone che vogliono diventare cristiane. È un invito a prendere coscienza che la missione della Chiesa è prima di tutto annunciare il Vangelo».
È morto oggi, all'ospedale di Siena, Daniele Venturi, 55 anni, fondatore e presidente dell'Associazione Nazionale Papaboys, nata nel 2000 per la Giornata Mondiale della Gioventù di Giovanni Paolo II.
Daniele era nato e cresciuto a Massa Marittima, in provincia di Grosseto. Era stato ricoverato qualche giorno fa all'ospedale in condizioni critiche in seguito a un malore e subito trasportato in terapia intensiva. Dopo qualche giorno, la morte. Non sono ancora chiare le cause del decesso e per questo verrà effettuata l'autopsia. Il funerale si terrà sabato 15 marzo, a Massa Marittima, paese dove Daniele viveva. Una vita dedicata al giornalismo e alla Chiesa cattolica. Per oltre vent'anni ha tenuto informato il mondo del Web con il sito www.papaboys.org - dal pontificato di Giovanni Paolo II fino all'attuale Francesco - ha istituito premi legati al mondo della musica cristiana, ha scritto un libro, in versione e-book, sul viaggio di Papa Francesco a Rio de Janeiro. Ultimamente aveva creato un settimanale, il "Pensiero", con meditazioni e riflessioni sulla Chiesa cattolica e sul Vangelo. «La perfezione è vita? Ecco il numero 8 del Pensiero. Buona lettura", aveva scritto solo giovedì scorso per l'ultimo numero del settimanale. In una recente intervista aveva affermato: "Noi vecchi siamo tornati alle nostre parrocchie, ma saremo a Roma per il Giubileo dei giovani", il 28 luglio. "Speriamo che Francesco si rimetta alla grande, è un lottatore». Daniele era un vulcano di idee per far conoscere ai giovani il magistero dei successori di Pietro.
Pubblichiamo il testo del capitolo scritto da Andrea Acutis, padre del beato Carlo Acutis, contenuto nel libro «Nostro figlio Carlo Acutis. La scuola di fede del santo di internet» firmato dai genitori e Antonia Salzano e Andrea Acutis. Il contributo di Andrea Acutis è intitolato «Obbediente, eppure libero e vivace».
La libertà si colloca al vertice dei desideri dell’uomo, si può dire che sia una parte costituzionale della persona umana. Per i ragazzi la libertà ha poi un fascino tutto particolare perché sono stati soggetti sin dalla nascita all’autorità dei genitori e degli educatori e sono facilmente affascinati dalla possibilità di affrancarsene. È quindi quanto mai importante aiutarli a discernere sulla sua natura. Generalmente la libertà è intesa come assenza di costrizioni esteriori nella propria vita, cosa che riveste indubbiamente spesso grande importanza, specialmente se si tratta di essere liberi da costrizioni ingiuste. Consideriamo poi che politicamente, quali figli della Rivoluzione francese, la nostra società dedica ogni sforzo per costruire sistemi democratici in grado di mantenerci liberi da situazioni di tirannia, anche se così facendo si ricade a volte in nuove forme di dittatura.
Tuttavia, crescendo, i ragazzi scoprono presto che questa libertà, intesa come assenza di costrizioni materiali, trova continuamente ostacoli che si rivelano spesso insormontabili. Innanzitutto ci troviamo inseriti nel cosiddetto spazio-tempo. Il tempo scorre ineluttabilmente in un’unica direzione: possiamo vivere solo nell’istante del presente e il tempo perso non potrà mai essere recuperato. Alle conoscenze attuali della fisica risulta poi che qualsiasi oggetto dotato di una massa si possa spostare da un luogo all’altro solo con grande dispendio di energia e per distanze sostanzialmente nulle rispetto alle distese infinite dell’universo. Le vicissitudini della vita, dalla nascita sino alla morte, sono poi soggette a un’infinità di elementi che non dipendono dalla nostra volontà. Non abbiamo scelto di darci la vita e nemmeno dove nascere, in quale Paese del mondo e in quale famiglia, quali persone incontreremo, in quali situazioni dovremo giostrarci, e così via.
Se illudiamo i ragazzi con la speranza di poter essere liberi da tutte queste ineluttabili costrizioni, facciamo di loro dei falliti dalla nascita che non cercheranno altro se non la possibilità di evadere da questo mondo con distrazioni più o meno lecite. Ma com’è possibile che l’animo umano abbia un così forte desiderio di una cosa irraggiungibile? La felicità dipende dalla certezza di poter raggiungere ciò che desideriamo. Siamo allora forse costituzionalmente condannati all’infelicità? O forse riponiamo i nostri desideri su cose che non ci sazieranno mai?
Perché diciamo ai nostri ragazzi «l’importante è che ti diverti», oppure «l’importante è la salute», oppure «devi studiare perché se non hai successo nel lavoro sei un fallito»? Il divertirsi in modo sano, la salute, un lavoro giustamente remunerato, sono tutte cose buone per le quali dobbiamo ringraziare Dio se ci sono, ma non è affatto detto che ci siano e se sono presenti potrebbero non durare, anzi, diciamo pure chiaramente che sappiamo per certo che finiranno. Carlo usava di tutte le cose buone di questo mondo, ma il mondo non era il suo tesoro. Ecco, questo è il problema: che siamo troppo abituati a cercare tesori dove non ci sono. E la libertà dalle costrizioni materiali è uno di questi falsi tesori.
Ora noi sperimentiamo che effettivamente siamo esseri dotati di una libertà, libertà che siamo continuamente chiamati a esercitare con le nostre scelte. Ancor prima di essere illuminati dalla fede, ognuno di noi sa che esiste una libertà che in quanto immateriale non può essere soggetta a costrizioni da parte di nessuno: la libertà di desiderare o di amare ciò che vogliamo. Quindi, anche solo con le nostre facoltà umane, possiamo intuire che l’essenza stessa della vita umana deve essere legata a questa libertà e che, conseguentemente, l’uso che ne faranno i nostri ragazzi determinerà il grado di successo della loro vita.
Lasciamoci ora illuminare dalla nostra fede. Tutto si farà chiaro, semplice e meraviglioso. Dio stesso, l’Onnipotente, l’Amore, il Sommo Bene, bussa alla porta del nostro cuore e ci dice: io sono l’Amore; ti ho creato per amare e per essere amato; vuoi desiderare l’Amore? Se rispondiamo di sì, sappiamo con certezza che potremo essere esauditi perché è una sua promessa. Ecco svelati l’essenza e il motivo della nostra libertà. Come potrebbe Dio proporci di ricevere il suo amore se non ci avesse prima donato un’anima spirituale capace di libertà, della capacità di poter dire di sì all’Amore, allo stesso modo in cui diciamo di sì alla persona amata nella celebrazione del sacramento del matrimonio. La libertà di amare è legata alle facoltà della nostra anima spirituale: l’intelletto e la volontà. L’intelletto ci propone la cosa buona e con la volontà scegliamo di amare la cosa buona. Dobbiamo poi avere l’umiltà di capire, non senza l’aiuto della grazia, che Dio ha disposto che veniamo inseriti nella sua vita divina mediante i sacramenti che Lui stesso ha istituito. Allora il compito dei genitori è immensamente semplificato. La salute dei figli, il loro futuro lavoro, tutte le cose buone della vita, non sono più la meta desiderata, ma vengono declassati a meri mezzi per raggiungere la Meta che è Dio. Dobbiamo insegnare ai nostri figli che, diversamente dai desideri di questo mondo che possono realizzarsi ma molto spesso portano anche a fallimenti, e che quindi ci lasciano sospesi in uno stato di paura che fuggiamo con distrazioni varie (ecco l’origine della frase «l’importante è che ti diverti»), diversamente dicevo dai desideri di questo mondo, un sincero e fermo desiderio di Dio non può assolutamente fallire appunto perché l’unico requisito è di desiderarlo fermamente e di comportarsi di conseguenza dicendo di sì a tutte le cose buone che ci propone il Signore, con l’aiuto della grazia che Egli non ci negherà mai se non ci opponiamo a essa. Se c’è riuscito il buon ladrone, ci possiamo riuscire anche noi e i nostri figli. Il problema è che questi sì ci costano cari perché non vogliamo rinunciare ai falsi tesori. Ecco allora come dobbiamo impegnare il tempo della nostra vita: in una continua ricerca di un sì detto con sempre maggiore amore, decisione e fermezza, e un no a tutto ciò che si oppone al raggiungimento del nostro tesoro in Cielo. E il Signore curerà di donarci tutte le cose materiali e spirituali di cui abbiamo bisogno nel nostro cammino.
Per una particolare provvidenza del Signore, Carlo ha potuto beneficiare sin da piccolo di una speciale unità e armonia interiori che venivano continuamente rinnovate dalla sua scelta di mettere Dio al primo posto e, conseguentemente, di mettere in pratica il comandamento dell’amore. Forse questa parola “comandamento” stona ai nostri orecchi allenati alle false libertà di questo mondo. Ma l’amore non è una passione che dobbiamo seguire per essere felici?
I sentimenti e le passioni vanno e vengono, crescono e diminuiscono, spesso per fattori psicologici legati ai processi biochimici del nostro cervello. Ora insegnare ai nostri ragazzi a seguire un amore, inteso come seguire “quello che sento”, sarebbe l’equivalente di insegnare loro a essere tanti Pinocchio senza libertà. Eppure Pinocchio pensava di essere libero quando seguiva i suoi desideri. Ebbene, occorre insegnare ai nostri ragazzi che prima di tutto l’amore è un atto della volontà che prescinde dal sentimento. Infatti nel sacramento del matrimonio non promettiamo di amare il nostro sposo o la nostra sposa solo finché non sgorgherà nella nostra psiche una pulsione di attrazione, ma promettiamo di amare finché morte non ci separi. Così si deve intendere il comandamento di amare Dio e il prossimo.
Perché i santi attirano così tante persone? Perché hanno esercitato bene la loro libertà e percepiamo che sono mossi dal vero Amore, senza quella falsità, quella divisione, quella malizia che sono necessariamente presenti, spesso inconsapevolmente, in chi sceglie di adorare tesori diversi dal Sommo Bene, in chi sceglie le false libertà.
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«Per rimanere fedeli bisogna uscire. San Vincenzo di Lerins fa il paragone tra lo sviluppo biologico dell’uomo, tra l’uomo che cresce e la Tradizione che, nel trasmettere da un’epoca all’altra il depositum fidei, cresce e si consolida con il passo del tempo». Era il 13 maggio 2007 ad Aparecida, in Brasile, dove eravamo arrivati con il volo papale di Benedetto XVI nel giorno dell’inaugurazione della quinta Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. Sotto i portici del grande santuario mariano incontrai il cardinale Bergoglio, allora arcivescovo di Buenos Aires, che avevo conosciuto cinque anni prima a Roma, quando venne ospite presso la nostra famiglia. Gli chiesi del suo incontro con il Papa e delle prospettive di quell’assise. Mi fece quest’accenno a san Vincenzo di Lerins, all’esortazione Evangelii nuntiandi di Paolo VI e che ne avremmo riparlato quando sarebbe venuto a Roma.
Venne, come promesso, nell’ottobre di quell’anno per il Concistoro, al quale però non poté partecipare a causa di una dolorosa sciatica. E quello che mi disse divenne un’intervista per il mensile internazionale 30Giorni, l’unica che rilasciò in tutti quegli anni sulla visione della Chiesa. Mi parlò dell’apertura alla missionarietà, del coraggio apostolico, della misericordia, del pericolo dell’autoreferenzialità e della mondanità spirituale nella Chiesa. In sostanza i pilastri del suo magistero, quello che poi trasmise nella sua esortazione programmatica del pontificato Evangelii gaudium. Le stesse priorità che aveva ripreso anche nelle Congregazioni generali del pre-Conclave che lo portò al Soglio di Pietro, e che aveva già dette anche ai cardinali del pre-Conclave del 2005, in una paginetta di cui tengo copia.
Ricordo ancora quando, come paradigma della missione, mi parlò del profeta Giona. Una memoria che riaffiorò più tardi, il 7 marzo 2021, nella Piana di Ninive in Iraq, terra di Abramo e del profeta Giona, quando al seguito del suo viaggio apostolico vidi papa Francesco entrare nella cattedrale di Al-Tahira, crivellata di pallottole, attorniato dalla folla che agitava palme cantando in aramaico, lingua madre del cristianesimo siriaco, quella parlata da Gesù. «Santità, la accogliamo oggi come i niniviti accolsero “Giona, il predicatore della verità”, secondo la nostra tradizione siriaca», gli disse il patriarca siro-cattolico in mezzo alla folla di fedeli e presentando la comunità cristiana di Qaraqosh, dove il cristianesimo risale al tempo degli Apostoli.
In quella tappa, che sembrava uscire da una visione, sull’orlo di un tempo tragico segnato dalla pandemia, in un viaggio emblematico e profetico nella cerniera del Medio Oriente, culla dell’umanità e delle fedi, devastato dalle guerre, Francesco si era così portato anche nei luoghi emblematici dell’apertura alla missione. E portandosi alle origini dell’opera di Dio, da quel luogo sorgivo di fede e fratellanza, dalla terra del nostro padre Abramo, dove si è accanita l’opera diabolica dell’odio e della divisione, ancora una volta aveva fatto non solo comprendere «come superare i mali e le ombre di un mondo chiuso»: aveva fatto anche progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dalla Tradizione nel solco del Concilio Vaticano II.
Quelle della risalita alle fonti del Vangelo, di una rinnovata missionarietà, del dialogo ecumenico e interreligioso in favore della ricerca della pace, della collegialità e povertà nella Chiesa, che sono il lascito da percorrere del Vaticano II e insieme sono il timbro della Tradizione che hanno distinto questi dodici anni di pontificato. Timbro che Francesco aveva espresso in modo programmatico già la sera stessa dell’elezione, nel primo saluto, nella prima preghiera e nella prima benedizione dal balcone di San Pietro: «Fratelli e sorelle, buonasera! E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa [...] sia fruttuoso per l’evangelizzazione di questa città tanto bella! E adesso vorrei dare la Benedizione, ma prima – prima, vi chiedo un favore: prima che il vescovo benedica il popolo, vi chiedo che voi preghiate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo, chiedendo la Benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me».
Sono affermazioni nelle quali espresse da subito la volontà di farsi prossimo, quale espressione dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana», come viene descritta nel proemio della costituzione pastorale Gaudium et spes, che è all’origine dell’invito alla prossimità, e il richiamo alla «conversione pastorale» che Francesco rivolgerà poi a tutta la compagine ecclesiale. E con lo stesso invito che quella sera del 13 marzo rivolse ai fedeli di compiere «un cammino insieme vescovi e popolo» aveva rimandato direttamente al secondo capitolo della costituzione dogmatica Lumen gentium sulla natura della Chiesa dove si afferma – testuali parole – che « vescovo e popolo fanno un cammino insieme».
Da qui anche la sinodalità, che significa appunto “camminare insieme”, modalità e stile che appartengono alla natura apostolica costitutiva della Chiesa, e che in questi dodici anni è stata rimessa in moto nei sinodi promossi dal Papa a partire da quello sulla famiglia. Come Vescovo della Chiesa di Roma, «che presiede nella carità tutte le Chiese», riprendeva inoltre la sorgente del suo ministero universale a cui è affidato il compito in quanto Successore di Pietro: quello di ricercare l’unità dei cristiani, tanto che Bartolomeo I, Patriarca ecumenico di Costantinopoli, ascoltando queste prime parole pronunciate a San Pietro da papa Francesco immediatamente dopo la sua elezione, prese il primo aereo e arrivò a Roma per poterlo incontrare. E fu il primo Patriarca di Costantinopoli, successore dell’apostolo Andrea, a partecipare alla cerimonia d’inizio di un pontificato in Vaticano. Francesco, infatti, riprendeva le parole esatte di un teologo del primo secolo, un Padre della Chiesa, allora indivisa, e venerato poi santo dalla Chiesa ortodossa quanto dalla Chiesa cattolica: sant’Ignazio di Antiochia, detto l’Illuminatore. E con quelle parole, evidenziando che è Vescovo di Roma – motivo per il quale è Papa, sorgente del suo ministero universale – affermava ed evidenziava non solo la dimensione costitutiva della Chiesa di essere sinodale, ma anche il compito che gli è affidato in quanto Successore di Pietro: quello dell’unità. E per la prima volta anche un’enciclica, la Laudato si’, sulla cura del creato, si è potuta dire ecumenica per la comune, fraterna responsabilità, quella stessa che Atenagora, nel gennaio del 1969, proprio su Avvenire esprimeva con un “noi” per «offrire insieme orientamenti di speranza al mondo». Francesco concludeva infine «perché ci sia una grande fratellanza».
Con questa preghiera il Papa aveva perciò già prefigurato la ricerca dell’unità del genere umano e della pace, che sono confacenti al ministero petrino e che lo hanno portato attraverso il dialogo – valore radicato nell’agire di Dio verso l’uomo, come tutta la storia della Salvezza evidenzia – a gettare ponti dall’Occidente all’Oriente.
E anche con le altre religioni, fino alla firma del Documento sulla fratellanza umana siglato il 4 febbraio 2019 ad Abu Dhabi con il leader sunnita al-Tayyeb, intraprendendo i viaggi apostolici dalla Terra Santa all’Egitto, dal Marocco all’Iraq, dal Kazakistan al Bahrein, dal Sud Sudan alla Mongolia, fino ai Paesi all’Estremo Oriente, tutti siglati dall’enciclica Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, che come la Laudato si’ è posta sotto il patronato di Francesco d’Assisi e indica una fratellanza che si estende non solo agli esseri umani ma all’intero creato.
In quelle parole pronunciate da Francesco la sera dell’elezione, i1 13 marzo 2013, c’era già dunque tutto il suo programma poi svolto nel corso del pontificato. Parole maturate dall’aver fatto proprio il Concilio Vaticano II nella sua interezza, come resourcement, «risalita alle sorgenti», comprensive della natura della Chiesa alla luce della Lumen Gentium e della sua missione nel solco della Tradizione. Incipit che fa anche comprendere come non sia il Papa a fare la Chiesa, e sia improprio guardare al Papa come a un personaggio separato dal corpo della Chiesa, che è di Cristo. Solo Cristo con l’azione dello Spirito può muoverla e farla andare avanti, come sottolineò nell’intervista del 17 novembre 2017 che mi rilasciò per Avvenire, dopo il viaggio ecumenico in Svezia, dove ribadì (e lo fece poi più volte): «Non sono io. Questo è il cammino dal Concilio che va avanti, che s’intensifica... motus infine velocior, come dice Aristotele. Questo è il cammino della Chiesa. Io seguo la Chiesa». È questo ciò che nel tempo resta e dal quale non si torna indietro.
Ernesto Olivero, fondatore del Sermig di Torino, cosa significa per lei il Giubileo?
Per me è un tempo di Grazia, l’occasione per provare a cambiare, a ripartire, sapendo che la Chiesa non è tanto una struttura da aggiornare ma una Presenza a cui convertirsi. Una Presenza che sa tutto di noi, che non ci giudica, che ci cerca per amarci, camminare insieme e provare così a rendere migliore il mondo.
Questo Giubileo di speranza arriva in un momento molto difficile, ma il volontariato che senso ha oggi? Che messaggio può lanciare?
Nella mia esperienza mi è venuta incontro una definizione molto concreta della speranza. La riassumo così: speranza è avere davanti qualcuno che piange e non dire mai “Che pena!”, ma “Cosa posso fare? Cosa posso fare per te?”. Ecco, il volontariato ha senso se prova a fare così. A tutti i livelli. Credo che sia questo il messaggio più alto che si può dare in un mondo che sembra andare dall’altra parte. Pare quasi che la compassione, il mettersi nei panni degli altri, la stessa gentilezza siano sentimenti da museo, ma non è così. Se ci pensiamo, è quanto di più umano possa esserci, ma bisogna sceglierlo, ripartire continuamente, non assecondare il male che è fuori ma anche dentro di noi.
Il Sermig – Servizio missionario giovani – è nato più di 60 anni fa dall’iniziativa di molti giovani, tra cui Ernesto Olivero, Maria Cerrato, sua moglie oggi in Cielo, e tanti altri. E 40 anni fa grazie all’apporto di decine di migliaia di volontari avete fatto un miracolo trasformando l’Arsenale di Torino che fabbricava armi in una casa di pace. Cosa possono fare i giovani di oggi scegliendo il volontariato?
Ricordo una frase indimenticabile di frère Roger, fondatore di Taizé. Lo ascoltai da ragazzo dire parole che non ho mai dimenticato. Secondo lui, bastava un pugno di giovani per cambiare il corso della storia di una città, di un Paese, in definitiva del mondo. Giovani appassionati, radicati nel bene, forti nella condivisione di ideali di giustizia, di pace, di solidarietà. Con i miei amici tanti anni fa abbiamo provato a fare questo, e qualcosa è avvenuto. Ma non siamo persone fuori dal comune, tutti possono farlo, soprattutto i giovani. Ci vuole però il coraggio di mettersi in gioco, pagare di persona se necessario, dire i sì e i no che contano nella vita.
Siamo, però, in un momento in cui le voci che parlano di pace paiono soffocate da quelle di chi vuole la guerra, dagli interessi dei mercanti di armi, di chi vuole predare le materie prime agli altri popoli, di chi vuole sopraffare i più deboli con la forza. È preoccupato? E che risposta può dare un volontario?
Sono molto preoccupato, come tutti coloro che credono in un mondo di pace, di concordia tra i popoli, di lotta contro le ingiustizie. Oggi dico anche un mondo che semplicemente fa proprio il diritto internazionale. A volte si ha la sensazione che non conti più niente, ma chi vuole vedere può ancora trovare esempi e punti fermi. Credo che i volontari, chi crede nel bene, oggi sia chiamato non a gridare ma a testimoniare con ancora più forza le ragioni delle proprie scelte, delle proprie convinzioni, del bene possibile alla nostra portata. Chi si chiude non fa un servizio alla verità.
Lei ha cominciato a fare volontariato per i più poveri perché non tollerava lo scandalo della fame nel mondo, per lei la più grande ingiustizia. Oggi la fame, con le altre due pesti della guerra e della malattia, è tornata, e probabilmente crescerà. Cosa può fare oggi un giovane?
È proprio così, e la cosa più triste è che a differenza del passato problemi come la fame nel mondo non commuovono più. Non parlo di emotività, ma della commozione buona che spinge a fare qualcosa. Credo che un giovane oggi debba fare di tutto per riscoprire questa commozione. Significa allargare lo sguardo, non pensare che il mondo giri solo attorno a me, ai miei problemi, alle mie relazioni. Significa anche studiare, perché dobbiamo imparare a leggere la complessità del mondo: non esistono ricette facili. Le cose forse non cambieranno subito, ma possiamo avviare un processo.
Lo spirito forte che unisce le generazioni che lavorano gratuitamente per il prossimo pare immutato. Che cosa augura a tutti i volontari in occasione del loro Giubileo e in vista dei tempi difficili che ci aspettano?
Ho un’immagine nel cuore del 2022. Era appena scoppiata la guerra tra Russia e Ucraina. L’Arsenale della Pace di Torino, come avvenuto in altri conflitti, si era subito attivato per raccogliere aiuti. Pensavamo di inviare uno o due tir di alimentari e farmaci. Il passaparola ci ha stravolto i piani: in tre mesi abbiamo visto migliaia e migliaia di giovani, adulti e anziani che sono venuti a donare materiali ma anche a smistarli, impacchettarli, caricarli. Abbiamo inviato oltre 1.600 tonnellate di aiuti, più di cento tir. Semplicemente commovente. Lì ho capito ancora una volta che la bontà disarma, che nel bene non esistono barriere, che nessuno è così povero da non poter donare qualcosa. Al volontariato auguro di continuare a fare così, a scoprire senza trionfalismi che fare felici gli altri è la chiave per scoprire la felicità anche per noi.
Eroe e modello per i «valori umani, civili e cristiani» che ha incarnato indossando la divisa dell’Arma dei carabinieri e donando la sua vita il 23 settembre 1943 per salvare 22 civili durante una rappresaglia nazista a Palidoro (Roma). Fu fucilato e con il suo sacrificio evitò l’uccisione del gruppo di innocenti. Questo è stato Salvo D’Acquisto (1920-1943), medaglia d’oro al valore militare. Un «esempio» che dà «fecondità alla nostra vita: una vita che per essere piena, per essere bella, per essere ricca deve essere fatta di scelte», in particolare «quando la tendenza a lasciarsi vivere dagli avvenimenti, dalle mode, dagli influencer di vario genere che popolano le scene sembra preponderante». È quanto ha detto questa mattina il cardinale prefetto del Dicastero delle cause dei santi, Marcello Semeraro, che oggi ha presieduto a Roma, nella Basilica papale di San Paolo fuori le Mura, una Messa a seguito della promulgazione, il 24 febbraio scorso, del decreto con il quale è stato dichiarato venerabile il vicebrigadiere napoletano ucciso all’età di 23 anni. Decreto che il Papa ha autorizzato dal Policlinico Agostino Gemelli, dove è ricoverato dal 14 febbraio, con l’udienza concessa al cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, e all’arcivescovo Edgar Pena Parra, sostituto per gli affari generali.
L’Eucaristia è stata concelebrata dall’arcivescovo ordinario militare per l’Italia, Santo Marcianò, e dall’arciprete di San Paolo fuori le Mura, il cardinale statunitense James Michael Harvey. Tra le navate era presente anche il comandante generale dell’Arma dei carabinieri, Salvatore Luongo.
Nel corso dell’omelia, il cardinale Semeraro ricordando il vicebrigadiere ha aggiunto: «È con tono commosso e confidenziale che affermo che per Salvo D’Acquisto non tarderà ad arrivare il miracolo richiesto per la beatificazione tanto è la devozione per questo eroe. Ed è dunque davvero con commozione che vivo insieme con voi questo momento solenne».
Come cariche di gratitudine sono state le parole espresse dall’ordinario militare Marcianò anche per il lavoro profuso per l’indagine canonica su D’Acquisto condotta dal postulatore della causa di beatificazione, il frate minore cappuccino Carlo Calloni. «Il decreto di venerabilità è un messaggio di speranza – ha spiegato nel suo saluto Marcianò – che arriva proprio mentre celebriamo il Giubileo della speranza». E pensando al fatto che da questo inizio 2025 il vicebrigadiere dell’Arma è ora venerabile ha aggiunto questa nota: «Anche se l’attesta è stata lunga, sentiamo di vivere un tempo davvero propizio, scelto da Dio: un autentico kairos». Infine il comandante Luongo, nel suo intervento, rivolgendosi al cardinale Semeraro, a nome dei presenti e di tutti i carabinieri, ha espresso «sentimenti di grande riconoscenza per aver sostenuto e promosso il decreto di venerabilità del servo di Dio, il vice brigadiere Salvo D’Acquisto» descritto dal generale come un «nostro eroe».
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Catia ha scoperto che suo marito l’ha tradita. E si domanda: «Come posso trovare la forza per perdonare tutto questo? Come posso tornare a credere alle sue parole?». Dice di sentirsi «smarrita e abbandonata» e chiede «solo un segno, un qualcosa che mi faccia capire che perdonare l'imperdonabile è la cosa giusta, che non ho perso la mia dignità e che Dio è accanto a me e mi sostiene». Tutto questo lo scrive a papa Francesco nella lettera pubblicata sulle pagine di “Piazza San Pietro”, il mensile diretto da padre Enzo Fortunato che esplora temi di fede, spiritualità e vita quotidiana. La rivista accoglie la rubrica in cui il Papa risponde a una delle missive dei lettori. E quella del numero di marzo è appunto di Catia. «Non è facile perdonare, soprattutto quando si è traditi nell’amore, nelle parole, nella fiducia – sottolinea Francesco nel testo scritto prima del ricovero al Policlinico Gemelli –. L’amore nel matrimonio va sempre migliorato, guardando a Gesù, a Maria, all’inno della carità di San Paolo. Se c’è l’amore, l’amore è capace di pazientare, ricucire, riparare». E aggiunge: Il perdono è un atto libero, personale, che trae forza dallo spirito, dalla grazia e dall’amore di Dio».
Commenta il direttore padre Fortunato: «La riconciliazione e il perdono sono comportamenti, esempi che possono qualificare la vita delle nazioni e delle persone. Per il cristiano sono la via maestra. Non è semplice, questo non ce lo siamo mai nascosto, ma rendono la vita profumata di Dio». L’ultimo numero di “Piazza San Pietro” ospita un ampio reportage del summit internazionale sui diritti dei bambini dal titolo “Amiamoli e Proteggiamoli” svoltosi in Vaticano lo scorso 3 febbraio alla presenza di papa Francesco con oltre cinquanta leader mondiali. Poi si parla dei dodici anni di pontificato di Francesco con le immagini dei momenti più significativi e le scelte che hanno rivoluzionato la Chiesa. Inoltre nella rivista si trovano le “Voci di donne”, per una Chiesa verso la parità, con le riflessioni di Liliana Segre su «Il dovere di non restare indifferenti». Non mancano gli approfondimenti artistico-culturali sulla Basilica di San Pietro e le esperienze dei pellegrini durante il Giubileo. Chi desidera abbonarsi a “Piazza San Pietro” può scrivere all'indirizzo email: abbonamenti@piazzasanpietro.va
Di seguito la risposta integrale di papa Francesco a Catia
Cara Catia,
non è facile perdonare, soprattutto quando si è traditi nell’amore, nelle parole, nella fiducia. Gesù nel Vangelo esorta a perdonare sempre, come si legge nel Vangelo di Matteo (Mt 18, 21-35). Dio ci perdona sempre e vuole che noi facciamo lo stesso. L’amore, come ho scritto nel quarto capitolo di “Amoris laetitia” (l’Esortazione Apostolica del 2016 dopo il Sinodo sulla famiglia), va oltre la giustizia, e straripa gratuitamente, perché gratuitamente abbiamo ricevuto, e gratuitamente diamo (cfr. Mt 10,8).
Ogni storia, tuttavia, è sempre speciale, diversa, unica. Il perdono è un atto libero, personale, che trae forza dallo spirito, dalla grazia e dall’amore di Dio. La sua domanda, Catia, in sostanza ci fa capire che la questione del perdono, che ripeto è sempre un dono e un fatto personale e umano, è una questione anche distinta rispetto alla dinamica positiva di una storia matrimoniale. Questi aspetti si possono intrecciare (l’uno fa bene all’altro, e viceversa), ma occorre anche fare attenzione al cammino personale del perdono che guarisce le ferite e smaltisce ogni rancore e giudizio sulla vita dell’altro, rispetto alla verifica matrimoniale sullo stare insieme nella carità e nella verità, e che ha una sua autonomia che prescinde dalla capacità di perdonare. “In alcuni casi – si legge nel cap.6 di “Amoris laetitia” (p.241) – la considerazione della propria dignità e del bene dei figli impone di porre un limite fermo alle pretese eccessive dell’altro, a una grande ingiustizia, alla violenza, o a una mancanza di rispetto diventata cronica. Bisogna riconoscere che ci sono casi in cui la separazione è inevitabile. A volte può diventare persino moralmente necessaria, quando appunto si tratta di sottrarre il coniuge più debole, o i figli piccoli, alle ferite più gravi causate dalla prepotenza e dalla violenza, dall’avvilimento e dallo sfruttamento, dall’estraneità e dall’indifferenza”.
Lei chiede un segno per comprendere che perdonare l’imperdonabile è la cosa giusta. Sì, è la cosa giusta ma non l’unica da fare. Catia, si rilegga anche il quarto capitolo di “Amoris laetitia”. L’amore nel matrimonio va sempre migliorato, guardando a Gesù, a Maria, all’inno della carità di San Paolo. Se c’è l’amore, l’amore è capace di pazientare, ricucire, riparare. In questa ricerca dell’amore vero con pazienza, amabilità, benevolenza, reciprocità, Catia, lei può chiedere a suo marito di fare insieme un cammino di accompagnamento, ad esempio alcuni incontri con una coppia cristiana impegnata a sostenere le coppie ferite, condividendo le esperienze di vita, le difficoltà, il perdono, la riconciliazione. Ci sono presso le parrocchie coppie che svolgono questo servizio, talora con una competenza specifica (counseling o supporto psicologico). A volte queste coppie hanno superato esse stesse gravi situazioni ed ora vivono serenamente. Ed è importante ascoltarle.
Questo può essere il segno che lei chiede. Certo, può essere un itinerario a ostacoli, ma insieme si può vivere una autentica conversione matrimoniale. Con la preghiera e il perdono, che costruiscono e rafforzano la conversione di ciascuno, il bene cresce e può vincere qualunque male. Niente è impossibile a Dio. Speriamo che suo marito accetti questo nuovo cammino, perché – se c’è l’amore in una coppia – l’amore può curare ogni ferita, e far risorgere il matrimonio.
Pregherò per lei, Catia, e per il suo matrimonio. Lei non si dimentichi di pregare per me.
Pubblichiamo il comunicato finale della sessione primaverile del Consiglio Episcopale Permanente.
La preghiera per Papa Francesco ha caratterizzato la sessione del Consiglio Episcopale Permanente che si è svolta a Roma, dal 10 al 12 marzo, sotto la guida del Cardinale Presidente Matteo Zuppi. Alla vigilia del dodicesimo anniversario dell’elezione al soglio pontificio, i Vescovi hanno voluto rinnovare la loro vicinanza al Santo Padre, in questo momento particolare di prova e di malattia, manifestandogli l’affetto filiale delle Chiese in Italia e assicurandogli la loro preghiera costante e corale. I lavori si sono aperti con l’Adorazione Eucaristica durante la quale si è pregato per la salute del Papa: i Presuli si sono così uniti alle invocazioni che, da giorni, le comunità italiane e del mondo stanno rivolgendo al Signore affinché egli trovi “sollievo nel corpo e consolazione nello spirito”.
Giubileo, tempo di scelte coraggiose
“Siamo ormai entrati nel vivo del Giubileo”, hanno ricordato i Vescovi sottolineando che “questo Anno è un’occasione di conversione, rinnovamento della fede e di incontro con Cristo”. Uno degli elementi caratterizzanti di ogni evento giubilare è il pellegrinaggio, come ricorda la Bolla di indizione Spes non confundit: “Mettersi in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità” (n. 5). Da qui l’invito a vivere con pienezza questa esperienza di vita. Accanto a questo, i Presuli hanno concordato, con le parole del Cardinale Presidente, sulla necessità di “dare vita a gesti concreti che incarnino lo spirito giubilare” e a “trasformare i segni dei tempi in segni di speranza”. È fondamentale “vivere il Giubileo - hanno rimarcato - come un tempo di rinnovamento delle relazioni, improntato al rispetto della dignità di ciascuno, alla pratica della giustizia sociale, alla ricerca della pace giusta, alla cura della Terra”. Si tratta di osare scelte coraggiose che permettano di rimettere i debiti, ridare respiro alle situazioni di vita asfittiche, condividere i beni con il povero (cf. Lv 25). I Vescovi hanno ribadito l’importanza di proseguire nella rotta dell’ecologia integrale, che chiede stili di vita più sobri e solidali da parte di singoli e comunità. Al debito ecologico è strettamente collegata la questione del debito economico dei Paesi poveri, contratto non solo con altri Paesi benestanti, ma anche con privati: è inaccettabile – hanno rilevato i Presuli - che gli interessi siano talmente oppressivi da costringere a rinunciare a investimenti nella sanità, nell’istruzione e nel welfare. In riferimento all’Anno Santo, il Consiglio Permanente ha rilanciato l’appello del Papa a promuovere iniziative concrete per lenire le sofferenze dei detenuti, attraverso “forme di amnistia o di condono della pena” (Spes non confundit, 10), per favorire pene alternative e per attivare occasioni di giustizia riparativa, che responsabilizzano tra l’altro i colpevoli nei confronti delle vittime innocenti.
Verso la Seconda Assemblea sinodale
Sempre nell’ottica del rinnovamento, cardine del Giubileo, si muovono i passi del Cammino sinodale. Le Chiese in Italia si preparano a vivere la Seconda Assemblea nazionale, che si terrà a Roma dal 31 marzo al 3 aprile 2025, e che, come la Prima, sarà un’esperienza di Chiesa e di comunione. Raccogliendo la ricchezza dei vari contributi, il Consiglio Permanente ha affidato alla Presidenza della CEI, allargata ai Vescovi che fanno parte della Presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale, l’approvazione della redazione finale del Documento che contiene le proposte da sottoporre all’Assemblea sinodale. Queste sono il frutto del discernimento ecclesiale nel cammino comune di questi anni, esplicitando le tre dimensioni della conversione pastorale secondo la struttura indicata dai Lineamenti e dello Strumento di Lavoro: il rinnovamento missionario della mentalità ecclesiale e delle prassi pastorali; la formazione missionaria dei battezzati alla fede e alla vita; la corresponsabilità nella missione e nella guida della comunità. Le proposte, che verranno portate sotto forma di Proposizioni all’Assemblea sinodale per la necessaria approvazione, saranno poi consegnate ai Vescovi perché possano indicare gli orientamenti per le scelte da compiere innanzitutto nelle Chiese locali, ma anche negli Organi e nei Servizi della CEI, proprio per sostenere e coordinare la conversione sinodale e missionaria delle diverse realtà ecclesiali in Italia.
Un grido di pace
I Vescovi hanno poi rivolto il loro sguardo alla situazione internazionale. Con quanto richiamato dalla Bolla di indizione del Giubileo 2025, hanno auspicato che “il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova immerso nella tragedia della guerra” (Spes non confundit, 8). Per questo, hanno espresso dolore per le violenze che insanguinano diversi angoli del Pianeta mettendo a rischio il futuro di tutti. Sono risuonate forti le parole pronunciate da Papa Francesco a Bari in occasione dell’incontro “Mediterraneo frontiera di pace”: “La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione, secondo l’insegnamento disan Giovanni XXIII (cf. Enc. Pacem in terris, 62; 67). […] Essa è una follia” (Discorso, 23 febbraio 2020). Preoccupati, dunque, per lo scenario globale, i Vescovi si sono soffermati sulle tensioni crescenti e sul linguaggio della politica internazionale sempre più aggressivo, violento e divisivo. Da qui l’impegno, richiesto a tutti, per una maggiore cura del linguaggio, evitando la retorica bellicistica per tornare a parlare di pace, insieme alla riscoperta dell’importanza di iniziative multilaterali e del valore della diplomazia. In tal senso si muove anche l’appello rivolto più volte da Papa Francesco a ridurre le spese militari, destinando “almeno una percentuale fissa del denaro impiegato negli armamenti per la costituzione di un Fondo mondiale che elimini definitivamente la fame e faciliti nei Paesi più poveri attività educative e volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, contrastando il cambiamento climatico” (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2025).
Secondo i Presuli, occorre individuare modalità nuove per favorire il dialogo e per innervare la società con quella cultura che nasce dal Vangelo e con una testimonianza autentica. La guerra, spesso alimentata da nazionalismi antiumani, che è tornata a insanguinare l’Europa e che segna l’esistenza di tanti popoli, richiede – hanno rimarcato i Vescovi – decise iniziative politiche e diplomatiche per la pace. La Chiesa italiana, da parte sua, continuerà a sostenere lo slancio umanitario verso le vittime dei conflitti.
La vocazione dell’Europa
Le origini storiche e la vocazione alla pace dell’Europa comunitaria ne fanno un soggetto irrinunciabile e ne richiamano gli impegni sulla scena globale. Un’Europa che ha bisogno di recuperare i suoi valori fondativi – pace, libertà, democrazia, diritti, giustizia sociale – facendo risuonare la propria voce di pace. In un momento storico in cui si insiste sui temi della sicurezza e della difesa, è fondamentale – hanno ribadito - che tali preoccupazioni non diventino tamburi di guerra. In linea con l’espressione richiamata dal Cardinale Presidente “se vuoi la pace, prepara la pace”, i Vescovi hanno ricordato l’urgenza che gli investimenti pubblici siano indirizzati primariamente a sostenere le persone bisognose, le famiglie povere, le fasce sociali più deboli, ad assicurare a tutti adeguati servizi educativi e sanitari, a contrastare il cambiamento climatico. In quest’ottica, sarebbe opportuno riportare il tema dello sviluppo sostenibile al centro delle scelte politiche degli Stati e delle Organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea. La sottolineatura del Card. Zuppi sulla opportunità di una “Camaldoli europea” rilancia, anche sulla scorta di quanto sperimentato alla Settimana Sociale di Trieste, l’impegno personale e comunitario per la democrazia, la pace, la solidarietà e le future generazioni.
L’impegno dei cattolici in politica
I Vescovi si sono dunque confrontati sull’altissima vocazione della politica e sull’importanza di quegli spazi di riflessione, di dialogo, dove i cattolici possono riconoscersi e grazie ai quali si possono formare personalità capaci di stare nell’agone politico con dignità e coerenza. Il coinvolgimento registrato alla Settimana Sociale di Trieste e le varie iniziative che da quell’esperienza hanno preso
vita o forza dimostrano l’interesse di molti esponenti delle istituzioni nazionali e delle amministrazioni locali ad un agire politico animato dalla Dottrina sociale della Chiesa. Per i Vescovi, si tratta di un segnale positivo, soprattutto rispetto alla nota disaffezione dei cittadini alla partecipazione alla vita politica e all’astensionismo crescente. Per questo, è stato rinnovato l’invito a promuovere la partecipazione alla vita democratica attraverso le Scuole di formazione all’impegno socio-politico; a favorire la formazione alla Dottrina sociale della Chiesa; a sostenere la pastorale sociale nelle Chiese locali.
Non accade tutti i giorni che un ragazzo confidi a un amico il sogno di partecipare – un domani, da “grandi” – a un Concilio della Chiesa cattolica, e che quel desiderio si compia davvero, per tutti e due. Non accade tutti i giorni che un vescovo e patriarca si metta a scrivere “lettere aperte” non solo a “Illustrissimi” personaggi della storia o della letteratura, ma addirittura a un orso, a modo suo anch’esso illustre. E non accade tutti i giorni che due futuri Pontefici si incontrino, entrambi vescovi, e ne nasca un rapporto intessuto di amicizia e stima; e che un giorno, ad uno dei due, sia chiesto di testimoniare al processo di beatificazione dell’altro. Anzitutto, però: non accade tutti i giorni che un figlio delle Dolomiti, nato in una famiglia umile, cresciuto sperimentando in prima persona le prove e le fatiche che segnano la vita delle genti della montagna – ma anche condividendone la fede, la devozione, la spiritualità – diventi Papa. Ebbene: tutto questo, e tanto altro, è accaduto ad Albino Luciani. Come potrà scoprire chi, in quest’Anno giubilare, si farà “pellegrino di speranza” nei luoghi della vita e della missione del beato Giovanni Paolo I.
Rivolti a questi pellegrini ecco i due itinerari messi a punto dalla Fondazione Papa Luciani e dal Musal-Museo “Albino Luciani” di Canale d’Agordo (Belluno), descritti in agili guide – entrambe con la prefazione del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano – che si possono chiedere scrivendo a info@fondazionepapaluciani.com. Due proposte lanciate recentemente, assieme ad una terza, il “Giubileo dei Pontefici”, un itinerario che fra Lombardia e Veneto tocca i luoghi dei Papi lombardi e veneti del ’900 – Pio X, Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo I (di cui Avvenire ha parlato il 16 febbraio scorso: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/pellegrini-fra-lombardia-e-veneto-sui-passi-di-cin).
Il primo itinerario dedicato a Giovanni Paolo I s’intitola “Dalle Dolomiti alla Cattedra di Pietro”. Si parte da Canale d’Agordo – dove Luciani vide la luce il 17 ottobre 1912 e dove sono visitabili la casa natale, il Museo Luciani, la chiesa arcipretale di San Giovanni Battista, dove venne battezzato e ricevette i sacramenti, e altri luoghi – per toccare Feltre, Agordo, Belluno; quindi Vittorio Veneto, dove Luciani fu vescovo, poi Venezia, che lo accolse patriarca, infine Roma, dove venne chiamato a servire la Chiesa come Papa. Filo conduttore del cammino di Luciani fu il «lasciarsi guidare dalla Provvidenza» che lo portò «ad accettare di scalare vette che non aveva previsto, né voluto, a ricoprire ruoli di servizio e di responsabilità ai quali mai aveva aspirato, cercando sempre piuttosto l’ultimo posto», scrive il cardinale Parolin nella prefazione. Farsi pellegrini fra chiese, santuari, seminari e altri luoghi legati alla vita di Luciani, diventa via esemplare per riscoprirne l’umanità, la spiritualità, il magistero.
L’altra proposta s’intitola “Il Papa delle Dolomiti” ed è tutta dedicata alle chiese e ai santuari alpini ai quali Luciani era particolarmente legato. Anche questo itinerario parte da Canale d’Agordo. Da qui, «fin da piccolo», Luciani «era stato abituato dai nonni e dai genitori a compiere a piedi lunghi pellegrinaggi ai luoghi mariani più cari alle genti di montagna. Tra questi sicuramente egli era legato al Santuario della Madonna di Pietralba-Weissenstein, in Sudtirolo, e ai Santuari della Madonna di Pinè e di San Romedio, in Trentino. Negli ultimi anni da cardinale era abituato a passare alcuni giorni estivi proprio a Pietralba», sottolinea Parolin nella sua prefazione. E proprio nel Santuario di Pietralba, lo scorso 29 settembre, è stato inaugurato un dipinto che ritrae il “Papa del sorriso” sullo sfondo del Catinaccio (https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/nell-agenda-del-46-appuntamento-estivo-con-papa).
Luogo di grande fascino, visitato da Luciani come dai suoi nonni e dai compaesani, il Santuario di San Romedio è un complesso formato da più chiese e cappelle costruite sulla roccia, collegate da una scalinata di 131 gradini. In un’area verde nei pressi del Santuario, hanno avuto asilo, nel tempo, vari esemplari di orso. Un modo per rievocare un fatto leggendario. Si narra che Romedio di Thaur, l’eremita che per primo abitò questi luoghi, dovendo recarsi a Trento dal vescovo Virgilio, ebbe il cavallo sbranato da un orso. Il santo riuscì prodigiosamente ad ammansire la bestia. Che non solo divenne sua cavalcatura in quell’occasione, ma anche suo compagno fino alla morte. Ebbene: all’orso di San Romedio Luciani dedicò una delle lettere aperte a personaggi del passato raccolte nel volume Illustrissimi. E formulò una preghiera: «O Signore, addomestica me pure, rendimi più servizievole e meno orso!».
Fra i luoghi visitati da Luciani ragazzo, assieme al suo parroco e ad un amico, Saba De Rocco, in occasione di un pellegrinaggio a piedi, si ricorda Santa Maria Maggiore, la chiesa del Concilio di Trento. Davanti a un quadro che raffigura i padri conciliari (oggi è custodito al Museo Diocesano Tridentino), il futuro Papa disse all’amico: «Che bello sarebbe se un domani anche tu e io fossimo lì, in un Concilio...». Così avvenne: Luciani e De Rocco si ritrovarono, padri conciliari, alla prima sessione del Vaticano II.
L’itinerario tocca anche il Seminario di Bressanone, dove avvenne «all’inizio di agosto del 1977 il celebre primo incontro con l’allora neo arcivescovo di Monaco e Frisinga Joseph Ratzinger», ricorda Parolin. Che riprende le parole dello stesso Luciani: «Pochi giorni fa mi sono congratulato con il cardinale Ratzinger, nuovo arcivescovo di Monaco: in una Germania cattolica, ch’egli stesso deplora come affetta, in parte, di complesso antiromano e antipapale, ha avuto il coraggio di proclamare alto che “il Signore va cercato là dov’è Pietro”. Ratzinger mi è parso in quell’occasione un profeta giusto. Non tutti quelli che scrivono e parlano hanno oggi lo stesso coraggio». Il futuro Benedetto XVI, è l’«unico papa emerito ad aver testimoniato in un processo di canonizzazione, quello del suo predecessore Giovanni Paolo I», annota infine il segretario di Stato. Che riconosce come questo itinerario possa offrire «un contributo significativo per conoscere meglio la spiritualità mariana delle Dolomiti di papa Luciani». E la grandezza di un Papa «il valore del cui pontificato “è inversamente proporzionale alla sua durata”, come felicemente disse di lui il suo successore san Giovanni Paolo II».
«Da quella camera del Policlinico Gemelli non si proclamano discorsi, ma si testimonia il Vangelo con il respiro della fragilità. Papa Francesco ci sta dicendo che il dolore non è un inciampo, ma una strada da percorrere con fiducia». Il cardinale Domenico Battaglia è l’ultima porpora, in ordine di tempo, voluta da papa Bergoglio. Entrato “a sorpresa”, come ha scritto la stampa, nel novero dei cardinali che il Pontefice ha creato nel Concistoro del 7 dicembre.
Da Napoli, dove dal dicembre 2020 è arcivescovo sempre per decisione di Francesco, guarda al decimo piano del Gemelli a Roma in cui il Papa è ricoverato da quasi un mese. La sua voce flebile diffusa in piazza San Pietro che è rimbalzata in tutto il mondo ha commosso. Ma, ancora una volta, è diventata il pretesto per alimentare speculazioni mediatiche sul Pontefice e sul futuro della Chiesa. «A tutto questo si risponde con il silenzio operoso. Con la fedeltà al Vangelo. Con la vita - afferma Battaglia -. Le parole passano, la verità resta. Le fake news fanno rumore, ma la luce di chi ama brilla più forte di ogni menzogna. Francesco non ha bisogno di difendersi. La sua risposta sono i gesti, le scelte, la sua fedeltà a Cristo e ai poveri. Il futuro della Chiesa non è nei pettegolezzi, ma nelle mani di Dio. E mentre il mondo si agita, noi continuiamo a camminare con il cuore saldo e lo sguardo fisso sull’unica cosa che conta: l’amore». C’è una sorta di speciale sintonia di papa Bergoglio con Battaglia. Una vicinanza che Francesco ha testimoniato non solo con la berretta ma almeno con due gesti pubblici: nel 2021 il Pontefice ha consegnato ai vescovi italiani durante l’Assemblea generale della Cei un’immaginetta che conteneva le otto “beatitudini del vescovo” proposte da Battaglia; e nel marzo 2022, a tre settimane dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, Francesco ha letto nell’udienza generale la preghiera per la pace del futuro cardinale dal titolo “Perdonaci la guerra, Signore”.
Eminenza, come sta vivendo la degenza del Papa? E come la vive Napoli?
«La vivo con il cuore in preghiera e gli occhi pieni di speranza. Francesco ci ha insegnato che la croce non è sconfitta, ma un’altra forma d’amore. E così lo immagino lì, in quella stanza d’ospedale, con lo stesso sguardo di sempre: quello di un padre che continua a donarsi, anche nel dolore. E Napoli di questo gli è grata. E l’abbraccio della sua preghiera arriva fino a Roma. Napoli ama Francesco perché Francesco parla il linguaggio degli ultimi, perché nei suoi occhi c’è la stessa luce di chi ha conosciuto la fatica della vita ma non ha mai smesso di credere nella bellezza del domani».
Il Gemelli è oggi la nuova cattedra del Papa.
«Francesco ci insegna che non si ama solo con le parole, ma anche con il silenzio dell’attesa, con la pazienza della guarigione, con il coraggio di affidarsi».
Nella malattia c’è la preghiera personale del malato e quella comunitaria per il malato, come testimonia la “catena orante” per il Papa.
«La preghiera è il filo che lega la terra al cielo, è la mano che stringe un’altra mano, è la voce che sussurra speranza anche nel buio della notte. Quando preghiamo non siamo soli: siamo popolo, siamo famiglia, siamo parte di un amore che non conosce distanze. In questi giorni la preghiera per Francesco è diventata un’onda che attraversa il mondo, un respiro che si fa coro, un fuoco che scalda il cuore della Chiesa».
Nel messaggio che lei ha inviato in occasione del ricovero, ricorda il Vangelo della pace e della fraternità che il Papa annuncia. Come declinare la fraternità nell’Italia di oggi che appare divisa al suo interno?
«Fraternità non è solo una parola da predicare, ma una strada da percorrere, giorno dopo giorno. È scegliere di ascoltarsi prima di giudicarsi, di tendersi la mano invece di puntarsi il dito contro. È imparare a dire “noi” in un mondo che ci vuole sempre più soli, sempre più nemici, sempre più distanti. L’Italia ha bisogno di ponti, non di muri. Ha bisogno di cuori aperti, di gesti concreti, di dialoghi sinceri. La fraternità non è una teoria, è vita vissuta. Comincia dalle piccole cose: un sorriso, un perdono, un posto a tavola in più».
Nel suo messaggio, lei cita i poveri, gli ultimi, i sofferenti, particolarmente cari a papa Francesco. Poi ci sono i bambini che lasciano disegni e preghiere davanti all’ospedale.
«I bambini sono il Vangelo disegnato a colori. Nelle loro preghiere c’è la fede più vera, in quei fogli lasciati fuori dall’ospedale c’è un mondo che sa ancora sognare. Francesco lo sa, per questo li ama tanto. Perché sono loro a ricordarci ciò che spesso dimentichiamo: che la vita è un dono, che la tenerezza è una forza, che la fragilità è un invito ad amare di più. Se ascoltassimo i bambini, se imparassimo da loro, il mondo sarebbe un posto migliore».
Lei è stato nominato a gennaio membro del Dicastero per l’evangelizzazione. Anche nella fragilità si può essere annunciatori del Vangelo con la propria vita “debole”?
«Non solo si può, si deve. Il Vangelo non si annuncia dall’alto di un piedistallo, ma dal basso di un cuore ferito e innamorato. Non servono potenza, perfezione o grandi discorsi. Basta la vita, quella vera. Quella che cade e si rialza, che sbaglia e riprova, che soffre ma non smette di amare. Anche la debolezza è una parola di Dio, se la lasciamo parlare. Anche le cicatrici possono essere luce, se abbiamo il coraggio di mostrarle».
Nella società dell’efficientismo, la malattia viene nascosta. Il Papa ha chiesto trasparenza. Un’ulteriore lezione?
«Sì, ed è una lezione di verità. Viviamo in un mondo che celebra la forza e nasconde la fragilità, che esalta il successo e si vergogna della debolezza. Ma la vita è fatta di entrambe. Francesco ci sta dicendo: “Guardatemi, anche io sono fragile. Anche io ho bisogno di cura, di attesa, di speranza.” Non c’è nulla di scandaloso nell’essere deboli. Lo scandalo è fingere di non esserlo. La trasparenza del Papa è un invito a essere veri, a non temere la nostra umanità, a non vergognarci della nostra vulnerabilità».
«Studio l’ebraico, leggo la Bibbia. Alcune pagine, alcune parole mi hanno rivelato qualcosa della loro verità e mi hanno istigato a darne notizia. Non ho adattato il testo a una interpretazione, ne sono stato invece piegato. La Bibbia è almeno una letteratura e il Dio di Israele è se non altro il più grande personaggio dei tempi». Questa riflessione dello scrittore Erri De Luca, impegnato da anni in un coraggioso scavo nel testo biblico di cui cerca di restituire il più fedelmente possibile il linguaggio originale, è perentoria quanto incontestabile.
Sì, le letterature occidentali hanno spesso attinto allo scaffale del Libro dei libri, attratte dalla forza delle storie e dei personaggi biblici e offrendone a loro volta una ricca serie di originali riletture. Un testo purtroppo scarsamente conosciuto alle nostre latitudini, per molti motivi, riemerge così grazie all’opera di scrittori e poeti, ingrediente essenziale dell’ispirazione di tanti di loro. La Divina Commedia, il Paradiso perduto di Milton, la lirica vena mistica di Juan de la Cruz e Teresa di Avila, I promessi sposi, Il processo di Kafka, che riecheggia la drammatica parabola di Giobbe, stanno lì a dimostrarlo: e naturalmente non è che qualche esempio fra i maggiori, citato alla rinfusa. Se Claudel a buon diritto scrive della Bibbia come di un immenso vocabolario e T.S. Eliot di un giardino di simboli, immagini e storie, il critico Auerbach si spinge a distinguere nel sapere occidentale solo due stili fondamentali, quello della Bibbia e quello dell’Odissea: archetipi che hanno generato tutti i successivi.
«La Bibbia e Omero sono i due gran fonti dello scrivere… Non per altro se non perché essendo i più antichi, sono i più vicini alla natura, sola fonte del bello, del grande, della vita, della varietà», proclama nello Zibaldone Leopardi, che avrà in Qohelet e Giobbe i costanti punti di riferimento esistenziale e filosofico. E persino un autore poco incline a simpatie religiose come Nietzsche, in Aurora, giunge ad ammettere che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o di Petrarca c’è la stessa differenza che tra la patria e la terra straniera».
Un’accelerazione del dibattito sugli intrecci fra Bibbia e letteratura si è registrata con l’uscita nel 1986 del volume del critico canadese Northrop Frye Il grande codice: una formula divenuta presto di uso comune. Il titolo riprende una felice considerazione del poeta visionario inglese William Blake, secondo cui «l’Antico e il Nuovo Testamento sono il grande codice dell’arte»: una sterminata unità testuale che ha dato forma, a livello di linguaggio, miti, metafore, schemi e tipologie, a tanta letteratura, attraversando secoli e movimenti culturali; un gigantesco laboratorio di creatività che ha favorito la persistente fecondità del mito biblico. Frye sostiene con molti esempi che il rapporto fra Bibbia e letteratura può intendersi in vari modi, analizzando la teoria estetico-letteraria che emerge dalla Scrittura, riflettendo sul fatto che essa si presenta a sua volta come prodotto letterario, o cogliendo il testo biblico come generatore di letteratura, da indagare nella storia dei suoi effetti di senso.
Alle analisi esegetiche, perciò, sarebbe fecondo abbinare gli esiti della Bibbia sulla tradizione teologica o spirituale a quelli su romanzi e poesie. Si tratta, è evidente, di un’impresa ciclopica: la lettura infinita è lo slogan caro al cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del Dicastero vaticano per la Cultura e l’educazione. Va ricordato, poi, che i due termini, Bibbia e letteratura, non sono innocenti o neutri, ma complessi e intrinsecamente plurali: si pensi alle differenze nel canone fra le varie confessioni cristiane e con l’ebraismo, e alla letteratura in quanto sistema, nel suo statuto epistemologico costitutivo. La loro relazione è dunque ben più densa di quanto non appaia a prima vista, non esaurendosi nella trama dei rapporti fra deposito e prestito, matrice e copia. Il fare letteratura, infatti, evitando l’uso apologetico e moralistico della Scrittura e distanziandosi da un ipotetico senso oggettivo, rielabora e trasforma la narrazione biblica, ce la restituisce gravida di nuovi interrogativi e versioni, la plasma, la reinterpreta, la piega alle esigenze dell’attualità, riproponendola in nuove modalità.
La direzione, perciò, non è solo quella lineare che procede dalla Bibbia alla letteratura, ma quella che crea una circolarità tra i materiali biblici e le loro riprese letterarie, riportando il lettore al punto di partenza, nel cuore della Scrittura stessa. Fino a giustificare l’ipotesi che la letteratura possa rappresentare un luogo teologico privilegiato, auspicio formulato nel 1976 su Concilium da J.-P. Jossua e J.B. Metz: «Bisogna arrivare a chiedersi qual è il contributo che unicamente la letteratura può dare, cercare ciò che nessuna teologia concettuale saprebbe dire e che invece la letteratura esprime, a modo suo, con potenza».
teologo e saggista
È una tendenza che si va consolidando. In Italia quasi quattro persone su dieci (il 38,16% della popolazione secondo recenti stime) scelgono di farsi cremare. Un’opzione che la Chiesa, dopo averla bocciata a lungo, oggi accetta pur continuando a consigliare la sepoltura. Ma quali sono le ragioni che portano alla decisione di essere cremati? Quali i motivi, di fede innanzitutto, che spingono la Chiesa a prediligere la sepoltura? E, ancora, ci sono limiti “di natura religiosa” alla cremazione? Sono le domande cui risponde il nuovo episodio del podcast “Taccuino celeste”, dai richiami alla Scrittura ai più recenti documenti magisteriali fino alla presentazione della figura di san Giuseppe d’Arimatea, il patrono di chi lavora nell’ambito dei funerali, come i necrofori e gli addetti alle pompe funebri. La Cartolina da Camaldoli, curata dai monaci benedettini della comunità toscana, riflette sul tema dell’episodio e invita soffermarsi sull’importanza dei cimiteri.
Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Anche a Sanremo 2025 si citano passi biblici o si recitano versetti di salmi in aramaico, ma le nuove generazioni rischiano di non saper riconoscere, apprezzare e valutare questi riferimenti. L’analfabetismo biblico, piaga diffusa in Italia, preclude infatti la comprensione di innumerevoli elementi della nostra cultura quotidiana: dall’arte all’architettura, dal linguaggio popolare alle festività. Come interpretare il patrimonio letterario e filosofico o i valori della Costituzione senza possedere le chiavi di lettura fornite dalla Bibbia? E come favorire l’integrazione di chi proviene da altre tradizioni religiose se non siamo in grado di spiegare le radici della nostra identità culturale?
L’annuncio del ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara riguardo alle nuove Indicazioni nazionali per il primo ciclo, che prevedono l’inclusione delle Sacre Scritture nei programmi scolastici a partire dal 2026-2027, potrebbe finalmente andare incontro ad un’esigenza segnalata da decenni da intellettuali ed esponenti dell’ebraismo e delle Chiese cristiane, ma anche laici. Anzi, a dirla tutta, stupisce che l’inclusione non riguardi anche il secondo ciclo d’istruzione, quando gli studenti consolidano il loro bagaglio culturale, etico e critico; l’elemento biblico, uscendo da un immaginario infantile o favolistico, potrebbe contribuire alla loro formazione integrale come cittadini consapevoli e responsabili.
Anche Gesù in un passo riportato da Luca risponde a un dottore della Legge che lo interrogava: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (Lc 10,26). Il punto decisivo è il come di questa lettura, di questa introduzione biblica nel percorso formativo di bambini e ragazzi. Sarebbe inappropriato un approccio confessionale o identitario che potrebbe essere letto come chiusura ad altre culture. D’altra parte, a differenza dei poemi omerici, la Bibbia è testimone di una storia che dura ancora adesso e nutre la fede di milioni di persone in Italia. Tenendo conto di tutti i rischi dell’operazione si tratta comunque di una grande opportunità per sottrarre i testi biblici dall’oblio o dall’uso strumentale di cui anche la storia recente mostra esempi.
È fondamentale che lo studio della Bibbia nelle scuole sia condotto da persone in grado di offrire un approccio storico-critico (come raccomandato da più di trent’anni anche dalla Pontificia Commissione Biblica), contestualizzando i testi ed evitando letture che potrebbero risultare fuorvianti, portatrici di discriminazioni o violenze.
Nelle aule scolastiche, l’approccio alla Bibbia potrebbe essere multidisciplinare, coordinato da docenti preparati in tal senso. In letteratura o storia dell’arte, per esempio, molte opere classiche e contemporanee attingono a temi, simboli e narrativa biblici. Persino nelle scienze sociali, la comprensione di molti fenomeni storici e sociologici può essere arricchita dalla conoscenza dei testi biblici e del loro impatto sulle società. Per gli studenti più grandi lo studio della Bibbia potrebbe essere un’opportunità per sviluppare il pensiero critico, analizzando i testi e stimolando la capacità di indagine e il confronto tra diverse visioni del mondo, anche studiando la storia delle interpretazioni e dei loro effetti, ad esempio riguardo la condizione delle donne nella società.
Comprendere le radici bibliche non solo del cristianesimo, ma anche dell’ebraismo e, in parte, dell’islam, può favorire una maggiore comprensione e rispetto reciproco tra diverse comunità religiose e culturali, qualcosa di essenziale in una società – e in classi – sempre più multiculturali. Le scuole potrebbero organizzare progetti che mettano a confronto testi sacri di diverse tradizioni, evidenziando somiglianze e differenze. Questo approccio contribuirebbe a formare cittadini più consapevoli, capaci di muoversi in un mondo globalizzato e plurale. Lo studio della Bibbia potrebbe intrecciarsi anche con l’educazione civica. Molti principi etici e valori che sono alla base delle moderne democrazie hanno radici nelle tradizioni bibliche. Esplorare questi collegamenti potrebbe aiutare gli studenti a comprendere meglio le fondamenta etiche della società contemporanea e stimolare riflessioni sul concetto di giustizia, uguaglianza e responsabilità sociale. Le maggiori sfide all’introduzione di uno studio più approfondito della Bibbia nelle scuole riguardano la formazione di persone che possano fare una tale proposta in modo equilibrato e rispettoso delle diverse sensibilità, ma anche la concreta integrazione di questo studio nel già denso curriculum scolastico.
Le sfide sono reali, ma superabili con un approccio serio e innovativo. L’uso di tecnologie digitali, come piattaforme interattive e risorse multimediali, può rendere l’esplorazione dei testi biblici più accessibile e stimolante. La chiave sta nel presentare la Bibbia come un testo di rilevanza culturale universale, un prisma attraverso il quale esplorare la complessità del pensiero umano, dell’etica e della creatività, ma anche come specchio per comprendere sé stessi, aspetto essenziale nella crescita di giovani che speriamo sempre più protagonisti nell’incontro e comprensione tra i popoli.
biblista e insegnante di religione
«L’anno giubilare è già iniziato da qualche mese – scrive Luigino Bruni nella riflessione di questa pagina –. Per pochi di noi è però iniziato un tempo diverso. (...) Nelle prossime settimane faremo, con questa nuova serie di articoli,un pellegrinaggio attraverso lo spirito del Giubileo, nella sua economia della gioia ». Ogni due martedì, a partire dall'11 marzo, l’economista caro ai lettori di Avvenire ci accompagnerà dentro il cuore biblico del Giubileo.
Il Giubileo biblico era soprattutto una faccenda economica e sociale. L’annuncio di un anno diverso, straordinario, quando si liberavano gli schiavi, si restituiva la terra ai proprietari originari, si rimettevano i debiti. La parola giubileo proviene dalla parola ebraica Jôbel, il suono del corno di montone con cui si aprivano alcune grandi feste. Ma forse vi è anche una eco di un’altra parola ebraica, jabal, che significava “restituire, mandar via”, che sottolinea le dimensioni sociali ed economiche. Il Giubileo era infatti un anno sabbatico al quadrato, che avveniva ogni sette anni sabbatici, quindi ogni 49 anni, arrotondati a 50.
Per capire il Giubileo cristiano occorre dunque guardare al Giubileo biblico, e per comprendere questo occorre partire dall’anno sabbatico e quindi dallo shabbat, dal sabato. Il luogo della Scrittura fondamentale è il capitolo 25 del Levitico. Lì troviamo i tre pilastri del Giubileo: la terra, i debiti, gli schiavi. Nel Giubileo si dovevano compiere, con maggiore radicalità, i gesti di fraternità umana (debiti e schiavi) e cosmica (terra e piante) che si celebrano ogni sette anni nell’anno sabbatico. In quell’anno speciale la terra deve riposare. Inoltre, se un pezzo di terra è stata alienata da una famiglia per bisogno ciascuno rientra nella proprietà precedente: «Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia... Non farete né semina né mietitura, né farete la vendemmia delle vigne non potate... Potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Lv 25,10-12). Poi i debiti: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è inadempiente verso di te sostienilo come un forestiero o un ospite, perché possa vivere presso di te. Non prendere da lui interessi né utili... Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura» (Lv 25,35-37).
Nelle norme sul Giubileo non si parla esplicitamente della remissione o cancellazione dei debiti, perché essendo il Giubileo un anno sabbatico si dà per scontato ciò che già si doveva fare ogni sette anni: «Alla fine di ogni sette anni celebrerete la remissione. Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore che detenga un pegno per un prestito fatto al suo prossimo, lascerà cadere il suo diritto» (Dt 15,1-2). Infine, gli schiavi: «Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te... ti servirà fino all'anno del giubileo; allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri... Se ne andrà libero l'anno del giubileo: lui con i suoi figli» (Lv 25,39-41,54). E nel libro del Deuteronomio abbiamo dettagli importanti: «Se un tuo fratello si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio» (15,12-14). Non solo lo schiavo sarà liberato, ma la liberazione sarà accompagnata dall’eccedenza del dono. Non si deve restare debitori per sempre, non si è schiavi per sempre: solo per sei tempi, non per il settimo.
L'anno sabbatico segue la stessa logica dello shabbat (sabato), questa stupenda istituzione dell’Antico Testamento senza la quale non si coglie l’umanesimo biblico. Lo shabbat è l’icona massima di quel principio caro a papa Francesco: il tempo è superiore allo spazio, perché ponendo un sigillo di gratuità su un giorno della settimana ha sottratto il tempo al dominio assoluto e predatorio degli uomini: «Per sei giorni farai i tuoi lavori, ma nel settimo giorno ti cesserai, perché possano riposare il tuo bue e tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e lo straniero » (Es 23,11-12). Se in un giorno non puoi sfruttare i tuoi animali, la terra, il lavoratore dipendente, lo straniero, te stesso, allora tu, homo sapiens, non sei il dominus del mondo. Sei solo un suo abitante, come tutti gli altri: hai più potere ma non sei il padrone della terra, del lavoro, degli animali, degli alberi, degli oceani, dell’atmosfera. Perché la terra è sempre terra promessa mai raggiunta, perché ogni bene è un bene comune. E lo è anche quel pezzo di terra della nostra casa, lo sono anche i beni che abbiamo legittimamente acquistato sul mercato, lo è anche il nostro conto in banca.
Prima della proprietà privata nel mondo esiste una legge di gratuità più profonda e generale che riguarda tutto e tutti, profezia radicale di fraternità umana e cosmica. La terra non è “la roba” di Mazzarò (G. Verga), i lavoratori non sono schiavi né servi, gli animali non valgono soltanto in rapporto a noi: prima di tutto ogni cosa vale in rapporto a sé stessa. Perché, per la Bibbia, ogni proprietà è imperfetta, ogni dominio è secondo, ogni contratto è incompleto, nessun uomo è veramente e soltanto straniero, la fraternità viene prima dei debiti e dei crediti, e ne cambia la natura. Lo shabbat è allora caparra di un altro tempo, del “settimo tempo” di Gioacchino da Fiore e dei francescani, di un tempo messianico quando tutto e tutti saremo solo e sempre shabbat. È quindi la distanza tra la legge dell’anno sabbatico e quella degli altri sei il primo indicatore del capitale etico e spirituale di una civiltà, di ogni civiltà. È la distanza tra il cittadino e il forestiero, tra i nostri diritti e quelli di ogni creatura, tra la terra che uso oggi e quella che lascio ai figli, che dicono la qualità morale della società umana. Quando invece ci dimentichiamo che esiste un giorno diverso e libero che non è in nostro controllo, la terra non respira più, gli animali e le piante valgono solo se messi a reddito, gli stranieri non diventano mai persone di casa, le gerarchie diventano spietate, i leader non sono mai follower, il lavoro non è mai fratello lavoro ma solo schiavo o padrone.
Gesù aveva ben presente il Giubileo, come ci ricorda Luca, che ci mostra Gesù appena tornato a Nazareth che nella sinagoga legge il capitolo di Isaia relativo proprio all’anno giubilare: «Lo Spirito del Signore è sopra di me... e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19). Un «anno di grazia del Signore» (aphesis), cioè un anno di liberazione: un anno giubilare. Gesù criticava uno shabbat che stava perdendo profezia per dirci che il Regno dei cieli è uno shabbat perenne, un settimo tempo che diventa tutto il tempo nuovo. Ciò che il Deuteronomio assegna all’anno sabbatico – «Che non vi siano dei poveri in mezzo a voi!» (Dt 15,4) – nella nuova comunità del Regno diventerà regola di vita ordinaria: «Tra i credenti, nessuno era nel bisogno » (At 4,34). È probabile che il popolo d’Israele non celebrò l’anno giubilare lungo la sua storia: ce lo dicono anche le ripetute denunce dei profeti per gli schiavi non liberati, i debiti non rimessi e le terre non restituite. Neanche i cristiani sono riusciti a fare della comunione dei beni la loro economia normale, non sono entrati nell’economia sabbatica del Regno.
Se l’Occidente avesse preso sul serio la cultura del Giubileo non avremmo generato il capitalismo o sarebbe stato molto diverso. Il nostro capitalismo è diventato, infatti, l’anti- shabbat, la sua negazione, il suo anticristo, la sua profezia all’incontrario: «Il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono “giorni feriali”; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante” (W. Benjamin, Il capitalismo come religione, 1921). Non conosce riposo, il lavoro non si toglie mai il suo giogo; nessuna ora, nessun giorno, nessun tempo è diverso dagli altri, la terra è solo una risorsa da sfruttare, meglio se diventa terre rare. La presenza dell’anno giubilare è nella Bibbia il suo principale dispositivo anti-idolatrico. Una civiltà che consuma tutto il tempo come merce è tecnicamente idolatrica, perché facendosi padrone di tutti i giorni e di tutti i tempi fa di sé stessa l’unico dio da venerare. Il capitalismo è idolatria perché ha segnato la morte definitiva del settimo tempo, ha divorato shabbat e domenica trasformandoli nel week-end, che è l’apoteosi del consumismo.
L'anno giubilare è già iniziato da qualche mese. Per pochi di noi è però iniziato un tempo diverso. Non stiamo facendo respirare la terra, non stiamo liberando nessun debitore e nessuno schiavo. Nelle prossime settimane faremo, con questa nuova serie di articoli, un pellegrinaggio attraverso lo spirito del Giubileo, nella sua economia della gioia. Forse il popolo d’Israele scrisse le norme sull’anno giubilare per fare memoria della grande liberazione dall’esilio babilonese, quindi il ritorno degli schiavi a casa e la restituzione della terra. L’enorme trauma dell’esilio babilonese divenne un anno giubilare forzato che Israele fu costretto finalmente a vivere dopo averlo dimenticato per molto tempo: «Nabucodonosor deportò a Babilonia quanti erano scampati alla spada... fino a che il paese avesse goduto dei suoi sabati» (2 Cronache 36, 20). Fu nell’esilio dove il popolo imparò il Giubileo. Saremo anche noi costretti a imparare un’altra economia della terra e delle relazioni sociali da questo esilio ecologico e dalle nuove guerre? l.bruni@lumsa.it
«Rinnoviamo la richiesta di iniziative che restituiscano speranza» ai detenuti. Come nuove «forme di amnistia o di condono della pena», ma anche come «percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un reale impegno nell’osservanza delle leggi». Il cardinale Matteo Zuppi si rivolge a chi ha ruoli di responsabilità. E, parlando dei gesti del Giubileo perché «questa opportunità non si riduca a una successione di celebrazioni esteriori», riprende l’invito di papa Francesco nella bolla di indizione dell’Anno Santo a compiere azioni politiche e sociali a favore di chi vive dietro le sbarre, soprattutto in penitenziari come quelli italiani segnati dal sovraffollamento e diventati teatri di suicidi. Un appello che Zuppi lancia nella sua introduzione ai lavori del Consiglio permanente della Cei che si tiene da oggi a mercoledì a Roma. Nel suo intervento il cardinale presidente si sofferma sul «cantiere dell’Europa», come lo definisce, sull’impegno per la pace, sul Cammino sinodale della Chiesa italiana, ma anche sul «male dei nazionalismi», sulla crisi degli organismi internazionali, sul «linguaggio aggressivo» della politica, sull’urgenza di avere «uomini saggi».
Ma il primo pensiero, in apertura dell’incontro, va a papa Francesco ricoverato dal 14 febbraio al Policlinico Gemelli. «Vogliamo far arrivare al Papa l’attaccamento e la preghiera dell’intera Chiesa in Italia, perché senta forte la nostra vicinanza filiale insieme con la consolazione del Padre buono, che sempre si prende cura dei suoi figli, soprattutto nei momenti più difficili della vita», dice Zuppi. E aggiunge: «In questa condizione di fragilità la sua figura diventa ancor di più motivo di comunione». Poi sottolinea: «Il popolo cristiano lo ama e siamo colpiti dal fatto che pure non credenti e fedeli di altre religioni si uniscano all’invocazione per la sua salute, considerandolo un apostolo di pace e di spiritualità».
Tema a cui Zuppi dedica ampio spazio nell’introduzione ai lavori è quello della pace. Il cardinale arcivescovo di Bologna ribadisce che c’è «un popolo» che «non solo prega per la pace e la chiede con forza, ma anche pensa al post-guerra: se vuoi la pace, prepara la pace! È questo il vero investimento di cui oggi abbiamo bisogno». Il tutto mentre «il mondo si trova immerso nella tragedia della guerra». E spiega: «Trepidiamo per la situazione in Medio Oriente e temiamo per la fragile tregua su Gaza. Bisogna che tutti rispettino gli accordi». Inoltre, «ci sono guerre all’interno di un popolo, come in Sudan, nel nord del Congo e, nelle ultime ore, in Siria, paesi - tra l’altro - in cui l’impegno ecclesiale italiano è importante». Poi c’è il fronte dell’Ucraina, conflitto che vede Zuppi inviato del Papa cui ha affidato la sua missione di pace. «Guardiamo con attenzione e speranza al possibile dialogo tra Ucraina e Russia, mentre auspichiamo che questo possa segnare una nuova stagione per tutti quei Paesi - tra cui Stati Uniti, Europa e Cina - che, a vario titolo, sono coinvolti nella ricerca della pace. Finalmente si muovono passi per la pace». Quella del presidente della Cei è un’apertura di credito. Anche se aggiunge: «Il linguaggio, quello internazionale e quello della comunicazione, è divenuto molto duro, mirando a colpire o screditare più che a creare le basi del dialogo. Parole come armi e parole senza o con poca verità». Per questo, afferma Zuppi, «la via della pace è sempre quella del dialogo, che oggi assume anche i connotati del multilateralismo». Come a dire: non può essere solo un’intesa fra Stati Uniti e Russia a determinare le sorti di un Paese aggredito o, addirittura, quelle di gran parte del mondo. E il cardinale dice di apprezzare «lo sforzo del Governo italiano nel suo intento di connettere la crescita di responsabilità europea al dialogo intra-occidentale per la ricerca di una pace giusta e duratura e l’indispensabile visione multilaterale nella soluzione dei conflitti». Compito della comunità ecclesiale, chiarisce il cardinale, è promuovere una cultura di fraternità. «La Chiesa, tra la preghiera, la vita comunitaria e la solidarietà» intende formare «uomini e donne di pace» che rappresentano «vere risorse per la società, segnata da solitudine, competizione, conflittualità».
?Altro capitolo che sta a cuore a Zuppi è l’Europa. «Dobbiamo investire nel cantiere dell’Europa che non sia un insieme di istituzioni lontane», ma una «madre della speranza di un futuro umano» che «non rinunci mai a investire nel dialogo come metodo per risolvere i conflitti, per non lasciare che prevalga la logica delle armi, per non consentire che prenda piede la narrazione dell’inevitabilità della guerra, per aiutare i cristiani e i non-cristiani a mantenere vivo il desiderio di una convivenza pacifica, per offrire spazi di dialogo nella verità e nella carità». Insomma, un’Europa che non punta soltanto sul riarmo, come invece viene dichiarato in questi giorni. E il presidente della Cei rilancia una «Camaldoli europea» come risposta ai nazionalismi che sono «in contraddizione con il Vangelo», che vestono «nuovi panni», che soffiano «in tante regioni», che dettano «politiche», che indicano «nemici». Un «demone» che «non è amore per la patria, ma chiusura miope ed egoistica». In quest’ottica il cardinale valuta positivamente il nuovo protagonismo laicale scaturito dalla Settimana Sociale di Trieste dello scorso luglio: «Mi pare che, nei nostri ambienti, specie tra i giovani, ci sia voglia di dare un contributo in linea con il Vangelo, la nostra storia, il pensiero sociale della Chiesa. È il momento».
C’è, poi, il Cammino sinodale in Italia che sta compiendo i passi conclusivi. I prossimi sono la seconda Assemblea sinodale dal 31 marzo al 3 aprile a Roma; e l’Assemblea generale dei vescovi italiani a maggio, dal 26 al 29 maggio, dove sarà presentato il Documento finale. È «un lavoro corale» che «ci sta insegnando anzitutto un metodo ecclesiale, fatto di condivisione, partecipazione, pazienza e visione profetica», afferma Zuppi. Ed è anche una via nuova rispetto a «un mondo che cerca facili e rapide soluzioni e che tende a delegare ad un singolo le scelte che ricadono su tutti», un mondo «che ha come registro l’ignorante e rozza polarizzazione, l’esibizione della forza come metodo per risolvere i problemi». Invece, avverte il cardinale presidente, «il Cammino sinodale sta raccontando una possibilità diversa: quella di leggere e capire la realtà e di decidere insieme, nelle varie ma complementari responsabilità, ciò che è meglio per il futuro di tutti e che è chiesto a tutti».
La fede ha una dimensione personale ma si fonda anche sulle relazioni. Per questo quando una persona fa bene il bene a migliorare è l’intera comunità. Al contrario il male penalizza, assieme a chi lo compie, quanti ne condividono il cammino. Le colpe, gli errori, i peccati hanno per così dire sempre una ricaduta collettiva rovinando o comunque rendendo più fragile il tessuto comunitario, dei rapporti interpersonali. Fortunatamente si può cambiare marcia e invertire la rotta. Il Signore, insegna la Chiesa, perdona sempre chi lo accosta purché si penta e sia disponibile a cercare con serietà la sua volontà. Facile, qualcuno dirà. In realtà non lo è per niente. Se, infatti, esiste una cosa complicata in questo mondo, è domandare e dare perdono. Non a caso, in questa preghiera, il cardinale Carlo Maria Martini (1927-2012) arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, invoca perdono non solo per sé ma anche per tutti coloro che non hanno la forza e il coraggio di chiederlo.
«Adorando insieme la croce, segno della nostra salvezza,
chiediamo umilmente perdono per noi,
per le colpe di cui noi ci siamo macchiati;
chiediamo perdono anche a nome di tutti coloro che non sono qui
e non sanno chiedere perdono al Signore per le loro colpe.
Essi non sanno di quanta gioia e di quanta pace
il loro cuore sarebbe pieno se sapessero farlo.
Chiediamo perdono a nome di tutta l'umanità,
del tanto male commesso dall'uomo contro l'uomo,
del tanto male commesso dall'uomo
contro il Figlio di Dio, contro il salvatore Gesù,
contro il profeta che portava parole di amore.
E mettiamo la nostra vita nelle mani del crocifisso
perché egli, redentore buono, redima e salvi il nostro mondo,
redima e salvi la nostra vita col conforto del suo perdono».
Non l’ennesima biografia del Poverello di Assisi, ma un libro che cerca di indagare cosa renda ancora attuale un uomo, un santo vissuto nel 1200 per l’uomo di oggi. È l’obiettivo del libro scritto dall’arcivescovo di Torino e vescovo di Susa, il cardinale Roberto Repole, che si intitola «Sperare è ancora possibile - Il messaggio di san Francesco d’Assisi in un’epoca di cambiamenti» (a cura di Domenico Agasso, Piemme, pagine 160, euro 18,90). Nella sua ricerca l’autore mostra come «san Francesco ha saputo adeguarsi alle trasformazioni del proprio tempo, incarnando un modello sorprendente di adattamento e resilienza; il suo messaggio, tramandato nelle generazioni, può accompagnarci oggi verso le prove che ci attendono».
Non un personaggio relegabile nei secoli passati, ma una presenza vibrante che parla ancora e direttamente agli uomini e alle aspirazioni del nostro tempo. Venerato come patrono dei commercianti, dei tappezzieri, degli ecologisti, degli animali, oltre che dell’Italia, il «santo poverello» ha ancora oggi un’attualità probabilmente dovuta al suo essere un radicale evangelico e un profeta della «rivoluzione» dei valori cristiani: Francesco seppe affrontare nella logica del Vangelo i cambiamenti della sua epoca storica e per questa sua capacità continua a ispirarci oggi, di fronte alle grandi e sorprendenti trasformazioni del mondo contemporaneo.
Per questo è utile e straordinariamente interessante «leggere» Francesco come bussola capace di orientarci nelle sfide cui è sottoposta l’umanità in questo inizio del terzo millennio. Come ricorda di frequente un altro Francesco, il Papa, oggi non ci troviamo a vivere semplicemente in un’epoca di cambiamento: siamo nel mezzo di un più radicale cambiamento d’epoca. Esso coinvolge il nostro modo di essere uomini, i valori di riferimento, gli stili di vita, i rapporti intergenerazionali, le relazioni tra popoli, il modo di esistere e trasmettere il Vangelo della comunità dei credenti in Cristo. Rispetto alle sfide che siamo chiamati ad affrontare, che cosa può dirci san Francesco? Rappresenta un interlocutore illuminante e un compagno di viaggio che ci aiuta a orientarci?
Sì, assolutamente sì. Di fronte alle trasformazioni della sua epoca, egli seppe incarnare un grande modello di adattamento e di resilienza. La sua capacità di discernimento tra le nuove idee e la saggezza tradizionale ci insegna ancor oggi l’importanza di equilibrare l’innovazione (oggi soprattutto quella tecnologica) con la continuità. Attraverso il suo esempio, comprendiamo che ogni tempo è illuminato dalla presenza di Cristo e dello Spirito, e questo offre la serenità per affrontare le metamorfosi culturali, sociali ed ecclesiali. Anche le più dirompenti.
Se oggi il nostro pensiero appare minacciato dal nichilismo culturale, la testimonianza di Francesco ci fa scoprire che la fede non è solo una formalità, ma una scelta esistenziale, che può trasformare il mondo. In meglio. Francesco ci invita a ritornare alle radici del Vangelo, a una fede pura e senza fronzoli. In questo terzo millennio in cui Dio sembra essere diventato l’assente principale, in particolare nella società occidentale, il richiamo del santo di Assisi al radicalismo evangelico risuona con urgenza. La sua scelta di abbracciare la povertà – che diviene antidoto alle disparità – unita al suo modello di uso responsabile delle risorse, ci sollecita a considerare la vera essenza del «possesso». Impariamo che la reale grandezza dell’uomo risiede nell’amore e nella compassione; non nel possedere, ma nell’usare per il bene degli altri.
Nel contesto materialista del capitalismo contemporaneo, la figura del santo di Assisi emerge come una voce di umanità contro il virus del cinismo. Le sue idee e il loro impatto ci aiutano a tracciare il nostro percorso verso una società più equa, solidale e orientata alla fraternità universale. Siamo in un tempo segnato dall’avidità, dalla frenesia, dai miti del successo economico e della fama, ma l’immagine di Francesco ci fa intravedere l’alternativa. Ci insegna che la vera ricchezza non risiede nell’accumulo di beni materiali, ma nell’apertura del cuore e nella condivisione con gli altri. La sua decisione di «sposare» la miseria materiale – non come una privazione, ma come una via di liberazione – ci spinge a rivalutare il nostro rapporto con il denaro e con le cose materiali. E ci dimostra che è possibile essere pienamente felici senza disporre di molto, imparando a praticare la semplicità e diffondere il senso della gratitudine.
Di fronte agli slogan del consumismo, Francesco ci aiuta a riflettere sulla distinzione tra l’essere e l’avere: ci avverte che, concentrandoci esclusivamente sull’avere, finiremo per consumarci e ci sentiremo deteriorabili come le cose che possediamo. La povertà, intesa come stile di vita, ci indicherà invece come riconsiderare i nostri valori, individuando che cosa conta veramente.
E poi c’è il suo «grande sogno»: una fraternità universale che celebra le diversità umane. Di fronte alle grandi discussioni del nostro tempo sulla globalizzazione e sui fenomeni migratori, la visione francescana dell’accoglienza e dell’integrazione fra culture diverse ci interpella e ci incoraggia. San Francesco cammina per le strade di un mondo segnato da grandi cambiamenti, ma, invece di ritirarsi, si innamora della sua contemporaneità e diffonde, e condivide, il suo messaggio di amore e compassione verso tutti. La sua visione di una fratellanza universale, che accoglie e celebra le differenze tra le persone, è più rilevante che mai in mezzo agli spettri odierni delle divisioni e delle discriminazioni. Ci scandisce a chiare lettere che siamo tutti parte della stessa famiglia umana, e che dobbiamo imparare a vivere insieme in armonia e rispetto reciproci, altrimenti si va verso l’autodistruzione dell’umanità. La fraternità non è ovviamente «uniformità», ma armonia nelle differenze. Questo significa accettare, ma anche valorizzare le varie identità e vocazioni. Vale nella società civile, ma anche all’interno di quella comunità singolare che è la Chiesa.
Infine, un aspetto cruciale dell’opera di Francesco riguarda la riforma della Chiesa. La vita del santo si svolge in un momento di trasformazione politica e sociale, con il vecchio ordine feudale che cede il passo al sistema delle città e del mercato. La Chiesa partecipa al grande cambiamento con la riforma gregoriana e con il sorgere di nuovi ordini religiosi, ma fatica a interpretare appieno i segni dei tempi nuovi, cadendo talvolta nella tentazione di privilegiare il potere temporale e il denaro rispetto alla spiritualità e alla missione evangelica. I movimenti religiosi alternativi, come i catari e i valdesi, mettono in luce la necessità di una riforma più radicale e autentica. Ecco che Francesco ci spiega – con parole e soprattutto gesti e azioni – che la vera riforma deve nascere dall’interno, dalla trasformazione personale e comunitaria. La sua visione di una Chiesa fraterna, in cui ciascuno vive e agisce per il bene dell’altro, rappresenta una sfida radicale per un’istituzione spesso tentata dal potere e dal prestigio. È in questa situazione che il santo si distingue come una figura profetica, capace di cogliere il cuore del Vangelo e di viverlo concretamente nella realtà, nella quotidianità.
L’auspicio è che il confronto con Francesco nelle pagine di questo breve libro ci renda più capaci di percepire il peso della nostra responsabilità nel tempo che stiamo vivendo. La storia non è un destino già scritto. Il tempo attuale non deve necessariamente aprirci scenari di morte, di guerra e di disperazione. La vicenda di Francesco, di tanti secoli fa, ci dice che è ancora possibile sperare. A condizione di sentirci profondamente vivi; a condizione di non estraniarci dal mondo e dall’umanità dentro i quali viviamo; a condizione di percepire tutta la ricchezza e la responsabilità del nostro essere donne e uomini.
cardinale arcivescovo di Torino e vescovo di Susa
Il Dizionario di dottrina sociale della Chiesa è la rivista nata nel 2021 per comprendere meglio “le cose nuove del XXI secolo” attraverso il dialogo tra la ricerca scientifica e l’insegnamento sociale della Chiesa. La pubblicazione viene curata dal Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Il numero di dicembre 2024 include sei nuovi contributi, tra cui un articolo sulla riduzione del debito estero dei Paesi più poveri, questione al centro del Giubileo 2025. Di seguito la presentazione del fascicolo.
Mauro Megliani approfondisce il tema del debito estero in relazione alla giustizia climatica: facendo eco all’appello di Papa Francesco rivolto alle nazioni più benestanti, ribadito nel messaggio per la COP29. Il debito estero dei Paesi più poveri è divenuto insostenibile a causa di conflitti e pandemie, e si è accresciuto a causa della necessità di reperire risorse per mitigare gli effetti del cambiamento climatico. Di fronte a tale situazione, la Chiesa può indicare nelle conversioni del debito la strada per ristabilire una giustizia più equa fra le nazioni. Tali conversioni sono giustificate dal fatto che, nel caso di debito insostenibile, è necessario assicurare i servizi essenziali per la popolazione, mentre nel caso di debiti contratti per far fronte a cambiamenti climatici e ambientali l’onore finanziario dovrebbe essere sopportato da chi ha causato la situazione sulla base della giustizia climatica.
Giulio Guarini nel suo articolo si propone di delineare il potenziale circolo virtuoso tra abbondanza e condivisione che può rendere generativo lo sviluppo economico, alla luce dell’Economia Sabbatica e del principio della destinazione universale dei beni. Vengono illustrati i fattori che promuovono o ostacolano questo potenziale circolo virtuoso, con riferimento alla dicotomia tra ricchezza accumulata e abbondanza condivisa, al fine di offrire una chiave di lettura per comprendere alcune criticità dell'economia attuale, valutarne la gravità e proporre percorsi di riforma.
Simone Carlo si sofferma su media digitali e condizione anziana, mettendo in dialogo Magistero e ricerca sociologica. L’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (computer, tablet, smartphone) da parte delle persone anziane costituisce un ambito di ricerca e riflessione ormai consolidato. Ma al di là dell’entusiasmo iniziale attorno ai (a volte lenti) processi di diffusione delle tecnologie anche tra la popolazione anziana, l’accademia deve continuare a riflettere sulle diseguaglianze (tra over 65 connessi e non connessi) favorite dalla rapida digitalizzazione dei media e dei servizi.
Andrea Avellino e Rocco Salemme presentano le possibilità di un’alleanza feconda a scuola tra educazione civica e dottrina sociale della Chiesa, grazie all’insegnamento della religione cattolica (IRC). Dal 2020, infatti, la scuola italiana annovera nella sua proposta formativa l’educazione civica: una disciplina trasversale che si prefigge di tracciare un percorso per formare cittadini responsabili. Quest’obiettivo intercetta le finalità della dottrina sociale, che mira “alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” e che gode, nelle istituzioni scolastiche, di un mediatore privilegiato: l’Insegnamento della religione cattolica. Ma quali sono, dal punto di vista normativo e metodologico, le potenzialità sottese dalla collaborazione sinergica dei tre àmbiti disciplinari?
Infine, il fascicolo ospita la traduzione italiana del contributo di Joseph H.H. Weiler, suddiviso in prima e seconda parte, pubblicato in inglese a settembre 2024. La libertà di religione include anche la libertà dalla religione. In questo senso primordiale Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno sostenuto il primato della libertà religiosa tra tutte le libertà. In particolare, leggere Weiler aiuta a mettere a fuoco il tema, caldissimo, dell’obiezione di coscienza nelle nostre società plurali.
Alcuni giocatori pellegrini, un dado, un cartellone, delle cartelle da completare con alcuni elementi e una buona conoscenza della fede. Sono gli ingredienti di Giubileopoli, che già dal nome richiama il famoso gioco in scatola che invita i giocatori ad acquisizioni immobiliari e investimenti. Questa volta, invece, l'obiettivo è quello di percorrere per primo l'intero percorso dell'Anno Santo attraverso alcune tappe.
La prima fase vede i personaggi-pellegrini, dover conquistare tutti e cinque gli oggetti essenziali per il loro cammino giubilare: la bisaccia, il bastone, la zucca, l'impermeabile e la conchiglia. Spostandosi lungo le caselle in base al numero uscito con il lancio del dato, il pellegrino se arriva su una delle caselle degli oggetti essenziali è chiamato a rispondesere a una domanda per poter otttenere l'oggetto. Le domande spaziano dalla Bibbia alle tradizioni culturali spirituali dei popoli, alla loro cucina e ad altri temi inserenti agli oggetti stessi.
Ma la conquista dei cinque elementi non è che la prima fase, visto che a questo punto si dovranno affrontare nuove prove dirigendosi verso alcuni luoghi simbolo della fede come il Palazzo della Giustizia, la Casa del Perdono, l'Albergo della Carità e il Rifugio della Speranza, dove i giocatori attraverso nuove prove potranno cercare di conquistare le chiavi delle quattro Basiliche papali dove si trovano le Porte Sante: San Pietro, San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le Mura.
Sarà necessario passare attraverso i ponti di Roma per giungere alle Basiliche e quindi completare il gioco di Giubileopoli. Insomma in questo modo il gioco da tavolo si trasforma in una avventura coinvolgente, ma anche di crescita attraverso le domande che vengono proposte sulla fede.
Del resto i suoi creatori di Giubileopoli, don Enrico Garbuio (sacerdote di Ferrara-Comacchio) e don Dino Mazzoli (sacerdote di Frosinone-Veroli-Ferentino), definiscono questo gioco da tavolo "un viaggio spirituale che si arricchisce" grazie anche all'impegno e alla creatività di questi questi due preti appassionati di catechesi e formazione giovanile.
Prodotto da Tau editrice, Giubileopoli ha lanciato una raccolta fondi per procedere alla sua produzione. Si potranno, infatti, pre-ordinare copie del gioco in scatola andando sul sito Giubileopoli
È stata fissata per sabato 15 marzo la traslazione del corpo del beato Rosario Angelo Livatino dalla cappella di famiglia del cimitero comunale alla chiesa Santa Chiara di Canicattì, come disposto dall’arcivescovo di Agrigento Alessandro Damiano lo scorso 29 ottobre, memoria liturgica del giudice ucciso dalla mafia, mentre, solo, senza scorta, la mattina del 21 settembre del 1990 andava in tribunale.
A partire dalle ore 14 di sabato, nel cimitero di Canicattì, in forma privata, dopo un momento di preghiera presieduto da monsignor Damiano, si procederà all’apertura del loculo e alle operazioni accessorie. Dopo la sistemazione della cassa lignea con il corpo del Beato nella cassa di rinforzo in zinco, avrà inizio un corteo su un mezzo di rappresentanza che percorrerà il seguente tragitto: via Nazionale, via Capitano Ippolito, piazza IV novembre, corso Umberto. Davanti al municipio, la cassa sarà posta su un carrello processionale spinto a mano, e sarà accolta dai fedeli davanti alla chiesa San Diego. Dopo un breve momento di preghiera, avrà inizio il corteo pubblico lungo viale Regina Margherita con sosta davanti la casa natale di Livatino (viale della Vittoria e via Guggino), fino alla chiesa di Santa Chiara.
Dopo l’ingresso in chiesa, si svolgerà un momento di preghiera, durante il quale saranno nominati e presteranno giuramento i membri del tribunale ecclesiastico che procederà alla ricognizione canonica. Terminato il momento di orazione e saluto al beato, avrà inizio la fase strettamente privata della ricognizione.
Il nome della parrocchia, San Marco al Molo, dice già in quale zona di Genova si trovi. Il dedalo di carrugi, i vicoli che caratterizzano il centro storico, si affaccia proprio sul molo, una penisola artificiale realizzata a partire dal 1100 a ridosso del porto. Nascosta dalle mura cinquecentesche c’è una chiesa dedicata all’apostolo Marco, un santo caro ai marinai. È proprio per i naviganti che la chiesa fu eretta. «La chiesa è nata per essere il primo e ultimo segno cristiano per chi parte e torna dal mare» spiega il 35enne don Davide Ricci, parroco da pochi mesi. Nel corso dei secoli, diventa anche la parrocchia della “prigione di malapaga”, dove si scontavano le pene per reati finanziari. Un intreccio tra Giustizia e misericordia: al parroco spettava la benedizione dei condannati prima dell’esecuzione capitale.
Oggi i parrocchiani non sono più i carcerati, ma sono rimaste famiglie di marinai e portuali, cui si aggiungono giovani famiglie che scelgono di abitare la zona per la posizione strategica. Ottocento abitanti, un territorio circoscritto al molo, San Marco rappresenta un tessuto sociale composito. Un po’ come tutto il centro storico genovese, che sembra aver mantenuto le caratteristiche del medioevo. Non solo all’interno dello stesso sestiere, ma anche nella stessa via, si possono trovare famiglie abbienti e modeste, genovesi e straniere. Non si vive il fenomeno dello svuotamento del centro come in altre città, gli spazi sono ancora abitati, dimore nobiliari come palazzi modesti. Le famiglie storiche non si sono mai mosse, ma accanto a loro nei decenni la popolazione è continuamente cambiata. Le case che negli anni Sessanta erano abitazioni degli immigrati dal Sud, nei primi anni Duemila sono diventate di latini e maghrebini, adesso di famiglie africane e cinesi. «Il centro – prosegue don Davide – riflette la dinamica del porto: si arriva per un primo approdo, poi con il miglioramento economico si va altrove». La cura pastorale deve tenere conto della realtà, con le sfide che questa singolare fisionomia presenta. La stratificazione culturale e sociale a volte è d’ostacolo alla creazione di uno spirito di unità. «Abbiamo una grande sfida da cogliere – continua don Ricci –: formare una comunità che sappia integrare vecchio e nuovo, dal punto di vista relazionale e da quello delle proposte pastorali». Le parrocchie del centro «non possono essere pensate come comunità standardizzate, che vivono una pratica sacramentale come le altre: Messa, catechismo e attività collaterali. In questo contesto morirebbero». Sono davvero tante le chiese, le rettorie affidate a religiosi e le cappelle che popolano i carrugi. Don Davide sogna una pastorale in cui «la singola parrocchia non abbia la pretesa di fare tutto, non sia autoreferenziale, ma lavori insieme alle altre comunità per suddividere i compiti, così da offrire il meglio alla nostra gente». Ogni parrocchia dovrebbe valorizzare il tessuto umano che le sta intorno, vivendo la missione cristiana in un aspetto specifico. «Sulla carità lo stiamo facendo – sottolinea don Ricci –: non è affidata alle iniziative di una singola parrocchia, ma già oggi è espressione di un lavoro condiviso e comune». Non c’è altra via che unire le forze e creare un équipe. È «un bisogno imposto dalla realtà, perché in centro abitano tante persone che vivono in condizioni economiche difficili».
Don Davide parte da un elemento imprescindibile: «la parrocchia non può rinunciare a chi la abita, e non deve perdere il contatto con il territorio». Dall’altra parte va considerato che il centro non appartiene solo agli abitanti, ma a un gran numero di lavoratori e turisti, che sono forse i primi visitatori dei luoghi di culto. Differenziando la proposta pastorale a seconda della posizione e della caratteristiche di una chiesa, si presenterebbe l’opportunità di «sfruttare lo spazio per un primo annuncio del Vangelo». Se la zona della centrale piazza De Ferrari potrebbe focalizzarsi su una pastorale rivolta ai lavoratori, la parrocchia del Molo potrebbe concentrarsi sui giovani che animano la vita notturna.
L’arcidiocesi ha già tracciato un primo cammino. I progetti Chiese aperte e Pietre vive hanno reso alcune chiese del centro, veri scrigni d’arte, efficaci luoghi di evangelizzazione attraverso la bellezza. Seguendo questo modello, ne è convinto don Davide, i cristiani di Genova potranno davvero «fare comunità tra loro, accogliendo e annunciando il messaggio a tutti».
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Ancora una volta la città di Foggia ha accolto la “visita” di san Padre Pio. Lo ha fatto nelle scorse settimane attraverso una sua reliquia: il saio di san Pio, da lui indossato nel momento in cui ha ricevuto le stimmate, il 20 settembre 1918. «Già l’arrivo è stato trionfale. Nella nostra terra, la pietà popolare e la devozione ai santi, in particolare a Padre Pio, sono davvero molto grandi» ha commentato l’arcivescovo di Foggia-Bovino, Giorgio Ferretti nel giorno dell’accoglienza della reliquia che è stata esposta prima al parco dell’Iconavetere, poi presso la chiesa di Sant’Anna, in occasione dei 109 anni dalla permanenza di un giovanissimo San Pio proprio in quella parrocchia, e infine presso il Convento dell’Immacolata, dove è stata celebrata una Messa presieduta dal cardinale Louis Antonio Tagle, pro-prefetto del dicastero per l’evangelizzazione.
«Una celebrazione molto partecipata – sottolinea il presule foggiano – questo ci dà l’idea di come Padre Pio sia il nostro santo, che dall’alto del Gargano veglia sulla terra di Capitanata e sul mondo intero».
Monsignor Ferretti parliamo dell’importanza dei segni della devozione nel nostro tempo e di come poter vivere nel migliore dei modi il rapporto con le reliquie.
La devozione popolare nel Sud è molto importante, perché mantiene viva e forte la religiosità della gente. Ha un rischio, quello di generare un sottile individualismo: “io prego, io chiedo la grazia, io vado alla processione”. Bisogna costruire comunità, anche e soprattutto attraverso la devozione ai santi, per arrivare a quello che è il centro della nostra vita e della nostra salvezza, ovvero il nostro Signore Gesù Cristo. Però evangelizzare la pietà popolare, come un po’ si dice in gergo, è anche bello, perché c’è tanta gente che ascolta nelle omelie e che partecipa nelle processioni. Per quanto riguarda il rapporto con le reliquie, così come con le immagini, dobbiamo sempre aver presente che c’è un “oltre”. Immaginiamole come finestre, come ci suggerisce il mondo teologico bizantino, attraverso le quali noi possiamo sentire, comunicare, trovare un “oltre”, che è la realtà del cielo, del Paradiso. I santi sono in cielo, quindi la reliquia è una presenza, l’ultima, terrena, di quello che invece è una presenza spirituale dei Santi attorno all’agnello, come dice il libro dell’Apocalisse.
Secondo la sua opinione, cosa ha portato alle comunità locali foggiane l’accoglienza del saio?
Il saio è quello che Padre Pio indossava quando ricevette le stigmate, quindi non è un saio qualsiasi. E questo ci ricorda quindi le ferite, la salvezza che viene dalla Passione - morte -Risurrezione del Signore: il kerygma che è stato trasmesso per grazia ad alcuni santi, come san Francesco e san Padre Pio da Pietrelcina. Ma noi in queste ferite vediamo anche le ferite del Signore, che piange per un’umanità che fa la guerra, che non si ama; così come anche le ferite dei poveri, che sono nostri fratelli. Dunque, attraverso questa reliquia e attraverso le stigmate noi abbiamo la possibilità di vedere il cielo e l’oltre, ma anche la sofferenza e l’ingiustizia di molti in questo mondo.
Come questo tipo di esperienze può esprimere sul territorio una fede in grado di testimoniare i valori del Vangelo nella società?
L’esperienza francescana è un’esperienza importantissima nella storia e nel presente della Chiesa: è l’amore per il Signore, per i fratelli, per la pace, per il creato. L’esempio di Padre Pio è quello di un uomo che nella vita ha confessato e quindi ha amministrato la misericordia e il perdono di Dio a tanti. Egli è stato un grande spirituale occidentale a cui molti si sono rivolti, in grado di mostrarci al contempo come la spiritualità non è mai slegata dalla realtà e dall’azione sociale. Penso all’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, che lui ha fortemente evoluto e fondato. Quest’uomo piccolo, che viveva in un convento, è stato capace di divenire un faro per i malati e per il mondo intero.
Cosa ci direbbe oggi san Pio se fosse qui in mezzo a noi?
Ci chiederebbe di amarci di più. Sarebbe scandalizzato per le tante guerre e per l’individualismo strisciante che regna in questo mondo e che ci pone gli uni senza o contro gli altri. La Chiesa è comunione, i santi non sono mai delle persone che scelgono di vivere in modo individuale o isolati dagli altri: sono persone che creano comunità e che intorno a loro generano una grande fraternità universale. Io credo che Padre Pio continuerebbe ad amministrare attraverso la confessione, la misericordia e il perdono di Dio. E ci chiederebbe di vivere in pace.
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«Chi ha rapporti di amicizia e di collaborazione con noi cattolici ci fa molte domande sulla salute di Francesco e si interessa su che cosa stia accadendo in ospedale. Ma soprattutto prega per il Papa». Il cardinale Cristóbal López Romero dà per sottinteso chi siano i “vicini di casa” della comunità ecclesiale in Marocco: sono gli «amici musulmani». Salesiano, 72 anni, originario della Spagna, è l’arcivescovo di Rabat, una delle due diocesi che insistono sul Paese nordafricano. Paese che in base alla Costituzione è «uno Stato musulmano» dove il 99% della popolazione abbraccia il Corano. Appena 31mila i cristiani su 37 milioni di abitanti, di cui i cattolici non superano i 20mila.
«Senza volere generalizzare, posso dire che il sentimento di apprezzamento, rispetto e ammirazione verso papa Francesco è maggioritario tra i musulmani, almeno da quanto osservo qui in Marocco. Logicamente la sua presenza nei media e nella vita quotidiana non è così forte come nelle nazioni con radici e tradizioni cristiane. Però credo che qualsiasi osservatore attento non potrà fare a meno di affermare che Francesco ha dato un grande impulso al dialogo islamo-cristiano durante il suo pontificato», spiega López Romero ad Avvenire. Arcivescovo e poi cardinale per volontà proprio di papa Bergoglio che nel dicembre 2017 lo invia a Rabat e nell’ottobre 2019 gli consegna la berretta. Porpora che arriva sette mese dopo aver accolto Francesco in Marocco durante il viaggio in occasione dell’ottavo centenario dello storico incontro tra Francesco d’Assisi e il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil. «Il 30 e il 31 marzo saranno trascorsi sei anni dalla visita di papa Francesco a Rabat – sottolinea il cardinale López Romero –. Sua Maestà il Re, che Dio lo custodisca, mi ha detto: “Il ricordo della visita del Papa resta indelebile”».
Eminenza, come si vive dal Marocco il ricovero del Pontefice?
«Con grande tristezza per ciò che il Papa rappresenta per la Chiesa e per il mondo e per la conoscenza e l’amicizia che ho instaurato con lui. Ma anche con assoluta fiducia perché ritengo che i problemi di salute siano normali, soprattutto all’età del Papa, e perché credo nello Spirito Santo e sono convinto che la Chiesa è nelle sue mani».
Il Policlinico Gemelli è ora la nuova cattedra di Francesco. Quale testimonianza giunge dalla sua stanza?
«La malattia fa parte della vita e dobbiamo sempre essere pronti ad accettarla e a viverla come parte della vita stessa. Inoltre, rimanda alla nostra fragile e povera realtà di esseri umani e mortali. Sospendere le attività ordinarie, o anche un certo attivismo, ci aiuta a tornare all’essenziale ed è invito all’umiltà. Diceva il vescovo tedesco Klaus Hemmerle: “Chi lavora per il Regno, ottiene molto; chi prega per il Regno, fa di più; chi soffre per il Regno, fa tutto”. Il Papa, che ha fatto molto per il Regno, ora fa di più, e tutto, soffrendo e pregando dalla sua camera d’ospedale».
Una “catena” orante sta accompagnando il Papa. Come la preghiera è aiuto nella prova?
«Tutti noi ne abbiamo fatto esperienza attraversando situazioni complesse. Non riesco a smettere di pensare a Gesù che ci dice: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. La preghiera è la via per eccellenza. Però, non possiamo trasformare la preghiera in un “antidolorifico” La preghiera deve essere libera, non utilitaristica. Chiedere aiuto quando qualcosa non va ma non ringraziare quando tutto va bene è una distorsione della preghiera».
Papa Francesco ripete: “Fratelli tutti”. Nel messaggio per Quaresima, invita a «camminare con gli altri» e ad «essere fautori dell’unità». Eppure una parte dell’Europa ha paura del “pianeta” musulmano. E cresce l’islamofobia.
«È un peccato. Ci sono persone, istituzioni e partiti politici interessati a incendiare il rapporto tra musulmani e cristiani, ad alimentare lo scontro o il conflitto, quando invece il rapporto potrebbe essere di amicizia, di collaborazione, persino di fraternità. Che questo clima negativo esista tra i non cristiani potrebbe anche essere comprensibile; ma il fatto che ci siano cattolici (alcuni in posizioni di responsabilità) che non abbiano preso atto di quanto il Vaticano II ha affermato su questo tema 60 anni fa è triste e angosciante. Basta leggere la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate: “La Chiesa guarda con stima anche quei musulmani che adorano ‘unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente… Se nel corso dei secoli sono sorti tra cristiani e musulmani molti dissensi e inimicizie, il Sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a lavorare insieme per promuovere la giustizia sociale, il bene morale, la pace e la libertà per tutti gli uomini”».
Come favorire il dialogo fra cristiani e musulmani?
«Non c’è alcun segreto. Si tratta di vivere l’incontro perché “il cammino si fa camminando”. C’è bisogno di chi si sforza di uscire da se stesso andando oltre la propria “comfort zone” e di quanti hanno il coraggio dell’alterità. Così si fa esperienza dell’arricchimento reciproco e della gioia della fratellanza. Suggerisco sempre di “parlare meno dei musulmani e più con i musulmani”. Il resto verrà da sé ogni volta che lavoreremo insieme per le grandi cause dell’umanità; ogni volta che condivideremo l’incontro con Dio e con la fede; ogni volta che, se il Signore ci concede questa grazia, pregheremo insieme».
Sono appena iniziate la Quaresima e il Ramadan che quest’anno in gran parte si sovrappongono.
«È davvero una felice coincidenza che si verificherà anche nei prossimi anni. Tutto questo ci aiuta a comprendere che, come sosteneva san Giovanni XXIII, “ciò che ci unisce è molto più di ciò che ci divide”. Siamo chiamati a condividere non solo alcune pratiche come il digiuno, la preghiera, l’elemosina, ma soprattutto gli atteggiamenti interiori: la conversione, il ritorno a Dio, la riconciliazione, il perdono, la solidarietà con i poveri».
Anche dall’ospedale papa Francesco chiede pace nel testi che sono stati diffusi. Lei, eminenza, ha appena reso noto un messaggio in cui invita a pregare per la pace in Africa e nel mondo.
«Nella relazione possiamo scoprire che “ogni uomo è mio fratello”, al di là della religione, della cultura, della nazionalità o dei tratti etnici. Ne deriva che nessuno ha il diritto di combattere il prossimo. La pace si costruisce partendo dalla conversione dei cuori. Ma l’istruzione è il fattore essenziale. E, quando parlo di istruzione, non intendo solo la scuola, ma anche la famiglia, i media, la società».
Il Giubileo del mondo del volontariato prevede domani dalle 8 alle 17 il pellegrinaggio verso San Pietro e l’attraversamento della Porta Santa con la possibilità di confessarsi nelle chiese giubilari. Dalle 15 alle 18 le associazioni animeranno i “Dialoghi con la Città”, incontri culturali, artistici e spirituali in vari luoghi di Roma. Focsiv sarà in piazza Risorgimento, la Protezione Civile sarà nella basilica di San Salvatore in Lauro, all’esterno della quale sarà possibile incontrare le Misericordie con servizi di prevenzione sanitaria, mentre Il Sorriso in piazza Sant’Ignazio proporrà animazione per i bimbi. Il Movimento per la Vita sarà a Lungotevere Vaticano (ponte Vittorio Emanuele). Domenica alle 10.30 in piazza San Pietro la Messa celebrata dal cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, che leggerà l’omelia preparata dal Papa per l’evento. Da segnalare l’impegno di Csv Lazio e Forum Terzo Settore Lazio con Dipartimento Protezione Civile e Dipartimento Politiche Sociali e Salute presso l’Assessorato Politiche sociali e Salute di Roma Capitale, con la mobilitazione di volontari in tutti i Municipi di Roma per offrire supporto a pellegrini, turisti e cittadini. I volontari sono a disposizione presso le sedi delle associazioni “Punti Fissi” del progetto e, nei grandi eventi giubilari, sono affiancati dalle unità mobili in punti strategici, che è possibile trovare aggiornati in tempo reale sul sito di Vol.A in Rete (www.accoglienzagiubileo.it). Registrandosi e compilando il form disponibile su www.accoglienzagiubileo.it è possibile vivere l’esperienza del Giubileo da volontario di un grande sistema di accoglienza, selezionando gli eventi e i giorni e le fasce orarie in cui partecipare.
Tra i 25mila pellegrini attesi domani e domenica al Giubileo del mondo del volontariato – il quinto dei “grandi eventi” dell’Anno Santo – ci saranno anche loro. I volontari del Movimento per la Vita italiano si sono iscritti in gran numero (ne stanno arrivando a Roma 3.500) anche per l’udienza “dedicata” con il Papa che era prevista domani per festeggiare i 50 anni del primo Centro aiuto alla vita (Cav), ispirato a Firenze da Carlo Casini. Il cambiamento di programma non li ha scoraggiati: ci saranno tutti, portando simbolicamente quello che è il “segreto” di tutti i volontari: servire la vita degli altri, specie quand’è più fragile. E non c’è vita che lo sia di più di un bambino nel grembo materno o appena nato. La presidente nazionale del Movimento Marina Casini dà voce a questo messaggio di custodia dell’umano, facendosi “portavoce” di tutto il volontariato.
Il Giubileo del mondo del volontariato porta a Roma un “popolo” che il Papa ha più volte lodato come «una delle cose più grandi che ha la società italiana» e il presidente della Repubblica Mattarella ha definito «dono» ed espressione della «cultura della cura», una «risorsa preziosa» per il nostro Paese. Il Movimento per la Vita vive di volontariato. Lei che ne è presidente, ed è cresciuta dentro questo spirito grazie a suo padre Carlo, come vede oggi il volontariato italiano?
Senza il volontariato la vita sociale sarebbe gravemente impoverita; tra l’altro spesso il volontariato svolge una funzione di supplenza rispetto ai compiti delle strutture pubbliche. Non c’è dubbio che sia ancora una grande ricchezza in termini di solidarietà, prossimità, soccorso, promozione umana, collaborazione, costruzione del bene comune. Un elemento di novità è l’esigenza di professionalizzazione e una maggiore competenza dovute alla riforma del terzo settore. Il volontariato è anche un grande stimolatore di creatività perché le risposte alle necessità, come la stessa cura delle persone, degli ambienti e dell’ambiente, non possono essere standard e asettiche ma calibrate e calzanti, confezionate su misura. Papa Francesco direbbe che anche qui va applicato lo stile dell’artigiano...
Cosa porta nel movimento del volontariato nel nostro Paese quello proprio dei Centri di aiuto alla vita? Quale valore, e quale stile?
I Cav hanno portato una novità rispetto all’assistenza alle donne incinta: facendosi carico delle necessità concrete i Cav sfidano una mentalità che nega la piena umanità del figlio concepito e nega il valore della maternità durante quella fase così unica e speciale che è la gravidanza. Nello stesso tempo portando lo sguardo sul bambino non ancora nato e sulla sua mamma i Cav indicano la strada per rafforzare ogni servizio all’uomo e ogni solidarietà. La società che vogliamo costruire insieme a tutti i volontari è quella in cui «contano coloro che non contano». Noi del Movimento per la Vita prendiamo sul serio le parole di Madre Teresa di Calcutta: «Se una madre può sopprimere il frutto del suo seno, che cosa ti resta? L’aborto è il principio che mette in pericolo la pace nel mondo». I Cav sono un luogo dove a una intera comunità viene data la possibilità di collegarsi idealmente con ogni altra realtà impegnata a difendere l’uomo soprattutto quando è povero, fragile, scartato, e a realizzare le varie forme di solidarietà. Per la collaudata esperienza di questi 50 anni i Cav si offrono come avanguardia per la cultura della vita. Lo stile è quello dell’accoglienza che con mitezza e discrezione parte dall’ascolto e si fa sostegno, condivisione, rottura della solitudine, amicizia, rifiuto del giudizio sulle persone, ottimismo, disponibilità, fiducia, valorizzazione di tutto ciò che è positivo, anche nelle situazioni più complicate I Cav sono “per” e “con”, mai “contro”. Come tutto il volontariato.
Questo particolare evento giubilare porta a Roma migliaia di volontari, impegnati sui più diversi fronti. Speravano di poter incontrare e ascoltare il Papa, ma la sua situazione di salute sembra parlare in modo forse ancora più eloquente proprio ai volontari. Da credente e da volontaria, che valore assume ora questo pellegrinaggio?
Un valore davvero grande che ci fa entrare maggiormente nel cuore della Chiesa, scuola e casa di comunione. Il Papa sarà assente solo fisicamente, la sostanza della comunione resta. Gli faremo giungere il nostro abbraccio che parla di affetto, preghiera, gratitudine. La mancanza della sua presenza fisica non è un vuoto silente ma un’esortazione eloquente all’unità nella preghiera per lui, per la Chiesa, per il mondo, per il servizio reso dai volontari. Diventa anche più forte l’invito a interrogarci sulle più intime motivazioni del servizio reso nei vari ambiti, ad andare fino al cuore del volontariato per uscirne rafforzati, più motivati, in qualche modo “purificati”. Davvero pellegrini di speranza.
Come si rende sensibile e consapevole una società che sembra aver ceduto alla “cultura dello scarto”, diametralmente opposto?
Diffondere la coscienza sull’importanza della cura e della responsabilità verso l’altro sempre e comunque, senza scarti, dal concepimento alla morte, passando per tutte le fasi della vita, implica tempi di maturazione sui quali non dobbiamo avere pretese. Il nostro compito è impegnarci – meglio: testimoniare – esercitando la pazienza fondata sulla fiducia nel segno positivo che caratterizza la storia. Il cuore dell’uomo, per quanto indurito, è sempre capace di aprirsi al bene, la grazia opera sempre. Certamente sono importanti modalità comunicative che uniscano verità e carità: una relazionalità empatica che sappia dare le ragioni della “cultura della cura”.
Cinque anni fa, il 23 marzo, moriva suo padre Carlo, pioniere del volontariato. Cos’ha imparato da lui?
Ha testimoniato con generosità e gioia la bellezza di spendersi per un grande ideale, vissuto quotidianamente, che dà senso all’esistenza. Non si è mai arreso di fronte alle difficoltà tenendo sempre accesa la fiaccola della speranza. Nel 1981 a Firenze disse che «crediamo che ci sia bisogno oggi di tante cose in questa nostra società, ma c’è soprattutto bisogno di speranza. Ecco la spes contra spem: c’è bisogno di offrire un’indicazione alla gente, perché valga la pena lavorare, impegnarsi, sacrificarsi, rinunciare... C’è bisogno di un volontariato generoso e vasto, e tutto questo non si può ottenere senza una indicazione di ideali e di valori che vanno oltre il domani». Papa Francesco ha detto che «non c’è un volontariato da scrivania e non c’è un volontariato da televisione. Il volontariato è sempre in uscita, il cuore aperto, la mano tesa, le gambe pronte per andare». E ha parlato dei volontari come «artigiani di misericordia: con le mani, con gli occhi, con gli orecchi attenti, con la vicinanza. Essere volontari vuol dire lavorare con la gente che si serve. Non solo per la gente, ma con la gente». Ecco, il babbo era così.
Digiuno, preghiera e carità sono i segni che caratterizzano la Quaresima, i 40 giorni di preparazione alla Pasqua che nelle Chiese di rito romano sono iniziati il 5 aprile, Mercoledì delle Ceneri. Quella di quest’anno sarà una Quaresima particolare perché si inserisce nel cammino giubilare dell’Anno Santo e perché, almeno all’inizio, non vede la partecipazione pubblica del Papa, tuttora ricoverato in ospedale. A parlarci della Quaresima è padre Roberto Pasolini, predicatore della Casa Pontificia, che ci spiega anche perché nelle Chiese di rito ambrosiano la Quaresima inizia più tardi. Conduce Riccardo Maccioni.
Dentro l’Avvenire è la serie podcast dedicata ai fatti, ai protagonisti, alle grandi storie di attualità, con le voci di chi li racconta giorno per giorno. Pochi minuti per farsi un’idea sul presente e provare a ragionare sul futuro, con qualche spunto per approfondire. A cura di Marco Ferrando, Alessandro Saccomandi e Chiara Vitali, si può ascoltare su tutte le piattaforme gratuite e sul sito di Avvenire. Per domande e suggerimenti scrivere a social@avvenire.it
Questa mattina, a Bologna, il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, accompagnato da monsignor Derio Olivero, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, ha incontrato il presidente dell’Assemblea rabbinica italiana, rav Alfonso Arbib, e il rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni.
Durante il cordiale colloquio, che si è svolto nella curia arcivescovile di Bologna, si è analizzata la situazione del rapporto tra ebrei e cristiani, a partire dalle incomprensioni. Si è deciso di agire per chiarire le confusioni e, soprattutto, di guardare avanti.
Sono state inoltre condivise due scelte importanti per dare segnali concreti. La prima: una presentazione ufficiale, a livello nazionale, con il Ministero dell’Istruzione e del Merito, delle 16 schede per conoscere l’ebraismo. Queste sono il frutto di un lavoro tra gli Uffici della Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana (Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso; Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università; Servizio nazionale per l’insegnamento della religione cattolica) e l’Unione delle Comunità ebraiche italiane - Ucei.
La seconda scelta è quella di promuovere iniziative che favoriscano e rafforzino l’amicizia tra ebrei e cristiani.
Viviamo in un’epoca di cambiamenti non solo veloci, ma rapidi, capaci cioè di rapirci, sostiene Antonio Spadaro nell’articolo che ha aperto un dibattito ormai nutrito di numerosi contributi. E io mi chiedo: è veramente così, la Chiesa deve rispondere alla sfida con una teologia ugualmente rapida? E ancora: che significa questo in concreto per noi cristiani?
Partiamo dall’affermazione che adesso tutto cambia a un ritmo così frenetico da disorientarci. L’elenco dei motivi è lungo, conosciuto. Ci sono molte cose che stanno rivoluzionando il nostro modo di vivere.
Ma altre cose non cambiano affatto. Sembrano stabili, inamovibili, come il Gran Sasso. Ad esempio le disuguaglianze sociali ed economiche. Nel ponderoso saggio Il capitale nel XXI secolo Thomas Piketty dimostra, dati alla mano, che la distribuzione delle ricchezze oggi è simile a quella dell’Ottocento. Lustri di stato sociale in Occidente buttati via. Anzi, in termini etici, a dispetto delle conoscenze tecnologiche e delle enormi risorse finanziarie di cui disponiamo, il mondo peggiora. Scrive Oxfam: «Per la prima volta in 25 anni, la ricchezza estrema e la povertà estrema sono aumentate drasticamente e contemporaneamente». Tanto che «dal 2020 i cinque uomini più ricchi al mondo – Musk, Arnault, Bezos, Ellison e Buffet – hanno più che raddoppiato le proprie fortune, mentre la ricchezza complessiva di quasi cinque miliardi di persone più povere non ha mostrato barlume di crescita». Denaro e potere sono sempre più concentrati in poche mani con chiari pericoli per la democrazia, e con circa 750 milioni di individui che patiscono la fame.
Vediamo il giudizio finale su di noi, in Matteo 25. «Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?”». Sappiamo la risposta: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». E agli altri, le capre poste alla sua sinistra, Gesù dice: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato».
Papa Francesco non è un manicheo, né un giudice inflessibile, però credo che questo passo del Vangelo non lo dimentichi neppure per un attimo. Da un lato per lui c’è l’economia che uccide, dall’altro la Porta Santa che ha voluto aprire nel carcere di Rebibbia durante il Giubileo della Speranza. È un tema antico, l’amore per il prossimo. Ma anche su quelli più attuali, dall’intelligenza artificiale all’omosessualità, dalla pedofilia alla pace che va ricercata con ogni mezzo in Europa e altrove, Francesco si è espresso con chiarezza.
I grilli parlanti, gli azzeccagarbugli, sosterranno che è facile predicare. Che lui e i preti, che le anime belle spesso ignoranti di come gira il mondo, se ne stiano in chiesa o dovunque si trovino inginocchiati. Pensino allo spirito, al cielo. Le questioni concrete, che riguardano la Terra, vanno lasciate a chi se ne intende: ai finanzieri, ai politici, ai generali.
E invece no. La teologia a cui fa riferimento padre Spadaro, secondo me, è questa: bisogna gettarsi nelle acque agitate, nell’enorme rapida che travolge il mondo, per nuotare controcorrente. Nuotare non da soli, ma insieme alle donne e agli uomini di buona volontà, laici o ministri di qualsiasi culto, con lo scopo di raggiungere, costruire, luoghi dove regna la giustizia e la fratellanza.
I soliti noti affermeranno: ingenui, è un’utopia!
Ho lavorato per decenni in aziende. E all’epoca pensavo che un’idea era buona soltanto se realizzabile. Adesso penso che un’idea buona va perseguita a prescindere dal suo grado di realizzabilità.
Prendiamo un’idea a caso: tassare al 2% le ricchezze di un centinaio di miliardari, cominciando dai cinque paperoni prima menzionati. Così il problema della fame nel mondo sarebbe risolto. Non sono cifre buttate là, sono calcoli non troppo complessi basati su statistiche ufficiali. Perché di simili iniziative non se ne parla quasi mai?
Un motivo è ovvio: i mezzi di comunicazione sono controllati proprio da chi è ricco e potente. Ma questo non basta, esiste un fattore più pervasivo: la straordinaria capacità di sedurre del capitalismo. Sull’argomento Walter Benjamin ci ha lasciato, ormai un secolo fa, pagine straordinarie. C’è un altro suo breve saggio, Capitalismo come religione, che dovrebbe interrogarci e farci intuire le ragioni profonde di ciò che succede, oggi ancor più che nel 1921, quando il filosofo berlinese scrisse quel profetico frammento.
Dunque non è nemmeno sempre necessario credere a Gesù quando dice «se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: “Spostati da qui a là” ed esso si sposterà». Per muovere, far tremare il Gran Sasso delle disuguaglianze bastano anche misure di carattere fiscale. O ritenere sbagliato che per difendere la pace l’unica scelta saggia sia una crescita delle spese militari, con parallela riduzione del budget destinato all’assistenza sociale.
L’universo capitalistico genera sentimenti di solitudine e di paura, su cui alcuni partiti e governi prosperano. I migranti diventano semplicemente invasori, chi non è dei nostri è un nemico e non importa se soffre. La globalizzazione, economica e culturale, insieme a diversi benefici, ha creato molti danni, bisogna riconoscerlo e non lasciare tali bandiere ai sovranisti. Tra questi danni c’è un’altra globalizzazione, quella dell’indifferenza, come l’ha definita papa Francesco.
Sembriamo persi dentro una società narcisistica, in cui reagiamo al senso di vuoto e di terrore che ci invade, con la cura ossessiva della nostra immagine, sbarazzandoci di ogni empatia per il prossimo.
Che fare? Non lo so.
Ma siamo in tanti a poter riflettere sulle strade che bisogna percorrere. Non è obbligatorio delegare la scelta di ogni idea a filosofi, esperti di economia, guru della scienza e della tecnica. Anche gli artisti possono immaginare nuove versioni del mondo, come dice Francesco. Nell’omelia di domenica 16 febbraio ha scritto: «Voi, artisti e persone di cultura, siete chiamati a essere testimoni della visione rivoluzionaria delle Beatitudini. La vostra missione è non solo di creare bellezza, ma di rivelare la verità, la bontà e la bellezza nascoste nelle pieghe della storia, di dare voce a chi non ha voce, di trasformare il dolore in speranza».
È un appello che non vale solo per scrittori e pittori, vale per tutti. Ascoltiamolo. Poi buttiamoci a capofitto in quella rapida che è certo vicino a ciascuno di noi, e che ci aspetta correndo e schiumando.
scrittore
Pubblichiamo il testo della catechesi di papa Francesco preparata per l’udienza generale di mercoledì 5 marzo 2025. La riflessione, l’ultima dedicata all’infanzia di Gesù e ispirata al tema «“Figlio, perché ci hai fatto questo?” (Lc 2,49). Il ritrovamento di Gesù nel Tempio», prosegue il ciclo di catechesi per il Giubileo 2025 «Gesù Cristo nostra speranza».
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! In quest’ultima catechesi dedicata all’infanzia di Gesù, prendiamo spunto dall’episodio in cui, a dodici anni, Egli rimase nel Tempio senza dirlo ai genitori, i quali lo cercarono ansiosamente e lo ritrovarono dopo tre giorni. Questo racconto ci presenta un dialogo molto interessante tra Maria e Gesù, che ci aiuta a riflettere sul cammino della madre di Gesù, un cammino non certo facile. Infatti Maria ha compiuto un itinerario spirituale lungo il quale è avanzata nella comprensione del mistero del suo Figlio.
Ripensiamo alle varie tappe di questo percorso. All’inizio della sua gravidanza, Maria fa visita a Elisabetta e si ferma da lei per tre mesi, fino alla nascita del piccolo Giovanni. Poi, quando è ormai al nono mese, a causa del censimento, con Giuseppe va a Betlemme, dove dà alla luce Gesù. Dopo quaranta giorni si recano a Gerusalemme per la presentazione del bambino; e quindi ogni anno ritornano in pellegrinaggio al Tempio. Ma con Gesù ancora piccolo si erano rifugiati a lungo in Egitto per proteggerlo da Erode, e solo dopo la morte del re si erano stabiliti di nuovo a Nazaret. Quando Gesù, divenuto adulto, inizia il suo ministero, Maria è presente e protagonista alle nozze di Cana; poi lo segue “a distanza”, fino all’ultimo viaggio a Gerusalemme, fino alla passione e alla morte. Dopo la Risurrezione, Maria resta a Gerusalemme, come Madre dei discepoli, sostenendo la loro fede in attesa dell’effusione dello Spirito Santo.
In tutto questo cammino, la Vergine è pellegrina di speranza, nel senso forte che diventa la “figlia del suo Figlio”, la prima sua discepola. Maria ha portato al mondo Gesù, Speranza dell’umanità: lo ha nutrito, lo ha fatto crescere, lo ha seguito lasciandosi plasmare per prima dalla Parola di Dio. In essa – come ha detto Benedetto XVI – Maria «è veramente a casa sua, ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la Parola di Dio […]. Così si rivela, inoltre, che i suoi pensieri sono in sintonia con i pensieri di Dio, che il suo volere è un volere insieme con Dio. Essendo intimamente penetrata dalla Parola di Dio, ella può diventare madre della Parola incarnata» (enciclica Deus caritas est, 41). Questa singolare comunione con la Parola di Dio non le risparmia però la fatica di un impegnativo “apprendistato”.
L’esperienza dello smarrimento di Gesù dodicenne, durante il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, spaventa Maria al punto che si fa portavoce anche di Giuseppe nel riprendere il figlio: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Maria e Giuseppe hanno provato il dolore dei genitori che smarriscono un figlio: credevano entrambi che Gesù fosse nella carovana dei parenti, ma non avendolo visto per un’intera giornata, incominciano la ricerca che li porterà a fare il viaggio a ritroso. Tornati al Tempio, scoprono che Colui che ai loro occhi, fino a poco prima, era un bambino da proteggere, è come cresciuto di colpo, capace ormai di coinvolgersi in discussioni sulle Scritture, reggendo il confronto con i maestri della Legge.
Di fronte al rimprovero della madre, Gesù risponde con disarmante semplicità: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Maria e Giuseppe non comprendono: il mistero del Dio fatto bambino supera la loro intelligenza. I genitori vogliono proteggere quel figlio preziosissimo sotto le ali del loro amore; Gesù invece vuole vivere la sua vocazione di Figlio del Padre che sta al suo servizio e vive immerso nella sua Parola.
I Racconti dell’Infanzia di Luca si chiudono, così, con le ultime parole di Maria, che ricordano la paternità di Giuseppe nei confronti di Gesù, e con le prime parole di Gesù, che riconoscono come questa paternità tragga origine da quella del Padre suo celeste, del quale riconosce il primato indiscusso.
Cari fratelli e sorelle, come Maria e Giuseppe, pieni di speranza, mettiamoci anche noi sulle tracce del Signore, che non si lascia contenere dai nostri schemi e si lascia trovare non tanto in un luogo, ma nella risposta d’amore alla tenera paternità divina, risposta d’amore che è la vita filiale.
© Libreria Editrice Vaticana
Sono disponibili da oggi mercoledì 5 marzo, Mercoledì delle Ceneri, sulle diverse piattaforme di podcast i Vangeli della Bibbia Cei (2008) confezionati appunto in stile podcast. Si tratta di un’ulteriore evoluzione del più grande progetto, BibbiaEdu.it, che comprende il sito e la corrispondente app con l’obiettivo di rendere sempre più accessibile la Parola che sta a fondamento della fede e della vita della comunità cristiana.
«La scelta della data non è casuale», fa notare Vincenzo Corrado, direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali che, insieme al Settore dell’apostolato biblico dell’Ufficio catechistico, ha supervisionato il progetto sostenuto dalla Segreteria Generale della Cei. «Mercoledì delle Ceneri – spiega Corrado – inizia il tempo della Quaresima, dedicato in modo particolare al silenzio, alla lettura e all’ascolto della Parola. Ci è sembrato molto opportuno dare avvio all’iniziativa proprio in questa giornata. Riteniamo poi che aver reso disponibili i Vangeli, in formato podcast, sulle diverse piattaforme possa essere anche un invito a intrecciare le proprie narrazioni con la parola buona che può dare senso e significato a ciò che viene vissuto. Ci auguriamo che anche questo servizio possa sostenere la vita personale e comunitaria. Un ringraziamento particolare alla Biblioteca Apostolica Vaticana per le immagini degli evangelisti utilizzate come copertine dei singoli libri». «San Paolo – aggiunge don Dionisio Candido, responsabile del Settore dell’Apostolato Biblico – scriveva che la fede deriva dall’ascolto. In effetti, sin dall’antichità, la Bibbia è stata più proclamata e ascoltata che letta. Oggi la tecnologia può aiutare a tornare a gustare questa dimensione propria della Parola di Dio, ascoltata e meditata per essere infine vissuta».
«È in corso un'indagine accurata con l'assistenza di un laboratorio professionale». Così l’ufficio comunicazioni dell'arcidiocesi di Indianapolis, negli Stati Uniti, ha risposto alle richieste di informazioni presentate nei giorni scorsi da due note pubblicazioni cattoliche, Osv News e CatholicVote, in merito a un presunto miracolo eucaristico avvenuto tra il 21 e 22 febbraio scorsi e che ha attirato l’attenzione anche dei media locali non confessionali.
Tutto è avvenuto nella chiesa parrocchiale di Morris, nell’arcidiocesi di Indianapolis appunto, dedicata a Sant’Antonio di Padova. Secondo la versione divulgata dell’associazione cattolica Corpus Christi for Unity and Peace, in contatto con una protagonista dei fatti, la sacrestana, durante una Messa feriale di venerdì 21 febbraio un’ostia è caduta per terra durante la celebrazione, un’altra è stata trovata per terra successivamente dal parroco. Entrambe le ostie sono state subito raccolte, messe in un bicchiere perché si dissolvessero, bicchiere posto a sua volta nel tabernacolo. Il giorno seguente la sacrista, aperto il tabernacolo per verificare lo stato delle ostie, ha visto qualcosa che «sembrava un pezzo di pelle molto molto sottile con del sangue sopra». Ha chiamato quindi il parroco che ha tolto le ostie dall’acqua riponendole sempre nel tabernacolo e avvisando la curia. La donna ha poi scattato la foto che è stata pubblicata dal portale di informazione The 812, che segue la cronaca della parte sud orientale dello Stato dell’Indiana.
Ora si attendono gli esami di laboratorio.
«Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore». Questa affermazione di papa Francesco è contenuta nel testo dell’Angelus di domenica scorsa, diffuso dalla Santa Sede. Le parole scritte dal Santo Padre portano un tema ricorrente nell’esperienza dei sofferenti. I cappellani ospedalieri e tutti gli assistenti spirituali dei malati si trovano spesso a riflettere sul senso della fragilità. È anche la domanda che più viene loro posta: perché? Qual è il senso di questa sofferenza? perché proprio a me? E le risposte rischiano di arrivare un po’ frettolose, magari sentite e poi ripetute, che confondono i sofferenti.
Ma nelle parole del Papa troviamo una spiegazione chiara. La benedizione di cui parla Francesco non è «nella fragilità», ma «si nasconde dentro la fragilità». Questa lettura ci aiuta a capire molte cose. Un primo chiarimento è la cancellazione definitiva di quella tendenza doloristica che vorrebbe accreditare la malattia come “voluta” da Dio per la nostra santificazione. Il Dio che dichiara di essere soltanto amore non può desiderare che le persone soffrano, al massimo lo può tollerare, a condizione che questo rappresenti la via per un bene maggiore. La parte che emerge visibile ai nostri occhi è la fragilità intrinseca nell’essere persona. Non un difetto o una mancanza, ma una componente dell’identità antropologica della persona stessa.
Siamo fragili: e non è un difetto, ma una caratteristica. Questo non ci rende meno belli o meno preziosi, ma comporta la necessità di essere trattati con cura. Come il cristallo, che sul suo contenitore porta proprio questa avvertenza: fragile, maneggiare con cura. E le persone sono molto di più di un cristallo. Dentro la fragilità c’è qualcosa di più della sua veste esteriore: c’è il senso del vivere, il fine ultimo di ognuno di noi che è chiamato alla vita. C’è la vocazione all’amore con Dio e fra di noi, c’è la piena realizzazione del progetto che è stato offerto a ciascuno, c’è un “dire bene”, una benedizione che è la Parola di vita pronunciata da Dio per ciascun uomo e donna vissuti e viventi. Ogni sofferente è chiamato a fare un cammino di ricerca e di scoperta.
Coloro che si arrestano alla forma esteriore della fragilità vivranno la malattia e la loro stessa fragilità come un limite da superare, rifiutando la condizione stessa, quella di umanità fragile per costituzione, alla ricerca di una invincibilità che è utopia del vivere secondo i propri schemi e obiettivi. Per questi, la morte rappresenta la sconfitta finale, il fallimento che è inaccettabile o piuttosto la liberazione da un male senza speranza, perché non ha un senso, uno scopo. Coloro che scavano senza sosta, convinti che anche nel buio del dolore e della malattia si possa nascondere un senso ultimo, coloro che vorranno sperare anche quando sembrerà non essercene traccia, allora potranno scoprire quel senso che sostiene, quello scopo che motiva la lotta, quel fine per cui valga la pena di sopportare queste fragilità, il motivo per cui l’obiettivo meriti la fatica. Il premio finale vale l’impegno e il peso della preparazione e della gara. E il premio non può che essere quella benedizione di Dio sulla vita di ciascuno.
Non una benedizione generica e unica per tutti, ma piuttosto una benedizione pronunciata da Dio con parole diverse per ciascuno, tanti quanti sono gli uomini e le donne, tante quante sono le vocazioni personali, quanti sono i progetti di bene che Lui ha immaginato per ognuno.
*Direttore dell'Ufficio nazionale per la Pastorale della Salute della Conferenza episcopale italiana
Il Mercoledì delle Ceneri, che nelle Chiese di rito romano apre il Tempo di Quaresima, è giorno di digiuno. Ma qual è significato cristiano della rinuncia al cibo? E si tratta di una forma di sacrificio che ha ancora senso? Sono le domande attorno a cui si articola il nuovo episodio del podcast Taccuino celeste che spiega anche le differenze tra digiuno ed astinenza, e chi è tenuto a seguirli. Punto di partenza naturalmente la Scrittura, dal Vangelo di Gesù tentato dal Diavolo a Mosè che si astiene dal mangiare 40 giorni prima di ricevere le Tavole della legge. Inoltre, si parla di san Tommaso d’Aquino, di san Pietro Crisologo e delle altre forme di rinuncia, per esempio dai social, che possono essere seguite da chi non vive l’astensione dal cibo come un sacrificio. Il valore del digiuno, anche nella sua dimensione comunitaria, è al centro della Cartolina da Camaldoli, lo spazio curato ogni settimana dai monaci benedettini della comunità toscana.
Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, dei passi necessari per diventare santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Secondo il racconto di Genesi fu Yuval, discendente di Caino e «padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto», a introdurre la musica nella storia umana. Fin dalle prime righe, le melodie e i canti accompagnano la narrazione biblica, quale elemento imprescindibile dell’esistenza. Il canto esprime la lode a Dio, il dolore, la gioia, la speranza, l’amore, la rabbia e la meraviglia di fronte all’opera della Creazione e nei secoli accompagna la preghiera e il culto nel Tempio, in cui, stando a quanto riferisce la tradizione, suonava la grande orchestra formatasi grazie agli strumenti portati dall’Egitto dalla figlia del faraone in occasione delle sue nozze con il re Salomone.
Il rapporto simbiotico tra Bibbia e musica è da sempre oggetto di studio e nei secoli è stato fonte d’ispirazione per composizioni di ogni genere, dall’opera lirica al pop, dai canti popolari in ogni lingua e dialetto, al rock e al jazz. È un universo intero, in cui dialogano ricerca storica e creazioni inedite e noi possiamo farne oggetto di studio e/o sedere in poltrona e ascoltare le note di quella grande epopea, assumendo il ruolo di spettatori, affascinati dalla molteplicità di espressioni che prendono forma dalle pieghe del testo.
C’è però un ulteriore approccio possibile, in cui possiamo provare a lasciare il ruolo di semplici spettatori per farci coinvolgere in prima persona, entrando nei tanti significati che la musica assume e guardando alla Bibbia come a una complessa e affascinante polifonia corale, in cui ogni voce racconta qualcosa di sé e dunque di noi. E ogni silenzio, proprio come nelle migliori composizioni, ha un preciso significato. Ogni canto nella Bibbia, al di là della specificità storica e del contesto letterario, è espressione di universali e suscita riflessioni non solo sull’esistenza, ma anche sui meccanismi politici e sociali che governano il nostro tempo.
La preghiera sommessa di Anna nel Tempio di Shilo, simbolo del desiderio viscerale di maternità, si trasforma in un canto colmo di gratitudine e di speranza nel futuro con la nascita del figlio Samuele e quel canto, esattamente come quello di Maria madre di Gesù con cui presenta straordinarie affinità, assume un valore politico e sociale in cui le normali logiche di potere vengono ribaltate perché il braccio forte del Signore farà rovesciare i potenti dai troni e innalzerà gli umili. La voce delle due donne esprime il sogno di una nuova storia segnata dalla liberazione, dal riscatto e dalla giustizia, temi che secoli dopo saranno veicolati anche grazie agli spiritual intonati da migliaia di persone in America nelle marce guidate dal Civil Right Movement e grazie a diversi brani nati in quegli anni, come Blackbird composta da Paul McCartney nel 1968 e portata al successo dai Beatles.
Nell’America degli anni ’60, gli spiritual afroamericani, che riprendono temi e personaggi biblici, assumono un profondo significato politico e cantare significa difendere gli ideali di uguaglianza e di libertà di cui la Bibbia si fa portatrice. Anche gli schiavi importati dall’Africa per lungo tempo avevano invocato con il canto l’arrivo di un nuovo Mosè, che li avrebbe salvati.
E lo stesso Mosè, dopo l’attraversamento del Mar Rosso, eleva il proprio inno di lode a Dio in forma poetica e al termine, la sorella Miriam prende in mano il tamburello e canta; la sua voce segna il passaggio fondamentale dalla schiavitù alla libertà e dunque l’inizio della storia e l’accoglienza della Legge.
Ed è interessante che nel libro del Deuteronomio, quando la morte di Mosè è ormai vicina, in riferimento alla necessità di vivere, comprendere e tramandare di generazione in generazione la Legge, Dio dica: «E ora, scrivete per voi questo canto e insegnatelo ai figli di Israele, ponetelo nella loro bocca; questo canto sarà per me testimone» (31,19).
Come ha scritto Rav Jonathan Sacks, «la Torah è il libretto d’opera di Dio e noi siamo il coro, perché la musica è il linguaggio dell’anima», e dunque ci permette di essere interpreti e di sviluppare nuovi sguardi sul testo che sfuggono alla forza e alla gabbia dei significati finiti e dei pensieri immutabili. La “musica” della Bibbia e la miriade di espressioni musicali che ne sono scaturite in ogni epoca e in ogni cultura, divengono lo spazio in cui possiamo riconoscere i limiti del carattere apodittico che si è troppo spesso attribuito al testo ed eliminare la patina di moralismo, nonché la tentazione dell’assunzione di modelli paradigmatici, per accostarci alla narrazione non solo con la ragione e le strutture mentali ricevute in eredità, ma anche e soprattutto con l’intelligenza emotiva. Perché è esattamente lì che la musica agisce.
E allora credo, coglieremo il senso più profondo dell’umanità che caratterizza i personaggi ne La buona novella di Fabrizio De André o dell’ebraico “hinneni” (eccomi) che Leonard Cohen incide in un disco pochi mesi prima di morire, quando come ogni essere umano fa i conti con la propria vita e la propria storia e che riprende la risposta data secoli prima da Abramo, Samuele, Maria madre di Gesù, ecc… Sentiremo con altro spirito le benedizioni al figlio della celebre Forever Young di Bob Dylan o il sogno di maternità cantato da Noa nella sua Uri, un raffinato brano pop con il testo della poetessa Rachel Bluwstein che richiama il grido disperato della Rachele biblica moglie di Giacobbe.
Guarderemo con altri occhi lo spiritual Mary don’t you weep, che annuncia la fine del tempo delle lacrime e racconta il riscatto del popolo salvato da Mosè, degli afroamericani guidati da Martin Luther King e di Maria Bloch Bauer, a cui è dedicata una versione in stile west coast nel film Woman in Gold.
E allora, la “partitura biblica” stratificata nei secoli, non sarà solo oggetto di studio, curiosità culturale o sorella minore della più solida e affidabile interpretazione esegetica, bensì uno spazio assolutamente serio, in cui le note e i canti possono donarci domande nuove. A ciascuno le proprie.
ebraista
Lo storico delle religioni Mircea Eliade racconta nel suo Diario di essere entrato un giorno nella basilica di San Marco: «avevo lasciato gli altri compagni stretti intorno alla guida… ero convinto che dovevo vedere da solo e che solamente così avrei potuto scoprire… scoprire che cosa? Non lo sapevo, né me lo chiedevo: sentivo soltanto che mi sarebbe stato rivelato “qualcosa”. E allora inaspettatamente fui accolto da quel Cristo in mosaico, un Cristo che non riconobbi, tanto assomigliava a un arcangelo. Christos angelos. Uno dei primi misteri, che fino a quel momento non avevo sospettato, né avuto modo di comprendere…». Davanti alla «incomparabile bellezza» di quel Gesù maestoso e luminoso come un arcangelo, Eliade è sconvolto: viene preso dalla grande emozione che spesso ci pervade di fronte alle opere di arte sacra, come se in esse si celasse un mistero che riguarda non solo il divino, il trascendente, ma anche la profondità di noi stessi, la nostra verità interiore.
Il racconto di Eliade è solo uno dei tanti, innumerevoli esempi che si potrebbero addurre a testimonianza della bellezza e della potenza conoscitiva che le opere d’arte vengono ad assumere quando cercano di trasformare in immagini visive le storie narrate nella Bibbia. Fin dai primi secoli della nostra era, con l’espansione del cristianesimo prese a diffondersi nel mondo il bisogno di mostrare in immagini gli eventi e i personaggi descritti nei testi biblici. E da allora le chiese si sono riempite di affreschi, quadri, statue raffiguranti il mondo delle Sacre Scritture. Ma da dove viene questa propensione potente a trasformare in immagine la dimensione del divino, proprio quando la Scrittura stessa sembra vietarlo esplicitamente e perentoriamente? «Non farti scultura né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra…» (Esodo 20, 4). Come mai tale interdetto all’immagine, che il mondo ebraico ha fatto proprio da sempre, è stato invece scavalcato o eluso dal mondo cristiano?
Credo che una possibile risposta si nasconda in due paradossi, insiti fin dall’origine sia nella particolarità delle storie bibliche sia nel carattere specifico della rivelazione cristiana. Innanzitutto occorre notare che lo stile biblico, a differenza di quello espresso in grandi opere letterarie del passato come l’Iliade o l’Odissea, evoca sì straordinari eventi (la creazione del mondo, il diluvio, l’esodo...) ma stranamente li descrive poco, non si sofferma mai sui particolari, sull’aspetto esteriore di cose e persone. In questo modo però ci costringe a immaginare il non detto, il sottaciuto. Proprio perché elude la descrizione esplicita, la Bibbia diventa così una grande produttrice di immagini interiori, ci spinge a “vedere” interiormente quel che il testo non ci mostra. E a questo punto però la tentazione, la spinta a raffigurare visivamente, artisticamente quanto nel testo è solo alluso, diventa irresistibile. Come mai però gli ebrei hanno, diciamo così, “resistito” a una simile tentazione, hanno rispettato l’interdetto all’immagine, e i cristiani invece no?
Lo spiega bene Giovanni Damasceno, grande teologo bizantino del VII secolo: con l’incarnazione, con la venuta di Gesù Cristo, Dio si è reso visibile ai nostri occhi e noi quindi lo possiamo raffigurare in immagine: «Finché Dio è invisibile, non farne l’icona. Ma dal momento che vedi l’incorporeo divenuto uomo, fa’ l’immagine della forma umana; quando l’invisibile diventa visibile nella carne, dipingi la somiglianza dell’invisibile». Ecco la chiave per comprendere la straordinaria forza del legame fra Bibbia e arte. Le opere d’arte che nel corso dei secoli si sono profuse a trasformare in immagini le storie bibliche hanno cercato, ogni volta provvisoriamente e ogni volta di nuovo, di dipingere la somiglianza dell’invisibile.
Se dipingere l’invisibile, se raffigurare, trasformare e ridurre in immagine il mistero di Dio, è un compito impossibile, e per ciò stesso interdetto, noi possiamo però raffigurarlo indirettamente, dipingendo qualcosa che, allusivamente, lo evoca, “gli somiglia”. Ma siccome, così facendo, l’immagine sacra messa in mostra si avvicina soltanto all’invisibile di Dio, ecco che, rendendo visibile ciò che solo indirettamente somiglia al Dio invisibile, finiamo inevitabilmente ed esplicitamente per mettere invece in mostra qualcosa di noi stessi: cercando di fare invano il “ritratto” di Dio, ci facciamo quasi senza accorgercene un “autoritratto”, trasformiamo in immagine chi siamo noi. In altre parole, raccontando attraverso le opere d’arte le storie della Bibbia, raccontiamo al tempo stesso che immagine abbiamo di noi, della nostra società, rendiamo visibile il mondo in cui viviamo.
Ed ecco perché, contemplando le opere d’arte sacra del passato, non veniamo soltanto a sapere come ci raffiguravamo un tempo il mondo divino, ma anche come i nostri antenati raffiguravano sé stessi. Il rapporto fra Bibbia e arte ci rivela così l’inesauribile mistero di Dio, ma anche la verità su noi stessi, la nostra storia, di epoca in epoca. Si potrebbe obiettare che la riforma protestante ha voluto ripristinare l’antico interdetto alle immagini sacre. Ma proprio il vuoto dei templi protestanti, privi di immagini sacre, mette ancor più in risalto, visivamente, il lato invisibile dell’immagine di Dio. E in quel vuoto fa risuonare con ancor più forza il suono della Parola predicata, la potenza e la bellezza dell’Evangelo che si fa annuncio, si fa musica protesa verso il mistero di Dio. Tant’è che nei templi riformati si è sempre dato ampio spazio alla musica, al canto comunitario: anche la musica sacra si rivela così un modo per “dipingere”, ma in forma di suono, la “somiglianza dell’invisibile”.
già presidente del Centro culturale protestante di Milano
La preghiera collettiva per la salute del Papa non è pretesa di cambiare i disegni di Dio ma devoto affidamento alla sua volontà, occasione per «trarre energie di rinnovamento spirituale» per una società come la nostra segnata da troppe divisioni, abbandoni, solitudini. Lo spiega l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per vita, nel giorno inaugurale del convegno su “Fine del mondo, responsabilità e speranze” che fino a domani metterà a confronto in Vaticano scienziati di varie discipline provenienti da tutto il mondo.
La salute del Papa sta suscitando una partecipazione commovente di fedeli attraverso preghiere e iniziative spontanee di vicinanza e di affetto. Qual è il significato di questo grande movimento di popolo?
Papa Francesco sta esercitando un vero e proprio “magistero della fragilità”. Non ha paura di mostrarsi, nei suoi anni e nei momenti di malattia. È un insegnamento che vale per tutti noi. Per questo assistiamo alle enormi manifestazioni di affetto che ci parlano di una Chiesa che comprende ed è vicina.
C’è contraddizione tra la preghiera di intercessione per la salute del Papa e la scelta di affidarsi alla volontà di Dio per quanto riguarda la vita di ciascuno di noi?
Direi di no. La volontà di Dio è imperscrutabile e il Suo disegno su ognuno di noi è un mistero da decifrare e scrutare nella nostra vita. La preghiera è la risorsa più forte per unirci a Dio e alla Chiesa, per trarre energie di rinnovamento umano e spirituale. Noi sappiamo che moriremo, un giorno. Ma sappiamo anche che la destinazione finale è la risurrezione per la vita eterna. Gesù lo ha promesso. In Lui crediamo e preghiamo.
Vorrei dirlo in modo più chiaro: le nostre preghiere hanno la capacità di cambiare i disegni di Dio?
E in modo chiaro le rispondo. Non esiste una volontà di Dio per il male, il Dio di Gesù Cristo in cui crediamo manda vita, non malattie. Per questo pregare per la salute, nostra, dei nostri cari, del Papa, ci colloca in piena sintonia con il cuore di Dio. Ma siccome il male c’è, viene, noi siamo chiamati alla lotta, e la preghiera fa parte di questa buona battaglia. Altro, invece, è affermare che nella tempesta noi viviamo una prova, spesso dura, e la fede mi assicura che in questa prova ho Dio al mio fianco, perché lui per primo l’ha vissuta nella carne del suo Figlio.
Nel messaggio che il Papa le ha indirizzato ieri mattina (il testo integrale in questa pagina) in occasione del convegno organizzato dalla Pontificia Accademia per la vita si ricorda tra l’altro un passaggio della Spe salvi di Benedetto XVI in cui si spiega che la realizzazione della speranza di ogni persona può concretizzarsi solo all’interno di un “noi” di popolo. Può essere questo il senso della vicinanza espressa da milioni di fedeli per la salute del Papa?
Si vede il popolo di Dio in azione in queste settimane. Dico di più. Gli anziani, noi anziani, come papa Francesco, abbiamo un messaggio per il mondo, di sapienza, di accoglienza. La fragilità che portiamo con noi è un segno per il mondo. Il noi, di cui lei mi chiede, è l’unica risorsa possibile per contrastare divisioni, solitudini, abbandoni. Penso a quanto è importante, nella malattia, avere una famiglia vicina e dei fratelli e delle sorelle nella fede, degli amici che non ci lascino soli. Se oggi tutti preghiamo per il Papa, lui, come ha detto, si sente abbracciato. Possiamo, nelle nostre comunità cristiane, pregare ogni settimana per i malati, ricordandoli per nome.
Il Papa parla anche del dovere di ascoltare gli esperti che si interrogano sul futuro del Pianeta – come succederà in questi giorni al convegno – per arrivare a una “profonda revisione” dei nostri parametri riguardo all’antropologia e alle culture. Quali sono nel concreto gli aspetti a cui occorre ripensare per arrivare a modelli più adeguati per la nostra società?
Questo mondo che abbiamo costruito ha un grande limite: abbiamo troppe divisioni e ingiustizie, troppe diseguaglianze. Potremmo anche distruggerlo e distruggerci, invece di farlo crescere e custodirlo. Non è catastrofismo, è una terribile realtà da contrastare attraverso una alleanza dei saperi, degli scienziati, degli umanisti, per una rinascita della vita. Siamo una sola famiglia umana e abbiamo un solo pianeta. Che vogliamo fare? Questa è la domanda che ci possiamo in questi giorni di lavoro.
In questi giorni parlerete di biologia, fisica, linguistica, genetica, biologia, teologia, educazione e altro ancora. Qual è la comune situazione di crisi che lega queste discipline e c’è davvero la possibilità di uscire da questa stagnazione con un progetto coordinato?
Si. Credo fermamente che serva un sussulto di responsabilità di tutte le componenti delle nostre società. Donne e uomini di buona volontà, dobbiamo unirci. Vedo che in tanti - politici, scienziati, persone semplici - mi chiedono e hanno grande speranza verso il Papa e la Chiesa come faro e baluardo di civiltà. A questa speranza e richiesta rispondiamo, intanto con questo appuntamento, per aggregarci e aprire alla possibilità di un futuro umano. L’unico possibile.
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Si è celebrato ieri, domenica 2 marzo, il Giubileo dei gran priori, reggenti e presidenti delle associazioni nazionali del Sovrano Ordine di Malta, che nei giorni scorsi, presso la Villa Magistrale all’Aventino, a Roma, si sono riuniti per la loro prima conferenza a quasi due anni dall’elezione del nuovo governo dell’Ordine. Guidati dal gran maestro fra’ John Dunlap i leader internazionali dell’Ordine hanno sfilato oggi in processione attraverso la Porta Santa di Santa Maria Maggiore, dove poi hanno partecipato alla Messa presieduta dal cardinale patrono dell’Ordine, Gianfranco Ghirlanda. Si trattava per per la precisione dei rappresentanti delle 50 associazioni nazionali e dei 10 priorati, oltre che dei corpi di soccorso e delle entità umanitarie dell’Ordine.
I partecipanti si sono uniti in preghiera per la salute di papa Francesco, in comunione con tutti i membri dell’Ordine nel mondo che in questo momento stanno affidando il Pontefice alle loro suppliche.
Nell’omelia il cardinale Ghirlanda ha ribadito il vero significato dell’indulgenza giubilare: «Ricevere l’indulgenza dell’Anno Santo non si riduce all’adempimento di azioni esterne prescritte, ma nella conversione del cuore, come passaggio dalle cose vane che possono essere presenti nella nostra vita e al presumerci giusti, all’umiltà di un cuore che riceve come dono la misericordia di Dio».
Al termine della celebrazione eucaristica, il gran maestro, il gran commendatore e il cardinale patrono si sono recati all’altare della reliquia della Sacra Culla, dove si sono raccolti in preghiera.
Il Sovrano Militare Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, nato a Gerusalemme nella seconda metà dell’XI secolo, è soggetto primario di diritto internazionale e ordine religioso cattolico e laicale. La sua missione è testimoniare la fede e servire i poveri e i malati. Oggi l’Ordine opera principalmente nell’ambito dell’assistenza medica-sociale e degli interventi umanitari, ed è presente in oltre 120 paesi. Insieme ai suoi 13.500 membri, operano 100.000 volontari, sostenuti da circa 52.000 medici, infermieri e paramedici. Gestisce ospedali, centri medici, ambulatori, istituti per anziani e disabili, centri per malati terminali, progetti di assistenza sociosanitaria e psicologica per migranti e rifugiati. Malteser International, l’agenzia di soccorso internazionale dell’Ordine di Malta, fornisce aiuti di emergenza nei teatri di guerra e in caso di disastri naturali. L’Ordine ha rapporti diplomatici con 114 Stati, relazioni ufficiali con altri 6 Stati e rapporti a livello di ambasciatori con l’Unione europea. Ha lo status di Osservatore permanente alle Nazioni Unite ed è rappresentato nelle principali organizzazioni internazionali. Dal 1834 il governo del Sovrano Ordine di Malta ha sede a Roma.
«Migranti, missionari di speranza». Questo il tema scelto dal Papa per la 111ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che sarà celebrata il 4 e 5 ottobre prossimi. Non ricorrerà infatti come avviene di consueto l’ultima domenica di settembre ma coinciderà con Il Giubileo del migrante e del mondo missionario, previsto nelle date indicate prima.
In una nota, il Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale spiega che il tema voluto dal Papa evidenzia il coraggio e la tenacia dei migranti e dei rifugiati, i quali testimoniano quotidianamente la speranza nel futuro nonostante le difficoltà. È la speranza di raggiungere la felicità anche oltre i confini, la speranza che li porta ad affidarsi totalmente a Dio. Migranti e rifugiati diventano “missionari di speranza” nelle comunità in cui vengono accolti, contribuendo spesso a rivitalizzarne la fede e promuovendo un dialogo interreligioso basato su valori comuni. Essi ricordano alla Chiesa il fine ultimo del pellegrinaggio terreno, cioè il raggiungimento della Patria futura.
La Chiesa ha istituito la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato nel 1914 su iniziativa di papa Benedetto XV. Sin da allora è un’occasione per dimostrare la preoccupazione per le diverse categorie di persone vulnerabili in movimento, per pregare per loro mentre affrontano molte sfide, e per aumentare la consapevolezza sulle opportunità offerte dalla migrazione. La prima edizione dela Giornata fu celebrata il 21 febbraio 1915 facendo in riferimento alle migrazioni forzate generate dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale che avrebbe generato almeno 16 milioni di profughi. Nel 1928, la Congregazione Concistoriale decise di trasferire la Giornata alla prima domenica di Avvento. Dal 2019 si celebra ogni anno nell'ultima domenica di settembre.
L’appuntamento non va confuso con la Giornata mondiale del rifugiato indetta dall’Onu e celebrata ogni 20 giugno per rendere omaggio alla forza e al coraggio di chi è stato costretto a fuggire da conflitti o persecuzioni. Si è tenuta per la prima volta a livello mondiale il 20 giugno 2001 nel 50° anniversario della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. La risoluzione che ha introdotto la Giornata Onu è stata approvata il 4 dicembre 2000.
Uno degli errori più gravi che si possa fare con la spiritualità è quella di confinarla in una stanza a sé stante, separata dall’idea stessa del corpo. In realtà ne fa intimamente, e verrebbe voglia di dire, completamente parte. Ci si mette in contatto con l’Assoluto anche attraverso i sensi, che dunque devono essere il più possibile puri e pronti ad accogliere la Parola di vita. Le mani, i piedi, gli occhi, la bocca, le orecchie possono e devono essere capaci di lasciare spazio alla forza dello Spirito. E del reso il nostro cuore è fatto di carne. Lo evidenzia benissimo in questa preghiera, tratta dal suo “Diario”, Dag Hammarskjöld (1905-1961), ex segretario generale dell’Onu morto in un incidente aereo, probabilmente a seguito di un attentato, mente stava per raggiungere il Congo alle prese con l'instabilità e i tumulti seguiti alla dichiarazione d’indipendenza. Premio Nobel per la pace postumo, la sua storia personale è anche occasione per riflettere su come, citando Paolo VI, la politica, se vissuta bene, possa essere la più alta forma di carità.
«Tu che sei al di sopra di noi, Tu che sei uno di noi,
Tu che sei anche in noi,
possano tutti vedere Te anche in me,
possa io preparare la strada per Te,
possa io rendere grazie per tutto ciò che mi accade.
Possa io non scordare in ciò i bisogni altrui.
Tienimi nel Tuo Amore
così come vuoi che tutti dimorino nel mio.
Possa tutto in questo mio essere volgersi a Tua gloria
e possa io non disperare mai.
Poiché io sono sotto la Tua mano,
e in Te è ogni forza e bontà.
Dammi puri sensi, per vederti...
Dammi umili sensi, per udirti...
Dammi sensi d'amore, per servirti...
Dammi sensi di fede, per dimorare in Te».
Quando qualche “grande della terra” è colpito da una malattia importante questo fatto diventa subito una notizia. Cosa ci sia in questo interesse è difficile da dire; spesso, il calcolo di ciò che potrà accadere dopo. La malattia di papa Francesco è diversa; anche nel suo caso vi è un interesse forte, ma è soprattutto quello della gente comune, di quelle persone raccolte a pregare attorno alla statua di san Giovanni Paolo II, nel giardino del Gemelli, a chiedere la grazia della guarigione di papa Francesco a quel suo predecessore che ha ben conosciuto la sofferenza, i lunghi e ripetuti soggiorni al Gemelli, che aveva iniziato a chiamare quell’ospedale il “Vaticano numero 2”.
La catena ininterrotta di preghiera che accompagna l’evolvere della malattia di papa Francesco testimonia di una trepidazione affettuosa, intensa, come per un familiare la cui vita ci è cara. Il dolore rende umani, la malattia rende evidente il limite, il sentirsi esposti alla morte fa sperimentare la propria radicale fragilità. Nessun ruolo fa più da schermo ma, casomai, la popolarità che il ruolo ha accresciuto avvicina ciascuno a quella condizione di fragilità, fa sentire partecipi, genera un’immedesimazione: sembra quasi di sperimentare quello che quella persona, esposta come noi alla fragilità, vive, sperimenta, teme, spera. Non sappiamo come papa Francesco stia vivendo queste giornate; sappiamo solo quello che filtra dalle notizie ufficiali, che sembrano voler conservare nell’opinione l’immagine dell’uomo pubblico: il Papa prega, lavora, incontra i collaboratori... Continua a “fare il Papa”!
Ma chi ha attraversato vicende simili a quella che sta vivendo papa Francesco sa che c’è molto altro nelle sue giornate. C’è il dolore fisico, quando questo sembra invadere tutto di noi, tanto da non lasciare nella coscienza spazio per vivere il molto di più che ciascuno è, rispetto al suo corpo malato. C’è l’esperienza della dipendenza in tutto, della propria intimità violata, della libertà cui occorre rinunciare per fidarsi di chi si prende cura di noi. C’è la rinuncia a quelle occupazioni quotidiane che, importanti o meno che siano, costituiscono la nostra normalità, coinvolgono altri, incidono anche sul loro lavoro, influiscono sulle nostre responsabilità. E quando la malattia espone al rischio della morte, quello è il momento in cui tutta la vita ci passa davanti per essere riconsegnata, in quel salto nell’ignoto che solo la fede rischiara, trasformandolo in compimento, nell’attesa di un abbraccio nel quale ritrovare, purificato, tutto ciò che in quel momento lasciamo. E c’è anche tanto altro: la paura, le domande che non finiscono mai, le lacrime – le nostre e quelle delle persone care – e i progetti improvvisamente interrotti, e la preghiera che salva dalla disperazione, e l’abbandono… La vicinanza di chi ci vuole bene motiva a lottare: dobbiamo farlo anche per loro, e questo pensiero ci aiuta a non lasciarci andare, a non arrenderci al male.
Chissà se questo è quello che vive anche papa Francesco, il molto di più che le cronache dei giornali non possono raccontare perché troppo intimo, troppo normale, troppo simile a quello che ciascun malato sperimenta. Quando sento le notizie che riguardano l’andamento della malattia di papa Francesco, quando vedo le immagini del Gemelli, rivedo me stessa: la soglia di quel Policlinico l’ho attraversata più volte, in quell’ospedale ha soggiornato a lungo. Credo di poter immaginare ciò che sta vivendo il Papa, mi sento partecipe della sua vita da malato. In questi giorni papa Francesco mi è ancora più caro, e prego perché tra pochi giorni anche lui possa dire a sé stesso di aver ricevuto un miracolo. Quello della guarigione lo faranno soprattutto la medicina e la professionalità di un personale molto qualificato. Ma c’è un altro miracolo che nessuno, tranne lui, potrà avvertire: quello di aver sperimentato che c’è un dolore che rende la nostra umanità più intensa e consapevole; che c’è un Amore che ci sostiene e ci fa credere alla bellezza della vita anche mentre attraversiamo l’inferno.
«Tutto il pontificato di Francesco è un inno alla vita. E il letto del Policlinico Gemelli in cui il Papa è ricoverato diventa una cattedra del dolore che è parte integrante del suo magistero, ma che al tempo stesso invita la Chiesa e il mondo intero alla fiducia e alla speranza». Il vescovo di Cassano all’Jonio, Francesco Savino, sa bene quanto il Vangelo chiami ad abbracciare chi è toccato dalla malattia e dalla sofferenza. Prima di essere chiamato proprio da papa Bergoglio a guidare la diocesi calabrese di cui è pastore dal 2015, aveva voluto a Bitonto l’Hospice centro di cure palliative “Aurelio Marena” per pazienti in fase avanzata o terminale di cancro. L’aveva aperto l’8 luglio 2007 nella città pugliese dove era parroco e rettore del santuario dei Santi Medici che custodisce la reliquia dei venerati taumaturghi Cosma e Damiano. «In una società che esorcizza tutto ciò che è fragile perché devono prevalere la prestanza e la forza fisica - spiega il presule - il credente è esortato a vedere nel dolore un luogo teologico: perché è uno degli spazi in cui facciamo esperienza dell’incontro con Dio». Una pausa. «La malattia è un Getsemani che rimanda a quell’orto degli ulivi di Gerusalemme dove il Signore tocca con mano l’angoscia, il tormento, la debolezza, la solitudine umana. Ed è nel Getsemani che Gesù chiede agli apostoli di vegliare con lui. Ecco, anche noi siamo tenuti a vegliare accanto ai malati. Il che significa stare al loro fianco, tenere la loro mano nella nostra mano, offrire una carezza».
Dal 2022 il vescovo Savino è vice-presidente della Cei per l’Italia meridionale. «Tutta la Chiesa italiana è stretta intorno al letto di papa Francesco. Un popolo che, con le mani giunte oppure in ginocchio o ancora in atteggiamento di adorazione, prega il Signore Risorto perché giunga la sua guarigione. Lo ha testimoniato la veglia che il nostro cardinale presidente, Matteo Zuppi, ha presieduto nella chiesa di San Domenico a Bologna o il Rosario che ogni sera viene recitato in piazza San Pietro».
?Eccellenza, come vive la malattia del Papa?
?«Due grandi sentimenti abitano in me. Il primo è quello della preoccupazione. Mai, come in questo frangente della storia dell’umanità e della Chiesa, abbiamo ancora tutti bisogno di papa Francesco. Un Papa coraggioso e profetico con il suo magistero e i suoi gesti. Diceva il grande don Tonino Bello che serve rinunciare ai gesti del potere ma non al potere dei gesti. Spesso le azioni valgono più di mille parole. Francesco ha fatto sintesi tra le ragioni di Dio e le ragioni della storia, tra la fedeltà al cielo e la fedeltà all’umano. Poi l’altro sentimento che avverto è quella della speranza. Speranza nella ripresa del Papa, speranza nella sua capacità di guida».
Un movimento orante sta accompagnando la degenza.
«La speranza è figlia della preghiera. Le nostre diocesi, le nostre parrocchie, tanta gente comune stanno invocando il Signore, anche attraverso l’intercessione della Vergine e dei santi, perché il Padre celeste possa anzitutto confortare il Papa nella difficile prova che sta attraversando, e poi perché lo faccia uscire dall’ospedale. Mi piace pensare che due tipologie di mani si stanno incrociando intorno a Francesco: le mani rivolte al cielo di chi prega per lui; e le mani dei medici che operano sul suo corpo e che lo stanno curando».
Come sostenere un malato, soprattutto se in condizioni critiche?
«Qualunque sia il suo quadro clinico, tanto più quando la guarigione è remota, è necessario stargli vicino. In questi giorni ho avuto un incontro su problematiche legate alla sanità, e ai medici ho proposto l’“etica della sedia”: vuol dire, appunto, essere seduti al fianco al paziente. Assieme alle cure e ai farmaci, il malato ha necessità di una presenza, di un sorriso, di una parola, di un gesto che dice vicinanza ed empatia. Vale per il personale sanitario. Vale per ciascuno di noi».
Il Papa ha chiesto trasparenza sulle sue condizioni di salute, quasi a spronare al coraggio nella malattia. Il tutto mentre in Italia si tenta di legalizzare il suicidio assistito.
«Tra l’accanimento terapeutico e l’eutanasia, c’è una terza via su cui anche papa Francesco è intervenuto più volte: è quella delle cure palliative che implica un approccio globale del malato. Nel rispetto di chi la pensa diversamente, dico che il Papa ci sta ancora una volta mostrando la sua coerenza, intesa come obbedienza alla vita. La vita non va mai sprecata o banalizzata. E va vissuta in tutte le sue espressioni, fino alla sua naturale conclusione».
Intanto continuano le insinuazioni mediatiche su di lui e sul futuro della Chiesa.
«Sono nauseato dalle ripetute speculazioni: le dobbiamo respingere al mittente. Si vuole confondere la verità con la menzogna. Ma, come insegna il Vangelo di Giovanni, è la verità che rende liberi. Non c’è libertà senza verità. Sono vergognosi certi interventi che non mostrano alcun rispetto per il Papa: è il caso delle voci sulle dimissioni. Lasciamo che Francesco possa superare questo momento. E lasciamo al futuro le decisioni che con saggezza e discernimento la Chiesa ha sempre preso in modo opportuno».
Il Giubileo con il Papa “lontano”. Come affrontarlo?
«Francesco ha avuto l’intuizione che l’Anno Santo ci chiamasse a essere “pellegrini della speranza”. Alla scuola di Abramo che ci invita alla “spes contra spem”, a sperare con ogni speranza, dobbiamo essere saldi nel paradigma della speranza».
Assume un volto diverso la Quaresima che inizia mercoledì?
«Sarà un’ulteriore occasione per essere ancora più vicini a papa Francesco e rinsaldare il legame fra preghiera, speranza e vigilanza».
Medici, infermieri, operatori sanitari, personale tecnico e amministrativo del Policlinico Universitario e dell’Ospedale “Gemelli Isola” di Roma: insieme hanno celebrato oggi il Giubileo attraversando la Porta Santa della Basilica di San Pietro, dopo il pellegrinaggio partito da Piazza Pia alle ore 10 guidato dall’assistente spirituale del Gemelli, don Nunzio Currao.
«È un grande dono per tutti noi poter celebrare oggi l’Eucaristia nella Basilica di San Pietro, il centro e il cuore della cristianità» ha detto nell’omelia della Messa il vescovo Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «il nostro pensiero va in primo luogo al Santo Padre Francesco che pensavamo di poter incontrare questa mattina in Aula Paolo VI per la catechesi giubilare, ma ci ha sorpreso venendo lui da noi al Policlinico Gemelli. Il nostro pensiero va in primo luogo a lui e la nostra preghiera si innalza in forma ancora più intensa dalla sede del successore di Pietro, perché Papa Francesco possa riprendersi pienamente e in tempi brevi. Conosciamo l’altissima competenza dei nostri medici e sosteniamo anche loro con la preghiera perché possano fare le scelte terapeutiche più appropriate ed efficaci. Da tutto il mondo giunge incessante al Santo Padre il balsamo più prezioso: la preghiera. Anche per questo non abbiamo mai perso la speranza che il Pontefice possa superare questo difficile momento e riprendere a pieno e con tutte le energie necessarie il suo alto ministero apostolico».
Mi accorsi che piangeva, mentre le voltavo le spalle perché mi abbottonasse il grembiule per andare a scuola. Ero solo un bambino. «Mamma, è successo qualcosa?» le chiesi, preoccupato. «II Papa è grave» singhiozzò. Non compresi. Il papa gravemente ammalato era Giovanni XXIll. Lei, la mia mamma, come milioni di persone, semplicemente lo amava. Donna di paese, povera, con cinque figli da sfamare, del suo pontificato non sapeva quasi niente. Semianalfabeta, di certo non aveva letto le encicliche da lui emanate. Sapeva che era il Papa e le bastava. Di lui si fidava. Dal Papa buono si sentiva protetta. Quell’aria, poi, da vecchio parroco di campagna la rassicurava. Nella loro semplicità i poveri, i semplici, attribuiscono al Papa anche poteri che non ha. Di quella mattina di fine maggio, di tanti anni or sono, ricordo tutto: il suo volto, che pochi anni dopo non avrei più rivisto, il posto dove eravamo, il tono lamentoso della voce, le guance che tentava di asciugare.
Si può piangere per il Papa, ammalato, incompreso, o inascoltato che sia? È giusto pregare perché il Signore ce lo conservi ancora? In fondo è una persona anziana e sofferente. Certo che si può, anzi, si deve. Sulle spalle di Francesco, ci siamo tutti, credenti e non credenti. Nessuno più di lui brama la pace per questa povera e bistrattata umanità. Nessuno più di lui la implora presso il trono del buon Dio. I credenti lo sentono vicino, gli parlano, gli aprono il cuore come si fa con i santi in paradiso. Lasciateli stare, non vi intromettete. Il popolo santo di Dio ha conservato una sensibilità particolare per captare la voce dello Spirito. Mettiamoci in ascolto. Milioni di persone avrebbero come unico desiderio quello di poterlo vedere, stringergli la mano, accarezzarlo, essere da lui benedetti.
In questi anni tanti lo hanno stiracchiato di qua e di là. Troppo progressista, ancora troppo tradizionalista. Fughe in avanti, rigurgiti nostalgici. Lo dico sorridendo: se potessimo mettere insieme i “consigli” che da ogni parte del mondo gli abbiamo suggerito, la biblioteca vaticana non basterebbe a contenerli. La Chiesa è bella anche per questo, nella nostra antica e grande casa c’è posto per tutti, le opinioni sono benvenute, le idee hanno diritto di cittadinanza, i consigli sono accolti. Nessuno, però, osi pensare di essere l’Illuminato di cui non si possa fare a meno. Siamo tutti inutili servi. Se non ci fosse il Papa resteremmo ad accapigliarci per i prossimi millenni oscurando la luce del Vangelo. A lui, non a me, è affidato il timone della Nave; su di lui, non su di te, incombe il peso schiacciante della Chiesa. Ma può un uomo, anziano, sofferente, fare fronte a tanta fatica in un mondo in cui gli anziani non suscitano troppa simpatia?
L’esempio lampante lo abbiamo sotto gli occhi. Dirgli grazie è un dovere. Sostenerlo in ogni modo, una grazia. La preghiera non è un toccasana ma nemmeno un’illusione. È comunione con Dio, con i fratelli, con l’umanità, con il Creato, con i morti. È respiro dell’anima, apertura della mente, riposo del corpo. Di Dio non bisogna aver paura. Cercare il suo volto è averlo già intravisto. Nessun imbarazzo, quindi, a insistere nel chiedergli la guarigione di Francesco, sempre rimettendoci alla Sua volontà. Nessun timore nel parlargli cuore a cuore. Se solo al Papa potesse arrivare il giornale che abbiamo tra le mani, vorrei potergli dire: «Forza, Francesco! Non arrenderti, non cedere, resisti. Tu ci sei prezioso. Le nostre preghiere e quelle dei tuoi prediletti, i poveri, non sono solo parole, ma gemiti accompagnati da lacrime sincere. E tu, meglio di chiunque, sai che piange solo chi veramente ama».
«Il futuro non verrà costruito con la forza, nemmeno con il desiderio di conquista, ma attraverso la paziente applicazione del metodo democratico, lo spirito di consenso costruttivo e il rispetto della libertà». Questa citazione di Alcide De Gasperi, figura di spicco del cattolicesimo democratico, racchiude la sua visione di politica e governance che oggi avrebbe ancora tanto da insegnare. La firma del verbale e la consegna di 24 plichi sigillati con la ceralacca contenenti oltre 22mila documenti. È il rituale che oggi a Roma ha accompagnato la sessione di chiusura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù eroiche, fama di santità di Alcide De Gasperi (1881-1954). Fra i fondatori della Democrazia Cristiana, è stato otto volte presidente del Consiglio fra il 1945 e il 1953, traghettando l’Italia dalla monarchia alla Repubblica, affrontando le trattative di pace dopo la fine della seconda Guerra mondiale, gestendo la fase riformista della ricostruzione post-bellica. «Padre di famiglia e laico», come viene indicato nei documenti del processo. E padre dell’Italia repubblicana, statista lungimirante che ha contribuito a gettare le basi dell’Europa unita.
Un impegno sociale e politico il suo, guidato da un’incrollabile fede nella Provvidenza. È stato «un politico mosso da una profonda spiritualità e da una visione cristiana della vita e del servizio pubblico - ha affermato il cardinale vicario di Roma Baldo Reina che ha presieduto il rito nella Sala della Conciliazione del Palazzo Apostolico Lateranense -. La granitica fede fu per lui una guida costante che ispirò ogni sua scelta e azione politica. Non si limitò a professarla nel privato, ma la tradusse in un impegno concreto nella costruzione di una società giusta e solidale».
Nato il 3 aprile 1881 a Pieve Tesino, piccolo paese nel Trentino all’epoca sotto l’Impero austro-ungarico, da giovane Alcide De Gasperi subì la persecuzione del regime fascista. Fu arrestato nel 1927 e condannato a quattro anni di reclusione, ottenendo successivamente la grazia. Visse per anni in condizioni economiche precarie, trovando rifugio presso la Biblioteca Apostolica Vaticana. «Uno dei tratti distintivi del suo carattere era la capacità di affrontare le difficoltà con serenità e speranza - ha proseguito il porporato -. La sua visione dell’Europa, fondata sulla cooperazione tra i popoli, rifletteva un approccio inclusivo e lungimirante, in netto contrasto con le divisioni nazionalistiche che avevano segnato il continente nei decenni precedenti. Per lui, il confine non era una barriera divisoria, ma un ponte tra culture diverse».
Parlamentare in Austria nel 1911 fra le fila dei Popolari, aveva fatto parte in rappresentanza della Dc del Comitato di liberazione nazionale. Padre costituente, rimase in Parlamento fino al 1954, anno della sua morte avvenuta il 19 agosto nella sua casa in Val di Sella (nel Comune di Borgo Valsugana in Trentino) dove amava trascorrere lunghi periodi con la famiglia. È sepolto a Roma, nel portico della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura.
Sottolineando la capacità dello statista di esercitare «la politica con senso di giustizia e rettitudine», il cardinale vicario di Roma ha affermato che «l’eredità politica di De Gasperi è ancora oggi oggetto di riflessione per il suo approccio pragmatico, la sua capacità di mediazione e la sua visione strategica». La sua linea politica costituisce un’eredità importante «in un momento storico in cui si avverte la necessità di leader credibili e coerenti - ha concluso il cardinale Reina -. È un modello attuale, capace di offrire insegnamenti validi per le persone impegnate in politica e nel sociale. La sua eredità spirituale e politica continua a essere un faro per le future generazioni, dimostrando che l’integrità, la dedizione e il senso del dovere possono lasciare un segno indelebile nella storia di un Paese».
Al termine della cerimonia particolarmente commosso è apparso Paolo Catti De Gasperi, nipote dello statista. Essere il nipote di un uomo sulla via degli altari rappresenta «una grossa responsabilità», ha dichiarato, senza nascondere l’emozione per la chiusura della fase diocesana della causa, «un risultato che la famiglia aspettava silenziosamente da molto tempo». La causa diocesana era stata aperta a Trento nel 1993. Il prefetto del Dicastero delle cause dei santi, il cardinale Marcello Semeraro, dopo aver ottenuto l’assenso sia dell’arcivescovo di Trento, sia del cardinale vicario per la diocesi di Roma, ha trasmesso il rescritto concedendo il trasferimento della competenza del foro alla diocesi di Roma. Postulatore della causa di beatificazione e canonizzazione è Paolo Vilotta, al quale sono stati consegnati gli atti processuali, in doppia copia conforme, chiusi in contenitori sigillati, da trasmettere al dicastero vaticano.
Alla cerimonia hanno partecipato, tra gli altri, il cardinale decano Giovanni Battista Re, che da tempo approfondisce la figura del servo di Dio, e l’ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, che è stato esponente della Democrazia Cristiana. Per l’ex vice presidente del Consiglio dei ministri, Angelino Alfano, attuale presidente della Fondazione De Gasperi, nata nel 2022 per promuovere la causa, «in un tempo che grida l’urgenza di testimonianza cristiana al servizio pubblico, la vita e la fede di De Gasperi continuano a illuminare come un faro il cammino di chi ha voglia di dedicarsi alla politica. Ha lasciato un’impronta indelebile nella storia spirituale del nostro Paese e dell’Europa».?
Assistiamo ad una rivoluzione mondiale ognuno a casa propria, illudendoci che non succederà niente e che tutto ritornerà come prima, a quelli che riteniamo fossero i tempi d'oro. Ed era invece la nostra giovinezza, se ora siamo anziani, o la favola che ci raccontavano da bambini sparita nelle nebbie degli anni, se siamo giovani. Dobbiamo avere il coraggio di guardare al mondo così come ci si presenta e nello stesso tempo rivedere quali sono le cose primarie alle quali non possiamo rinunciare, quali sono i nostri doveri in una società che ci appartiene, dove siamo tenuti a dare la nostra opera perché migliori.
Ciò che sembra mancare è la consapevolezza che il mondo siamo noi e che nessuno ci aiuterà se non cominciamo a farlo noi stessi. Il primo compito è quello di guardarsi dentro e vedere cosa c'è da usare, da rendere più in armonia con i tempi e da giocare sul terreno non solo personale, ma comune. Allo stesso modo non saranno le armi che mandiamo ai popoli in guerra che decideranno la loro sorte, ma le idee, i principi di una civiltà moderna, la coscienza politica, l’impegno morale, l'istruzione che darà un futuro ai popoli giovani che entrano oggi nell'esperienza stimolante di un mondo globale. E l'Europa sembra perdere colpi, come un motore invecchiato, e forse incomincia a rendersi conto che, per esportare i risultati del suo cammino, bisogna anche non averli dimenticati o perduti.
Ci sono certe periferie di città che sono diventate, in ogni senso, terre di missione. Un prete, alcuni giorni fa, diceva che nella sua parrocchia aveva dato inizio ad una scuola di educazione civica dove si insegna anche quale significato ha il sedersi a tavola e mangiare con i propri familiari, dove incomincia la libertà personale e quale è il suo confine naturale e quello della legge. Cosa si può sopportare e dove invece è giusta una posizione entro i confini del diritto. Con sua sorpresa egli vedeva che ogni età è buona per incominciare, se si rinuncia alle sole critiche e recriminazioni.
A questo proposito ci sono alcune lettere di De Gasperi scritte a sua moglie quando, appena uscito di prigione, non trovava lavoro e doveva passare inosservato tra la gente senza dire proprio nome, quasi fosse un galeotto. «Mia cara - scrive a Francesca quando vive solo a Roma non essendo in grado di farsi raggiungere dai suoi, perché privo di beni materiali -, eccomi qua nella nuova pensione di famiglia. Di famiglia c'è veramente poco, se non la necessità di starsene pigiati attorno ad un tavolo con le due sorelle padrone di casa, un avvocatino, una signora anziana, un'altra con un figlio studente ed un medico. Gente che non so da che parte vengano, né loro sanno di me: l'unico vantaggio, appena mangiato me la svigno e me ne vado in fretta, ma quanti noviziati devo ancora fare, ai miei verdi anni! Oggi è una giornata resa gaia da un raggio di sole: Jacini mi annuncia la traduzione dal tedesco di un'opera storico-bibliografica, il lavoro lo farei io, naturalmente anonimo. Potrei guadagnare 8 lire a pagina. Capisci, mogliettina mia, se la cosa va, dopo un po' di esercizio, posso arrivare a tradurre anche dieci pagine al giorno; ma se fossero anche cinque o sei per intanto sarei a posto. E poi tutto è incominciare, ringrazio il buon Dio che non mi abbandona. Intanto leggo Byron con una collega di pensione che è maestra di inglese e imparo a dattilografare nello studio di Spataro. Il guaio è la sera perché in camera fa freddo e non posso trattenermi a studiare, allora esco per il mio sobborgo e talvolta per ripararmi finisco al cinema, e lì ci rimetto i denari che risparmio non bevendo vino! Bell'economia, vero?». Aveva 47 anni, una vita di grandi prospettive dietro di sé ormai bruciata, un presente duro ed un futuro tutto da afferrare con le proprie qualità usando resistenza fisica, fiducia e grande speranza.
Questo intervento di Maria Romana De Gasperi, figlia dello statista Alcide, fa parte della raccolta scelta delle sue rubriche apparse su Avvenire per oltre vent'anni e riunite nel volume Mio padre, Alcide, pubblicato nella collana Pagine Prime di Avvenire e Vita e Pensiero.
Sella di Valsugana, 1943. De Gasperi vi aveva trascorso qualche giorno di riposo fuori stagione per riprendersi da un esaurimento che gli avevano causato il troppo lavoro, la sua sensibilità colpita dalla politica condotta dal fascismo e il suo essere cosciente di non poter fare nulla per arginare gli errori.
Una cartolina postale inviata alle sue bambine il giorno prima del ritorno a casa dice: «Ultimo saluto da qui. Dunque addio monti dirupanti sulla valle, come se la volessero cingere d’assedio; addio nudi boschi di castagni che spogli e secchi paiono di lontano culture di stuzzicadenti; addio vigneti che si direbbero seminagioni di pali, graticole cinte da muri entro i quali, come segno di spezzettamento della proprietà, si vedono centinaia di casottini che da quaggiù paiono tabernacoli di una Via Crucis che sale verso l'altipiano: e sono in verità la Via Crucis di codesti poveri contadinelli che salgono i serpeggiando con la gerla pesante».
«Addio pettirossi e cinciallegre che sul rami secchi aspettate l'ombra delle fronde per ricovero o per fare il nido; addio grilletti filosofi; addio trote del Brenta che, scendendo per lo specchio argentato del canale, siete insidiate e prese da bande di monelli che si gettano in acqua seminudi».
«Oggi ancora soffia gelato il vento, ma quando torneranno le mie bambine, le montagne rivestiranno il manto verde, i vigneti distenderanno i festoni dei loro pampini, i filosofi grilli saranno protetti dell'erba folta, gli uccellini dalle fronde spesse, allora andremo lassù assieme, dove non ci sono ambulatori, né ospedali, dove nessuno muore. Abbracci, papà».
E l'unico a morire a Sella fu proprio lui. Ma quanto lontana questa poesia dalla nostra realtà. La burocrazia si è sostituita al buon senso: per tagliare il proprio bosco ci vogliono infiniti permessi e carte, i prati non vengono sfalciati perché non sono in piano, i pascoli non servono più perché gli armenti vengono serviti direttamente nelle stalle e i “casottini” sono scomparsi mangiati dai boschi.
Resta il fascino dei grandi silenzi, il volo degli uccelli e il timido passo dei caprioli che in questa stagione fuggono il cacciatore. E mentre noi saremo portati ad una malinconia di ricordi, mio padre invece aveva sempre presente, con la realtà del suo tempo, il futuro. Mai lo abbiamo sentito disperare per ciò che il suo mondo mano a mano perdeva, al contrario egli aveva una grande speranza per il domani.
La sua vita fu quasi sempre divisa in eguale misura da una visione poetica delle cose e l'accettare o il governare, quando ne fu il tempo, con forza la realtà quotidiana: un equilibrio tra l'ispirazione e la tensione al bello e al buono e la lotta costante è dura con chi voleva distruggere il nostro paese invece di edificarlo.
Soprattutto era la sua fiducia instancabile che niente va mai perduto, che le cose e i tempi cambiano, non distruggono, che il futuro è nella mente di Dio, ma anche nelle mani dell’uomo.
Oggi che il nostro Orizzonte si è immensamente allargato e che i problemi di chi abita un piccolo centro vanno sempre più assomigliandosi a quelli di chi vive a New York o a Tokyo, dobbiamo essere pronti ad affrontare insieme il futuro anche senza togliere al nostro spirito il respiro di una poesia.
Dallo scorso 8 febbraio, Gorizia accompagna la città slovena di Nova Gorica nell’esperienza della Capitale europea della cultura per il 2025. Un percorso a cui partecipano con un ruolo da protagonista e con una serie articolata di iniziative le Chiese di Gorizia e Koper.
Il programma dei vari momenti che verranno proposti alle comunità ma soprattutto lo spirito che ne ha segnato la definizione, sono stati illustrati mercoledì scorso nella cornice della Sala del ‘700 della chiesa di Sant’Ignazio nel capoluogo isontino alla presenza, fra gli altri, dell’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli, e del direttore di Avvenire, Marco Girardo.
Nel suo intervento iniziale, Redaelli ha voluto evidenziare il messaggio che dal territorio isontino giunge all’Europa in un momento non semplice per il Vecchio Continente. «Se non ci fosse l’Europa – ha sottolineato l’arcivescovo – saremmo ancora divisi da una rete, avremmo ancora paura a passare di qua e al di là del confine saremmo ancora bloccati da timori e rancori». Certamente per ridare slancio ai valori europei non basta qualche riflessione e qualche suggestione ma «occorre riprendere continuamente i fili di ciò che ci unisce e non sono solo i soldi e i commerci, ma la cultura, l’arte, la poesia, la musica e anche la vita quotidiana di famiglie, di uomini e donne come noi a prescindere dalla lingua, dalla mentalità, dalla religione».
I temi del confine, della memoria e della pace sono stati al centro della riflessione proposta dal direttore di Avvenire, Marco Girardo. «La pace – ha evidenziato il relatore – si cerca lavorando per immaginare creativamente una via d’uscita dal labirinto del confine, uno scarto capace di sbloccare la situazione. È solo la capacità di cambiare la dinamica imposta da chi mette inizio al conflitto che può ribaltare la prospettiva».
E proprio dalla narrazione quotidianamente proposta ai lettori da tante parti del mondo dai giornalisti del quotidiano cattolico emerge la certezza che «chi, come volontario o componente dei corpi civili di pace o mediatore e mediatrice, continuamente frappone il suo corpo con un gesto concreto di pace, superando la logica della contrapposizione, crea le condizioni per preservare l’umanità in un contesto disumano e disumanizzante».
«Accanto alla storia – ha concluso – l’esperienza dimostra che l’impegno per la pace contiene una profonda sapienza umana: testimonia che la guerra non è qualcosa di cui parlare in astratto ma è sempre un vissuto drammatico di persone, prime vittime della violenza bellica. L’impegno umanitario è un investimento indispensabile per preparare la ricostruzione sociale, umana, economica, materiale dei Paesi in guerra».
Sono state quindi presentate alcune delle numerose iniziative predisposte dall’arcidiocesi di Gorizia in collaborazione con la diocesi di Koper. Ai valori dell’Europa sarà dedicato in particolare un ciclo di incontri il primo dei quali vedrà giovedì 20 marzo la presenza del cardinale José Tolentino de Mendonça, nella duplice veste di prefetto del Dicastero vaticano della cultura edi poeta in lingua portoghese: un momento per il quale sono stati coinvolti i ragazzi delle scuole cittadine e che sarà preceduto dall’inaugurazione della rinnovata sede dell’Archivio storico diocesano.
In programma, poi, accanto a momenti curati anche dalle associazioni e gruppi diocesani, la proposta di alcune mostre per evidenziare le radici della Chiesa di Gorizia con la valorizzazione, ad esempio, nel nuovo allestimento, del tesoro del Duomo.
Al tema del confine sono dedicate una serie di pubblicazioni mentre un’attenzione particolare viene data ai Cammini che permettono di conoscere il territorio e il suo significato religioso e umano: fra essi, quello transfrontaliero da Aquileia a Sveta Gora-Monte Santo e il percorso tra i luoghi della carità.
Ad accompagnare tutte le iniziative sarà un logo realizzato da Serena Cavalli, vincitrice di un concorso di idee cui hanno partecipato gli studenti del locale liceo artistico “Max Fabiani”.
«Ma che ci faccio ancora a letto? Ho le Cresime stamani. Devo alzarmi…». Il cardinale Gualtiero Bassetti ha ancora ben impresso nella mente il primo pensiero che aveva avuto quando si era risvegliato in ospedale. Era arrivato a un «passo dalla morte», come lui stesso racconta ad Avvenire. Colpito dal Covid che nel novembre 2020 l’aveva portato fino alla terapia intensiva. Era presidente della Cei e arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. «Quando ho riaperto gli occhi dopo alcuni giorni di perdita di coscienza, era una domenica mattina. Ho visto papa Francesco in televisione. E quasi non mi rendevo conto di che cosa mi fosse successo. Avrei saputo a distanza di poche ore che il Papa mi aveva chiamato e stava pregando per me». La polmonite bilaterale unita a una setticemia aveva spinto i medici a ipotizzare che non ce l’avrebbe fatta. Aveva 78 anni.
Oggi ne ha 82 anni. E si sente toccato in prima persona dalla malattia di papa Francesco. Anche Bassetti aveva ricevuto l’ossigeno. Anche lui aveva un’infezione generalizzata. «Credo che dal cielo qualcuno ci abbia messo una mano. E ce l’ha messa molto bene se sono uscito dall’ospedale». Quello di Santa Maria della Misericordia a Perugia. «Sono voluto rimanere fra la mia gente», aggiunge. Ora il “barometro” della sua salute è tornato a segnare bel tempo. Ma subito tiene a dire: «Mi ha salvato Dio. Mi ha salvato la preghiera di quanti l’hanno fatta arrivare al Signore per me. Mi hanno salvato i medici e gli infermieri che prima a Perugia e poi al policlinico Gemelli, dove ho trascorso la convalescenza, mi hanno assistito. Ho assaporato la bontà che Dio ha iscritto nei loro cuori. E ho sperimentato come nei reparti sovrabbondi l’amore». Per oltre un mese è rimasto in ospedale. Ecco perché il principale pensiero va al Papa ricoverato. «Tutta la Chiesa gli è accanto nell’abbraccio della preghiera, a cominciare dalla mia modesta persona che proprio nella malattia ha potuto sperimentare la preghiera di intercessione di Pietro che invoca Dio per un povero successore degli apostoli in difficoltà. I cuori della gente sono sintonizzati con il Papa. Gente delle nostre comunità, ma anche gente lontana dalla vita ecclesiale che Francesco ha saputo conquistare. La testimonianza, gli insegnamenti, le parole che ci dona anche dalla sua camera d’ospedale sono Vangelo che si fa vita».
Al Gemelli il cardinale era stato ricoverato nella stanza dei Papi, al decimo piano. «C’era suor Carla che non mi lasciava un minuto», sorride adesso. E cita ancora il presidio del capoluogo umbro per lanciare un monito. «Sono grato al mio ospedale. E, nonostante fossimo in mezzo all'emergenza coronavirus con i reparti colmi e i medici impegnati senza sosta, era in piena efficienza. Non purtroppo come adesso. Perché molti degli ospedali del Paese sono in grave difficoltà. Non si può mettere a rischio la salute tagliando o penalizzando il Sistema sanitario nazionale. Significa non garantire le cure necessarie. Ne va del bene della gente, soprattutto di quella più povera».
Eminenza, come ha vissuto la malattia?
«È un supplizio quando ti viene a mancare l’aria, quando senti che tuoi polmoni non sono più in grado di reagire. A un certo punto persino i medici pensavano che sarebbe stato impossibile superare la fase più acuta. Ne ero cosciente. Ma ringrazio il buon Dio per avermi permesso di affrontare questa straordinaria e, al tempo stesso, straziante prova».
La paura?
«Ammetto che la paura c'è stata. È un fatto creaturale. Qualunque ruolo ciascuno di noi abbia, in quel momento sei solo con te stesso, con la tua malattia, con la tua fede. Una fede che è messa alla prova. Hai come l’impressione che Dio ti stia chiedendo di sacrificare quello che di più prezioso ti ha donato, ossia la vita. Perché ciascuno di noi è fatto per la vita».
“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, aveva detto il Signore sulla croce. Anche lei ha ripetuto questo grido?
«In un certo senso, sì. Sulla croce Cristo, in quanto Dio fatto uomo, non poteva più poggiare su alcuna consolazione umana: neppure su sua madre che aveva affidato a Giovanni. S’era spogliato di tutto, non solo delle sue vesti».
E la preghiera?
«Ho sentito la forza e l’efficacia della preghiera che è conforto. Nel frangente più complesso, quando ogni energia viene meno, puoi solo abbandonarti al Padre. Mentre ero sotto il casco dell’ossigeno e sembrava che la testa scoppiasse, la preghiera è stata un’offerta. Ripetevo: «Signore, tutto per te». Comunque, già prima di essere portato in ospedale, mentre nella mia camera nel palazzo arcivescovile ero in condizioni serie, avevo avvertito l’esigenza di scrivere una lettera alla mia Chiesa sul rapporto con l’Eucaristia. Avevo una pisside vicino alla porta e ogni giorno mi comunicavo. Mi è stato di grande aiuto riflettere sul Sacramento dell’altare, ricordare a me stesso e al popolo che quel pane consacrato abbraccia tutto l’universo e stringe a sé tutti i problemi dell’umanità».
Poi c’è stato anche per lei un “movimento” di preghiera che l’ha accompagnata nelle settimane più complesse.
«Mi ha sostenuto la preghiera non solo della mia famiglia diocesana ma di tutta la Chiesa italiana. Per anni ho continuato a sentirmi dire nelle diocesi o nelle parrocchie che visitavo: “Abbiamo pregato per lei”. È stato davvero un dono che, direi, ha unito cielo e terra. Sono certo che anche il Papa la sta avvertendo, insieme con la solidale vicinanza di tutto il mondo».
In ospedale, su un letto, lontano dalla propria gente, isolato da tutti. Che cosa si prova?
«Quando si è prossimi a rendere conto della propria vita, vengono in mente le enormi possibilità di bene che Dio ti ha prospettato e che non hai sfruttato per i tuoi limiti o le tue omissioni. Ma c’è anche il desiderio di tornare in mezzo al popolo. Ricordo che una notte in ospedale mi sono strappato via tutto ciò che avevo sul corpo e mi sono buttato giù dal letto ripetendo: “Devo andare a dire Messa nella Basilica di Assisi…”. Mi hanno raccolto a terra le infermiere che, con i medici, chiamo ancora i “miei angeli”».
Nella società dell’efficientismo, la malattia viene nascosta. Papa Francesco ha chiesto trasparenza sul suo quadro clinico.
«La malattia ti fa comprendere che la vita è meravigliosa. E va vissuta fino all’ultimo momento che il Signore ti concede. Per questo tutti, a cominciare dalla politica, sono chiamati a non abbandonare mai chi soffre. Ed è una falsa compassione il suicidio assistito che anche in Italia si vuole legalizzare come accade in Toscana. Va sostenuta la cultura della vita, non quella della morte. È anche questa la lezione che ci viene da papa Francesco al policlinico Gemelli».
Cinque anni fa esplodeva la pandemia. Lei ha affrontato come presidente della Cei il momento più arduo anche per la Chiesa italiana con la sospensione delle Messe pubbliche.
«È chiaro che tutti erano impreparati, ma di fronte a quasi 200mila morti accertati nel nostro Paese posso affermare che, per me, certe misure dolorose erano necessarie. E i vaccini ci hanno consentito di superare la pandemia in tempi relativamente brevi».
Lo scorso 22 febbraio, giorno della festa della Cattedra di San Pietro, nell’Aula delle Benedizioni del Palazzo Apostolico in Vaticano, si è tenuta la celebrazione della Messa per il Giubileo del Circolo San Pietro, dopo la celebrazione dell’annuale Assemblea Solenne. Un evento che ha confermato la natura e la missione dell'ente che dal 1869 su mandato del Papa si prende cura dei poveri di Roma.
«Entrando dalla facciata centrale della Basilica Lateranense, a destra, vicino alla Porta Santa, si trova quello che è chiamato uno strappo di affresco che rappresenta il Papa Bonifacio VIII mentre indice il primo giubileo della storia della Chiesa: era il 22 febbraio 1300, esattamente 725 anni fa!», ha ricordato nella sua omelia l'arcivescovo Edgar Peña Parra, sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato. La scelta del giorno della festa della Cattedra per l’inizio del Giubileo non è una mera coincidenza, ma richiama il mistero dell’affidamento a San Pietro della Chiesa nella sua interezza da parte di Gesù.
Durante la celebrazione, il sodalizio ha pregato per la Chiesa e particolarmente «per il Santo Padre Francesco che in questi giorni, ricoverato al Policlinico Gemelli, vive momenti di particolare sofferenza fisica. Riprendendo la frase degli Atti degli Apostoli: “dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per Pietro”, ci uniamo alla Chiesa intera e all’umanità nell’implorare con la preghiera la guarigione del Papa, affinché lo Spirito Santo lo protegga per poter ancora parlare al cuore dell’uomo indicando la via che conduce alla salvezza eterna».
Nel suo pensiero spirituale, l’assistente ecclesiastico, monsignor Franco Camaldo, ha sottolineato l’unicità di questo momento spirituale così intenso e particolare, ponendo a tutti i presenti tre domande: «Dobbiamo meglio comprendere chi siamo, dove siamo e cosa stiamo facendo! Chi siamo? Come Circolo di San Pietro, eredi di 156 anni di storia fatta di preghiera, azione e sacrificio in unione con la Chiesa, il Papa e la Santa Sede in questa nostra amata Città di Roma, centro della Cristianità e luogo privilegiato per il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, al servizio dei più bisognosi. Dove siamo? Oggi - qui ed ora - in questo mondo a volte così surreale, ma anche per molti versi tanto ricco di fede, di generosità, di donazione, di disponibilità verso gli altri. Cosa stiamo facendo? Dobbiamo sforzarci continuamente per essere anche noi pellegrini di speranza, così come vuole il Papa, e continuare il compito avuto da tutti i Romani Pontefici alla donazione verso gli altri, conservando nel cuore la splendida definizione del Santo Padre Benedetto XVI di essere il braccio della carità del Papa verso i poveri».
Di «un evento che rappresenta un momento di riflessione e celebrazione», ha parlato anche il presidente del Circolo San Pietro, Niccolò Sacchetti, durante l’Assemblea solenne che ha preceduto la Messa, definendo la Festa della Cattedra «un'occasione per riconoscere e apprezzare le benedizioni che abbiamo ricevuto e per rinnovare il nostro impegno verso gli altri».
Come in ogni Assemblea solenne, la relazione morale ha offerto utili spunti di riflessioni ai soci e dato contezza dei risultati dell’attività (tra gli altri, sono 41mila i pasti caldi e 2.500 i pacchi alle famiglie bisognose nelle sole Cucine economiche), ponendo l’accento sulla peculiarità del servizio offerto e sul privilegio di «poter condividere l’esperienza del Giubileo tutti insieme», ha scandito il presidente, riferendosi ai quasi 900 soci, volontari e amici del sodalizio presenti, «in un posto unico e significativo come l’Aula delle Benedizioni, ma soprattutto per il fatto che, attraverso il Circolo San Pietro, il Signore ci ha scelti per essere strumento, a volte inconsapevole, della sua speranza».
Lo Spazio Accoglienza attivo dalle 12 alle 17 del mercoledì, del sabato e della domenica - presso la Basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini - è un luogo accogliente dove ci si potrà pregare, ristorare e riposare. «Inaugurata prima dal cardinale vicario e due giorni fa dalla ministra per le disabilità Alessandra Locatelli», ha concluso il presidente, «confidiamo che quest’opera di carità sarà un punto di riferimento ancora di più negli anni a seguire per le famiglie romane che cercano un momento di sollievo dalle loro preoccupazioni e difficoltà».
Alla relazione morale, hanno fatto seguito il giuramento dei soci effettivi e il conferimento dei distintivi dorati ai soci che hanno compiuto venticinque e cinquant’anni di appartenenza e della Medaglia dorata ad un socio che ha compiuto sessant’anni di appartenenza alla vita dell’associazione.
Dopo la Santa Messa, i soci hanno raggiunto l’ingresso della Basilica Vaticana, attraversando l’Aula della Benedizione, la Sala Regia, la Scala Regia, il Braccio di Costantino, il Portico della Basilica Vaticana, la Porta Santa fino all’Altare della Confessione dove è stata impartita la benedizione con la Croce del Giubileo a tutti i presenti e ai soci di un Circolo che da 156 anni presta servizio nella Diocesi del Papa. Come ogni anno, la cerimonia ha visto la partecipazione della cappella musicale del Circolo San Pietro.
«Non ci sono nemmeno le parole per dare un nome a una mamma o a un papà che perdono un figlio. La moglie che perde il marito è vedova. Il marito che perde la moglie è vedovo. Il figlio che perde un genitore è orfano. Ma per un genitore che perde un figlio una parola non c’è». Lo scrive papa Francesco dalle pagine di “Piazza San Pietro”, il mensile diretto da padre Enzo Fortunato che esplora temi di fede, spiritualità e vita quotidiana. Fra le rubriche proprio quella delle lettere indirizzate al Pontefice.
Nel numero di febbraio della rivista la missiva per il Papa è quella di una donna che ha visto morire il proprio figlio. Nella lettera Cinzia, una madre romana che ha perso suo figlio Fabrizio di 21 anni in un incidente stradale, racconta il suo dolore, il suo ritorno alla fede e soprattutto le domande che la tormentano. «Dopo la tragedia mio marito e io siamo sprofondati nel buio delle tenebre, abbiamo provato odio, rabbia, dolore e perso la fede. Poi, l’8 dicembre 2019, grazie a Maria, io mi sono riavvicinata alla fede e ho ricominciato a pregare; mio marito, invece, non ce la fa». Sono diventati volontari della Croce Rossa. E hanno fondato un’associazione no profit “Insieme per Fabrizio” per promuovere la sicurezza stradale. Poi le domande al Papa: «Perché il Signore non ha salvato Fabrizio dandoci questo grandissimo dolore sempre presente nel nostro cuore? E dove sta Fabrizio? È in Paradiso? È diventato il nostro angelo custode?».
Parole che hanno toccato il Pontefice. «Sappiate che io sono con voi, e vorrei potervi consolare come Gesù consolava gli afflitti e incoraggiava alla speranza», sottolinea Francesco nel testo diffuso in queste ore ma scritto prima del ricovero al policlinico Gemelli. E ancora: «La risposta alle sue domande parte da una premessa. Chieda sempre l’intercessione di Maria, che l’ha tanto aiutata e sarà sempre vicino a lei e a suo marito Antonio». Poi cita la preghiera di don Tonino Bello “Vergine dell’attesa”: «Santa Maria, donna dell’attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli che, usciti un giorno di casa, non ci son tornati mai più». E il Papa aggiunge: «Non possiamo avere tutte le risposte di fronte al mistero della sofferenza innocente. Maria anche oggi partecipa e condivide il vostro dolore come Madre dell’umanità, Madre di tutti noi. Una madre vicina, che sta in silenzio e accompagna ogni cuore spezzato. Mi soccorrono anche alcune parole di San Giovanni Paolo II: “Non vi è male da cui Dio non sappia trarre un bene più grande”. E questo ci deve far sperare, cari Cinzia e Antonio. Nella preghiera, nella grazia che Dio ci dona ogni giorno oltremisura, nel progresso del cammino di fede, nella vita sacramentale, apriamo con sincerità il cuore. Gesù, che piange con noi, seminerà nel nostro cuore tutte le risposte che cerchiamo. L’incontro con Lui è l’Amore che salva, l’Amore più grande di ogni male».
Il numero di febbraio della rivista è ricco di spunti. Dalle pagine di “Piazza San Pietro” il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, racconta a Gianni Cardinale la difficile situazione del Myanmar, l’impegno della Chiesa e i continui appelli del Pontefice per la pace in un paese martoriato dal conflitto. “L’incontro che guarisce” è il titolo del contributo di suor Simona Brambilla, missionaria della Carità, prefetta del Dicastero per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, che racconta come l’esperienza di un Dio in ginocchio ci trasforma in fratelli e sorelle capaci di compassione e accoglienza. Per la sezione culturale, in occasione del Giubileo degli artisti, l’intervista all’artista Maurizio Cattelan: “La provocazione non un fine ma uno strumento”. Chi desidera abbonarsi a Piazza San Pietro può farlo scrivendo all'indirizzo email: abbonamenti@piazzasanpietro.va.
Negli ultimi tempi ricorre sempre più frequentemente la figura di “codice” per definire la Bibbia, riconoscendola come il grande codice, quasi l’alfabeto per interpretare e comprendere l’evolversi della cultura, particolarmente di quella occidentale.
Per quanto suggestiva e sensata possa essere questa figura, essa mostrerebbe tutta la sua precarietà e insufficienza, se la si volesse applicare anche al binomio Bibbia e etica. Il motivo sta nel significato che solitamente, e certo non a buon diritto, attribuiamo al termine “codice” all’interno del discorso etico, correndo troppo spesso a immaginare quella che di per sé è una complessa e differenziata teoria dell’agire umano, l’etica appunto, come un apparato codificato di norme che regolano il nostro comportamento individuale e collettivo, lo giudicano, lo sanzionano, lo approvano.
La valenza positiva di grande codice, applicato alla Bibbia viene a perdersi nella cifra prescrittiva di controllo dell’agire che si vorrebbe far coincidere con l’etica. Qui addirittura la Bibbia viene presa nella materialità scarna di alcuni suoi passaggi che riguardano le regole di vita in contesti ben identificati, figli delle loro culture e delle loro epoche. Il trasferimento di regole morali da questi contesti originari a qualsiasi altra epoca, quasi come se le regole, strettamente intese nelle loro formulazioni normative, proprio perché contenute nel testo biblico potessero e dovessero essere applicate per sempre e dappertutto. Tendenze di questo genere ricorrono di volta in volta quando, anche nello spazio pubblico e anche oggi, si affrontano temi eticamente sensibili. Eppure, l’esegesi biblica, cioè il lavoro di chi si avvicina con metodo storicamente sensibile e responsabilmente critico al testo, continua a insegnarci il dovere di leggere i cataloghi normativi, cioè le regole morali riferite nella Bibbia, contestualizzandoli e riportandoli al loro senso vero, quello di far emergere il possibile spessore valoriale, insito nelle norme, ma in linguaggio e forme che sono debitori al loro tempo e proprio per questo non possono e non debbono essere presi come dettati normativi apodittici. Accostare Bibbia e etica con la lente di ingrandimento dell’apparato legislativo (la via del nomos che vive nei codici!), con tutto il suo richiamo a un’attitudine di obbedienza, priva di ogni mediazione culturale, è un’operazione indebita. E per fortuna la sensibilità critica del sapere moderno smaschera con efficacia il limite di un simile approccio.
Alla Bibbia si addice un’altra visione di etica. Essa non si attesta sulle singole formulazioni di regole morali, per altro nella Bibbia stessa spesso in contrasto l’una con l’altra. E non vuole riguardare solo la condotta di singole persone o il confronto dell’una con l’altra. Nella Bibbia emergono potenziali a forte cifra etica, tendenti a cementare le condizioni di possibilità di buona convivenza, nell’anelito alla costruzione di nuclei affiatati di persone aperte al senso di comunità, nella ricerca di orizzonti condivisi. L’apertura verso il futuro, passando da processi accompagnati di liberazione da schiavitù, innerva la moralità di soggetti tesi alla formazione di un popolo. Lo sfondo comunitario dell’etica biblica aiuta a decantare quella enfasi moraleggiante per la vita delle singole persone che noi conosciamo dall’uso strettamente normativo della Bibbia. Imboccare la via del disegno di comunità, della fioritura di umanità come articolazioni etiche espande il senso costruttivo e ispirativo del potenziale etico della Bibbia. La tensione verso spazi morali ampi, una sorta di espansione della via del telos, cioè del magma proiettivo verso il futuro, fa dell’etica biblica una risorsa aperta, creativa, interrogante. Su questa linea del telos va percepito il Decalogo, non come codice prescrittivo, ma come spartito musicale di quegli aneliti di autenticità, di libertà, di relazioni risanate, di rispetto della dignità, di apprezzamento per la vita. Il tutto in vista della costruzione di comunità.
Questo registro tensionale verso il futuro non è astratto. E non è amorfo. C’è un come che assume la sua forma decisiva e questo traspare dalle visioni sapienziali sulla vita, dalla predicazione dei profeti antichi e dalla vita, i gesti e le parole del profeta di Nazareth. Il punto di convergenza fruibile ancora oggi è che nella costruzione di comunità la Bibbia ispira un ethos, un atteggiamento e un comportamento, nutrito dall’attenzione per chi sta più indietro nella scala della convivenza. La sintonia con chi soffre e l’apertura di sguardo alla sua condizione di vita sono ispirativi per una condotta che va oltre la semplice solidarietà. La Bibbia apre una visione dell’etica che passa attraverso la via del pathos, quella che restituisce dignità a ogni soggetto, rende eloquente “l’autorità di chi soffre” (J. B. Metz). E lava nel lavacro di desiderio di umanità ogni brama di potere di chi è chiamato a esercitare autorità. Anche se pensasse di poterlo fare con la Bibbia in mano.
professore emerito di teologia morale all’Università di Münster
Sarà la Messa per la salute dal Papa presieduta dal cardinale Augusto Paolo Lojudice oggi alle 18 ad aprire la «Tre giorni con Maria» nella parrocchia senese di San Martino. La preghiera per Francesco, quindi, sarà il primo atto di questa nuova tappa del Pellegrinaggio nazionale della statua della Vergine della Medaglia Miracolosa, che ha preso avvio l’11 novembre 2020, in Vaticano, con la benedizione dello stesso Bergoglio, in ricordo del 190° anniversario delle apparizioni a Santa Caterina Labouré. Un cammino promosso dai Missionari Vincenziani d’Italia in collaborazione con la Famiglia Vincenziana, in vista del 27 novembre 2030, quando si celebrerà il bicentenario.
«La parrocchia di San Martino è felice di ospitare un’iniziativa mariana che ha per scopo di approfondire la presenza di Maria nella vita di fede della nostra comunità - nota il parroco della comunità di San Martino, nell'arcidiocesi di Siena-Colle Val d'Elsa-Montalcino -. L’occasione è stata la proposta dei padri vincenziani attraverso le suore di San Girolamo che nel territorio della nostra parrocchia sono una presenza assolutamente significativa e tengono vivo il culto della Medaglia Miracolosa».
Il Pellegrinaggio nazionale farà tappa nella parrocchia senese, quindi, da oggi a domenica. Il programma della tappa di Siena del pellegrinaggio nazionale, della statua della Vergine della Medaglia Miracolosa, curato dal padre vincenziano Francesco Gonella, vede l'apertura, quindi, oggi alle 17 con l'accoglienza della statua della Vergine, alle 17.30 il Rosario e alle 18 la Messa con Lojudice. seguita, alle 19 dalla catechesi. Domani alle 9.30 si prosegue con la visita agli ammalati; alle 11.30 la visita alla scuola san Girolamo; dalle 15 alle 17.30 le confessioni; alle 17.30 la preghiera del Rosario; alle 18 l'Eucaristia; alle 19 la catechesi.
Sabato, 1° marzo, invece, dalle 10 alle 12 ci saranno le confessioni; alle 18.30 la preghiera del Rosario; alle 19 la Messa e la consegna della Medaglia; alle 19 si terrà «Accendi il fuoco della carità», con l'incontro vocazionale, la cena condivisa e la festa finale. Domenica 2 marzo alle 10 ci sarà l'incontro con i giovanissimi del catechismo; alle 11.30 la Messa e la consegna della Medaglia.
Le tappe del pellegrinaggio della Madonna della Medaglia Miracolosa si vanno via via definendo e chi fosse interessato ad ospitarne una, prevedendo un tempo breve di animazione pastorale con due missionari vincenziani e la sacra effigie della Madonna, può contattare la Commissione della «Tre Giorni con Maria» all’indirizzo e-mail: tregiorniconmaria@gmail.com.
Spiega padre Mario Sirica, della Congregazione della Missione (Cm), membro della Commissione «Tre giorni con Maria». «è una proposta che ravviva la devozione a Maria attraverso la catechesi, il sacramento della riconciliazione, i dialoghi spirituali: quando si riflette su Maria tutto porta a Gesù. È un’esperienza di grazia anche per i parroci che ci chiamano. Spesso mi è capitato di constatare la meraviglia dei parroci nel vedere la grande affluenza in occasione della “Tre giorni con Maria” in questo tempo dove leggiamo che l’affluenza nelle nostre chiese è molto bassa». Sottolinea padre Sirica: «In generale, diamo questo suggerimento: dare spazio alla popolazione della parrocchia che vive una situazione di povertà materiale e spirituale. Ecco perché chiediamo che ci sia sempre attenzione alle visite agli ammalati, alla confessione, alle rsa. La nostra attenzione è mirata a una fascia di popolazione che vive un momento particolare della vita o una fase».
Il padre vincenziano Valerio Di Trapani, visitatore d’Italia, commenta: «Si tratta di uscire per andare nelle Comunità ecclesiali che intendono accogliere la proposta dei Missionari vincenziani di animazione della comunità parrocchiale proponendo loro incontri di catechesi per giovani e adulti, di preghiera, di riconciliazione sacramentale, di visita alle persone fragili e malate e di amicizia con i giovani e adolescenti nei loro contesti di vita».
In occasione del Giubileo della Spiritualità Mariana, previsto per l'11 e 12 ottobre 2025, la statua originale della Madonna di Fatima sarà a Roma. La celebre immagine della Vergine, conosciuta dai fedeli di tutto il mondo e simbolo della “Speranza che non delude”, in occasione della Santa Messa in piazza San Pietro, di domenica 12 ottobre 2025 alle ore 10.30, sarà presente tra i fedeli partecipanti, arricchendo ulteriormente questo momento di preghiera e riflessione.
Si tratta della quarta volta che la statua lascia il Santuario di Fatima per venire a Roma: la prima è stata nel 1984 per il Giubileo Straordinario della Redenzione nel 1984, quando il 25 marzo San Giovanni Paolo II ha consacrato il mondo al Cuore Immacolato di Maria; la seconda volta nel Grande Giubileo dell’Anno 2000 e la terza, nell’ottobre 2013, in occasione dell’Anno della Fede con papa Francesco.
«La presenza della amata statua originale della Madonna di Fatima permetterà a ognuno di sperimentare la vicinanza della Vergine Maria - ha sottolineato il pro-prefetto del Dicastero per l’evangelizzazione, l'arcivescovo Rino Fisichella -. Si tratta di una delle icone mariane più significative per i cristiani di tutto il mondo che, come sottolinea il Santo Padre nella bolla d’indizione del Giubileo "Spes non confundit", la venerano come la “più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli”. A Fatima, infatti, la Vergine ha detto ai tre piccoli pastorelli quello che continua ad assicurare a ciascuno di noi: “Io non ti lascerò mai. Il mio Cuore Immacolato sarà il tuo rifugio e il cammino che ti condurrà fino a Dio”».
«Questa statua lascia il Santuario di Cova da Iria in via del tutto eccezionale e solo su richiesta dei Papi. – ha commentato il rettore del Santuario di Fatima, don Carlos Cabecinhas - In questo tempo giubilare, la Vergine di Fatima è la donna della gioia pasquale, anche nei tempi dolorosi in cui il mondo vive. Ancora una volta la “Signora vestita di bianco” si farà pellegrina di speranza e,
a Roma, sarà con il “vescovo vestito di bianco”, come i pastorelli di Fatima chiamavano affettuosamente il Santo Padre».
La scultura, opera dell’artista portoghese José Ferreira Thedim che la realizzò nel 1920, è solitamente custodita presso la cappellina delle apparizioni del Santuario della Madonna di Fatima. In quel luogo, infatti, dal mese di maggio all’ottobre del 1917 la Vergine apparve sei volte ai pastorelli Lucia dos Santos di 10 anni, Giacinta Marto di 7 anni, e Francesco Marto di 9 anni.
La statua è alta 104 centimetri e venne ricavata da un cedro del Brasile, facendo riferimento alle indicazioni fornite dai tre pastorelli. Fu solennemente incoronata il 13 maggio del 1946 e, successivamente, nella corona fu incastonato il proiettile che colpì Giovanni Paolo II nell'attentato del 1981.
L’ingresso in piazza San Pietro, in occasione della Celebrazione eucaristica, sarà gratuito e non è richiesto biglietto d’entrata. Le scrizioni per partecipare all'evento giubilare sono già aperte sul sito e termineranno il 10 agosto 2025.
Qualche mese fa Donald Trump si è fatto sponsor di una speciale edizione della Bibbia fregiata della scritta “Dio benedica gli Usa”. «Molti di voi non l’hanno mai letta – dichiarò in appoggio al lancio di quell’edizione, per altro sollevando il legittimo dubbio se egli l’avesse letta –. La religione e il cristianesimo sono le cose più grandi che mancano in questo Paese, e credo davvero che dobbiamo riprenderceli indietro e dobbiamo farlo in fretta».
In quei giorni era una strategia difensiva e una mossa elettoralistica tese a conquistare il consenso di un elettorato allora ancora dubbioso sulle virtù cristiane del candidato. Oggi, a pochi giorni dalla istituzione alla Casa Bianca di un “Ufficio per la fede” diretto dalla predicatrice Paula White, l’immagine di Trump con la Bibbia o del presidente raccolto in preghiera mentre viene benedetto dai pastori evangelical del neocostituito “Ufficio della fede” diventano l’icona di un programma che adotta simboli e linguaggi politici.
L’uso politico della Bibbia non è una novità, anche se nel caso di Trump ci pare si superi la soglia della strumentalizzazione per arrivare a una trivializzazione del testo sacro, al quale si ricorre per garantire un’aura religiosa alla propria azione politica: ad esempio, quando si è definito “facitore di pace” per avere proposto un bizzarro piano di riconversione turistica della Striscia di Gaza, o quando ha dichiarato che Dio lo ha risparmiato dall’attentato del 13 luglio perché potesse compiere la sua missione di redentore di un’America secolarizzata e decaduta. E così, se Elon Musk rappresenta l’anima tecnocratica della nuova amministrazione insediata alla Casa Bianca, Paula White sarà il suo contrappeso “spirituale”.
Ed è del tutto normale che in un Paese di solide tradizioni cristiane come gli Stati Uniti si faccia appello alla Bibbia come fonte in grado di generare idee e programmi di tipo anche politico. Avevano la Bibbia in mano i padri pellegrini che nel XVII secolo, fuggendo dalle persecuzioni religiose subite in Europa, dettero vita a un “sacro esperimento” coloniale; avevano la Bibbia in mano Roger Williams e William Penn che nelle loro colonie, superando i rigidi pregiudizi del tempo, accolsero profughi di ogni religione. Erano mossi dalle pagine bibliche sull’amore universale di Cristo e la chiamata alla libertà evangelica i pastori e i laici che rischiando la vita organizzavano la underground railway attraverso la quale migliaia di schiavi riuscivano a fuggire dalle piantagioni del Sud degli Stati Uniti e trovavano rifugio nel Nord del Paese o in Canada. Quanto ai leader del civil rights movement che negli anni ’50 e ’60 scosse l’America, si diceva che marciavano con la Costituzione in una mano e la Bibbia nell’altra. Anni fa si dichiararono “santuario” – secondo la tradizione biblica della inviolabilità di alcuni luoghi sacri – centinaia di chiese che davano rifugio a migranti in fuga dalle dittature centroamericane. Ed oggi, si sono dati un nome biblico – i Samaritani – gruppi di cristiani che operano lungo la frontiera tra Usa e Messico per soccorrere i migranti di passaggio che arrivano disidratati, laceri ed esausti dopo ore di cammino nel deserto.
La questione, allora, non è se la Bibbia possa avere un’incidenza nella costruzione di un progetto politico perché la risposta è evidentemente affermativa. Ma, detto questo, bisogna essere consapevoli dei limiti e dei rischi di questo processo. Il primo: la Bibbia non è e non può ridursi a una piattaforma politica o a un codice penale, non è un manuale di leadership carismatica né il codice di un giudice. Ogni tentativo di trasformare la Bibbia in un condensato morale, prescrittivo di norme e leggi universali è una violenza sul testo e sul messaggio che, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, è soprattutto la storia di una vocazione rivolta da Dio a uomini e donne che sono liberi di accoglierla e di interpretarla.
Il secondo è che il messaggio biblico ha un tema centrale che non può essere eluso, quello dell’amore di Dio per i suoi figli, le sue figlie e il creato. Nella storia si è fatto un uso politico e blasfemo della Bibbia, giustificando lo “sviluppo separato”, l’apartheid sudafricano o il commercio degli schiavi. I “teologi della prosperità” insediati alla Casa Bianca oggi predicano una fede che si traduce in benedizioni e ricchezze materiali e un nazionalismo cristiano che ignora il pluralismo all’origine della società americana e invocano una deportazione di migranti che nulla ha a che fare con la logica della carità.
La Bibbia è un libro da maneggiare con cura, da studiare ed interpretare con rigore, dal quale farsi interrogare e, in un certo senso, lasciarsi giudicare e farsi convertire. Spesso non dà riposte nette e definitive, ed anzi ci pone delle domande. In genere chi fa politica non ama niente di tutto questo – ce ne faremo una ragione – ma allora, in mancanza di tempo e disponibilità d’animo, piuttosto che fare scempio della Bibbia, meglio riporla in un cassetto.
Politologo, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma
Lo scorso 21 febbraio padre Luigi Fernando Codianni è stato eletto superiore generale dei Missionari comboniani del Cuore di Gesù, l’istituto fondato a Verona da san Daniele Comboni (1831-1881). Già consigliere generale a Roma, padre Codianni è nato il 13 giugno 1964 a Celenza Valfortore (Foggia). «All’età di 13 anni mi sono trasferito a Pesaro – spiega ad Avvenire – dove ho studiato presso il collegio di Villa Marina, ed è sempre qui che è nata la mia vocazione grazie all’incontro con i comboniani di villa Baratoff tra cui padre Domenico Verdini. Anzi posso dire che la chiamata a diventare sacerdote ed essere un missionario comboniano è stata un unico evento». A Pesaro viene accompagnato nel discernimento anche dal suo insegnate di religione, don Giuseppe Scarpetti, e dal suo educatore Michele Lograno. Prosegue gli studi a Bari nel Seminario dei comboniani, poi entra nell’Istituto con la prima professione religiosa nel 1988 a Venegono Superiore (Varese). Il 15 maggio 1993 viene ordinato sacerdote a Celenza Valfortore, diocesi di Lucera-Troia. Studia quindi teologia a San Paolo in Brasile. «Durante questi studi nello scolasticato brasiliano - dice – maturo la mia definitiva decisione di diventare missionario. Vivere in una comunità formativa situata nella favela del Parque Santa Madalena, nella periferia est della megalopoli, mi ha aiuto tantissimo. Direi che quella mia scelta non solo è diventata definitiva, ma si è fatta sempre più chiara in me proprio grazie alla gente della baraccopoli. In mezzo a quelle persone e condividendo la loro vita di ogni giorno, ho fatto delle incredibili esperienze umane sociali e pastorali, in particolare con i meninos de rua, i bambini di strada delle favelas». Incarnare in quel contesto il carisma comboniano diventa per padre Codianni un’avventura entusiasmante e appassionante. «Un carisma offerto dallo Spirito Santo che si è rivelato attuale, moderno, universale e profondamente evangelico - dice – e non esito ad affermare che oggi sono la persona che sono grazie al dono di averli incontrati, di aver consentito loro di sfidarmi con le loro problematiche, e di essersi lasciati incontrare e amare da me». Dopo questa esperienza viene assegnato alla provincia del Brasile Nordest dove assume la carica di economo provinciale e dal 2005 al 2010 quella di superiore provinciale.
Rientrato in Italia nel 2011 diviene economo provinciale. Quindi nel Capitolo generale del 2022 è incaricato di seguire le circoscrizioni dell’Europa, il settore dell’economia, e gli aspetti legali. «Oggi avverto molta gratitudine verso il Signore e verso i confratelli che mi hanno votato per questo nuovo incarico che mi è stato affidato – dice –, ma al contempo sento forte anche la responsabilità nei confronti del patrimonio umano e spirituale che i comboniani hanno saputo costruire nel tempo. Per questo tra gli obiettivi che mi sono dato c’è quello di intrecciare un dialogo basato sull’ascolto con tutti i comboniani sparsi per il mondo. Ritengo infatti che il dialogo abbia una forza dirompente in grado di generare quella consapevolezza che consente di maturare decisioni condivise, collettive e coerenti con il nostro carisma. Tutto questo alla luce delle parole di papa Francesco: «La spinta dello Spirito Santo è quella che ci fa uscire da noi stessi, dalle nostre chiusure, dalla nostra autoreferenzialità, e ci fa andare verso gli altri, verso le periferie, là dove maggiore è la sete di Vangelo».
Padre Codianni succede come superiore dei comboniani a padre Tesfaye Tadesse Gebresilasie, nominato nel novembre scorso vescovo ausiliare dell’Arcieparchia di Addis Abeba (Etiopia). Nell’esercizio della funzione vicaria, padre David Costa Domingues, a nome del consiglio generale, ha indetto le operazioni di voto per l’elezione extra-capitolare del nuovo superiore generale.
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Giovani e ragazzi della riserva indigena di Tarena, situata nell'area del comune di Tadó, dipartimento di Chocó in Colombia, in preghiera per papa Francesco. Immagine raccolta dal personale dell'Associazione Speranza dei Cuori onlus.
L'attesa è finita: il medico del popolo, José Gregorio Hernández Cisneros, sarà canonizzato insieme al fondatore e benefattore del Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, il beato Bartolo Longo. L'annuncio è giunto ieri, martedì 25.
Monsignor Jesus Gonzalez de Zarate Salas, presidente della Conferenza episcopale venezuelana, ha commentato l'avvenimento con Avvenire come «un regalo del Signore» e una notizia «attesa a lungo da tutta la nazione, che riempie tutti di gioia». Per Gonzalez, la canonizzazione del «primo santo venezuelano» porta con sé «la responsabilità di emulare l'impegno di un cristiano integrale, un cittadino esemplare» che si è preoccupato «del bene del prossimo e che tuttora accompagna la fede del nostro popolo».
Hernández Cisneros nacque il 26 ottobre 1864 nella piccola località di Isnotú, nello stato di Trujillo delle ande venezuelane, e morì a soli 46 anni, a Caracas, il 29 giugno 1919, uscendo da una farmacia della capitale.
Pochi mesi prima si era chiusa la stagione della febbre spagnola, che in Venezuela aveva mietuto 80mila di vittime di cui 1.500 solo a Caracas. Hernández era stato ingaggiato nell'apposita Commissione di "soccorso nazionale" che aveva il compito di mitigare gli effetti della pandemia nel Paese. Vi facevano parte anche monsignor Felipe Rincón González, allora arcivescovo di Caracas, il medico Luis Razetti e altre personalità. Ma la febbre spagnola non era l'unica sfida dell'epoca. Il Paese, privo di servizi essenziali, era dilaniato da tuberculosi, dissenteria e altre malattie che diventano endemiche nelle zone più remote. «Faceva lunghe camminate per visitare i pazienti», ha commentato José Francisco Gonzalez Cruz sottolineando che le sue giornate iniziavano con la Messa del mattino e proseguivano con «l'assistenza ai malati e l'insegnamento universitario, dedicandosi alla formazione di futuri medici».
Ai più poveri offriva cure gratuite e li sosteneva nell'acquisto di medicine. Dal dicembre 1899 Hernàndez era diventato Terziario francescano associato alla fraternità della chiesa della "Virgen de las Mercedes", retta dai cappuccini. Fu anche tra i promotori della medicina scientifica nel Paese, introducendo discipline allora sconosciute nel Pensum dell'Universidad central de Venezuela tra cui Istologia normale e patologia e fisiologia sperimentale e batteriologica. Ma la sua non fu una storia priva di frustrazioni. Già nel 1907 Hernández aveva provato ad abbandonare la medicina per diventare religioso. E lo fece nella Certosa di Farneta, ma dovette abbandonare pochi mesi dopo per motivi di salute. Ritentò quella strada nel collegio Pio Latino Americano di Roma, ma rientrò a Caracas due anni dopo sempre per motivi di salute.
La venerabilità di Hernandez è stata dichiarata 66 anni dopo la morte, il 16 gennaio 1986 sotto il pontificato di Giovanni Paolo II ed è stato beatificato il 30 aprile nella chiesa di San Giovanni Battista, presso l'Istituto "La Salle" di Caracas", in un rito presieduto dall'allora nunzio apostolico Aldo Giordano. Il miracolo verso la beatificazione è stato l'improvviso recupero di Yaxury Solorzano, classe 2006, sopravvissuta contro ogni pronostico a una ferita da arma da fuoco. Ore prima della beatificazione, papa Francesco lo aveva definito un «credente, discepolo di Cristo, che ha fatto del Vangelo il criterio della sua vita».
Ora, in attesa del Concistoro, il Santuario a lui dedicato, a Isnotú, diventa una capitale della fede per i pellegrini dell'America Latina.
Anche i peccati cambiano, o meglio si rinnovano. Nel senso che il loro significato e le conseguenze che producono restano le stesse ma si diversificano gli orizzonti in cui vengono commessi. Pensiamo all’avvento del Web e a come possa diventare teatro di comportamenti sbagliati. Se ne parla nel nuovo episodio di Taccuino celeste che si concentra anche sulla distinzione e tra peccati gravi, mortali e veniali. A proposito, cosa significa quest’ultimo termine? Punto di partenza resta comunque l’insegnamento di Gesù nel Vangelo. Spazio anche alla testimonianza dei santi e, ovviamente, all’importanza del sacramento della Confessione. La Cartolina di Camaldoli, lo spazio curato dai monaci benedettini della comunità toscana si sofferma sul senso del peccato e, soprattutto, sul perdono di Dio.
Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di cosa pensa la Chiesa della possibilità che esiste vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, dei portatori dei doni (Babbo Natale? Santa Lucia? La Befana?) di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, dei passi necessari per diventare santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo.
Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it
Ieri papa Francesco ha ricevuto al Policlinico Gemelli, dov’è ricoverato da giorni, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin con il sostituto arcivescovo Edgar Peña Parra e autorizzato il Dicastero delle cause dei santi a firmare il decreto che riconosce la santità di Bartolo Longo. Via libera anche alla canonizzazione del “medico dei poveri”, il beato venezuelano José Gregorio Hernández Cisneros. Riconosciuto venerabile secondo la nuova fattispecie di "offerta per la vita" invece Salvo D’Acquisto, il carabiniere che, appunto, offrì la propria vita per salvare un gruppo di persone da una rappresaglia nazista. Assieme a lui, con la stessa motivazione il sacerdote diocesano statunitense, Emil Joseph Kapuan (1916-1951), cappellano dell'esercito americano morto in un campo di prigionia della Corea del Nord.
Erano oltre trecento, negli archivi della Curia arcivescovile di Napoli, a fine Ottocento, le pratiche di processi di venerabili in attesa di diventare beati. Un numero superiore a quello di tutta la Francia. Come per un naturale contrasto a una diffusissima e drammatica criticità ambientale, il territorio napoletano, in quei tempi, era percorso quasi a ogni passo da impensabili vie della santità. Commentando la vita di padre Ludovico da Casoria - il “San Francesco dei nostri tempi” - Bartolo Longo non esitò a parlare di una “Napoli fortunatissima” aggiungendo che “nel suo seno, in quei torbidi tempi di rivolgimenti politici, aveva formato tanti santi da renderla privilegiata tra tutte le città italiane, e più ancora tra le nazion straniere.”
In quella schiera di santi c’è ora posto anche per lui, il giovane avvocato di Latiano inviato, nella prima uscita fuori dalla sua regione, la Puglia, ad amministrare terre con scarsa rendita e grande abbondanza di problemi: la miseria innanzitutto con le primordiali condizioni di vita a mantenere perennemente accesi i focolai della violenza senza freni, non priva di episodi estremi ed efferati. Ma la santità non attecchisce in un giardino di rose e, del resto, neppure il primo tratto esistenziale di Bartolo Longo era stato privo di intoppi, fino al punto da lasciarsi attrarre dallo spiritismo. La svolta, tuttavia, era in agguato.
Le modalità con cui si manifestò sono ancora il punto centrale di una storia interamente scritta con l’inchiostro della Provvidenza. Quell’incontro, in una mattina di fine ottobre del 1872, si sprigionò dalla potenza di un attimo. Fu egli stesso a raccontarlo come il momento fondativo di tutto, mentre si aggirava verso l’Arpaia, la zona più selvatica della desolata Valle di Pompei. A un tratto, gli sembrò di ascoltare una voce: “Se cerchi salvezza propaga il Rosario. È promessa di Maria. Chi propaga il Rosario è salvo!”
“L’Anno giubilare longhiano”, indetto dalla diocesi, ha fatto memoria dei 150 anni di quell’incontro. È stato rievocato, come centrale, il momento dell’illuminazione interiore, l’attimo che aprì al beato la strada alla realizzazione di un progetto che non aveva ancora tutto in mente, ma che tuttavia, sospinto da impegno e zelo, si delineava giorno per giorno in maniera sempre più chiara.
C’era sullo sfondo non più la Valle, terra senza futuro e senza nome, ma la “Nuova Pompei”, una comunità che, sotto i suoi occhi, si plasmava giorno per giorno diventando, in sostanza, il più vitale dei parametri per misurare quanto lontano, sul terreno concreto, avesse portato un’ispirazione di fede: quell’illuminazione interiore che lo aveva colto in via Arpaia.
La “Nuova Pompei” è oggi una città inserita in un territorio urbano tra i più densamente abitati d’Europa. Il Santuario, prima pietra di costruzione dell’intero complesso urbano, è tra i più famosi al mondo e ha la particolarità di non essere, come la maggioranza di essi, sul monte, ma nel cuore di una città, al piano terra potremmo dire, tra strade e piazze dove si svolge la vita quotidiana della popolazione. Esistono tutti i motivi per parlare della “Nuova Pompei”, a distanza di 150 anni dalla fondazione, come del punto di arrivo della visione e del progetto di Bartolo Longo. In effetti tornano tutti i conti, con il complesso delle Opere a testimoniare un imponente ponte di passaggio tra la fede e la carità, trasformando la spinta all’evangelizzazione in un poderoso investimento sociale. Tutto è ancora in piedi nelle forme di una carità aggiornata ai tempi. E altre opere, su quella scia, si sono sviluppate fino a oggi, nella chiesa guidata da 12 anni dall’arcivescovo-prelato Tommaso Caputo.
Il santuario e la città, le opere assistenziali, prima fra tutte l’ospizio per i figli e le figlie dei carcerati, uno “schiaffo” anche ideologico alle teorie del Lombroso sulla tara ereditaria della violenza, e i servizi per costruire un impianto urbano, legato ma non dipendente o sussidiario rispetto a quello religioso. E ancora: Bartolo Longo, l’uomo di fede e il cittadino, il devoto infervorato di Maria e il laico attento alle distinzioni tra Stato e Chiesa per rendere più saldo e autentico il rapporto tra comunità ecclesiale e rappresentanza civile.
Nella Napoli post-borbonica il giovane avvocato viveva il clima di un cattolico papale al quale restavano, tuttavia, del tutto estranee le forme organizzative che al Nord del Paese avevano dato vita, per esempio, all’Opera dei Congressi. Non era l’organizzazione parrocchiale, largamente utilizzata anche nella difesa degli “imprescrittibili diritti” della Santa Sede, l’obiettivo centrale di un impegno che, già in partenza, prevedeva un approdo di natura sociale. D’altra parte, a fare “rete”, seppure con la fragilità di un territorio povero e dismembrato, non erano certo le parrocchie, quanto piuttosto le Confraternite che esprimevano, nella loro derivazione più popolare, il carattere e la cultura religiosa di larga parte del Mezzogiorno italiano.
Era a partire da quelle condizioni che Bartolo Longo poteva pensare al Santuario e iniziare, però, già a guadare alla città: l’una essenziale all’altra e fin dall’inizio con il segno di una distinzione lungimirante e, per quei tempi e quel clima, addirittura audace.
Così la “città mariana” prendeva forma assemblando valori e materiali di costruzione: si propagava il Rosario e spuntava e s’innalzava il campanile, mentre parallelamente si sviluppava sul territorio la rete dei servizi che identificano una città: le strade, la ferrovia, l’ufficio postale, perfino il primo nucleo di edilizia popolare per gli operai. Un percorso non solo originale ma, a suo modo, sovversivo perché mai un campanile aveva fatto da compasso per la crescita del resto di una città. Nel migliore dei casi il tempio aveva creato intorno a sé lo spazio agibile per una sorta di “buona condotta” sociale. Viene in mente, pensando all’oggi, il paradigma delle “periferie esistenziali” evocate da papa Francesco, il terzo pontefice pellegrino a Pompei, dopo San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E di riflesso, il rapporto diretto tra Bartolo Longo e i papi iniziato con Leone XIII, il papa del Rosario, e, attraverso l’enciclica Supremo Apostolatus Officio, ispiratore della “Supplica”, la più famosa delle preghiere mariane longhiane. A Pio X e alla Santa Sede Longo affidò alla fine la proprietà del Santuario.
Nel tempo, la città mariana ha continuato a essere anche la casa dei papi e il legame è stato particolarmente forte con Papa Wojtyla che visitò il Santuario in due diverse occasioni. Quando il 21 ottobre del 1979, Giovanni Paolo II si affacciò dalla Loggia della Basilica, avverando la profezia di “don Bartolo” secondo il quale un giorno il Papa avrebbe salutato la folla dalla facciata del Santuario – in piazza veniva distribuita l’edizione straordinaria di Avvenire, per la prima volta stampata fuori Milano. Giravano le rotative dell’edizione Sud, stampata per alcuni anni nella tipografia del Santuario, un’altra delle opere avviate dal fondatore. Scrittore prolifico e brillante, autore di molte pubblicazioni e ideatore e factotum del “Rosario e la Nuova Pompei”, oggi 141 anni di vita, fu proprio la penna, insieme al rosario, il suo primo strumento di apostolato. Ma lui pensava in grande. E la penna non poteva essere altro che la prima pietra di un’azienda grafica, per anni, tra le più importanti del Mezzogiorno.
Fa un decisivo passo in avanti la causa di beatificazione di Salvo D’Acquisto. Il Papa ha infatti autorizzato il decreto che riconosce «l'offerta della vita» del brigadiere che si offrì in cambio di alcuni ostaggi dei nazisti nel 1943. Per essere proclamato beato, a questo punto manca solo il miracolo. Lo scatto che ha portato alla decisione di queste ore è avvenuto il 19 settembre scorso grazie «al felice esito del Congresso particolare sull’offerta della vita» in seno al Dicastero delle cause dei santi, come aveva ricordato il segretario del Dicastero stesso, l’arcivescovo Fabio Fabene, in una relazione del convegno dello scorso novembre “Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita” la cui giornata conclusiva era stata dedicata proprio alla terza via della santità, cioè l’offerta della vita.
Si tratta di una fattispecie a se stante e perciò distinta dalle altre due (martirio ed eroicità delle virtù) da un motu proprio del Papa, Maiorem hac dilectionem, dell’11 luglio 2017. In pratica vi si stabilisce che è possibile proclamare la santità di coloro che siano morti per amore del prossimo, affrontando un pericolo che quasi certamente li avrebbe condotti alla fine della propria esistenza. Si pensi a un medico morto per curare i malati di una grave epidemia, avendo contratto egli stesso la malattia, o al caso di Gianna Beretta Molla, che non volle abortire al fine di curarsi da un tumore e che morì una settimana dopo aver partorito la sua terza figlia. Ora il sacrificio di Salvo D’Acquisto rientra in questa nuova fattispecie. Monsignor Fabene ne ricordò a novembre le complesse tappe. «Dapprima l’inchiesta diocesana fu sulle virtù in grado eroico. Poi, arrivati gli atti processuali alla Congregazione delle cause dei santi, si è ritenuto di mutarne il lemma alla fattispecie del martirio. Ma il Congresso peculiare dei Consultori teologi il 30 novembre 2007 giudicò gli elementi probatori non sufficienti a dimostrare che si sia trattato di un vero e proprio martirio. Con Maiorem hac dilectionem anche la causa di Salvo D’Acquisto ha trovato una fattispecie più idonea e consona».
La premier italiana Giorgia Meloni ha scritto sui suoi social: «Salvo D'Acquisto è un eroe, simbolo di coraggio, sacrificio e dedizione al dovere. La decisione del Santo Padre di autorizzare il percorso per la sua beatificazione è un riconoscimento straordinario per un uomo che ha dato la vita per salvare quella di altri, incarnando i valori più alti di umanità e servizio. Il suo esempio resterà per sempre vivo nella memoria della nostra Nazione». Messaggi anche dal ministro della Difesa Guido Crosetto e dal presidente del Senato Ignazio La Russa.
L'Arma dei Carabinieri, appresa la notizia, ha emesso un comunicato del comandante, il generale Salvatore Luongo in cui si manifesta «la più sentita gratitudine a papa Francesco per il decreto» riguardante Salvo D'Acquisto. La medaglia d'oro al valor militare, sottolinea Luongo, «è un esempio luminoso di coraggio, abnegazione e amore per il prossimo, che supera i confini del tempo: un modello di riferimento per tutti i Carabinieri e per le future generazioni».
Anche l'ordinario militare per l'Italia, l'arcivescovo Santo Marcianò esprime la sua gioia e quella della diocesi castrense per il decreto. «Siamo infinitamente grati al Santo Padre e accogliamo commossi da lui il dono del nuovo Venerabile Salvo, affidandolo anche alla sua intercessione, in questo momento di prova nel quale gli siamo vicini con grande affetto e incessante preghiera». La Chiesa Ordinariato Militare - prosegue Marcianò - particolarmente chiamata a diffondere il Vangelo della pace, vede nella vita di Salvo D’Acquisto un esempio luminoso di quel dono di sé che caratterizza l’opera di difesa e protezione della vita umana portata avanti ogni giorno da uomini e donne delle Forze Armate e Forze dell’Ordine, e ne addita il messaggio a tutti gli uomini e donne di buona volontà». «La sua vita e la sua morte - conclude l'ordinario militare - testimoniano, come ogni ingiustizia, violenza, vendetta possano essere trasformate dall’amore, diventando un potente messaggio di giustizia, pace».
Dall’emanazione del motu proprio a oggi sono state istruite presso il dicastero delle Cause dei Santi 13 cause per l’offerta della vita. Una di sola di queste cause, prima di ieri, è arrivata al decreto super oblatione vitae. Quella relativa a Franz De Castra Holzwarth, un laico che morì per essersi offerto volontario come ostaggio al fine di sedare una rivolta in un carcere brasiliano. Con i decreti riguardanti Salvo D’Acquisto e Emil Joseph Kapaun, emessi oggi, 25 febbraio, i casi salgono a tre. Tutte le altre Cause si trovano in una fase antecedente a questa. Secondo i dati forniti a suo tempo da Fabene. «4 provengono dagli Usa, 3 dall’Italia, 2 dall’Ecuador e 2 dalla Spagna, 1 dalla Polonia e 1 altra dal Brasile. Il numero complessivo è di 17 Servi di Dio: 1 cardinale, 10 sacerdoti (2 religiosi, 8 diocesani), 1 religiosa e 5 fedeli laici di diverse età. Sette cause provengono da un cambiamento di lemma, sei sono originali».
Le altre due cause “italiane” riguardano un altro carabiniere, Albino Bandinelli, e il cardinale Ludovico Altieri, vescovo di Albano. Il primo nell’estate del 1944, pur non facendo parte dei partigiani, si spacciò per uno di loro di fronte alla minaccia del comando fascista di fucilare gli ostaggi, nonché di incendiare Santo Stefano d’Aveto, in provincia di Genova. Perciò fu ucciso. Il porporato laziale invece morì nel 1867 di colera dopo aver soccorso, senza temere per la propria incolumità, i colpiti dall’epidemia. «I martiri non sono stati e non sono degli eroi insensibili alla paura, all’angoscia, al panico, al terrore, al dolore fisico e psichico - disse nel novembre scorso il cardinale Marcello Semeraro, tracciando le conclusione del convegno -. Così, ad esempio, si trovano descritti eroi mitologici come Achille, noto per la sua invulnerabilità tranne che nel tallone; Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; Eracle, proverbiale per le sue straordinarie fatiche e la sua forza sovrumana. I martiri cristiani, invece, - ha aggiunto il prefetto delle Cause dei santi - non furono impassibili. Furono umani». La loro esperienza ci parla «di forza nella debolezze e di forza della debolezza», secondo l’espressione usata da Andrea Riccardi. E da questo dare la vita deve trarre forza anche la Chiesa, specie in un’epoca segnata da un’antropologia caratterizzata, come ha detto la filosofa Lodovica Maria Zanet (intervenuta insieme con il francescano Maurizio Faggioni), da individualismo, diritti senza doveri e prevalenza del virtuale sulla realtà. Per invertire la rotta.
Quando la Presidenza nazionale di Azione cattolica mise in piedi, tempo fa, i primi contatti con il quotidiano Avvenire per un’alleanza nel campo della comunicazione, era chiaro a tutti – soprattutto a chi già lavorava da molto tempo nel settore comunicazione di Ac – che la sfida era coraggiosa, possibile e persino desiderabile. Coraggiosa, perché lo stile comunicativo di un quotidiano è, nei fatti, diretto, immediato e sintetico, e quello di un’associazione, come l’Ac, invece, molto più mediato, lento, riflessivo. Possibile, perché le storie raccontate da Avvenire potrebbero (possibilmente), avvicinarsi ai contenuti “ideali” per un’associazione popolare come l’Ac.
Desiderabile, infine, perché se per l’Ac è una possibilità in più per essere riconoscibile in un palcoscenico comunicativo nazionale attraverso Avvenire, è anche vero che lo stesso quotidiano ne esce arricchito da questa alleanza, che è tutta da costruire. Insomma, se si volesse giornalisticamente definirla, diremo che è un’alleanza coraggiosa, possibile e persino desiderabile. Un’alleanza che si concretizza in quattro uscite trimestrali per Segno nel mondo – la storica rivista promossa dell’Azione cattolica – in formato tabloid e distribuito insieme al quotidiano Avvenire, più altre cinque uscite annuali di quattro pagine all’interno dell’edizione nazionale di Avvenire.
Segno nel mondo ha una sua storia. Pensato agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso da Angelo Bertani come un settimanale di approfondimento sociale, culturale e politico del Segno soci che invece era rivolto a tutti i soci di Ac come notiziario associativo, fu un periodico che ebbe rilevanza nazionale per i temi che sceglieva e come li trattava. Negli anni ha cercato di mantenere la sua fisionomia e il suo modo di raccontare il Vangelo sulle strade del mondo, seguendo quelli che sono stati i cambiamenti nella società. E un giornale è bello proprio perché cambia, si evolve, pensa accanto agli uomini e le donne del proprio tempo. Ecco perché l’alleanza di cui stiamo parlando e che è appena iniziata con il primo numero di Segno nel mondo tabloid uscito lo scorso 24 gennaio e le prime quattro pagine nell’edizione nazionale di Avvenire dell’11 febbraio – sempre con la testata Segno nel mondo – è una possibilità concreta per rendere il racconto della buona notizia sempre più appetibile non solo ai soci di Ac, ma anche al pubblico e ai lettori che forse non conoscono così bene l’associazione. Segno nel mondo formato tabloid, 24 pagine a colori, che arriva nel formato cartaceo ai soci di Ac over 60 e in digitale, attraverso l’app dedicata di Avvenire, a tutti i soci di Ac previa sottoscrizione della volontà di aderire all’edizione digitale, non è quindi un “altro” giornale. È lo stesso di sempre. Certo, ha una nuova redazione, operativa, affidata a giovani giornalisti.
Ma non è cambiato lo spirito. Ecco perché i contenuti all’interno del tabloid e delle quattro pagine nazionali avranno sempre – almeno questo è il tentativo – una narrazione su temi “alti”, facilmente riconoscibili, dove il racconto della “buona notizia” dialoga con le inquietudini e le domande degli uomini e donne del nostro tempo. Segno nel mondo, quindi, non segue Avvenire nel suo modo di proporre la scaletta: semmai, in un processo di attenzione reciproca, i due giornali interagiscono, riflettono insieme, dialogano. Pace, disarmo, giustizia economica, buona politica, impegno dei credenti nella polis, spiritualità, periferie e marginalità. Chiesa e Vangelo, sempre. Ma anche un’Italia fatta da persone che hanno a cuore il “bello” di un territorio e una comunità solidale che sentono propri.
Questo è il valore aggiunto dell’alleanza tra Segno nel mondo e Avvenire. Come dicevamo all’inizio, persino desiderabile. La narrazione della buona notizia, oggi, soprattutto nei nostri mondi parrocchiali e curiali, a volte un po’ chiusi in sé stessi, ha bisogno di un nuovo coraggio ecclesiale, quasi un nuovo approccio semantico a un racconto che liberi energie, positività, utopie nascoste. Non sappiamo dove porterà questa nuova alleanza. Di sicuro però sappiamo da dove siamo partiti. Il lettore che abbia letto il primo numero di Segno nel mondo tabloid uscito il 24 gennaio e l’edizione dell’11 febbraio, e che si appresta a leggere l’edizione dell’11 marzo, avrà trovato – troverà – le risposte più adeguate a questo desiderio di raccontare la “buona notizia” in modo serio, professionale, con lo stile e il modo di vedere le cose tipico di un’associazione popolare come l’Ac. Perché, infine, per chi fa i giornali, il lettore ha sempre l’ultima parola.
Il dialogo tra le Chiese cristiane, come sanno tutti, si articola attorno alla Parola. A partire dal passo del Vangelo di Giovanni dove Gesù si rivolge così al Padre: «Io non prego soltanto per questi miei discepoli, ma prego anche per altri, per quelli che crederanno in me dopo aver ascoltato la loro parola. Fa’ che siano tutti una cosa sola: come tu, Padre, sei in me e io sono in te, anch’essi siano in noi». Proprio in virtù di questo “comandamento” che chiama i cristiani a impegnarsi nel cammino verso la piena unità, va salutata con particolare interesse la pubblicazione del Nuovo Testamento in traduzione letteraria ecumenica che viene presentata oggi, 25 febbraio a Roma. Edito dalla Società Biblica in Italia e dalla Elledici, il volume (560 pagine, 15 euro) è frutto di un lavoro condiviso che ha coinvolto insieme traduttori e revisori cattolici, evangelici e ortodossi.
«Questa nuova Traduzione letteraria ecumenica – spiega don Luca Mazzinghi, presidente della Società biblica in Italia – nasce nel 1997 da un progetto della Società biblica in Italia; per il Giubileo del 2000 fu pubblicato il Vangelo di Giovanni, in seguito il progetto si interruppe ed è stato ripreso e completato negli ultimi quattro anni per quanto riguarda il Nuovo Testamento; l’Antico è previsto per un prossimo futuro. Questa traduzione si distingue da quella Interconfessionale in lingua corrente (Tilc; 1978-1984) per due ragioni: prima di tutto è un progetto a maggior respiro ecumenico, includendo Chiese come quelle ortodosse che non avevano aderito alla Tilc. Poi, perché mentre la Tilc è una traduzione cosiddetta “dinamica”, che privilegia cioè la comprensibilità nella lingua di arrivo (l’italiano), sacrificando a volte il testo originale, questa è piuttosto una traduzione “formale”, ovvero “letteraria”: ciò significa che privilegia la lingua di partenza, il greco del Nuovo Testamento, cercando tuttavia di offrire un italiano corretto e scorrevole». La Traduzione letteraria ecumenica del Nuovo Testamento verrà presentata il 25 febbraio presso la Chiesa valdese di Piazza Cavour a Roma. Assieme a don Mazzinghi e a Mario Cignoni, segretario generale della Società biblica in Italia, che avranno il compito di “spiegare” la pubblicazione, interverranno il cardinale Gualtiero Bassetti già presidente della Cei, il vescovo Dionysios Papavasileiou (Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia), la moderatora della Tavola valdese, Alessandra Trotta e Lénart de Regt (Alleanza Biblica Universale).
«La caratteristica più significativa di questa traduzione – prosegue Mazzinghi – è il suo percorso davvero ecumenico: ogni singolo libro o gruppi di libri del Nuovo Testamento è stato tradotto in coppia da un cattolico e da un evangelico. Poi, tutto è stato riveduto e reso omogeneo da un gruppo ecumenico di sei revisori. In una terza fase la traduzione è stata inviata a ognuna delle Chiese coinvolte, ciascuna delle quali ha avuto la possibilità di nominare un proprio revisore interno e verificare che il testo non creasse difficoltà per la propria visione di fede o la propria tradizione ecclesiale e liturgica. Infine il segretario generale, il professor Mario Cignoni, ha compiuto assieme a me un’opera di revisione finale alla luce delle osservazioni giunte; si è aggiunta la revisione linguistica da parte di un italianista». Come si suol dire la qualità di un albero la si vede dai frutti. Nel nostro caso, dunque, va evidenziato lo stile del cammino che ha portato a questa novità editoriale. «Sottolineo che nel corso di tutto il lavoro non vi sono mai stati ostacoli di natura confessionale; l’impegno comune sulla Parola di Dio ha creato anzi legami e amicizie rinsaldando i rapporti tra le diverse Chiese coinvolte, quella cattolica, quelle evangeliche e protestanti, quella vetero-cattolica, il Patriarcato greco-ortodosso d’Italia e quello rumeno-ortodosso. Tradurre e diffondere le Scritture a livello ecumenico è del resto la missione specifica della Società biblica». L’auspicio ora è che questo impegno condiviso venga recepito dalle Chiese in modo veramente ecumenico. «Questa nuova traduzione – prosegue Mazzinghi – non si pone l’obiettivo di sostituire le attuali versioni liturgiche come la Bibbia Cei 2008 usata nella Chiesa cattolica o la Nuova Riveduta usata in molte Chiese evangeliche. Si propone invece come traduzione approvata o appoggiata dalla maggior parte delle Chiese cristiane in Italia, da usare assieme in occasioni ecumeniche; si propone anche come traduzione da usare per la preghiera personale, per la catechesi, per lo studio sia personale che comunitario delle Scritture. Il lettore scoprirà come spesso questa traduzione non rispecchia quella a cui egli è abituato, soprattutto dalla liturgia (si pensi al Padre Nostro); traduzioni diverse aiutano a riflettere sulla necessità di comprendere sempre meglio le Scritture».
La Parola al centro dunque. Nella vita personale del credente e come base per la costruzione di una vera fraternità. «Con questa pubblicazione ci auguriamo di aver offerto uno strumento che aiuti i cristiani in Italia a riscoprire la centralità della Parola di Dio assieme all’importanza del dialogo ecumenico a partire dall’unica Scrittura. Allo stesso tempo vorremmo che anche chi è lontano dalla fede cristiana o chi si professa non credente, possa gustare la bellezza e la profonda umanità del Nuovo Testamento ed avere così un contatto positivo con la persona del Signore Gesù».
Nei bollettini medici sulla salute di papa Francesco che vengono diffusi dal Policlinico Gemelli compaiono molti termini medici che non sono di immediata comprensione. Un geriatra, abituato ad avere la gestione di persone anziane con più patologie, può fornirci una guida per orientarci, senza alcun riferimento specifico alle condizioni di un paziente, la cui cartella clinica è nota solo a chi lo sta curando. A rispondere è Niccolò Marchionni, professore emerito di Medicina interna-Geriatria dell’Università di Firenze.
Il Papa è stato ricoverato per una polmonite bilaterale. Che cos’è?
La polmonite bilaterale è più grave in un paziente 88enne, e fragile perché appare in sovrappeso e bisognoso di un bastone con appoggio largo, che denota debolezza muscolare. La necessità di somministrare ossigeno ad alti flussi (come si faceva per i malati di Covid-19) significa che c’è un grosso impegno del tessuto polmonare che determina insufficienza respiratoria. Inizialmente, si combatte l’infezione respiratoria con una terapia antibiotica ad ampio spettro. Poi in base ai risultati degli esami sui prelievi sia di sangue sia di secrezioni bronchiali, si individua una terapia antibiotica (e/o antifungina) contro il batterio che è stato identificato e testato per la sua sensibilità. La crisi respiratoria iniziale, comunicata come crisi asmatica, è verosimilmente una costrizione bronchiale in risposta ad agenti infettanti (può essere anche allergica).
In relazione al sangue si è parlato di anemia, piastrinopenia, emotrasfusioni. Che cosa significano?
Anemia significa riduzione dei valori di emoglobina. Si effettua l’emotrasfusione, cioè la somministrazione di globuli rossi (emazie) concentrati, quando l’emoglobina scende sotto gli 8 grammi per decilitro. Della piastrinopenia, cioè la riduzione delle piastrine al di sotto del limite minimo normale, che potrebbe essere anche un effetto di alcuni antibiotici, bisognerebbe sapere il livello. L’emotrasfusione di emazie è necessaria per evitare che al danno dovuto alla riduzione dell’ossigeno circolante nel sangue (l’ipossiemia, che richiede la somministrazione di ossigeno ad alti flussi) si sommi la riduzione di trasporto di ossigeno agli organi per la riduzione dei trasportatori, cioè dei globuli rossi carichi di emoglobina.
Invece l’insufficienza renale?
Viene diagnosticata in base all’aumento della creatinina, che indica una riduzione di funzione renale. Nel soggetto anziano la creatinina tende a salire perché con l’invecchiamento il numero di nefroni (le unità funzionali del rene) si riduce. Una riduzione che è più rapida se il paziente è affetto da ipertensione arteriosa (magari non trattata in modo ottimale) e/o diabete. Un paziente di 88 anni che ha in corso una polmonite, con anemizzazione, e che richiede ossigeno ad alti flussi, ha esposti i reni a un’accelerazione del danno. Reni invecchiati, fragilità, ridotta mobilità, sovrappeso, possono determinare una insufficienza renale lieve, che viene misurata sulla base del volume che il rene riesce a depurare in un minuto (filtrato glomerulare, calcolato con specifiche formule). Se interviene un’infezione acuta, con ipossiemia e anemia, l’insufficienza renale può diventare acuta. Inoltre alcuni farmaci, tra cui alcuni antibiotici, oltre a essere tossici per il rene, devono essere eliminati per via renale. Quindi il valore del filtrato glomerulare è uno dei parametri usati per definire la prognosi: se il filtrato si abbassa molto, la prognosi può diventare molto incerta (riservata). E si richiede un’accurata strategia nel dosaggio dei farmaci.
Cosa differenzia la sepsi dall’infezione?
Con sepsi si intende il passaggio dei batteri nella circolazione con loro proliferazione e potenziale estensione della infezione ad altri organi oltre all’iniziale “porta”, il primo sito di infezione, in questo caso i polmoni. L’organismo mette in atto una serie di strategie difensive per creare una barriera contro l’infezione ed evitare che i batteri possano andare in circolo. Se la difesa viene superata e i batteri proliferano nella circolazione sanguigna e in localizzazioni secondarie, abbiamo la sepsi, la generalizzazione di una infezione inizialmente localizzata. E può provocare danni su altri organi, dal rene al fegato e al cuore.
Si svolgeranno domani pomeriggio alle 16 nella Cattedrale di Salerno, i funerali dell’arcivescovo emerito di Salerno-Campagna-Acerno, Gerardo Pierro, deceduto a Pontecagnano Faiano all’età di 89 anni. Ieri la camera ardente era stata allestita presso il Seminario metropolitano «San Giovanni Paolo II», da dove la salma verrà traslata nel primo pomeriggio nella Cattedrale per le esequie, che saranno presiedute dall’attuale arcivescovo Andrea Bellandi che in un messaggio alla Chiesa salernitana ha voluto «ricordare con affetto e gratitudine questo suo figlio», essendo nato a Mercato San Severino, proprio nell’arcidiocesi salernitana, il 26 aprile 1935. Ordinato sacerdote il 21 dicembre 1957 ha svolto diversi incarichi nella sua diocesi natale.
Il 26 giungo 1981 fu nominato vescovo di Tursi-Lagonegro, ricevendo l’ordinazione proprio a Salerno il 2 agosto successivo. Da Tursi-Lagonegro il 28 febbraio 1987 venne trasferito alla diocesi di Avellino. Il 25 maggio 1992 venne promosso arcivescovo di Salerno-Campagna-Acerno, difatti? tornando nella sua Chiesa natale. Durante il suo ministero episcopale lavorò per la costruzione di un nuovo Seminario, che proprio ieri ha ospitato la sua camera ardente e dove ha trascorso i suoi ultimi anni dopo la rinuncia alla guida pastorale dell’arcidiocesi avvenuta il 10 giugno 2010 e accettata da Benedetto XVI.
Papa Francesco ha annunciato, attraverso il Bollettino della Sala Stampa vaticana uscito ieri alle 12, una nuova unione “in persona episcopi” di due diocesi italiane. Questa volta si tratta della diocesi di Trivento, il cui precedente pastore, Claudio Palumbo è stato nominato lo scorso 7 dicembre 2024 nuovo vescovo di Termoli-Larino.
A guidare la diocesi di Trivento sarà da ora monsignor Camillo Cibotti, attuale vescovo di Isernia-Venafro (dal 2014), guida pastorale che manterrà anche dopo questa nomina. Dunque per la ventiduesima volta, papa Francesco sceglie la via dell’unificazione delle diocesi attribuendone la guida ad un unico pastore. Non si tratta di una fusione delle Chiese locali, ma di certo il fatto di condividere lo stesso vescovo le porterà a una maggior condivisione e lavoro assieme. Lo ha ricordato lo stesso Cibotti nel suo primo messaggio alla nuova diocesi. «La decisione della Santa Sede – scrive nella sua lettera –, non rappresenta per noi una sfida, ma una opportunità. Mentre chiede a tutti noi la docilità all’azione dello Spirito e la disponibilità al cambiamento, consegna alle nostre vite un dono più prezioso: la possibilità di vivere il “procedere insieme” che la Chiesa definisce cammino sinodale, cammino nel quale sono impegnate tutte le Chiese d’Italia. Le nostre piccole realtà, quella di Trivento e quella di Isernia-Venafro, sapranno testimoniare che è possibile conservare identità e radici culturali e religiose, pur aprendole alle novità e alla condivisione, al confronto e alla comunione». Da parte sua la diocesi di Trivento ha accolto con gioia la notizia, data nella Cattedrale, del nuovo pastore e ha contestualmente ringraziato il vescovo Palumbo per i suoi sette anni di ministero in questa Chiesa.
Monsignor Cibotti è nato a Casalbordino in provincia di Chieti e nell’arcidiocesi di Chieti-Vasto, il 28 ottobre 1954. Sacerdote dal 1978 è diventato vescovo di Isernia-Venafro l’8 maggio 2014, venendo ordinato vescovo l’11 giugno dello stesso anno.
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Anche dalla Mecca la preghiera e gli auguri di buona salute a papa Francesco. A trasmettergli da uno dei luoghi più` sacri per tutti i musulmani, di fronte al tempio della Ka’ba e durante le invocazioni che migliaia di pellegrini compiono in quegli spazi sacri ogni giorno, è l’imam Yahya Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente della Coreis (Comunita` religiosa islamica italiana). «Penso subito a lui come a un campione di dialogo sulla fratellanza e di amicizia con i musulmani» - ha affermato l’imam Pallavicini, in una sosta tra i riti del pellegrinaggio proprio davanti alla “stazione di Abramo”, una teca che contiene la reliquia delle sue impronte. «In questo luogo qui a Mecca come musulmani italiani onoriamo anche il profeta Abramo, patriarca del culto al Dio unico, nel Nome del quale pratichiamo la fratellanza tra cristiani e musulmani». «I migliori auguri allora di Pace e salute a papa Francesco - conclude l’imam - che nell’anno del 60° anniversario della Nostra Aetate continua ancora nel solco del dialogo aperto da San Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986». Tra pochi giorni inizierà il mese sacro di Ramadan, e cosi` in questi giorni benedetti, alla Mecca cosi` come in Italia, si ricorderà nelle preghiere il Papa con l’augurio di completa guarigione.
L’auspicio di una pronta guarigione arrivano anche dall’Unione buddhista italiana che ha voluto esprime la propria vicinanza a papa Francesco con le parole del presidente Filippo Scianna: «A nome dell’Unione buddhista italiana, esprimo la nostra più profonda vicinanza e il nostro sincero augurio di pronta guarigione a sua santità papa Francesco in questo momento di fragilità fisica. Il suo costante impegno per il dialogo interreligioso, la pace e la dignità umana è fonte di ispirazione per tutti coloro che credono in un mondo fondato sulla compassione, sul rispetto e sulla solidarietà. Preghiamo affinché possa ritrovare presto forza ed energia per continuare la sua missione di amore e speranza per l’umanità».
Monsignor Riccardo Battocchio, del clero di Padova, è il vescovo eletto della diocesi di Vittorio Veneto. La nomina di papa Francesco è stata annunciata, a Vittorio Veneto, a Padova, al Collegio Capranica di Roma, contemporaneamente alla Sala stampa vaticana.
Nato nel 1962 a Bassano del Grappa, sacerdote della diocesi di Padova dal 1987, licenza in teologia dogmatica e dottorato con una tesi sull’ecclesiologia di Marsilio da Padova, don Battocchio ha sviluppato un’ intensa attività accademica, in particolare presso la Facoltà Teologica del Triveneto, Membro dell’Associazione Teologica Italiana dal 2004, è stato eletto presidente nel 2019 e riconfermato nel 2023. Nel 2019 è stato nominato da papa Francesco Rettore dell’Almo Collegio Capranica in Roma.
Fa parte del Consiglio Presbiterale e del Consiglio dei Prefetti della Diocesi di Roma. Dal 2023 al 2024, in qualità di membro e di Segretario speciale ha vissuto in prima persona la XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
«Il Santo Padre Francesco, per il quale incessante si eleva in questi giorni la preghiera di tutte le Chiese, mi chiama a essere vescovo della Chiesa di Dio che è in Vittorio Veneto. Ho detto il mio sì con trepidazione – ha confidato Battocchio nel suo primo messaggio alla diocesi -. ma anche con una serena fiducia in Colui che, donandoci lo Spirito Santo, ci rende capaci di fare il bene, nonostante le nostre fragilità e, talvolta, tramite qualche nostra fragilità».
L’amministratore diocesano monsignor Martino Zagonel ha comunicato che l’ordinazione episcopale del vescovo eletto si terrà nella Cattedrale di Vittorio Veneto in una domenica tra Pasqua e Pentecoste, probabilmente nella seconda parte di maggio.
«Vengo tra voi – ha scritto Battocchio ai vittoriesi - con il desiderio di conoscere, custodire e aiutare a far germogliare i tanti semi di speranza che sono stati seminati nei solchi della Chiesa di Vittorio Veneto. Proseguiremo insieme il cammino lungo il quale il Vescovo Corrado vi ha guidati negli anni del suo ministero episcopale. Chiedo a lui, missionario di questa nostra Chiesa (monsignor Pizziolo ha scelto infatti la missione in Brasile, anziché il pensionamento, ndr), il dono della preghiera e del consiglio».
Battocchio, ricordando il servizio all’Assemblea del Sinodo, aggiunge che arriva anche «come testimone di questa straordinaria esperienza, spero con i fatti più che con le parole». Dopo aver salutato sacerdoti, religiosi e laici, il vescovo eletto assicura collaborazione «anche a quanti hanno responsabilità nel governo e nell’amministrazione della vita sociale, in un territorio ricco di risorse, operoso, vivace ma che so essere chiamato a confrontarsi con profondi cambiamenti e con non poche situazioni critiche».
Monsignor Zagonel si è poi rivolto al vescovo eletto con un pensiero augurale. «Immaginiamo la sua trepidazione nell’assumere questo gravoso compito. Ma non abbia timore. Oltre alla grazia del Signore, sempre fedele, può contare anche sulla corresponsabilità e fattiva collaborazione del popolo di Dio di questa Chiesa, fedeli laici, religiosi, diaconi e presbiteri».
Tra le tante cose difficili che dobbiamo affrontare nella vita, ce n’è una che batte tutte le altre: perdonare. Soprattutto quando subiamo un torto gratuito da chi abbiamo cercato di aiutare senza secondi fini. Di sicuro molti di noi potrebbero raccontare una storia di fiducia tradita, di amicizie compromesse, di invidie sfociate in aperta ostilità. Si può tornare indietro, naturalmente, si possono mettere insieme i cocci di un rapporto frantumato ma questo comporta spesso essere disponibili a fare il primo passo verso l’altro, anche se in cuor nostro pensiamo di essere nel giusto. Però perdonare è necessario, anche per noi stessi, per evitare di avvelenarci il cuore e contribuire a frantumare la comunità. Inutile dire che il modello è la misericordia divina, inarrivabile eppure l’esempio cui ispirarsi, nel segno dell’amore vero che, come scrive san Paolo, «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta». «Facci la grazia di saper compiere il primo passo», chiede in questa preghiera il cardinale belga Godfried Maria Jules Daneels (1933-2019).
«Padre, niente è difficile come offrire il vero perdono,
soprattutto a chi ci è vicino e ci ha davvero fatto soffrire.
Com'è difficile questo perdono!
Tante scuse girano nelle nostre teste:
Spetta a me fare il primo passo?
Ne vale la pena?
No, ora non posso
forse domani…
Ci costa perdonare, ma come mai?
Padre, sappiamo che la riconciliazione ed il perdono possono venire solo da te.
Donaci dunque la grazia del perdono, la forza di riconciliarci con chi è sotto il nostro tetto
e con chi è lontano: lo sposo che se n’è andato o il figlio che ha tagliato i ponti.
Facci amare anche i nostri nemici. Non lasciare che il sole tramonti con rancore e rabbia nei nostri cuori.
Facci la grazia di saper compiere il primo passo e saremo come te».
E' stata una domenica di attesa e di preghiera per Francesco. Dopo le allarmanti notizie del bollettino di sabato sera, 22 febbraio, si è pregato a Roma e in tutto il mondo perché il Signore assista Francesco in questo momento di sofferenza e gli permetta di tornare, guarito, a guidare la Chiesa. Nel corso della giornata, però, sul fronte sanitario, sono filtrate dal Gemelli informazioni rassicuranti, confermate sostanzialmente nel bollettino serale (di cui parliamo più diffusamente a parte). Il Papa, hanno fatto sapere fonti vaticane, ha continuato a usare i naselli dell'ossigeno ad alto flusso. E ha proseguito con le terapie prescritte dai medici, comprese le analisi del sangue per tenere sotto controllo l'anemia (poi migliorata) e il basso numero di piastrine (rimaste stabili). Già in mattinata fonti di agenza riferivano che la crisi di ieri era rientrata, come attestava la notte tranquilla passata dal Pontefice, secondo la prima comunicazione del mattino data dalla Sala stampa vaticana poco dopo le 8,00. Il Papa in sostanza aveva riposato bene.
A mezzogiorno è stato diffuso il testo dell'Angelus, che ovviamente Francesco non ha potuto proclamare. «Proseguo fiducioso il ricovero al Policlinico Gemelli - fa sapere il Pontefice -, portando avanti le cure necessarie; e anche il riposo fa parte della terapia! Ringrazio di cuore i medici e gli operatori sanitari di questo Ospedale per l’attenzione che mi stanno dimostrando e per la dedizione con cui svolgono il loro servizio tra le persone malate». Francesco sente l'affetto che lo circonda. «In questi giorni - prosegue il testo - mi sono giunti tanti messaggi di affetto e mi hanno particolarmente colpito le lettere e i disegni dei bambini. Grazie per questa vicinanza e per le preghiere di conforto che ho ricevuto da tutto il mondo! Affido tutti all’intercessione di Maria e vi chiedo di pregare per me».
Il Papa dedica anche un pensiero alla pace. «Si compie domani il terzo anniversario della guerra su larga scala contro l’Ucraina: una ricorrenza dolorosa e vergognosa per l’intera umanità! Mentre rinnovo la mia vicinanza al martoriato popolo ucraino, vi invito a ricordare le vittime di tutti i conflitti armati e a pregare per il dono della pace in Palestina, in Israele e in tutto il Medio Oriente, in Myanmar, nel Kivu e in Sudan».
Sul piazzale che porta all'ingresso del Policlinico Gemelli, verso mezzogiorno si è formata una piccola folla. E non c'è nessuno di quelli che, con incessante andirivieni si recano a visitare i propri parenti e amici, non si fermi anche solo per un attimo e non alzi lo sguardo verso le finestre del decimo piano dove c'è la stanza di Francesco. Alcuni fanno un segno di croce, altri mandano un bacio volante, altri ancora sostano brevemente in silenziosa preghiera.
E una grande preghiera corale è salita nella mattina di domenica 23 febbraio dalla Basilica di San Pietro, dove l'arcivescovo Rino Fisichella ha presieduto, su incarico del Papa, la messa per il Giubileo dei diaconi, leggendo l'omelia preparata dal Pontefice. «Papa Francesco, benché in un letto d'ospedale, lo sentiamo vicino a noi, presente in mezzo a noi - ha sottolineato il pro prefetto del Dicastero per l'Evangelizzazione -. Questo ci obbliga a rendere ancora più forte e più intensa la nostra preghiera perché il Signore lo assista nel momento della prova e della malattia».
Nel corso della celebrazione sono stati anche ordinati alcuni candidati al diaconato. Nel testo dell'omelia, il Papa invita i diaconi a essere annunciatori del perdono. «Per crescere insieme - scrive -, condividendo luci e ombre, successi e fallimenti gli uni degli altri, è necessario saper perdonare e chiedere perdono, riallacciando relazioni e non escludendo dal nostro amore nemmeno chi ci colpisce e tradisce. Un mondo dove per gli avversari c’è solo odio è un mondo senza speranza, senza futuro, destinato ad essere dilaniato da guerre, divisioni e vendette senza fine, come purtroppo vediamo anche oggi, a tanti livelli e in varie parti del mondo. Perdonare, allora, vuol dire preparare al futuro una casa accogliente, sicura, in noi e nelle nostre comunità. E il diacono, investito in prima persona di un ministero che lo porta verso le periferie del mondo, si impegna a vedere – e ad insegnare agli altri a vedere – in tutti, anche in chi sbaglia e fa soffrire, una sorella e un fratello feriti nell’anima, e perciò bisognosi più di chiunque di riconciliazione, di guida e di aiuto». Anche all'Angelus un appello ai diaconi. «Svolgete il vostro ministero nella Chiesa con parole e opere, portando l'amore e la misericordia di Dio a tutti. Vi esorto a continuare con gioia il vostro apostolato e - come ci suggerisce il Vangelo di oggi - a essere segno di un amore che abbraccia tutti, che trasforma il male in bene e genera un mondo fraterno. Non abbiate paura di rischiare l'amore».
Nella sera del 22 febbraio, il bollettino medico con il consueto aggiornamento riguardante le condizioni di papa Francesco conteneva notizie preoccupanti e parole pesanti: «crisi respiratoria prolungata», «ossigeno ad alti flussi», «emotrasfusioni» e «prognosi riservata».
Un quadro, che il comunicato definiva «critico». «Le condizioni del Santo Padre continuano ad essere critiche, pertanto, come spiegato ieri, il Papa non e` fuori pericolo», sottolineava la nota. «Questa mattina Papa Francesco ha presentato una crisi respiratoria asmatiforme di entita` prolungata nel tempo, che ha richiesto anche l'applicazione di ossigeno ad alti flussi». Poi il riferimento alla trasfusione di sangue: «Gli esami del sangue odierni hanno evidenziato una piastrinopenia, associata a un'anemia, che ha richiesto la somministrazione di emotrasfusioni». Unica nota positiva, in chiusura, era la sottolineatura che «il Santo Padre continua ad essere vigile e ha trascorso la giornata in poltrona». Ma, aggiungeva il comunicato, oggi Francesco è stato «piu` sofferente rispetto a ieri». E infine una nota medica che di fatto in qualche modo era stata anticipata e spiegata durante la conferenza stampa di venerdì: «Al momento la prognosi e` riservata». Che vuol dire che non è possibile ancora pronunciarsi sull'evoluzione della situazione.
Venerdì pomeriggio il professor Sergio Alfieri, davanti ai giornalisti convocati per una conferenza stampa che a una settimana dal ricovero di Francesco al Policlinico “Agostino Gemelli” ha fatto il punto della situazione, aveva precisato appunto che il Papa «non è fuori pericolo, ma non è in pericolo di vita». Il Pontefice resta «un paziente fragile», aveva detto Alfieri, che è il primario di chirurgia, affiancato dal dottor Luigi Carbone, referente medico personale del Papa. «Sicuramente - ha sottolineato - la degenza sarà ancora lunga. Almeno tutta la prossima settimana». E il Papa tornerà a Santa Marta «solo quando non avrà più bisogno di terapie ospedaliere».
In sostanza, la polmonite bilaterale da cui è affetto il Papa non è da sottovalutare, «tutte le porte restano aperte», aveva sottolineato Alfieri. «Il cuore è forte, la parte addominale, sottoposta a intervento in passato, è a posto. Ha una stoffa fortissima. E la testa è quella di un sessantenne, forse anche di un cinquantenne», ha riassunto il professore.
Da dove potrebbero arrivare dunque i pericoli? Alfieri ha spiegato che l’ipotesi peggiore sarebbe quella di un passaggio nel sangue dei microbi attualmente localizzati nelle vie respiratorie. Se questo avvenisse, si innescherebbe una sepsi e le conseguenze potrebbero essere molto gravi. Ma finora ciò non è avvenuto e i medici sono fiduciosi che non avvenga, anche alla luce delle cure che quotidianamente vengono somministrate al Papa.
Francesco però resta «un paziente fragile». «E con questa definizione intendiamo un uomo di 88 anni che non si è certo risparmiato e che ha patologie croniche cioè bronchiectasie e bronchite asmatiforme. Le malattie croniche non guariscono, ma possono essere validamente contrastate». Il professore ha anche precisato che papa Bergoglio non è allettato. Si siede in poltrona, legge, lavora, va in cappella a pregare. E soprattutto non è attaccato ad alcun macchinario. Cioè respira spontaneamente e mangia normalmente. Informazioni che collimano con quanto in mattinata avevano fatto sapere fonti vaticane: «Il Papa ha ricevuto l’Eucaristia e successivamente si è dedicato alle attività lavorative. Continua a ricevere i collaboratori più stretti e a svolgere un po’ di lavoro».
Alfieri ha anche fatto chiarezza sul lavoro dei medici in questa prima settimana di degenza. All’inizio non c’era evidenza di un’infezione ai polmoni che poi è comparsa dopo una Tac. A Casa Santa Marta prima del suo ricovero, ha precisato spazzando via le dicerie dei giorni scorsi, «il dottor Carbone e l’infermiere personale Massimiliano Strappetti hanno curato il Pontefice come meglio non si poteva». Alfieri aveva anche sottolineato: «Il Papa è pienamente consapevole della serietà delle sue condizioni e ha sempre voluto che raccontassimo la verità. Non ci sono mai stati "non detti" nei nostri bollettini».
Infine il professore ha riferito che Francesco «mantiene il suo buon umore», raccontando anche un paio di aneddoti in tal senso. «Ieri mattina, quando sono entrato nella sua stanza e gli ho detto “buongiorno Santo Padre”, mi ha risposto: “Buongiorno Santo Figlio”. In un’altra occasione - ha proseguito Alfieri - mentre gli riferivo gli esiti di alcune analisi mi sono avvicinato un po’ troppo a lui, che mi ha chiesto: “Ma si vuole confessare?”. Allora gli ho risposto: “Santità, se mi devo confessare la sua degenza sarà molto più lunga”. Ad ogni modo l’assoluzione me l’ha data e io naturalmente me la sono presa».
Un giornalista ha chiesto che cosa avverrà quanto Francesco tornerà a Casa Santa Marta. Dovrà limitare la sua attività? «Non credo si farà legare alla poltrona da nessuno, non è uno che molla», ha detto Carbone. E Alfieri ha aggiunto: «Adesso la priorità è guarirlo dalla polmonite bilaterale».
Dalle chiese in Italia e nel mondo al piazzale del Policlinico Gemelli di Roma, laici e religiosi si stringono nella preghiera e invocano la misericordia affinché Papa Francesco "trovi sollievo nella sua sofferenza". Una speranza, "parola tanto cara a Bergoglio" come ripetono in molti, condivisa dalle comunità ecclesiali e dai fedeli che tutti i giorni dedicano un Ave Maria al pontefice. E un invito a pregare per il Santo Padre, ricoverato dal 14 febbraio, arriva anche dalla presidenza della Cei. L'Ufficio liturgico nazionale ha predisposto due schemi, uno per la recita del Rosario e uno per l'Adorazione eucaristica, che potranno essere adattati nei diversi contesti locali: "Con la stessa incrollabile fede del centurione - si legge - ogni comunità e ciascun fedele, affidi al Signore Gesù la sofferenza di Papa Francesco confidando nella sua pronta risposta: 'Io verrò e lo curerò'".
È un Papa che, le parole del pro-prefetto del dicastero per l'Evangelizzazione, monsignor Rino Fisichella, "sentiamo presente in mezzo a noi e questo ci obbliga a rendere ancora più forte, più intensa, la nostra preghiera perché il Signore lo assista nel momento della prova e della malattia". Il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in serata, nella chiesa di San Domenico, ha presieduto il Rosario per la salute di Francesco: "vogliamo stringerci al Santo Padre chiedendo al Signore di sostenerlo in questo momento di sofferenza, perché trovi sollievo e possa ristabilirsi al più presto", ha fatto sapere. "Affidiamo al Signore, medico delle anime e dei corpi - ha detto da parte sua il segretario della Cei, mons. Giuseppe Baturi - l'opera del personale sanitario che si prende cura di lui con dedizione e competenza ed eleviamo la concorde e fiduciosa preghiera affinché gli doni il sollievo nel corpo e nello spirito".
Nel pomeriggio messa nella Basilica di San Giovanni in Laterano per chiedere a Dio di aiutare Papa Francesco ad affrontare questa prova. "In comunione di fede e di preghiera, ciascuno nella propria comunità - scrive in un messaggio ai fedeli della diocesi di Roma il cardinale vicario Baldo Reina - innalzeremo al Signore la nostra supplica per il Santo Padre, affinché lo sostenga con la Sua grazia e lo ricolmi della forza necessaria per attraversare questo momento di prova".
E vicino a Francesco, nel piazzale del Gemelli, l'ora dell'Angelus ha visto una piccola folla radunata - con lo sguardo spesso rivolto al decimo piano del Policlinico - intorno alla statua di Giovanni Paolo II. Monumento ormai diventato meta di un pellegrinaggio silenzioso per chi decide di pregare per il Papa, tra palloncini, rosari, sciarpe e disegni. Come quello di Alice (nome di fantasia), 12 anni, che raffigura Bergoglio tra i bambini, sotto a un arcobaleno, lo stesso comparso la scorsa settimana sopra al Policlinico. "Forza Francesco, siamo tutti per te", si legge nel disegno. "Ti auguriamo di tornare presto tra noi, noi bambini abbiamo bisogno di te", ha poi scritto la piccola nella lettera che vorrebbe consegnare al Papa. Tra la folla che ha animato la domenica con canti e preghiere, anche il cardinale Angelo De Donatis. "Noi siamo qui per fargli sentire tutta la vicinanza e tutta la forza della preghiera. Ci auguriamo che il Papa possa sentire questo abbraccio forte di tutti coloro che lo amano", ha detto. E il pontefice viene anche ricordato nella preghiera dei fedeli nel corso della messa domenicale nella cappella del Gemelli. Un'invocazione, una speranza - sulla scia di questo Giubileo - che ha raggiunto Bergoglio al decimo piano. Un affetto, quello della gente, che con il passare delle ore si intensifica e si manifesta sempre più.
«La malattia si affronta affidandosi a Cristo che sulla croce ha riscattato le nostre sofferenze, ma anche con grande fiducia nei medici e con pazienza verso se stessi. Bisogna obbedire alla vita, lasciandosi condurre da chi si prende cura di te. Soprattutto, come nel caso del Papa, quando ci si ritrova una patologia che lavora dentro e che debilita molto il corpo perché non ti dà la possibilità di respirare bene». L’arcivescovo di Bari-Bitonto, Giuseppe Satriano, sa che cosa significa soffrire di una polmonite bilaterale: nel 2021 è stato ricoverato per due mesi in ospedale a causa del Covid dove gli era stata diagnosticata una polmonite simile a quella del Pontefice. «La fragilità è porta attraverso cui far entrare la misericordia di Dio e il suo agire nella storia. Del resto la nostra fede ci consegna una salvezza vissuta mediante il sacrificio del Figlio di Dio sulla croce. Sentirsi accomunati a Cristo, nel frangente della malattia, diventa un sostegno importantissimo», aggiunge il presule di 65 anni che dal 2023 presiede la Conferenza episcopale pugliese.
Eccellenza, i medici hanno spiegato alla stampa il quadro clinico di Francesco ma il Papa non è fuori pericolo.
«È questo il modo corretto di recepire le notizie, ossia facendo riferimento a specialisti autorevoli che aiutano a cogliere l’andamento di una malattia che non è semplice. Siamo invitati a credere che il cammino del Papa, anche se lungo, possa avere un esito positivo».
I medici spiegano che il Papa ha chiesto di non nascondere ciò che sta affrontando.
«Questo dice il senso profondo di come il Pontefice viva il suo ministero, vale a dire all’insegna della trasparenza e della semplicità. Tra l’altro oggi (ieri per chi legge, ndr) è la festa della Cattedra di Pietro che ricorda l’impegno del Papa a custodire la Chiesa e a tessere continuamente i fili di quella rete di Pietro che oggi è affidata a Francesco. Una custodia che tocca la responsabilità di ogni credente e ci apre alla cura degli altri».
Da Giovanni Paolo II a Francesco, i Papi non hanno timore di mostrare le loro fragilità fisiche. È un monito a chi legge il valore della vita solo in termini efficientisti fino a voler liberalizzare il suicidio assistito?
«Le considero testimonianze estremamente significative. Anzitutto, ci dicono che la malattia è uno spazio in cui si può vivere il ministero petrino e, di fronte a visioni edoniste, diventano segnali di Vangelo. Ogni attimo della nostra esistenza è un dono e, al tempo stesso, un’opportunità di grazia anche quando sopravviene la sofferenza. Inoltre il dolore, quando c’è la fede, si fa esperienza gravida e feconda per coloro che sono accanto. Molta della mia crescita umana la devo alla testimonianza di persone che hanno attraversato con fiducia cristiana una stagione critica della vita… Penso a quanti, privi di una reale possibilità di guarigione, hanno saputo infondere speranza e offrire raggi di luce».
Eppure continuano le fake news e le speculazioni mediatiche sul Papa e sul futuro della Chiesa.
«Credo che, come accade anche in altri ambiti, abbiamo perso un’etica nella comunicazione. Talvolta sembra sia stato smarrito un quadro valoriale di riferimento. Spesso mi chiedo: chi di noi gioirebbe se la propria situazione di fatica si trasformasse in oggetto di una comunicazione indifferente al dolore e più propensa a speculare sulla notizia? Eppure, nonostante tutto questo, c’è un mondo silenzioso fatto di gente comune che, in ginocchio, sta pregando per il Papa e per la Chiesa. Nelle nostre parrocchie, nelle case, lontano dai nostri ambienti ecclesiali sono in tanti a pregare e ad essere accanto al Pontefice. Moltissime persone sentono forte il legame con papa Francesco. Egli con la sua umanità ha intessuto un magistero di prossimità a poveri, donne e uomini di ogni estrazione sociale, culturale e religiosa. Tutti sono consapevoli di quanto il Papa si sia speso per il bene dell’umanità e della Chiesa: anche su una sedia a rotelle, ha girato il mondo e, aggiungerei, lo fa girare. Il cuore della gente è veramente in sintonia con quello del Santo Padre: questo è il messaggio da fargli giungere come carezza e balsamo in un passaggio complesso della sua vita».
Due celebrazioni distinte, a Bologna e a Roma, ma un'unica consistente supplica per la salute di papa Francesco: il pomeriggio e la serata di oggi, decimo giorno di ricovero del Pontefice al Gemelli, sono stati animati dalla Messa presieduta dal cardinale vicario Baldassare Reina oltre che dal Rosario trasmesso in diretta tv da Bologna e guidato dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo del capoluogo emiliano.
«Siamo qui per affidare alla Vergine Madre Papa Francesco, con tanto affetto e riconoscenza. La Parola di Dio e la preghiera ci uniranno ed esprimeranno tutte le nostre parole: ci aiuteranno a sentirci in comunione tra noi, con il Santo Padre e con tutta la Chiesa, in particolare con le Chiese in Italia, che nei giorni prossimi si ritroveranno in tanti modi, sempre nella dolce compagnia di Maria per intercedere per la guarigione del Papa».
Così il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha introdotto il Rosario per la salute e la guarigione di papa Francesco, che questa sera ha guidato a Bologna, nella grande Basilica di san Domenico, affollatissima per l'occasione. Primo atto, come ha lui stesso ricordato, della preghiera corale della Chiesa italiana per la stessa intenzione, che proseguirà nei prossimi giorni.
«Sappiamo anche quanti si uniscono a noi - ha aggiunto Zuppi -. Tanti nella amicizia hanno affidato a noi la preghiera, abbiamo visto tanti attestati di riconoscenza e di stima che presentiamo tutti al Signore perché doni protezione e renda forte nella fede Papa Francesco». Il porporato ha poi voluto anche sottolineare che «certamente farà piacere a Papa Francesco che insieme a lui ricordiamo anche tutti coloro che sono nella malattia, particolarmente quelli di cui nessuno si ricorda: persone solo, quelli che vivono la sofferenza, segnati anche dalla violenza e dalla guerra».
Negli stessi minuti in cui a San Domenico si pregava il Rosario, è giunta la lettera inviata al Pontefice dal bolognese Yassine Lafram, presidente dell’Unione delle comunità islamiche in Italia (Ucooi). In Loro nome, Lafram dice di voler esprimere a Francesco «i nostri più sinceri auguri di pronta guarigione. Abbiamo appreso con preoccupazione del Suo recente stato di salute e ci uniamo in preghiera affinché possa rimettersi in forma al più presto» perché «il suo impegno per la pace e la giustizia nel mondo rappresenta un faro di speranza per molti».
Come detto, quello di stasera a Bologna è stato il primo appuntamento che coinvolgerà da domani tutte le Chiese in Italia unite, insieme, in un unico abbraccio orante. L’Ufficio liturgico nazionale ha predisposto due schemi per tessere questa catena di preghiera che raduna tutte le comunità intorno al Vescovo di Roma che presiede nella comunione.
A Roma la diocesi si è ritrovata in Laterano per pregare per il suo Vescovo. E attraverso la preghiera ha voluto fargli giungere il suo affetto. Lo ha sottolineato Reina all'inizio della Messa da lui stesso presieduta nella Cattedrale romana, la Basilica si San Giovanni in Laterano.
«Abbiamo chiesto a tutte le parrocchie della nostra diocesi - ha ricordato Reina nel saluto introduttivo -, una preghiera speciale per il nostro vescovo, il Santo Padre Francesco. In questa Eucaristia lo teniamo presente, preghiamo per la sua salute, chiediamo che il Signore gli doni tanta forza. È la scelta che si fa nelle famiglie, quando c’è il papà o la mamma che stanno male. Ci si ritrova insieme e si prega, perché come cristiani questo possiamo fare e questo siamo chiamati a fare. Allora questa sera - ha proseguito il cardinale vicario - vorremmo in qualche modo far giungere al nostro vescovo il nostro affetto e il nostro abbraccio e soprattutto la nostra preghiera. Tutti insieme, come un’unica grande famiglia. I presbiteri, i diaconi, i seminaristi, i religiosi, le religiose e tutto il popolo santo di Dio. Vogliamo bene al nostro vescovo e vorremmo davvero che questo affetto lo si traducesse in preghiera, affidando tutto al Signore e chiedendo che il Signore gli doni tanta forza».
All'omelia, poi, il porporato ha ricordato come papa Francesco abbia insegnato «con le parole, con i gesti, con l'insegnamento magisteriale che è possibile scrivere pagine di Vangelo. Quello che abbiamo ascoltato oggi nella liturgia del Parole, vivere il perdono, il Papa lo annuncia da tempo. E allora ai popoli che sono in guerra chiede di tendersi la mano, piuttosto che alzare l'uno il braccio contro l'altro. Chiede la misericordia. Sappiamo quanto ha insistito su questo tema. Chiede l'abbraccio fraterno tra tutti coloro che che abitano la casa comune, al di là delle confessioni, delle religioni e delle diverse culture. Nel suo essere profeta in mezzo a noi - ha proseguito Reina -, davvero papa Francesco ci ha insegnato che è possibile realizzare nella nostra carne e nella nostra vita una pagina così difficile come quella del perdono e della misericordia. Ed è con tutto l'affetto possibile che noi vogliamo sostenerlo. Vogliamo assicurargli la nostra preghiera, la nostra vicinanza, la nostra gratitudine. Le domande si affollano, i medici e quant'altro. Noi preferiamo seguire la via di Dio, che sa tutto e può tutto. E noi con grande forza e con grande fede vogliamo chiedere al Dio della vita - ha concluso il porporato - che doni vita e salute e forza al nostro vescovo, perché altre pagine di Vangelo continuino a vivere attraverso il suo insegnamento, attraverso la sua parola, attraverso quello che è stato, è e sarà capace di fare».
Oltre che nella Basilica Lateranense, si è pregato in tutte le altre chiese di Roma per la salute del Papa. «In comunione di fede e di preghiera, ciascuno nella propria comunita` - aveva fatto sapere la diocesi -, innalzeremo al Signore la nostra supplica per il Santo Padre, affinche´ lo sostenga con la Sua grazia e lo ricolmi della forza necessaria per attraversare questo momento di prova».
«Grazie alla Chiesa, a quella ambrosiana e a quella di Crotone-Santa Severina che mi accoglie come vescovo. Grazie al Santo Padre, soprattutto in questi giorni di apprensione per la sua salute: in lui vedo l’uomo di Dio e nei suoi gesti la conseguenza della sua appartenenza a Dio. Ci basta questo per essere bravi preti, bravi vescovi, o semplicemente uomini e donne capaci di desiderio». È con voce rotta dalla commozione che monsignor Alberto Torriani pronuncia, dal pulpito del Duomo di Milano, il suo saluto alla fine della Messa che lo ha visto ricevere l’ordinazione episcopale. Un saluto che è un intreccio di “grazie”, offerti a piene mani a quanti lo hanno aiutato e affiancato nel cammino di quell’«appartenenza a Dio» che si manifesta in tante donne e uomini incontrati, volti originali dell’«umano redento», «moltiplicatori di Vangelo», maestri e compagni di quel «desiderare» che è «la forma propria dell’umano in cui è impressa la sua sete d’infinito che è forza, motore di libertà, creatività, impegno e dedizione».
Altri “grazie” sono per la mamma, per il papà che è già nella «gioia piena del cielo», per i familiari, gli amici. E «grazie a tutti voi bimbi, a voi ragazzi e ragazze, a voi giovani e a voi famiglie e colleghi conosciuti nelle stagioni dei primi entusiasmi del ministero fino a quelle della maturità. Dagli amici di Novate, poi a Monza e a Gorla Minore, poi a Milano al Collegio San Carlo e in parrocchia al Rosario. In questi “luoghi” del cuore – scandisce Torriani, rievocando le mete del suo servizio di prete ambrosiano prima della chiamata in terra calabra – ho imparato a condividere la gioia, quella vera, che non sbiadisce, che è segno di un incontro con Chi della vita ha la pretesa di essere il senso e il compimento di ogni desiderio».
Era il 2000 quando il cardinale Carlo Maria Martini lo ordinava sacerdote. Venticinque anni dopo, in questa stessa Cattedrale, eccolo – arcivescovo eletto di Crotone-Santa Severina, dove farà il suo ingresso domenica 30 marzo – ricevere, nel pomeriggio di oggi, la consacrazione episcopale. Presiede il rito l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini. Conconsacranti sono il vescovo Paolo Martinelli, vicario apostolico dell’Arabia meridionale, e il vescovo ausiliare di Roma Michele Di Tolve, Fra i concelebranti altri venti vescovi, dieci dei quali provenienti dalle diocesi della Calabria.
«Così si può descrivere la missione del vescovo: colui che riconosce Gesù e aiuta i fratelli e le sorelle a riconoscerlo – spiega Delpini in omelia –. La comunità cristiana e la comunità civile chiedono al vescovo molte cose, lo desiderano presente in molte manifestazioni, lo applaudono e lo circondano di onore, di molte attenzioni, lo ritengono responsabile di tutto quello che avviene nella diocesi e quindi lo assediano con richieste e non gli risparmiano le critiche. Tutto questo fa parte del ruolo. Ma nella verità il vescovo ha solo una cosa da fare: stare sotto la croce, entrare nel compimento della rivelazione di Gesù e così riconoscerlo e aiutare gli altri a riconoscere la presenza di Gesù».
Cent’anni di preghiera, di servizio alla città e alla diocesi, di attenzione ai poveri. I Servi di Maria festeggiano un secolo dal ritorno a Milano dopo le soppressioni napoleoniche ad asburgiche. E nell’occasione ricevono il caldo abbraccio dell’arcivescovo di Milano monsignor Mario Delpini che domenica 23 febbraio presiede l’Eucaristia alle 19 nella Basilica di San Carlo al Corso. La celebrazione sarà animata dal Coro degli studenti del Liceo musicale “C. Golgi” di Breno (Brescia) diretto dal maestro Daniele Ferrari. Seguirà un breve momento musicale con brani organistici e vocali di W.A.Mozart, J-M.Plum, C.Saint-Saëns, A.Vivaldi.
La presenza a Milano
I Servi di Maria sono a Milano dal 1288, sin dalla prima espansione del centro-nord Italia del piccolo Ordine fiorentino dei frati "Servi di Santa Maria", organizzatosi attorno ai sette primi padri nel 1233.
Il convento milanese tra il Due e il Trecento si trovava appena fuori le mura della città (secondo l'uso dei frati mendicanti del tempo), a porta Orientale ove poi sorse la chiesa di San Pier Celestino. Dopo il 1317 i Servi portarono la loro dimora entro la cinta muraria, provvedendo alla costruzione di un nuovo convento sull'area dell'attuale Basilica di San Carlo. La nuova chiesa fu intitolata Santa Maria dei Servi. Il figlio più illustre del convento milanese resta il beato Giovannangelo Porro (1451-1505), entrato tra i Servi a Milano e passato poi in Toscana, ove rimase per alcuni decenni (due dei quali passati all'eremo di Monte Senario), prima di rientrare in Lombardia. Morì, infatti, a Milano il 23 ottobre 1505. Soppresso il convento dalle ordinanze napoleoniche, Santa Maria dei Servi divenne sede parrocchiale in luogo di altre piccole circoscrizioni del centro della città: Santa Maria Passerella, San Vito in Pasquirolo, San Pietro all'Orto, San paolo in Compito, San Giorgio al Pozzo Bianco. Tra i battezzati illustri della nuova parrocchia figurano i nomi di Federico Ozanam (13 maggio 1813), del beato Contardo Ferrini (5 aprile 1859) e di Armida Barelli (10 dicembre 1882).
I Servi fecero ritorno ufficiale nella loro antica sede dopo la Prima guerra mondiale (1926) e successivamente, nel 1944, fu loro affidata anche la nuova parrocchia dell'Addolorata, in San Siro. Durante questo periodo prestò la sua opera il Servo di Maria padre David Maria Turoldo, il frate poeta che nelle drammatiche giornate dell’occupazione nazista salvò centinaia di perseguitati ebrei e capi della Resistenza, lasciandoci pagine indimenticabili di struggente amore a Dio e agli ultimi. Tra i suoi gesti più significativi l’istituzione della Messa della carità, iniziativa di solidarietà concreta diretta a favore di casi di particolare indigenza, che vengono vagliati e quindi presentati nell'ultima domenica di ogni mese. Sin dal suo avvio la Messa della carità, che punta all’autosufficienza delle persone assistite, è espressione di espressione di tre realtà: la comunità dei frati, Servi di Maria; un gruppo di volontari laici che dedicano capacità, risorse e tempo ai fratelli più poveri; i fedeli che frequentano la chiesa di San Carlo e qui vivono la dimensione liturgica e caritativa della loro fede, inscindibilmente servizio a Dio e agli uomini.
Anche da questa scelta di impegno si evidenzia come sin dal momento del loro ritorno nella metropoli milanese i frati, insieme alle sorelle Serve di Maria, si sono inseriti nella vita della Chiesa locale e della città con vivacità di proposta evangelica.
La storia dell’Ordine
I Servi di Santa Maria sono un ordine di frati nato nell'atmosfera giovane e vitale delle nuove città del centro Italia, in quella fine del Medioevo caratterizzata da una primavera della cristianità paragonabile alla prima Pentecoste. Correva l'anno 1233 quando i primi Sete fratelli un tempo mercanti, iniziarono a Firenze il loro lungo itinerario di radicalità evangelica, riunendosi a vivere insieme in una piccola casa fuori le mura della città. Erano trascorsi pochi anni dalla morte di san Francesco ad Assisi (1226) e di san Domenico a Bologna (1221).
Da questo luogo iniziale i Sette fiorentini si spostano poi, verso il 1240, su Monte Senario, a 18 chilometri dalla città. In solitudine e povertà, essi imperniano ora la loro vita sulla contemplazione. Verso il 1250 i Sette, cui nel frattempo si sono aggiunti molti compagni, ridiscendono a Firenze, aprono la prima chiesa urbana (la santissima Annunziata), vivono di mendicità.
Tre le caratteristiche essenziali delle origini. Innanzitutto la pietà mariana: i Sette fanno parte di un gruppo di devoti di "nostra Donna ", come era allora chiamata la Madre del Signore; ne diventeranno, dice la Cronaca di fra Pietro da Todi, i "Praecipui amatores", i grandi innamorati. Altro elemento fondamentale della vita dell’Ordine è la misericordia: il gruppo dei Servi aveva cura di un ospedale, lo spedale di Fonte Viva, luogo dell'amore fattivo e della tenera pietà verso ogni creatura. Terza caratteristica fondamentale è l’amicizia. L’origine dell’Ordine, infatti, fu un evento di comunione. I Sette fratelli sono amici tra loro. L'origine dei Servi è sotto il sigillo dell'amicizia. In principio, quindi, c’è la fraternità.
Lungo la sua storia l'Ordine dei Servi, scrivono oggi i religiosi, è sempre stato una microrealizzazione (oggi sono circa 1000 frati, sparsi in 39 nazioni). È un Ordine dei piccoli numeri, non avrà mai né grandi poteri né grandi masse: un Ordine, insomma a misura d'uomo e di fraternità.
Può essere un'esperienza "immersiva" nell'antichità la ricerca delle radici di fede di una comunità locale: un'avventura che segna la storia e il volto attuale di un territorio e di una Chiesa locale. A Pozzuoli il Giubileo, attraverso una mostra straordinaria, offre l'occasione proprio per risalire la china di queste itinerario verso le origini, che diventa anche un cammino di scoperta della dimensione religiosa e spirituale nella vita personale di tutti i visitatori.
S'intitola «Da Pozzuoli a Roma sulla via degli apostoli pellegrini di speranza. I Giubilei nei Campi Flegrei» la mostra che sarà inaugurata oggi, 22 febbraio alle 11 nel duomo di San Procolo Martire al Rione Terra di Pozzuoli.
La mostra, spiegano gli organizzatori, intende recuperare la memoria storica del collegamento tra Pozzuoli e Roma, legata alle figure degli Apostoli Pietro e Paolo. Secondo gli Atti degli Apostoli, san Paolo giunse al porto di Puteoli nella primavera del 61 d.C., per poi dirigersi a Roma. Per un’antica tradizione si ricorda anche il passaggio di Pietro che, attraversando la Campania per andare a Roma, consacrò il primo vescovo di Pozzuoli, san Celso. La storia dei legami ininterrotti nel tempo tra Pozzuoli e Roma offre la possibilità di descrivere questo itinerario come una via di grazia e di speranza percorribile ancora oggi.
L’esposizione, che resterà aperta fino al 6 gennaio 2026, è stata realizzata nel Museo diocesano, attiguo alla Cattedrale di San Procolo in collaborazione con la Biblioteca diocesana, l’Archivio storico diocesano e il Progetto «Puteoli Sacra». Sono esposti documenti d’archivio che descrivono gli eventi avvenuti nella diocesi di Pozzuoli in occasione dei giubilei dal 1600 al 2000; libri e stampe sui Giubilei; delle tele che descrivono iconicamente le radici apostoliche della diocesi. Il percorso è stato pensato per spiegare l'evento del Giubileo dal punto di vista biblico e storico. Rilievo è dato al primo Giubileo così come ai Giubilei straordinari avvenuti nei Campi Flegrei. La mostra vuole inoltre essere un'occasione di approfondimento per i pellegrini, i gruppi parrocchiali, gli oratori che vorranno vivere l'indulgenza giubilare all'interno della Cattedrale di Pozzuoli.
Migliaia di disegni, lettere e preghiere stanno arrivando dai bambini di tutto il mondo al Pontificio Comitato per la Giornata mondiale dei bambini. Un segno che ci ha sorpreso ma che in fondo era da aspettarsi. I bambini, infatti, sono sempre stati nel cuore di papa Francesco, un amore che ha trovato espressione in numerosi gesti e iniziative negli ultimi anni. Penso all’incontro con i piccoli del 6 novembre 2023 nell’Aula Paolo VI che ha dato il via a un legame ancora più forte tra Francesco e i bambini di tutto il mondo. In seguito, il Papa ha risposto personalmente con una lettera a migliaia di bambini che avevano partecipato a quell’incontro, esprimendo loro gratitudine e affetto.
Non solo parole, ma anche azioni concrete come l’introduzione della Giornata mondiale dei bambini (Gmb), un evento che ha avuto risonanza globale e che ha trovato spazio nella pastorale della Chiesa, a livello mondiale, nazionale e locale. Riecheggiano solenni e forti le parole di papa Francesco: «Ci siamo radunati qui allo Stadio Olimpico, per dare il “calcio d’inizio” a un movimento di bambine e bambini che vogliono costruire un mondo di pace, dove siamo tutti fratelli, un mondo che ha un futuro, perché vogliamo prenderci cura dell’ambiente che ci circonda». A testimonianza di questa profonda attenzione è stato istituito anche il Pontificio Comitato per la Giornata mondiale dei bambini con l’obiettivo di curare e coordinare l’animazione per i bambini in tutta la Chiesa.
In questo contesto, non c’è da sorprendersi della risposta dei bambini, che sono riusciti a inviare messaggi toccanti al Papa. Le loro parole e i loro disegni rappresentano una carezza che papa Francesco, in questi giorni difficili per la Chiesa e per il mondo intero, ha sicuramente accolto con gratitudine. Questi gesti di affetto, pur nella loro semplicità, sono un segno di speranza. In un momento in cui la Chiesa è sotto il peso di veleni o fake news, i bambini ci stanno lanciando un messaggio chiaro: bisogna ripartire da loro, da quella purezza e semplicità che spesso il mondo adulto tende a dimenticare.
Tra i messaggi che toccano il cuore, c’è il disegno di Axel, un bambino peruviano che ha rappresentato papa Francesco sorridente augurandogli una pronta guarigione. Poi ci sono i lavori di gruppo dei bambini dell’Associazione Fraternamente di Taurianova – 14 orfani – come quello di Emma che ha disegnato un mondo popolato dai bambini con l’esortazione: «Prega per tutti i bambini del mondo». Anche da luoghi più difficili e bisognosi giungono messaggi carichi di affetto, come quello di Gabriel, 5 anni del Brasile, che scrive: «Caro papa Francesco, con i miei amici di scuola e a casa prima di dormire prego per te e per tutti i bimbi del mondo».
D’altra parte, anche il Papa un giorno è stato bambino. Ma, secondo Roberto Benigni, bambino lo è rimasto. «Il più piccolo di tutti»: così, sul sagrato di San Pietro, lo definì l’artista toscano nel monologo che chiuse la prima edizione della Gmb. Era un modo di riconoscere in papa Francesco la purezza del cuore e dei sentimenti. Nel chirografo che ha istituito il Comitato per la Gmb il Santo Padre ricorda che «nel Vangelo anche gli Apostoli temono che i bambini possano disturbare il Maestro il quale, invece, dimostra enorme simpatia verso di loro. Non solo non ne è infastidito, ma li propone come modelli del discepolato, poiché “a chi è come loro appartiene il regno di Dio” (Mc 10,14). Lo sguardo del bambino è uno sguardo spalancato sul mistero, che vede ciò che gli adulti stentano a vedere. Perciò il discepolo è chiamato a crescere nella fiducia, nell’abbandono, nello stupore, nella meraviglia: tutte caratteristiche che l’età e la disillusione, spesso, spengono nell’uomo». Facciamo nostre le parole dei più piccoli: forza papa Francesco, ti vogliamo bene! Un messaggio che attraversa confini, lingue e culture, testimoniando la forza di un legame che si rinnova ogni giorno grazie alla sincerità e alla purezza dei più piccoli.
Il novarese e sottosegretario del Dicastero per le Chiese orientali Filippo Ciampanelli è stato ordinato vescovo il 19 febbraio scorso.
La consacrazione episcopale è avvenuta a Roma nella Basilica di San Pietro all’altare della Cattedra. A consacrarlo è stato il cardinale Claudio Gugerotti, prefetto del Dicastero per le Chiese orientali. Co-consacranti il sostituto della Segreteria di Stato, l’arcivescovo Edgar Peña Parra, e Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara.
Il cardinale Gugerotti, rivolgendosi al vescovo titolare di Acque di Mauritania Ciampanelli, ha rievocato i trascorsi comuni nelle missioni diplomatiche in Georgia, Armenia, Azerbaigian e Belarus, i quali «costituiscono un benedetto legame di affetto e di stima». Quell’affetto e quella stima che il cardinale prefetto ha rivolto a papa Francesco, pregando per «un rapido ritorno alla sua instancabile attività apostolica».
Del resto, ha fatto presente Gugerotti rivolgendosi direttamente a monsignor Ciampanelli, non è facile essere sempre al servizio della verità, «nell’incarico che hai svolto e svolgi, che ti ha dato orizzonti splendidi di una mondialità che spesso è ignota ai più, adusi all’attaccamento miope al proprio piccolo frammento di terra sul quale operiamo e viviamo».
Al rito di ordinazione erano presenti 600 pellegrini della diocesi di Novara, giunti nella Capitale per vivere il pellegrinaggio nell'anno giubilare. E partecipare ad un momento molto importante per un "figlio" altrettanto importante della Chiesa novarese, come ama definirsi Ciampanelli.
Nei primi banchi i famigliari, lo zio don Maurizio Gagliardini (che è presidente dell’Associazione Difendere la vita con Maria), i confratelli diocesani, amici e compagni di studio. E poi i colleghi del Dicastero per le Chiese Orientali e le famiglie della parrocchia romana di San Tommaso d’Aquino (dove, prima dell’ordinazione, Ciampanelli ha svolto le domeniche il suo ministero sacerdotale).
Sull’altare, oltre 30 vescovi e cardinali e più di cento sacerdoti. E, dal cielo, i genitori scomparsi: mamma Lia e papà Pier Giorgio, che il giovane sacerdote novarese ha ricordato a conclusione della sua ordinazione.
Don Filippo, classe 1978, era stato ordinato presbitero nel 2003 a Novara dall’allora vescovo Renato Corti. Dal 2009, conclusi gli studi, è entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede. È stato poi impiegato nelle Rappresentanze Pontificie in Georgia, Armenia, Azerbaigian e in Bielorussia, dal 2015 all’aprile 2024 ha prestato servizio presso la Sezione per gli Affari Generali della Segreteria di Stato. Il 15 aprile 2024 è stato nominato da papa Francesco sotto-segretario del Dicastero per le Chiese orientali.
Il nuovo vescovo, nel suo breve intervento di ringraziamento, ha dedicato un tempo di silenzio perché tutti potessero pregare per la salute del Pontefice e si è soffermato sul legame di riconoscenza con la sua chiesa madre di Novara: la sua parrocchia di Sant’Antonio, il seminario, i vescovi Del Monte, Corti, Franzi e l’attuale Brambilla.
Il giorno successivo, il 20 febbraio scorso, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, il presule ha voluto presiedere una celebrazione di ringraziamento. E si è trattato di un momento di vicinanza della sua diocesi novarese.
L’incarico gli è stato affidato direttamente da Francesco. «Il Papa mi ha chiesto di promuovere un lavoro preparatorio per quella che potrebbe essere una rete del Mediterraneo», racconta l’arcivescovo di Marsiglia, il cardinale Jean-Marc Aveline. Una rete ecclesiale in cui la fraternità unisca le sponde. «Mentre in troppi spingono per la guerra che continua a incendiare il bacino, c’è bisogno di accendere una “contro fiamma” che metta al centro l’amicizia e la giustizia e quindi si traduca in cultura di pace», spiega il porporato. Aveline arriva a Roma nei giorni di apprensione per la salute del Pontefice. E presenta nella Sala Stampa vaticana la “nave scuola della pace” che per otto mesi, durante l’Anno Santo, solcherà il grande mare e avrà a bordo fra i 150 e i 200 giovani. «Di fedi, culture e tradizioni diverse», afferma Aveline. «Giovani messaggeri di una nuova convivenza per il Mediterraneo», aggiunge il cardinale Juan José Omella Omella, arcivescovo di Barcellona, la città da cui il 1° marzo comincerà l’avventura e da cui prenderà il largo il veliero che nel suo nome racchiude sia il motto del Giubileo, sia il sogno di un futuro riconciliato: Bel Espoir, Bella speranza. «È il desiderio del Papa che la Chiesa si faccia promotrice di comunione fra i popoli. La nave dei giovani dà concretezza a questa sua visione dal basso», chiarisce l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Giuseppe Satriano, che nel capoluogo pugliese accoglierà una delle tappe. Cinque le città italiane in cui l’imbarcazione si fermerà: Palermo (a fine marzo), Trieste (a metà agosto), Ravenna (a fine agosto), Bari (a settembre) e Napoli (a ottobre). Trenta i porti del Mediterraneo che toccherà.
Un viaggio ispirato da papa Francesco che al grande mare dedica un’attenzione particolare fin dall’inizio del suo pontificato, come testimonia la sua prima visita fuori dal Vaticano nell’isola di Lampedusa, ricorda Aveline che ha voluto l’iniziativa organizzata dalla sua diocesi ma insieme a Chiese locali, associazioni e onlus. Proprio da Bari è iniziato il «processo», come lo definisce Satriano, da cui è scaturita la crociera della pace. Era il 2020 quando la città accoglieva il primo incontro dei vescovi del Mediterraneo sui passi della profezia di pace di Giorgio La Pira voluto dalla Cei su indicazione dell’allora cardinale presidente Gualtiero Bassetti e concluso dal Papa. Poi sarebbe arrivato il “summit” dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo a Firenze nel 2022 sempre promosso dalla Cei da cui sarebbe nato anche il Consiglio dei giovani del Mediterraneo di matrice Cei. Quindi l’appuntamento di Marsiglia fra vescovi e giovani nel 2023, ancora alla presenza del Pontefice, che con Aveline raccoglieva il testimone dei due eventi precedenti. E nel 2024 il raduno di cinquanta ragazzi a Tirana in rappresentanza delle varie rive.
«Si tratta di raccordare questo cammino che comprende anche la rete dei teologi del Mediterraneo, quella delle migrazioni, quella in fieri dei diaconi», sottolinea Aveline. Perché, aggiunge il cardinale che prima di diventare vescovo aveva diretto l’Institut catholique de la Méditerranée, «il Mediterraneo è luogo privilegiato della missione della Chiesa dove la comunità ecclesiale non può limitarsi a sopravvivere ed è chiamata a declinare nel concreto la sinodalità entrando in dialogo con tutti». Un dialogo di cui il galeone dell’Anno Santo intende essere un simbolo e un propulsore. Infatti sarà protagonista di un itinerario dove «cristiani, ebrei e musulmani condivideranno la speranza di un mondo riconciliato e avranno il coraggio dell’incontro», afferma don Alexis Leproux, vicario episcopale di Marsiglia incaricato delle relazioni con il Mediterraneo che sta coordinando il progetto “Med 25-Bel Espoir”, ma anche dove verranno coinvolti giovani che la geopolitica considera “nemici”, come israeliani e palestinesi. «Sarà una nave dell’ascolto delle ferite del bacino e delle risorse in grado di trasformarlo», spiega l’arcivescovo di Marsiglia. Alla scuola dell’intuizione del Papa “Fratelli tutti”, ricorda il cardinale Omella Omella. «Per il Pontefice il Mediterraneo è un laboratorio di fraternità “imposta” dalla vicinanza delle sponde», sottolinea Aveline.
Otto gruppi di 25 giovani provenienti da tutto il grande mare si alterneranno sulla nave che attraccherà nei porti dell’Europa, del Nord Africa, del Medio Oriente e dei Balcani. «A bordo i ragazzi vivranno un’esperienza che obbliga alla convivenza e alla conoscenza – dice Leproux –. Ma per chi è a terra la nave sarà uno strumento pedagogico di fraternità». Ad ogni tappa verranno proposti incontri, convegni e festival, come quello che Satriano annuncia per Bari a settembre. Il veliero giungerà a fine ottobre a Marsiglia dove si concluderà la navigazione. E durante il viaggio verrà scritto un libro bianco, o «azzurro» come lo chiama Aveline, che racconterà le frontiere di pace sperimentate dai giovani. Il volume sarà consegnato al Papa e ai sindaci della regione, annuncia il cardinale francese. «Si tratta di osare con audacia», conclude Satriano affidandosi alla frase che papa Francesco aveva consegnato a Bari al termine del primo incontro del Mediterraneo da cui tutto è partito.
Gli oratori sono ancora luoghi vitali per le comunità? Sì, sembrano dire i dati raccolti dalla Fondazione Cariplo, che lo scorso anno ha lanciato un bando ("Porte Aperte") per sostenere proprio le attività oratoriane. Su 3,2 milioni di euro di finanziamenti disponibili, le domande presentate hanno avuto un valore complessivo di 10 milioni di euro. Dai progetti per l'integrazione e l'inclusione alle azioni per rendere più accessibili le attività alle persone con disabilità, agli studi di registrazione musicale nati per il desiderio dei ragazzi e delle ragazze che gli oratori li frequentano. Così, lunedì verrà lanciato un nuovo bando.
Ma le sfide per gli oratori non sono soltanto legate alle risorse. Ci sono anche quelle organizzative, come la diminuzione dei preti (storicamente responsabili degli oratori) o il ruolo degli educatori professionali, quelle relazionali, educative. Del ruolo che gli oratori possono continuare ad avere parliamo in questo podcast insieme a Giovanni Azzone, presidente Fondazione Cariplo e don Stefano Guidi, responsabile della Fondazione Oratori Milanesi. Racconteremo anche due esempi di oratori che possono essere considerati buone pratiche, con Francesca Galeotta, coordinatrice degli oratori in Bicocca e Filippo Maroni, coordinatore del progetto Happiness di Varese.
Padre Roberto Brandinelli è stato confermato ministro provinciale dei frati minori conventuali del Nord Italia. L'elezione è avvenuta durante il Capitolo dei frati a Camposampiero (Padova).
Il religioso sarà alla guida dei frati minori conventuali della provincia di Sant’Antonio di Padova per il prossimo quadriennio (2025-2029). Si tratta del suo secondo mandato. L'elezione è avvenuta nel corso del Capitolo provinciale ordinario 2025 della Provincia Italiana di Sant'Antonio di Padova. Erano presenti 62 frati capitolari, in rappresentanza qualificata dei 235 religiosi iscritti alla Provincia. A questa realtà, la Provincia di Sant’Antonio di Padova, fanno riferimento i frati minori conventuali presenti nel Nord Italia, in Portogallo e Cile in due distinte delegazioni; alla Provincia sono anche affidate le custodie provinciali del Ghana e di Francia-Belgio. Padre Brandinelli è nato a Savignano sul Rubicone (Forlì Cesena) il 21 gennaio 1967. Fa parte dell’Ordine dei frati minori conventuali dal 1993 ed è sacerdote dal 1998.