giovedì, 14 novembre 2024
  Username:   Password:
Ricordami su questo PC










Ultime notizie

Giovedì, 14 Novembre 2024

Fa un decisivo passo in avanti la causa di beatificazione di Salvo D’Acquisto. E presto si potrebbe giungere alla dichiarazione, da parte del Papa, della venerabilità del brigadiere che offrì la sua vita in cambio di alcuni ostaggi dei nazisti nel 1943. A quel punto mancherebbe solo il miracolo. Lo scatto è avvenuto il 19 settembre scorso grazie «al felice esito del Congresso particolare sull’offerta della vita» in seno al Dicastero delle cause dei santi, come ha ricordato ieri il segretario del Dicastero stesso, l’arcivescovo Fabio Fabene, intervenendo al convegno “Non c’è amore più grande. Martirio e offerta della vita”, i cui partecipanti saranno ricevuti questa mattina in udienza da Francesco. La giornata conclusiva del simposio è stata dedicata proprio alla terza via della santità - cioè l’offerta della vita - introdotta come fattispecie a se stante e perciò distinta dalle altre due (martirio ed eroicità delle virtù) da un motu proprio del Papa, Maiorem hac dilectionemdell’11 luglio 2018. In pratica vi si stabilisce che è possibile proclamare la santità di coloro che siano morti per amore del prossimo, affrontando un pericolo che quasi certamente li avrebbe condotti alla fine della propria esistenza. Si pensi a un medico morto per curare i malati di una grave epidemia, avendo contratto egli stesso la malattia, o al caso di Gianna Beretta Molla, che non volle abortire al fine di curarsi da un tumore e che morì una settimana dopo aver partorito la sua terza figlia. Ora il sacrificio di Salvo D’Acquisto rientra in questa nuova fattispecie. Monsignor Fabene ne ha ricordato ieri le complesse tappe. «Dapprima l’inchiesta diocesana fu sulle virtù in grado eroico. Poi, arrivati gli atti processuali alla Congregazione delle cause dei santi, si è ritenuto di mutarne il lemma alla fattispecie del martirio. Ma il Congresso peculiare dei Consultori teologi il 30 novembre 2007 giudicò gli elementi probatori non sufficienti a dimostrare che si sia trattato di un vero e proprio martirio. Con Maiorem hac dilectionem anche la causa di Salvo D’Acquisto ha trovato una fattispecie più idonea e consona». Per cui ora essa sarà sottoposta alla sessione ordinaria dei cardinali e vescovi (probabilmente entro il prossimo febbraio) e poi sarà trasmessa al Papa per la dichiarazione di venerabilità.

Dall’emanazione del motu proprio a oggi sono state istruite 13 cause per l’offerta della vita. I dati sono stati forniti da Fabene, ieri. «Di esse, 4 provengono dagli Usa, 3 dall’Italia, 2 dall’Ecuador e 2 dalla Spagna, 1 dalla Polonia e 1 altra dal Brasile. Il numero complessivo è di 17 Servi di Dio: 1 cardinale, 10 sacerdoti (2 religiosi, 8 diocesani), 1 religiosa e 5 fedeli laici di diverse età. Sette cause provengono da un cambiamento di lemma, sei sono originali».

Le altre due cause “italiane” riguardano un altro carabiniere, Albino Bandinelli, e il cardinale Ludovico Altieri, vescovo di Albano. Il primo nell’estate del 1944, pur non facendo parte dei partigiani, si spacciò per uno di loro di fronte alla minaccia del comando fascista di fucilare gli ostaggi, nonché di incendiare Santo Stefano d’Aveto, in provincia di Genova. Perciò fu ucciso. Il porporato laziale invece morì nel 1867 di colera dopo aver soccorso, senza temere per la propria incolumità, i colpiti dall’epidemia. «I martiri non sono stati e non sono degli eroi insensibili alla paura, all’angoscia, al panico, al terrore, al dolore fisico e psichico - ha detto il cardinale Marcello Semeraro, tracciando le conclusione del convegno -. Così, ad esempio, si trovano descritti eroi mitologici come Achille, noto per la sua invulnerabilità tranne che nel tallone; Prometeo, che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini; Eracle, proverbiale per le sue straordinarie fatiche e la sua forza sovrumana. I martiri cristiani, invece, - ha aggiunto il prefetto delle Cause dei santi - non furono impassibili. Furono umani». La loro esperienza ci parla «di forza nella debolezze e di forza della debolezza», secondo l’espressione usata da Andrea Riccardi. E da questo dare la vita deve trarre forza anche la Chiesa, specie in un’epoca segnata da un’antropologia caratterizzata, come ha detto la filosofa Lodovica Maria Zanet (intervenuta insieme con il francescano Maurizio Faggioni), da individualismo, diritti senza doveri e prevalenza del virtuale sulla realtà. Per invertire la rotta.





Giovedì, 14 Novembre 2024

Le sue omelie alla Messa festiva delle 21 – sempre affollata – celebrata nella chiesa milanese di San Francesco, tutt’uno con il convento dei Cappuccini di piazza Velasquez e allo storico Centro culturale Rosetum – sono per tanti come una borraccia di acqua fresca per la traversata di una settimana. Padre Roberto Pasolini da sabato 9 novembre è il nuovo Predicatore della Casa Pontificia, nominato dal Papa per succedere a padre Raniero Cantalamessa che lascia questo incarico – affidato dal 1743 a un frate minore cappuccino – dopo ben 44 anni, appena varcata la soglia dei 90.

Di anni, Pasolini, ne ha 53 – compiuti, il 5 novembre –, un legame vivo con i giovani che in gran numero ne frequentano liturgie, riflessioni e i cicli delle “Dieci parole”. Milanese, frate dal 2002 e sacerdote dal 2006, è docente di Esegesi biblica alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. La sua frequentazione viva e intima della Parola, nutrita da una spiritualità intensa (ne ha scritto nel recente Iniziazione alla preghiera, edito da San Paolo), fluisce in una predicazione coinvolgente che rende Dio presente e vicino a ciascuno, un Padre che ama pazzamente ogni suo figlio, conducendolo al bene per strade sorprendenti, da scoprire con la fiducia che dentro c’è un progetto di pienezza, fuori da compromessi e rassegnazioni: scomodo, impegnativo, inimmaginabile. È lungo questo viaggio della vita che, insieme a padre Roberto, si incontra un Gesù che sembra di non aver davvero mai conosciuto – non così “vero” –, umanissimo e divino, una compagnia esigente e illuminante sul mistero della vita personale.

L’ascolto delle sue omelie è un’esperienza talmente incoraggiante, ma allo stesso tempo diretta e senza sconti, che la loro puntuale registrazione online (gli audio nel suo canale Youtube) raccoglie ogni settimana centinaia di ascolti. Non sorprende che Pasolini sia diventato uno dei più apprezzati (e impegnati) predicatori di esercizi spirituali, animatore di incontri con giovani (seguitissimo il suo ciclo delle Dieci parole), direttore spirituale di fidanzati, confessore, amico di tutti quelli che ne cercano la parola cordiale e accogliente. E anche autore spirituale: dopo la sua trilogia sul peccato e la grazia (“ Non siamo stati noi. Fuori dal senso di colpa”; “È stato Dio. Dentro una vita nuova”; “Saremo noi. Immersi nell’amore più grande”) ha impressionato Un giorno smetteremo di morire, narrazione di respiro autobiografico (illuminante l’intervista di Monica Mondo per Soul su Tv2000).

«I sentimenti che provo in questo momento sono ambivalenti – riflette Pasolini parlando con Avvenire –: da una parte provo una grandissima gioia e gratitudine per una chiamata grande, meravigliosa che ho ricevuto, dall’altra un senso di timore e inadeguatezza davanti a un compito che mi sembra enorme e di fronte al quale mi sento così piccolo. Provo ad aggrapparmi a ciò che in momenti come questo mi fa sempre camminare con speranza: se Dio ora mi chiede di compiere questo passo mi darà anche la forza di attraversarlo. Di certo raccogliere l’eredità di padre Raniero Cantalamessa, del quale sono sempre stato sin dal mio ingresso nell’ordine un profondo estimatore per le sue meditazioni e i suoi libri, trovando sempre in lui una grande ispirazione, mi dà la vertigine. Provo a credere che se ora è a me che viene chiesto di portare avanti questa tradizione, che ha un grande valore per la Chiesa e anche per il nostro ordine, vorrà dire che potrò farlo in un modo che corrisponde a me e in cui potrò manifestare semplicemente me stesso, senza sentirmi nella necessità di un confronto con chi mi ha preceduto. Avanzo con gioia e timore, e con grande fiducia che sarò comunque accompagnato da tutte le persone che mi hanno aiutato in questi anni a maturare la comprensione della Parola di Dio. E proverò a farla risuonare nel cuore della Chiesa, affidandomi al Signore».

Il passaggio di testimone dopo tanti anni pone sulle spalle di Pasolini – come lui stesso riconosce – un’eredità di grande spessore: umana, spirituale, teologica. Ed ecclesiale: «Sono al quarantaquattresimo anno di attività – disse nel luglio scorso padre Cantalamessa ad Avvenire per i suoi 90 anni –. Calcolando in media otto prediche l’anno, tra quelle di Avvento e quelle di Quaresima, risultano 352 prediche, corrispondenti a tantissime ore del tempo del Papa. Una bella responsabilità. Quando qualcuno mi chiede il perché di questo, rispondo – e non sto scherzando – che il motivo è che i Papi si sono probabilmente resi conto che quello è il posto dove il padre Cantalamessa può fare meno “danno” alla Chiesa...». Di sé dice che «ho continuato per tutta la vita a fare quello che facevo da bambino, quando portavo acqua ai mietitori nel campo dei nonni durante la Seconda guerra mondiale. È cambiata solo l’acqua che porto – la Parola di Dio –, e sono cambiati i mietitori, tra i quali tre pazientissimi Pontefici: Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco». Un’immagine simbolica che torna in un suo libro-intervista, Il bambino che portava acqua (edito da Ancora). A quella fonte che zampilla ora si accosta padre Pasolini. Con l’identica umiltà, e lo stesso fuoco interiore.





Giovedì, 14 Novembre 2024

Missionario in Giappone come Francesco Saverio, secondo basco dopo Ignazio di Loyola a guidare da preposito generale la Compagnia di Gesù negli anni turbolenti del post-Concilio (1965-1983). Ma soprattutto un uomo che spese la vita per gli altri. Soprattutto i poveri e in particolare i rifugiati.

È il ritratto che probabilmente emergerà oggi a Roma con la sessione di chiusura dell’inchiesta diocesana sulla vita, le virtù, la fama di santità e dei segni del servo di Dio il gesuita Pedro Arrupe (1907-1991). L’evento si aprirà questa mattina (nel giorno, tra l’altro, in cui si ricorda la sua nascita a Bilbao avvenuta il 14 novembre del 1907) alle 12 nella Sala della Conciliazione, del Tribunale nel Palazzo Apostolico Lateranense (e potrà essere seguito live grazie al link tinyurl.com/28wwyw3s).

A presiedere la sessione sarà il prossimo cardinale e vicario del Papa per la diocesi di Roma Baldo Reina. Con il futuro porporato saranno presenti i membri del Tribunale diocesano che hanno condotto l’inchiesta: monsignor Giuseppe D’Alonzo, delegato episcopale; don Giorgio Ciucci, promotore di giustizia; Marcello Terramani, notaio attuario. Un appuntamento quello di oggi che permetterà di fare affiorare, dopo una lunga indagine durata più di 5 anni (la fase diocesana si è aperta il 5 febbraio del 2019) i singolari tratti di carità, santità, amore e obbedienza per la Sede Apostolica del servo di Dio.

Di questo è convinto il postulatore generale delle cause dei santi della Compagnia di Gesù il gesuita madrileno Pascual Cebollada. «Nel processo, il tribunale ecclesiastico della diocesi di Roma luogo in cui è morto il 5 febbraio del 1991 – spiega - ha ricevuto circa 70 testimonianze orali, e ci sono circa di 10mila pagine degli scritti inediti di Arrupe raccolti dalla Commissione storica durante questi più di cinque anni, includendo il tempo della pandemia». E annota il gesuita, classe 1960, che di formazione è un esperto di teologia spirituale: «Non era una novità, ma si conferma la grande coerenza di quest’uomo nel suo amore al Signore, alla Chiesa, alla Compagnia, con una dedizione totale a quello che considerava la volontà di Dio in ogni momento, come aveva promesso in un voto di perfezione privato fatto la veglia della sua ordinazione sacerdotale nel 1936».

Il religioso ignaziano si sofferma sull’atto solenne di oggi. «Simbolicamente – rivela – dopo giuramenti, discorsi e preghiere, si chiuderanno le scatole, i faldoni. Tutta la documentazione sigillata con la cera lacca sarà consegnata al Dicastero delle cause dei santi. La speranza è che in pochi anni, dopo la stesura della sua Positio, don Pedro, così veniva familiarmente e amorevolmente chiamato da alcuni gesuiti, possa essere dichiarato venerabile».

Una fama di santità di questo basco così singolare che continua a crescere. E testimoniata forse anche da come visse il crepuscolo della sua vita in preghiera e in silenzio. E sempre in comunione con il Successore di Pietro di allora: Giovanni Paolo II. Nell’estate del 1981 un infarto lo conduce alla paralisi e alla perdita della parola. Lasciato l’incarico di preposito generale, muore nel 1991 nell’infermeria della Curia generale dei gesuiti a Roma, vivendo questo lungo tempo di malattia pregando per la Compagnia e la Chiesa. «Sì, la nostra Postulazione Generale riceve frequentemente testimonianze scritte che vengono da luoghi e persone di estrazione culturale diverse. L’ultima, inoltrata alcuni giorni fa, di un luterano legato a Taizé che lo aveva conosciuto personalmente». E aggiunge un dettaglio: «Notizie di alcune possibili guarigioni miracolose sono pervenute alla nostra Postulazione, ma finora nessuna di esse è risultata valida per essere considerata un miracolo. Invece, grazie e favori, segni ottenuti per la sua intercessione continuano ad arrivare in modo costante e mostrano la devozione alla sua persona».

L’appuntamento di oggi consentirà di tornare con la mente al carismatico generalato di questo basco (che partecipò tra l’altro all’ultima sessione del Concilio Vaticano II nel 1965) e che da giovane gesuita si spese nell’agosto del 1945 per aiutare e venire incontro (grazie anche ai suoi studi universitari in medicina) agli sfollati e alle persone ferite di Hiroshima dopo il disastro nucleare della bomba. Padre Cebollada si sofferma su un altro aspetto: la venerazione interna alla sua Famiglia religiosa per l’illustre confratello. Molto simile a quella nutrita e coltivata negli anni da due futuri cardinali e gesuiti del rango di Carlo Maria Martini e Jorge Mario Bergoglio che lo conobbero da “vicino”. «Arrupe è stato il superiore generale di entrambi, e si conserva il loro rapporto scritto, non accessibile fuori di un processo di beatificazione (sono posteriori al 1958). Ma molto di questo rapporto speciale ed epistolare è noto. E papa Francesco ha sempre mostrato con le sue dichiarazioni ma anche i gesti come quello di recarsi alla sua tomba alla Chiesa del Gesù di Roma nel 2013 la sua sincera ammirazione per il servo di Dio». E annota ancora un particolare: «Oggi i nostri novizi continuano a leggere testi rilevanti e significativi scritti dal gesuita di Bilbao per la loro vocazione. Come è singolare che più di 150 istituzioni (universitarie e non solo) della Compagnia nel mondo portano il suo nome (tra queste il “campus Arrupe” di Madrid inaugurato nel settembre scorso). Tutto questo ci mostra l’attualità degli insegnamenti di Arrupe all’interno della Compagnia di Gesù di oggi». Un personaggio don Pedro che ha lasciato un’impronta indelebile sul suo Ordine: sotto la sua guida (18 anni di governo) la Compagnia reinterpreta la sua missione come servizio della fede e promozione della giustizia: durante il suo generalato nascerà, nel 1980, il Jesuit Refugee Service. «Egli è stato “un uomo per gli altri” – è la riflessione finale -. Ed è stato un uomo straordinario in tante cose. In un tempo di fede debole lui ci ha indicato sempre anche attraverso i suoi scritti e la sua testimonianza spesso silenziosa degli ultimi anni il primato di Dio. Proprio come voleva Ignazio credeva nei rapporti personali. E aveva fiducia negli altri. Di fronte alle ingiustizie del mondo, allo sfruttamento degli ultimi e alle crisi migratorie che ancora in questo 2024 stiamo vivendo ha avuto l’intuizione più di 40 anni fa di fondare il Jesuit Refugee Service. Tutto questo ci fa pensare a quanto sia ancora attuale e profetica, a 33 anni dalla sua morte, la sua eredità per noi gesuiti. E non solo».





Mercoledì, 13 Novembre 2024

Dal 15 al 17 novembre si terrà a Roma la Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, una delle tappe della “fase profetica”, ultimo tratto del Cammino sinodale nazionale. Nella Basilica di San Paolo fuori le Mura si ritroveranno oltre mille delegati e vescovi per confrontarsi sui Lineamenti, il testo che raccoglie i risultati raggiunti finora e propone alcune traiettorie pratiche. La Prima Assemblea sinodale è chiamata a lavorare sui Lineamenti per poi giungere allo Strumento di lavoro, in vista della Seconda Assemblea sinodale in programma, sempre a Roma, dal 31 marzo al 4 aprile 2025. La Prima Assemblea si aprirà venerdì 15 novembre con gli interventi del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, e di Erica Tossani, della presidenza del Comitato nazionale del Cammino sinodale. La relazione principale è affidata all’arcivescovo Erio Castellucci, presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale. Pierpaolo Triani, della presidenza del Comitato, presenterà le modalità di lavoro. La giornata di sabato 16 sarà dedicata al confronto nei tavoli sinodali. Alle 15 è prevista la Lectio sull’icona biblica a cura di don Dionisio Candido, responsabile dell’Apostolato Biblico della Cei, mentre alle 18.30 è in programma la celebrazione dei Vespri e la preghiera per le vittime di abusi. Domenica 17, dopo la presentazione dei lavori dei tavoli sinodali, Zuppi e Castellucci concluderanno l’incontro, affidando quanto emerso alle diocesi. Alle 12.30 la Messa.


Il Cammino sinodale della Chiesa italiana «in questi tre anni ha evidenziato diversi aspetti critici, ma ci coglierei l’aspetto positivo», che è quello «della partecipazione e del desiderio di essere ancora parte attiva». Ne è convinto Simone Morandini, teologo e vicepreside dell’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” in Venezia, tra gli esperti chiamati dalla Cei nel Comitato del Cammino sinodale, guardando all’appuntamento che dal 15 al 17 novembre vedrà la Chiesa italiana impegnata nella sua Prima Assemblea sinodale, incaricata di fare sintesi sul Cammino finora compiuto e a predisporre uno strumento di riflessione in vista dell’appuntamento conclusivo del 2025. Con Morandini affrontiamo il primo dei tre ambiti (Comunicazione e prassi pastorali) individuati nei Lineamenti in vista dell’Assemblea sinodale.

Insomma professore non è il caso di scoraggiarsi davanti agli aspetti critici emersi?

Ripeto. Il Cammino, sia nella sua fase narrativa sia in quella sapienziale, ha offerto una ricchezza di istanze, permettendo a tutti di avere uno sguardo complessivo. Ora da quelle osservazioni siamo chiamati a costruire percorsi significativi. E il fatto che siano emerse criticità è il miglior segnale che non stiamo facendo un Cammino “rituale”, ma c’è volontà nelle nostre comunità di mettersi ancora una volta in gioco, di essere protagonisti. E queste mi sembrano dinamiche positive. E poi nella fase sapienziale sono emerse molte buone pratiche che dovrebbero trovare voce nell’ormai imminente Prima Assemblea sinodale. Un bagaglio utilissimo per quelle scelte, anche audaci come è scritto nei Lineamenti, che siamo chiamati a fare come comunità cattolica in Italia.

Tra i punti critici evidenziati, vi è quello della sensazione che “il discorso cristiano” sembra diventato “insignificante nella vita delle persone”. Uno scenario preoccupante. Ma è anche un processo irreversibile?

Penso che questa sensazione sia condivisa da tutte le Chiese presenti in Italia, anche se a livelli differenti. Una insignificanza che ha, però, formulazioni differenti tra le realtà ecclesiali del Nord e quelle del Sud. Una sensazione accentuata in una dinamica legata alla secolarizzazione dell’intera società. Ma anche in questo caso siamo chiamati a guardare le opportunità e le sfide che si presentano, cercando di rispondere al quesito di come situarsi in questo cambiamento che sembra dimenticare o marginalizzare il cristianesimo. Dobbiamo trovare - ed essere - quei “germogli del Regno”, capaci di far nascere e germogliare nuove modalità di testimonianza dentro l’attuale società. Compito non facile, certo, visto che la società stessa vive profonde crisi, intese come interrogativi a cui rispondere. Rispetto al passato viviamo in una società multietnica, multiculturale e anche con un pluralismo religioso. Direi che l’invito fatto dal Concilio Vaticano II, di saper “leggere i segni dei tempi”, dopo oltre mezzo secolo rimane quanto mai attuale in una società ancora più complessa di quella in cui si viveva ai tempi del Vaticano II.

Nei Lineamenti elaborati per la Prima Assemblea sinodale si esprime il rischio di “una divaricazione tra la cultura e la profezia”. Può aiutarci a comprendere meglio il rischio?

Sono fondamentalmente due. Il primo è rappresentato da coloro che esprimono la propria testimonianza con forza e radicalità, legandola a riflessioni teologiche. Il secondo è rappresentato da coloro che elaborano ricerche teoriche, che poi hanno necessità di collegarsi con il vissuto. Entrambe mancano di una collaborazione tra loro. Devo dire che nel nostro contesto di Chiesa italiana storicamente c’è un legame piuttosto solido tra l’azione pastorale e la teologia. Ovviamente in questo contesto storico è un legame che va rafforzato.

Un esempio concreto?

Penso al ruolo delle donne nelle nostre comunità. Un tema molto dibattuto all’interno delle nostre realtà e che anche al recente Sinodo dei vescovi ha trovato attenzione. E il dibattito non si è esaurito lì, visto che è un tema affidato a una delle dieci Commissioni che proseguono il lavoro di riflessione del Sinodo stesso. Altri esempi sono il lavoro che stiamo facendo all’Istituto San Bernardino con la rete teologica del Mediterraneo e quello di una “teologia pubblica ecumenica”. L’obiettivo resta quello di collegare una riflessione teologica sul tema con gli interrogativi concreti che sorgono da questi temi.

Nell’ambito del linguaggio e della comunicazione si è riflettuto anche sulla liturgia. Sconsolante il quadro che emerge: la nostre liturgie appaiono poco significative, poco attrattive e persino poco comprensibili nei loro gesti. Ma cosa è mancato all’interno delle comunità perché non si arrivasse a questo scenario?

Anche in questo caso invito a non generalizzare. Certo il disagio nel vivere pienamente le nostre liturgie esiste ed è diffuso. Ma accanto a situazioni in cui si fatica a cogliere i valori e il significato delle nostre liturgie, ci sono anche molte esperienze positive, in cui si cura moltissimo la predicazione, legandola in modo significativo alle letture proclamate nella Messa. Esperienze in cui si valorizzano simboli e gesti compiuti durante la Messa, in modo tale che chi vi partecipa li comprenda pienamente e diventi un soggetto attivo della liturgia e non uno spettatore. Non bisogna dimenticare, ovviamente, che la liturgia ha una sua dimensione di inattualità, intesa come collocazione del Mistero che viene celebrato. Ma a preoccupare è quando insorge una “incomprensibilità” del rito. C’è una Tradizione - quella con la T maiuscola - da far vivere attraverso la liturgia, ma essa non produce nulla se non si è capaci di renderla accessibile e comprensibile a chi vi partecipa. Buone pratiche esistono e potrebbero essere piste da seguire.

Altro punto dolente è la scarsa presenza dei giovani nelle nostre comunità, anche se qualche segnale positivo durante il Cammino sinodale c’è stato con la loro partecipazione attiva. Cosa rende così difficile alle nostre comunità l’essere attrattive verso i giovani?

I giovani ci sono e se offri loro degli spazi significativi di partecipazione sono presenti. Si pensi al tema del volontariato, ma anche a significative esperienze di preghiera o di Scuola della Parola. Sono tante le esperienze giovanili in tal senso presenti lungo la Penisola. Ma questi ambiti non sempre appartengono al tessuto sociale delle nostre comunità. Ecco forse occorre valorizzare quelle buone pratiche che consentono alle giovani generazioni di esprimere e vivere la propria soggettività di fede.

Quanto sono importanti il linguaggio e la comunicazione nell’ambito del dialogo ecumenico?

È centrale. Sia per il dialogo ecumenico sia per quello interreligioso. È importante rendere comprensibili i nostri valori e concetti ad altri che vivono in altri contesti culturali e religiosi. Non si tratta di modificare quello che la Chiesa definisce “il deposito della fede”, ma di attivare forme di espressione capaci di far comprendere all’interlocutore i nostri principi con un linguaggio legato all’oggi. Insomma la sfida è “come dire Gesù Cristo oggi”, come testimoniarlo, come rendere ragione della nostra fede nella società di oggi.

Compito reso ancora più complesso da una società che relega l’aspetto religioso alla vita privata. Una posizione a volte poco compresa da chi professa altre religioni.

Una buona pista di lavoro ce l’ha indicata papa Francesco con l’enciclica Laudato si’, strumento prezioso per il dibattito sulla nostra casa comune, sui temi che riguardano l’intera famiglia umana. A partire dalla Tradizione possiamo offrire un nostro contributo all’intera famiglia umana. Le nostre Chiese e le altre fedi sono chiamate a questa sfida.

I Lineamenti evidenziano che si può essere “stranieri” anche dentro la comunità ecclesiale, messi ai margini “per il proprio orientamento sessuale o per situazioni affettive e familiari ferite”. Un’altra sfida per la Chiesa?

Non si può nascondere che dentro le nostre comunità c’è chi vive la sensazione di essere marginalizzato o di sentirsi trattato come un fattore di disturbo. La sfida per tutti noi è quella invece di valorizzare le differenze che esistono dentro la Chiesa. Spero che su questo tema il confronto prosegua.





Mercoledì, 13 Novembre 2024

Malgrado il proverbio “l’abito non fa il monaco”, quello che indossiamo un po’ ci definisce, nel senso che rivela, almeno in parte chi siamo. Vale anche per i sacerdoti e in generale per religiosi e religiose? È la domanda cui risponde il nuovo episodio di Taccuino celeste il podcast dedicato ai temi della fede, ad approfondire in cosa crede chi crede. Al centro della riflessione il comportamento dei presbiteri nella vita tutti i giorni. Cioè, al di fuori delle celebrazioni, un prete può vestirsi come preferisce? Esistono delle regole? Il podcast affronta il tema richiamando gli abiti che caratterizzano alcuni ordini religiosi e spiegando anche perché il Papa si vesta di bianco.

Come detto, Taccuino celeste è un podcast di argomento religioso. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di come si diventa santi, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti, del dibattito sull’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto.

Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it







Martedì, 12 Novembre 2024

Terremoto nella comunione anglicana. L'arcivescovo di Canterbury Justin Welby, primate d'Inghilterra, in carica dal 2013, ha annunciato le sue dimissioni dopo l'accusa emersa in un rapporto indipendente di aver coperto gli abusi sessuali e psicologici sistematici nei confronti di minorenni imputati a un potente avvocato, John Smyth, scomparso a 75 anni nel 2018.

«Dopo aver chiesto il cortese permesso a Sua Maestà il Re, ho deciso di dimettermi dall'incarico di Arcivescovo di Canterbury». Si legge nella dichiarazione con cui Welby ha annunciato le dimissioni, spiegando che «la Makin Review (la revisione indipendente guidata da Keith Makin sulla gestione del caso Smyth da parte della Comunità anglicana, ndr) ha svelato la cospirazione del silenzio a lungo mantenuta sugli abusi atroci di John Smyth: quando sono stato informato nel 2013 e mi è stato detto che la polizia era stata avvisata, ho creduto erroneamente che sarebbe seguita una risoluzione appropriata. È molto chiaro che devo assumermi la responsabilità personale e istituzionale del lungo e traumatico periodo compreso tra il 2013 e il 2024».

Welby non ha resistito alle ripetute pressioni e agli appelli per farsi da parte arrivati dal clero anglicano, inclusi alcuni vescovi, e da una petizione con oltre 14mila firme. Dal Rapporto Makin era emersa un'azione di insabbiamento condotta dai vertici religiosi rispetto alle molestie e violenze compiute da Smyth. Il legale in veste di predicatore laico aveva preso di mira almeno 130 tra bambini e ragazzi nel corso di campi estivi cristiani per giovani tra la fine degli anni '70 e l'inizio degli anni '80 nel Regno Unito e successivamente in Zimbabwe e Sudafrica, dove si era trasferito. Il dossier sugli abusi era finito sulla scrivania del leader anglicano, come da lui ammesso, sin dall’inizio del suo mandato nel 2013.

«È mio dovere onorare le mie responsabilità costituzionali ed ecclesiastiche – dichiara Welby - quindi le tempistiche esatte saranno decise una volta completata la revisione degli obblighi necessari, compresi quelli in Inghilterra e nella Comunione anglicana. Spero che questa decisione renda chiaro quanto la Chiesa d'Inghilterra comprenda seriamente la necessità di un cambiamento e il nostro profondo impegno nel creare una chiesa più sicura. Mentre lascio la carica, lo faccio con dolore per tutte le vittime e i sopravvissuti agli abusi. Gli ultimi giorni hanno rinnovato il mio profondo e sentito senso di vergogna per gli storici fallimenti nel proteggere la Chiesa d'Inghilterra». «Per quasi dodici anni – aggiunge Welby - ho lottato per introdurre miglioramenti. Spetta agli altri giudicare cosa è stato fatto. Nel frattempo, manterrò il mio impegno di incontrare le vittime». «Credo – conclude l’ormai ex Primate - che farsi da parte sia nel migliore interesse della Chiesa d'Inghilterra, che amo profondamente e che ho avuto l'onore di servire».

È così destinato ad aprirsi, in un momento di forte difficoltà per l'istituzione religiosa, il processo di successione per nominare il nuovo primate della chiesa d'Inghilterra e anche leader spirituale per 85 milioni di persone in tutto il mondo in quella che è conosciuta come Comunione anglicana.

Come spiegato dal settimanale cattolico Tablet ripreso dal Sir toccherà ora alla “Crown Appointments Commission”, una commissione formata da vescovi anglicani, scegliere il successore di Welby, selezionando due nomi da inviare al premier britannico Keir Starmer. Quest’ultimo ne sceglierà uno che verrà poi approvato da re Carlo III, che formalmente è il Capo della Chiesa d’Inghilterra. Secondo il Tablet a contare, per i candidati, saranno l’età, il sesso e la presa di posizione sul problema dell’ordinazione di donne e pastori omosessuali, due questioni che dividono profondamente la Comunione anglicana, con le gerarchie e le di solito più ferventi comunità del Global South - soprattutto africane - fermamente contrarie alla benedizioni delle unioni omosessuali, ormai ammesse in quelle del mondo occidentale. Nel 2023 dieci arcivescovi della Global South Fellowship of Anglican Churches hanno addirittura dichiarato che non avrebbero più riconosciuto l’arcivescovo di Canterbury come primus inter pares tra i vescovi della Comunione Anglicana. Tra i favoriti, secondo il settimanale cattolico, vi sono l’arcivescovo di York Stephen Cottrell che, a 67 anni, potrebbe essere troppo anziano e il vescovo di Chelmsford Guli Francis-Dehqani, donna e aperta verso la comunità Lgbt, che, per queste due ragioni, potrebbe non ottenere i voti necessari. Inoltre sarebbero in lizza anche il vescovo di Nottingham Paul Williams, quello di Chester Mark Tunner, quello di Norwich Graham Usher e quello di Leicester Martyn Snow. Chiunque sarà non avrà un compito facile.





Martedì, 12 Novembre 2024

C’è Adriano, uomo avanti d’età, che ha speso la vita nel lavoro e nella famiglia, ma ad un certo punto ha voltato l’angolo sbagliato che l’ha attratto in un vortice: il gioco d’azzardo e ora non riesce più ad arrivare a fine mese. C’è Amir, senegalese, venditore ambulante, che ha lasciato la sua terra per sentire il profumo della libertà e ogni giorno raccoglie il suo grande sacco per provare a vendere qualcosa e aiutare la famiglia in patria… Come Adriano e Amir sono in tanti a bussare ogni giorno al dormitorio "Don Tonino Bello" che, all’interno del centro storico di Salerno, accoglie ospiti in condizione cronica di disagio abitativo, accompagnandoli in un percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Il dormitorio è stato realizzato grazie ai fondi dell’8xmille per rispondere ai bisogni delle fasce più deboli. «Alle porte della Caritas diocesana bussano "tutti", anziani, senza dimora, migranti, persone che vivono fragilità sociali e/o culturali. Coloro che la durezza della vita ha costretto ad un tempo, più o meno lungo, di precarietà - spiega Ilaria Amoroso, membro dell’èquipe Caritas della diocesi di Salerno Campagna Acerno, area estreme povertà -. Quello che sappiamo è che dietro ogni volto c’è una storia, c’è un tempo bello, c’è la speranza di rialzarsi e andare avanti. A noi il compito di essere sentinelle per intercettare il bisogno e, in collaborazione con i servizi sociali territoriali, individuare le strategie per restituire loro la dignità di figli di Dio».

È una struttura di "seconda accoglienza", capace di accogliere fino a 25 ospiti, aperta a tutti coloro che vivono un disagio abitativo ma non economico (persone a basso reddito: pensionati o lavoratori saltuari). L’accesso avviene previo colloquio con il Centro di ascolto diocesano, ed è richiesto il versamento di un contributo solidale, concordato in base alle capacità di ognuno, e che servirà a contribuire al mantenimento della struttura stessa: utenze, migliorie, riparazioni. Lo scopo del contributo è quello di rendere gli ospiti responsabili e rispettosi del luogo dove vivono e avviarli a un graduale reinserimento sociale.

«In pratica accogliamo chi - prosegue Ilaria - tra lavoro saltuario, lavoro precario, non riesce ad arrivare a fine mese. Qui trova un pit stop, che gli permetterà di raccogliere le forze per rialzarsi e ripartire nel viaggio della vita». Come sta tentando di fare Omar, tunisino, giunto in Italia alla ricerca del padre, partito qualche tempo prima e disperso nel Mediterraneo. Omar era minorenne quando è arrivato in Italia. In Tunisia ha lasciato madre, due fratelli, una sorella, gli amici ed è approdato a Lampedusa . In quanto minorenne è stato trasferito nel centro di Salerno: la notizia della morte del padre non è stata semplice da affrontare. Così, grazie agli educatori della comunità, ha iniziato un percorso psicologico e, contemporaneamente, il percorso della scuola di italiano. Ma il tempo è passato e Omar è diventato maggiorenne. A 18 anni non si può più stare in una comunità per minori, così ha bussato alla porta della Caritas ed è stato accolto. «Ha iniziato un percorso con "Mestieri Campania" e continua a studiare e formarsi - spiega Ilaria Amoroso -; speriamo di poter dare a questo ragazzo il sogno di diventare grande in un mondo che l’ha fatto crescere troppo in fretta».

Nel centro campano si punta dunque all’accoglienza, alla reciprocità, alla donazione di sé e chi varca la soglia del dormitorio si inserisce in un percorso di famiglia. Prima di cena ci si deve occupare della propria igiene personale; poi si condivide il pasto serale e si rassetta la cucina. Dopo c’è tempo per la tv, un libro, o per chiacchierare, fino alle 22 quando si va nelle proprie camere. Al mattino, la sveglia è alle 6.30 e dopo colazione, alle 8, si lascia la struttura. C’è chi va a lavoro, chi si appresta a cercarlo e chi si incammina presso il centro di accoglienza diurno per trascorrere la mattinata per poi recarsi a mensa per il pranzo. Nel pomeriggio, abitualmente, gli ospiti che non lavorano si ritrovano nel centro diurno San Francesco di Paola e, alle 19, tornano insieme al dormitorio.

Un’esperienza in sinergia con parrocchie, associazioni e movimenti del territorio. «Queste strutture sono motivo di esperienza pratica per i gruppi, dai più piccoli ai più grandi - spiega ancora la volontaria -. Esperienze di servizio che almeno una volta nella vita vanno proposte e fatte e si ritorna sempre perché come dice san Giacomo: "Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere e io ti mostrerò dalle mie opere la fede"».

Come si cerca di fare con Malik, giunto dall’Africa in nome della libertà, per la quale sono morti uomini e donne, e che cerca un riscatto qui in Italia. «Non abbiamo la soluzione e non abbiamo la bacchetta magica per riportare ciascuno indietro nel tempo e correggere o togliere i pesi della vita che hanno ridotto tanti a uno stato di bisogno. Nel nostro piccolo cerchiamo di restituire la dignità usurpata - conclude Ilaria -. Al "Don Tonino Bello", un vero porto franco, incrociamo sguardi e mani. Gli occhi sono la prima cosa che ci colpisce e sono quelli di coloro che bussano alle nostre porte. Le mani sono ciò che contraddistingue chi chiede, consumate dal duro lavoro per guadagnare e affrontare il lungo viaggio. Qui si può proprio dire "nella fatica riposo" perchè oltre a ricaricare il corpo stanco, c’è una tregua per il cuore che trova ascolto e pace».

?





Martedì, 12 Novembre 2024

Sabato 16 novembre, alle ore 14.30, nella Basilica Antica del Santuario di Oropa, nel Biellese in Piemonte, si svolgerà il tradizionale rito di pulizia della Sacra Effigie. La statua della Madonna verrà portata all’esterno del sacello per consentire la pulizia che sarà effettuata con un panno di lino. La cerimonia è un gesto carico di affetto e di tradizione: una “carezza” alla Madonna. Durante il rito, si attesta che sui volti della Madonna e di Gesù non si posa mai la polvere. Questo fenomeno, a cui nessuno riesce a dare una spiegazione, viene constatato ogni anno e richiama nella Basilica Antica di Oropa sempre più fedeli. Tutti i pellegrini possono prendere parte alla cerimonia: al termine della pulizia, viene donato ai partecipanti un piccolo lino con cui possono accarezzare la Madonna prima che venga riposta nella teca.
Secondo la tradizione l’origine del Santuario è da collocarsi nel IV secolo, ad opera di Sant’ Eusebio, primo vescovo di Vercelli. I primi documenti scritti che parlano di Oropa, risalenti all’inizio del XIII secolo, riportano l’esistenza delle primitive Chiese di Santa Maria e di San Bartolomeo, di carattere eremitico, che costituivano un punto di riferimento fondamentale per i viatores (viaggiatori) che transitavano da est verso la Valle d’Aosta. Lo sviluppo del Santuario subì diverse trasformazioni nel tempo, fino a raggiungere le monumentali dimensioni odierne tramutandosi da luogo di passaggio a luogo di destinazione per i pellegrini animati da un forte spirito devozionale.

Il complesso è frutto dei disegni dei più grandi architetti sabaudi: Arduzzi, Gallo, Beltramo, Juvarra, Guarini, Galletti, Bonora hanno contribuito a progettare e a realizzare l’insieme degli edifici che si svilupparono tra la metà del XVII e del XVIII secolo. Dal primitivo sacello all’imponente Basilica Superiore, consacrata nel 1960, lo sviluppo edilizio ed architettonico è stato grandioso. Il primo piazzale, su cui si affacciano ristoranti, bar e diversi negozi, è seguito dal chiostro della Basilica Antica, raggiungibile attraverso la scalinata monumentale e la Porta Regia.
Cuore spirituale del Santuario, la Basilica Antica è stata realizzata nel Seicento, in seguito al voto fatto dalla Città di Biella in occasione dell’epidemia di peste del 1599. Nel 1620, con il completamento della Chiesa, si tenne la prima delle solenni incoronazioni che ogni cento anni hanno scandito la storia del Santuario. La facciata, progettata dall’architetto Francesco Conti, semplice nell’eleganza delle venature verdastre della pietra d’Oropa, è nobilitata dal portale, più scuro, che riporta in alto lo stemma sabaudo del duca Carlo Emanuele II, sorretto da due angeli in pietra. Sull’architrave del portale si trova scolpita l’iscrizione “O quam beatus, o Beata, quem viderint oculi tui”, che dai primi decenni del sec. XVII è il saluto augurale che il pellegrino, raggiunta la meta, riceve varcando la soglia della Basilica.





Mercoledì, 13 Novembre 2024

Gli appunti critici per la Chiesa dentro il quadro di una società che ancora guarda al cristianesimo come a un riferimento collettivo sono probabilmente già nell’agenda di tanti delegati alla prima assemblea sinodale delle Chiese in Italia, da venerdì a Roma. Di certo la ricerca del Censis sugli italiani, la fede e la Chiesa, anticipata domenica da “Avvenire” ( tinyurl.com/4brb42hu), sta dando da pensare a monsignor Antonello Mura, vescovo di Lanusei e Nuoro, presidente dei vescovi sardi, padre sinodale per due anni in Vaticano, membro di presidenza del Comitato del cammino sinodale italiano. «Il messaggio dell’indagine – riflette – è che la Chiesa non può che mettersi in ascolto, offrendo ai cristiani di oggi non solo una serie di proposte ma il coinvolgimento nella vita comunitaria. Per farli sentire a casa».

I dati offrono un quadro in chiaroscuro. Qual è la sua impressione?

Penso che senza il Sinodo la situazione sarebbe più problematica. Il cammino sinodale ha aiutato a cogliere una Chiesa che si mette in gioco, che cerca, che non si limita ad aspettare. Il fatto che molti si dicano ancora cattolici è una base per costruire, ma rischia di restare solo un’etichetta, un’atmosfera di sottofondo, se non si trasforma in pratica, esperienza, relazione.

Cosa l’ha colpita di più della ricerca?

L’annotazione che nella Chiesa i cristiani di valore, intraprendenti, non trovino posto. Con una battuta, me lo spiego col fatto che le persone intelligenti danno fastidio dappertutto... Anche nella vita delle comunità talvolta quelli che hanno idee, e le avanzano lealmente, non sono apprezzati da una maggioranza “piatta”. Questo mi fa pensare a quanto sia importante una cultura cristianamente ispirata: perché se i cristiani di valore si sentono esclusi rischiamo di diventare Chiesa “di rifugio”, cercata da chi ha qualche problema, più che di iniziativa e proposta, rischiando di non far emergere la capacità del Vangelo di trasformare la realtà, di lasciare un’impronta sulla vita personale e la società.

Cosa legge nel valore assegnato da una larga maggioranza di italiani alla vita spirituale?

Mi provoca molto e mi spinge a chiedermi se le nostre Chiese sono capaci di cogliere questa domanda di interiorità. Chi avverte questa esigenza finisce per cercare una risposta non nella comunità ma in sé stesso, in quella fede “fai da te” che il Censis cataloga come individualismo.

Il 71% degli italiani si dice cattolico, ma è un’identità che non passa attraverso la Chiesa, visto che solo il 15% frequenta. Cosa ne pensa?

Le critiche si concentrano sul fatto che la Chiesa sia “troppo antica” ma soprattutto non abbastanza chiara. L’assemblea sinodale italiana deve aiutare a capire quali sono i punti fermi della vita credente oggi in Italia, senza restare nell’indeterminatezza. Dobbiamo sentirci interrogati da questa insoddisfazione, più ancora del rilievo sul non essere abbastanza “attuali”, anche perché tra i credenti emerge una certa “nostalgia”.

Un altro aspetto interessante è la percezione sui sacerdoti, considerati in egual misura (il 40% del campione) da cercare o da evitare. Cosa vede in questa ambivalenza?

Per com’è la società oggi, che quattro italiani su dieci abbiano stima dei sacerdoti – un dato ben al di sopra di quello della frequenza – lo considero tutt’altro che negativo. I nostri sacerdoti continuano ad avere un ruolo importante nella società. D’altra parte però il 60% chiede alla Chiesa di cambiare... E allora mi chiedo: che risposte vogliamo dare a chi è diffidente per effetto degli abusi o del ruolo ancora inadeguato assegnato alle donne?

Cosa dicono i dati della ricerca all’assemblea sinodale italiana?

Anzitutto parlano di un cambiamento necessario e del recupero di presenze che possono avere valore nella Chiesa. A Roma saranno presenti persone entrate nel cammino sinodale sin dall’inizio, gente di spessore che ha accettato di farsi coinvolgere, dando prova di grande continuità nell’impegno, con un’esperienza di Chiesa allo stesso tempo vissuta e guidata. A me sembrano l’avanguardia di quel che si potrebbe mettere in movimento.

Quali sono le sue aspettative sull’assemblea di Roma?

Spero che si riesca a far percepire l’importanza dell’aspetto comunitario della fede, sottraendo i credenti all’idea che quel che fanno nella vita di fede valga solo per ciascuno individualmente, senza uno sguardo comunitario. Vanno fatti passi avanti nella partecipazione attiva dei cristiani alla vita ecclesiale, sul piano pubblico, concreto, e anche normativo. Senza temere il cambiamento. Perché cambiare è il modo della Chiesa di vivere e di essere nel tempo.





Martedì, 12 Novembre 2024

«Decodificare per l’uomo di oggi, con l’ausilio della tecnologia digitale, l’intreccio di storia, arte e spiritualità che fanno della Basilica un unicum al mondo». Questo lo scopo del progetto “La basilica di San Pietro: AI-Enhanced Experience/Esperienza abilitata dall’AI” realizzato da Microsoft e dalla Fabbrica di San Pietro in collaborazione con la Fondazione “Fratelli tutti” e della “Missione digitale della Basilica in uscita”, presentata nella Sala Stampa della Santa Sede dal cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica e presidente della Fabbrica. Con lui Brad Smith, vice chairman e presidente di Microsoft. D’altronde, spiega Gambetti la Chiesa da sempre cerca «di comunicare la propria fede nel divino attraverso i linguaggi del tempo e del contesto culturale di appartenenza». In nuovo progetto si basa su tecnologie all’avanguardia e sull’Intelligenza artificiale per consentire a pellegrini e visitatori di tutto il mondo di ammirare e interagire con la Basilica di San Pietro nei suoi punti inaccessibili. In quelli che l’occhio umano non riesce a vedere. Sarà possibile riscoprire la sua storia e il suo ruolo di cuore della cristianità, nonché quello di preziosissimo scrigno d’arte e cultura dell’intera umanità. Si tratta di una scelta innovativa voluta dal cardinale Gambetti che ha trovato la piena collaborazione di Microsoft allo scopo di aprire le porte della Basilica – proprio in occasione del prossimo Giubileo - al mondo, per donare a tutti la sua spiritualità, la sua cultura e la sua bellezza. Soprattutto a coloro i quali saranno impossibilitati a raggiungere Roma nell’Anno Santo. L’AI for Good Lab di Microsoft ha elaborato la vasta mole di dati della fotogrammetria del team francese di Iconem, raccolti anche con dei droni, perfezionando il “gemello digitale” della Basilica con una precisione millimetrica. Non solo. L’intelligenza artificiale ha aiutato a rilevare e mappare le vulnerabilità strutturali della Basilica, come crepe e tessere di mosaico mancanti, per orientare al meglio i futuri lavori di conservazione.

Durante il Giubileo poi due nuove mostre immersive presso la Basilica di San Pietro, Petros Eni e Petros Eni Octagon, offriranno a pellegrini e visitatori una combinazione unica di nozioni storiche ed esplorazioni digitali, mostrando aspetti chiave nell’evoluzione della Basilica nei secoli. Intanto un sito web interattivo consentirà a chiunque, nel mondo, un “accesso diretto” alla Basilica di San Pietro attraverso modelli 3D dettagliati e contenuti educational. «Siamo giunti a definire un piano coordinato di servizi e di attività di comunicazione per una “Basilica in uscita” - spiega il cardinale Gambetti - In questi anni, non senza fatica, abbiamo affrontato la splendida sfida del rapporto tra l’uomo e la tecnica con lo spirito di fraternità, che ha animato importanti collaborazioni improntate alla circolarità, di competenze, di punti di vista e di mezzi, con il comune obiettivo di favorire la crescita umana delle persone». Inoltre «sono state create piattaforme e app per offrire servizi ai pellegrini e ai visitatori al fine di favorirne l’esperienza in San Pietro; e sono stati resi maggiormente comprensibili – tramite i linguaggi multimediali, l’impiego dell’Intelligenza artificiale e la proposta di corsi di formazione – i significati custoditi dal complesso monumentale». «Con la Basilica nello spazio digitale, inizia un nuovo processo di comunicazione, con una nuova opera d’arte che prosegue sul cammino di coloro che hanno lavorato alla bellezza del messaggio che parte dal cuore della cristianità» spiega il direttore della comunicazione padre Enzo Fortunato, anticipando che il 25 novembre verrà presentato, assieme al cardinale Gambetti, e in accordo con gli organi competenti, il piano di comunicazione della Basilica. «Siamo stati animati da un desiderio che non è semplicemente estetico o legato a un’innovazione tecnologica – aggiunge infine il coordinatore del progetto Microsoft, padre Francesco Occhetta - Molte persone cercano uno spazio sacro in cui potersi ritrovare davanti a Dio e la ricostruzione digitale della Basilica potrà aiutare questo incontro in ogni angolo del mondo».





Lunedì, 11 Novembre 2024

L’Italia resta un Paese assolutamente cattolico, gli insegnamenti di Gesù sono ancora un punto di riferimento fondamentale mentre c’è diffidenza nei confronti della Chiesa, ritenuta responsabile di emarginare i laici di valore. La fotografia che emerge dalla ricerca Censis “Italiani, fede e Chiesa” è quella di un Paese la cui cultura è fortemente intrisa di simboli religiosi ma che vive la fede in modo sempre più individualistico. «C’è diffidenza nei confronti dell’esperienza comunitaria – spiega Giulio De Rita, il ricercatore del Censis che ha seguito l’indagine – si registra una dimensione sempre più personalistica della fede, che riguarda soprattutto i cattolici non praticanti cui piace vivere la vita interiore, spirituale, da soli, al limite condividendola con la famiglia o gli amici più stretti».

Si diceva della sfiducia verso la Chiesa cattolica, soprattutto nella sua dimensione comunitaria.
È un sentimento abbastanza diffuso. La Chiesa viene vista come un po’ troppo clericale, quindi non in grado di valorizzare le risorse di valore che avrebbe al suo interno.
Si guarda con meno fiducia anche ai preti?
In declino è soprattutto la figura del sacerdote clericale, quello che non sa ascoltare i cambiamenti che avvengono fuori dalla Chiesa.

Possiamo dire che il sacerdote è in calo come figura di riferimento, ma forse meno di quanto ci si potesse aspettare?Diciamo che la vita ecclesiale vissuta nella dimensione della parrocchia, comunitaria non è più così attraente. Bisognerebbe “uscire”, come dice continuamente il Papa, non stare in sagrestia a coccolare le ultime pecorelle rimaste ma andare a cercare quelle che si sono smarrite. La cosa paradossale è che gli italiani ritengono la parrocchia un luogo accogliente, il sacerdote una persona con cui ti puoi confrontare, ma non li vedono amalgamati nella società. La Chiesa in uscita non è ancora cominciata.
Però non viene considerata un’istituzione superata.
La maggior parte degli italiani le riconosce una sua trascendenza e quindi la capacità di attraversare i secoli. Quando ero ragazzino c'era una un'ideologia contraria al cattolicesimo, adesso non c’è più.
Ma forse il venir meno del rifiuto a muso duro si è tradotto in indifferenza.
L’effetto è appunto il soggettivismo, l'individualismo, il pensare soltanto a sé stessi. Tempo fa abbiamo realizzato un’indagine proprio sull’indifferenza da cui è emerso come l’unico peccato ancora sentito dagli italiani sia quello di omissione, cioè l’aver trascurato i propri talenti. La Chiesa orizzontale, che chiede di essere buoni col prossimo, alla fine non risponde all'esigenza profonda dell'uomo moderno che si domanda: “ma io nella mia vita che cosa faccio? Devo far fruttare le mie potenzialità”. Non significa soltanto fare del bene ma anche realizzarsi come persone. Bisognerebbe puntare più sulla parabola dei talenti che su quella del buon samaritano.
Il cristianesimo è la fede in Gesù, che continua ad essere un riferimento fondamentale per la vita degli italiani.
Sì, poi bisognerebbe sapere cosa significa, perché Gesù illumina ciascuno in modo differente e quindi riesce un po’ difficile incasellarlo in categorie. Però certamente sulla carta è il punto di riferimento trascendente per la maggior parte degli italiani. E dove c'è qualcuno che crede in Gesù, lì è Chiesa, lì è l'istituzione che però non riesce ad abbracciare tutto quell’oltre 70% di persone che si definiscono cattoliche.
C'è un dato in questa ricerca che l’ha sorpresa?
Direi la pervasività del sentimento cattolico e poi la risposta alla domanda, che non era mai stata fatta, sulla vita dopo la morte.
Il 58% degli italiani crede che esista, percentuale che sale all’87,7% tra i praticanti. E il 61,7% ritiene che la vita dopo la morte sarà diversa tra chi ha vissuto bene e chi ha vissuto male.
Sì, però a proposito dell’ultimo dato questa consapevolezza non orienta realmente la vita. Non si crede più nel giudizio finale. Si potrebbe spiegare questo atteggiamento con il fatto che il cattolicesimo è la religione della misericordia, che Dio perdona tutto, basta anche pentirsi un attimo prima di morire. Io però penso che alla base ci sia qualcosa di più profondo: non si intende più il peccato come qualcosa che ha a che fare con Dio, da cui siamo liberati grazie al suo perdono. Così viviamo con i sensi di colpa, che nascono dall’essere stati imperfetti, dal non aver corrisposto a quella che volevamo fosse l’immagine di noi stessi. Si potrebbe dire: non credo nel giudizio perché credo nella misericordia di Dio. In realtà non si crede nel giudizio perché ci siamo impossessati del peccato e non ce ne liberiamo più.





Venerdì, 08 Novembre 2024

Dentro il cassetto della scrivania nel suo studio di avvocato a Parigi, teneva la copia di una preghiera. «E ogni tanto la tiravo fuori per leggerla», racconta Jean-Paul Vesco. Era la “preghiera dell’abbandono” di Charles de Foucauld. «Padre mio, fa’ di me quello che vuoi. Qualsiasi cosa Tu faccia di me io ti ringrazio», scriveva il “piccolo fratello di tutti” che aveva lasciato la Francia per “vivere per Dio” nel deserto africano. Un po’ come Vesco. Francese che dagli uffici lungo la Senna si è ritrovato in Algeria. Prima da domenicano. Poi da vescovo. Adesso anche da cardinale. Uno dei ventuno nuovi cardinali che saranno creati da papa Francesco il 7 dicembre.

Sessantadue anni, originario di Lione, è arcivescovo di Algeri dalla fine del 2021 dopo aver guidato la diocesi di Orano, quella in cui era stato vescovo Pierre Claverie, domenicano come lui. Assassinato nel 1996. E beato dal 2018. «A lui devo la mia presenza in Algeria», dice Vesco. Porpora in un Paese dove l’islam è religione di Stato e dove la sfida è quella di «costruire la fraternità: cristiani e musulmani insieme», spiega ad “Avvenire”. Come richiama la basilica di Nostra Signora d’Africa che dalla cima del promontorio a nord di Algeri abbraccia il mar Mediterraneo e custodisce un’invocazione alla Madonna che è come un ponte oltre le differenze: “Nostra Signora d’Africa, prega per noi e per i musulmani”. «Ogni anno i visitatori sono 350mila e il 98% è musulmano. Consideriamola pure una chiesa dell’incontro. Condividendo lo spazio sacro, teniamo aperta la porta a quella parte del mistero che è vicinanza all’altro distante da noi e a un Dio che si mostra nel volto del prossimo, chiunque esso sia», racconta Vesco. Una berretta della “fratellanza universale”. E “aperturista” sotto molteplici punti di vista: compreso il diaconato femminile o i separati risposati. Ma anche a sorpresa. «Non me lo sarei mai immaginato. Alla gente della diocesi, che pensava me ne andassi dopo l’annuncio di papa Francesco all’Angelus, ho detto che il cardinalato non è un riconoscimento alla mia persona ma alla nostra Chiesa».

Ha dedicato la sua ultima Lettera pastorale alla fraternità. È la missione della Chiesa in Nord Africa?

«La fraternità è lo stile con cui qui testimoniamo il Vangelo. Non si tratta di ridurre tutto al dialogo. È necessario, invece, vivere insieme, lavorare insieme, sentirsi sorelle e fratelli che condividono la stessa terra. Ciò che ci unisce è infinitamente più importante di ciò che ci divide. Ovviamente non nascondiamo il nostro essere cristiani: siamo qui per questo. Ma serve un ribaltamento di prospettiva. Non dobbiamo affermare il nostro Dio, ma mostrare con la vita il Dio in cui crediamo».

I cattolici sono una piccola minoranza: 10mila su 43 milioni di abitanti. Come si vive in una nazione che è in tutto e per tutto islamica?

«Lo Stato pensa se stesso e si organizza con parametri musulmani. La nostra Chiesa è per lo più formata da stranieri, di almeno quaranta nazionalità. Per i cristiani non autoctoni la vita di fede non è problematica. La questione si fa ben più complessa per i nativi locali che sono un numero molto ridotto. Le conversioni sono difficili da accettare: sia a livello sociale, sia da parte dell’islam stesso. Così, ad esempio, sorgono problemi all’interno delle famiglie».

Lei ripete che la convivenza non è un’utopia. Quale lezione di pace dal Nord Africa?

«Non sono le differenze religiose che alimentano le tensioni. Anzi, possono favorire le soluzioni. Non siamo chiamati a convertirci a vicenda ma a creare insieme un clima di fiducia reciproca. È il grande messaggio che arriva dal Documento di Abu Dhabi che reputo uno dei più belli del pontificato e che sta orientando sia la mia vita personale sia il mio ministero episcopale. Quando nel 2019 papa Francesco e il grande iman di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno firmato il testo l’uno accanto all’altro, non erano due leader religiosi rivali, ma uniti dallo stesso sguardo sulla realtà e dall’impegno a rendere migliore il mondo».

Perché la scelta di indossare l’abito domenicano dopo essere stato avvocato?

«Avevo 33 anni quando sono entrato nell’Ordine. E per sette ero stato un legale. Eppure posso dire di aver avvertito la vocazione fin da ragazzo, a cui però ho risposto tardivamente. Sono stato impegnato anche sul versante politico e sindacale. Ma a un tratto mi sono reso conto che mancava qualcosa. Due figure forti mi sono state di riferimento: Pierre Claverie e Charles de Foucauld».

Entrambi hanno declinato il Vangelo nel Maghreb. Partiamo da Pierre Claverie…

«È stato assassinato durante il mio primo anno di noviziato. Da subito ho percepito una singolare attrazione spirituale verso di lui. Poi, a distanza di alcuni anni, quando la Provincia domenicana ha voluto riaprire una nuova comunità in Algeria, ha inviato me e un confratello. E nel 2012 la Provvidenza ha voluto che diventassi vescovo di Orano, la diocesi di Claverie. Lui ripeteva: “Nessuno possiede la verità. Ognuno la ricerca e io ho bisogno della verità degli altri”. È la mia bussola nel rapporto con il mondo musulmano. E la mia fede si è rafforzata vivendo in un Paese islamico. Infatti la presenza di altre religioni ti allarga gli orizzonti perché ti rendi conto che Dio è ben più grande dei nostri incasellamenti. Inoltre è dall’assolutizzazione della propria visione di Dio che scaturiscono i fondamentalismi».

E Charles de Foucauld?

«Mi ha sempre attratto la sua radicalità unita alla povertà. Un folle di Dio. Quando, dopo il percorso di rinascita della presenza domenicana in Algeria, sono stato costretto a lasciare il Paese perché ero stato eletto provinciale di Francia, pensavo che non avrei più toccato con mano l’esperienza di Charles de Foucauld. Invece un giorno, a Parigi, sono entrato nella chiesa di Saint-Augustin dove lui si era convertito. E ho ritrovato la sua “preghiera dell’abbandono” che ho capito di stare vivendo dopo aver rinunciato all’Algeria. Finché non è arrivata la nomina di Benedetto XVI a vescovo di Orano».

E a Orano ha vissuto la beatificazione dei diciannove martiri d’Algeria. Sacerdoti, religiose e religiosi (fra cui i sette trappisti di Tibhirine e il vescovo Claverie) uccisi nel “decennio nero” del terrorismo islamico che dal 1991 al 2002 ha fatto 150mila vittime.

«Tibhirine è oggi un luogo che attrae migliaia di persone, compresi i musulmani. La beatificazione è stata un invito a “continuare a operare per il dialogo, la concordia e l’amicizia”, aveva scritto papa Francesco. Tutti i martiri avevano deciso di restare nonostante i pericoli negli anni tragici della crisi algerina durante i quali sono stati uccisi anche 119 imam. Desideravano stare accanto alla gente come segno di speranza. Perché la fede cristiana è un messaggio di speranza. La loro è una testimonianza di fedeltà al Vangelo che si è tradotta in vicinanza al popolo».

Come si vedono dall’Algeria i viaggi della speranza dei migranti che lasciano l’Africa?

«L’Algeria è terra di partenze e arrivi. Abbiamo giovani algerini che se ne vanno in Europa o Canada; e migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana che giungono qui. Il Paese reprime in maniera dura l’immigrazione. Eppure non si tratta di numeri: sono donne e uomini che rischiano la vita in cerca di un futuro. Sulle rotte migratorie, sia nel Mediterraneo, sia nei deserti, dove i morti si moltiplicano, sta naufragando la civiltà. E, come ripete il Papa, l’accoglienza è imperativo etico. Reputo drammatico che una persona debba lasciare la sua terra, spesso ricca di risorse come in Africa, per realizzare i suoi sogni».

C’è bisogno di denunciare azioni predatorie nel continente?

«Non ci può essere sviluppo senza giustizia. Quando non si tiene conto della giustizia, si avrà l’arricchimento di pochi a scapito di molti. Ed è quanto sta succedendo ancora oggi. I Paesi che per secoli hanno colonizzato l’Africa hanno una responsabilità enorme, ma vedo nazioni del continente che stanno cadendo nelle mani di altri conquistatori».

Lei è favorevole al diaconato femminile. Perché?

«Le donne sono l’anima della maggior parte di proposte ecclesiali. Però nella Chiesa si parla di donne solo in termini di complementarità rispetto agli uomini. Invece occorre pensare nell’ottica dell’alterità. Allora mi domando: perché privarci della loro sensibilità spirituale nel commento alla Parola di Dio, a cominciare dalle Messe domenicali? Trovo difficile vedere qualcosa che si frapponga a tale prospettiva che può comprendere anche un ministero ordinato. Se vogliamo essere Chiesa cattolica, cioè universale, le donne devono avere spazio. Papa Francesco sta scuotendo la comunità ecclesiale per superare il maschilismo. La Chiesa cammina. E alcune cose cambieranno».





Lunedì, 11 Novembre 2024

La Speranza è il tema del progetto triennale “The Future of Hope: an interdisciplinary dialogue”, promosso dal Centro di Formazione Integrale dell’Università Europea di Roma, con il patrocinio della FUCE (Federazione Europea delle Università Cattoliche). L’obiettivo è quello di avviare un dialogo culturale e scientifico sulla Speranza nel mondo contemporaneo, attraverso indagini, confronti e scambi accademici internazionali. I professori dell’Università Europea di Roma che coordinano il progetto sono Renata Salvarani, Docente di Storia del Cristianesimo, e Guido Traversa, Docente di Filosofia.

Quest’anno il convegno sarà a Bruxelles dal 19 al 21 novembre. Si confronteranno più di quaranta professori e ricercatori con approcci diversi, portando i risultati delle loro ricerche. Innovazione sociale, storia, teologia, medicina, ICT pianificazione del territorio, intelligenza artificiale sono i focus del dibattito intorno al grande tema della Speranza (inteso anche come visione, propensione, orientamento) che viene inquadrato nelle sue implicazioni concrete, all’interno dei contesti sociali, tecnici ed economici.

I lavori della giornata di martedì 19 novembre si svolgeranno in collaborazione con COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea. Nella mattinata si terrà una presentazione del progetto. Nel pomeriggio è prevista una serie di dialoghi tra parlamentari europei e dirigenti delle istituzioni UE con i professori e i ricercatori impegnati nei gruppi di lavoro. Gli incontri, che si svolgeranno in forma di tavola rotonda, saranno condotti dai policy advisor della COMECE, sulla base di dati e documentazione raccolti nelle precedenti ricerche.

Nelle giornate di mercoledì 20 e giovedì 21 novembre si terrà un Convegno Internazionale di taglio accademico sul tema della Speranza e sulle sue implicazioni concrete nella società contemporanea. L’incontro sarà aperto dall’intervento di Padre Pedro Barrajón, Rettore dell’Università Europea di Roma, e il coinvolgimento di atenei dei diversi Paesi, insieme con enti di ricerca come il CNR, confrontando scienze umane e applicazioni tecnologiche.

Come evidenziato dalla prof.ssa Renata Salvarani, coordinatrice scientifica dell’attività: “Guardare al futuro, pensarsi in relazione con ciò che verrà, delineare la società del domani è una sfida che chiama in causa le diverse aree scientifiche. La tre giorni include anche un Forum tra ricercatori, parlamentari europei e policy makers, che si tiene presso la sede della COMECE, la Commissione delle Conferenze Episcopali dell’Unione Europea. I decisori politici sono destinatari e interlocutori primari del progetto: da un lato le Università mettono a loro disposizione i risultati delle ricerche in corso nei diversi campi e, dall’altro, ricevono input e richieste sulle questioni emergenti. Mantenere un dialogo istituzionale sul piano della conoscenza, condividere prospettive comuni di collaborazione è uno degli obiettivi dell’iniziativa”.

Ulteriori informazioni sul progetto triennale “The Future of Hope” in questo link:

https://www.uer.it/formazioneintegrale/eccellenza-umana/the-future-of-hope





Domenica, 10 Novembre 2024

L’Italia rimane fondamentalmente un Paese cattolico, che si riconosce nei valori della fede cristiana e che dedica del tempo alla preghiera, ma la pratica religiosa sta diventando sempre più individualista e fatica a trovare posto nell’esperienza offerta dalla comunità ecclesiale. È questo ritratto, offerto da una ricerca condotta dal Censis per conto della Conferenza episcopale italiana, a provocare la Chiesa italiana, alla vigilia della prima Assemblea sinodale, in programma il prossimo fine settimana. L’indagine è stata svolta nel periodo dal 27 settembre al 1° ottobre 2024, su un campione rappresentativo di mille adulti, ed è stata realizzata proprio nell’ambito del cammino avviato dalla Chiesa italiana tre anni fa. Ne emerge una sfida epocale, con i suoi chiari punti critici ma non priva di opportunità, che possono fare da traino per un rilancio della vita di fede.

Il dato fondamentale è che gli italiani che si definiscono cattolici sono il 71,1% della popolazione: il 15,3% si dice praticante, il 34,9% dichiara di partecipare solo occasionalmente alle attività della Chiesa e il 20,9% afferma di essere “cattolico non praticante”.

Di certo, in questo quadro, il dato più significativo, quello che indica la priorità da mettere in testa alla lista delle questioni da tenere presente in un dibattito sul futuro della Chiesa, è quello riguardante i giovani: nella fascia dai 18 ai 34 anni, infatti, scende al 58,3% la percentuale di coloro che si dichiarano cattolici secondo varie “gradazioni” (i praticanti sarebbero il 10,9%).

Ma cos’è che spinge il 55,8% degli italiani a una pratica saltuaria o assente, pur pensandosi cattolici? Il principale motivo pare essere una forma di “individualismo religioso”. Più di metà di coloro che di fatto rimangono distanti dalla pratica regolare (il 56,1%) dicono di farlo perché vivono “interiormente” la fede.

La Chiesa nel Paese

Questi numeri fanno il paio con quello di coloro che non si riconoscono nella Chiesa cattolica: 4 italiani su 10. Tra i praticanti, e quindi i più fedeli, poco meno del 15% dice di non ritrovarsi dentro la Chiesa così com’è oggi. Anche qui la ricerca indaga le ragioni e ne emerge che, tra coloro che non si sentono lontani da questa Chiesa, il 45,1% dice che è perché è troppo antica, il 27,8% perché non vede “una linea chiara” nella Chiesa stessa. Solo l’8,9% dice di non riconoscersi perché non ci sono donne in posizione di vertice (tra la popolazione femminile la percentuale sale al 12,4%). Il 43,6% degli italiani (il 46,5% delle donne) ritiene che la Chiesa cattolica italiana sia un’istituzione maschilista, percentuale che tra i cattolici praticanti scende al 23,9%.

«La zona grigia nella Chiesa di oggi, quindi – sostiene il presidente del Censis, Giuseppe De Rita –, è il risultato dell’individualismo imperante, certo, ma anche di una Chiesa che fatica ad indicare un “oltre”, la Chiesa ha sempre aiutato la società italiana ad andare oltre, deve ritrovare questa sua capacità, perché una Chiesa solo orizzontale non intercetta chi è ubriaco di individualismo, perché a costoro non basta sostituire l’Io con un “noi”, hanno bisogno di un oltre, hanno bisogno di andare oltre l’io; non è un caso - e dovrebbe preoccuparci come cattolici - che nel mondo stiano vincendo gli “oltranzismi”».

Le fila dei cattolici oggi si assottigliano, ma solo una minoranza crede nella filosofia del “pochi ma buoni”: il 13,9% dei praticanti pensa che vada bene così, mentre per il 60,8% la Chiesa dovrebbe adattarsi alle mutate condizioni del mondo contemporaneo. Il discredito nei confronti dell’esperienza ecclesiale viene anche da una questione dolorosa: gli abusi. Realtà che mina la credibilità della Chiesa per quasi 7 italiani su 10 (6 su 10 tra i praticanti).

Indagando le ragioni dell’abbandono della pratica all’interno della comunità ecclesiale, la ricerca del Censis rivela che al primo posto sembra esserci la tendenza, da parte della Chiesa, a emarginare i “fedeli di valore” o quelli più intraprendenti: lo pensa il 49,2% degli italiani (tra i praticanti la percentuale scende al 38,1%). Dietro, quindi, c’è il desiderio di una Chiesa più coraggiosa, capace di dare più spazio ai laici.

Le radici cattoliche

L’Italia nella sua identità culturale rimane cattolica: solo il 5,4% della popolazione dichiara di essere stato educato in un ambito “anti-cattolico”, mentre il 79,8% dice che la sua base culturale è di ispirazione cattolica. Infine, il 61,4% si dice d’accordo con l’affermazione che il cattolicesimo è parte integrante dell’identità nazionale (anche il 41,4% dei non credenti).

E anche i simboli religiosi continuano ad avere in qualche modo un posto: davanti al segno della croce, ad esempio, il 34,5% dice di rispettare questo gesto e per il 54,8% fa parte del sentire personale. Il 41% della popolazione, poi, si riconosce nella devozione alla Madonna, figura rispettata anche tra il 36,7% dei non credenti. Tra i credenti c’è una nota di nostalgia per i “bei riti di un tempo”: a rimpiangerli sono il 43,9% dei praticanti (solo tra il 27,8% della popolazione generale, però).

E i contenuti della fede? Per il 45,5% degli italiani le parole di Gesù sono tra gli insegnamenti spirituali migliori di cui disponiamo e per il 16,3% essi ispirano la vita. Guardando al rapporto con i preti, su 10 italiani, 4 li vedono come delle persone da cui andare a farsi consigliare, 2 non esprimono un’opinione e altri 4 rifiutano l’idea.

Per quanto riguarda l’idea di un partito dall’identità cristiana solo un italiano su dieci crede con decisione che esso potrebbe avere una certa forza nella società, il 37,4% pensa che non l’avrebbe, mentre gli altri hanno posizioni intermedie. Tra i praticanti il 23,2% appoggia l’idea di un partito con un peso nella società, il 19,4% dice con certezza che non avrebbe forza, i rimanenti pensano che ne potrebbe avere in parte, oppure non sanno dare una risposta.

La vita spirituale

Il 66% degli italiani dichiara di “pregare” o comunque di rivolgersi a Dio o ad un’altra entità superiore: lo fa anche il 65,6% dei non praticanti e addirittura l’11,5% dei non credenti. Si parla però di una preghiera legata non alla liturgia comunitaria, quanto piuttosto a situazioni esistenziali individuali: il 39,4% degli italiani prega quando vive un’emozione, il 33,5% quando ha paura e vuole chiedere aiuto. Anche tra i praticanti solo l’8,8% dichiara di pregare all’interno di un rito.

Per quanto riguarda la vita dopo la morte, il 58% degli abitanti della Penisola crede che esista (l’87,7% tra i praticanti). Tra coloro che ci credono il 61,7% ritiene che sarà diversa tra chi si è comportato male e chi invece si è comportato bene nella vita presente, pensa quindi che ci sarà un “giudizio” e questo orienta le scelte di vita per circa il 53,6%.

Sette italiani su 10 dicono che la vita spirituale resta un’esigenza importante, ma per il 52,7% si tratta di un’esperienza individuale. Ed ecco che si torna quindi alla questione iniziale, cuore anche del Cammino sinodale: come può la Chiesa oggi intercettare questi bisogni e queste esigenze dando risposte credibili ed efficaci, costruendo così comunità calde, partecipate e aperte al mondo? La sfida è impegnativa, ma la voglia di mettersi in gioco è dimostrata dalle energie spese in questi anni proprio nel cammino di confronto diffuso sul territorio e che arriverà nei prossimi giorni a una nuova importante tappa con la prima Assemblea sinodale alla presenza di mille delegati da tutte le diocesi d’Italia.





Lunedì, 11 Novembre 2024

La maggior parte dei maestri dello spirito sostiene che la via più semplice per imparare a pregare è allenarsi nel ringraziamento. Dire grazie per il nuovo giorno che abbiamo la possibilità di vivere, per la natura, per una bella sorpresa. Ringraziare per le persone. Perché, anche se fatichiamo a riconoscerlo, il nostro giudizio sul mondo, se ci piaccia o no abitarlo, dipende dalla qualità delle relazioni che sappiamo costruire. Primo requisito della felicità è avere qualcuno con cui condividere successi e delusioni. Ogni nuova presenza che arriva nella nostra vita, allora, dovrebbe regalarci gioia, visto che, nell’ottica della fede, rappresenta una via preferenziale per incontrare Dio. Spesso, però non ce ne rendiamo conto. Anzi, ci comportiamo in modo diametralmente opposto facendo precedere la conoscenza da un pregiudizio negativo: «chissà perché quell’uomo si è avvicinato, chissà cosa vuole quella ragazza, io non le darò niente». In questa sua breve riflessione spirituale il gesuita e psicoterapeuta statunitense John Powell (1925-2009) ci ricorda che ogni persona è un dono di Dio e che lo siamo noi stessi. L’invito, quindi, è ad andare al di là dell’involucro, della prima impressione, per scoprire quanta ricchezza, originale e irripetibile c’è in ognuno. In particolare, il religioso racconta di avere ricevuto sul tema un articolo anonimo, di cui riassume il contenuto.

«Le persone sono doni di Dio che mi vengono fatti. Sono già avvolti in una carta a volte bella, a volte meno attraente. Alcuni vengono strapazzati durante l'invio postale; altri, invece, sono recapitati con riguardo per espresso; alcuni sono avvolti alla bell’ e meglio e sono facili da aprire, altri sono chiusi saldamente.
Ma il dono non è l'involucro ed è importante rendersene conto. È così facile sbagliarsi al riguardo, e giudicare il contenuto dall'involucro esteriore.
Talvolta, il dono si apre con grande facilità; altre volte, c'è bisogno dell’aiuto altrui. Forse ciò è dovuto al fatto che gli altri hanno paura; forse in precedenza sono stati feriti e non vogliono esserlo ancora; o, forse, in passato sono stati aperti e poi abbandonati. Può darsi che adesso si sentano più una “cosa” che “persone”.
Io sono una persona: come chiunque altro, anch’io sono un dono. Dio ha infuso in me una bontà che è solo mia. E tuttavia, a volte, ho paura di guardare dentro il mio involucro: forse temo di essere deluso; forse non mi fido del mio contenuto; o forse non ho mai accettato veramente il dono che io stesso costituisco.
Ogni incontro e ogni condivisione con le persone è uno scambio di doni. Il mio dono sono io; il tuo dono sei tu. Siamo doni vicendevoli».





Sabato, 09 Novembre 2024

«Aprite le vostre case». Nicholle Salerno cita l’appello che sua madre le ha raccontato. Viene da Brindisi, ha 29 anni e dà voce all’Italia nel Consiglio dei giovani del Mediterraneo. «Era il 1991 quando le strade della mia città si erano riempite di albanesi, arrivati attraversando il mare. La Chiesa e le istituzioni avevano chiesto aiuto alla gente. E scuole, parrocchie ma anche famiglie avevano risposto con uno straordinario slancio di generosità che ha segnato profondamente la comunità, scegliendo di condividere i propri spazi con chi era appena sbarcato». Perché, aggiunge Nicholle, «l’accoglienza non può essere delegata: spetta a ciascuno di noi». Parole che ben sintetizzano il progetto giubilare presentato ieri a Palermo dal Consiglio dei giovani del Mediterraneo, il laboratorio di fraternità e azione ecclesiale e civica voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci dell’area a Firenze nel 2022.

?“Prendersi cura: una famiglia per ogni comunità del Mediterraneo” è la sfida che i ragazzi lanciano alle Chiese di tutto il bacino in occasione dell’Anno Santo. «Attraverso le Conferenze episcopali e i Sinodi che i delegati del Consiglio rappresentano, i ragazzi vogliono essere protagonisti di un impegno nel nome dei più deboli», spiega Tina Hamalaya, originaria del Libano ma trasferitasi in Italia per lavorare con la Fondazione Giovanni Paolo II. Lei anima la segreteria della consulta internazionale permanente formata da quaranta giovani, tutti under 35, dei Paesi affacciati sul grande mare. Giovani di tre continenti, Europa, Africa e Asia, che decidono di «mettersi in cammino con quanti sono nel bisogno per curarne le ferite: siano essi migranti, rifugiati, richiedenti asilo ma anche senza fissa dimora, madri e padri in condizioni di disagio con i loro figli, donne vittime di tratta, giovani in difficoltà. In pratica, tutte quelle situazioni di fragilità che con numeri sempre più preoccupanti caratterizzano le nostre società», aggiunge Tina.

Una proposta concreta di “speranza”, come chiede il Giubileo alle porte, che ha per trampolino Brancaccio, il quartiere di Palermo che lega il suo nome al martirio di padre Pino Puglisi e che sta risorgendo sui passi del sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993. Un “maestro” dell’accoglienza degli ultimi che i ragazzi incontrano visitando il luogo del suo assassinio, entrando nella casa-museo ricavata nell’appartamento dove il prete viveva, toccando con mano le attività di promozione sociale realizzate dal Centro di accoglienza Padre Nostro che il parroco beato aveva fondato nella periferia del capoluogo. «Solo se si resta sul territorio e non si fugge davanti ai problemi, è possibile cambiare la realtà», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro, rivolgendosi ai ragazzi.

È nei Magazzini Brancaccio, complesso confiscato alla mafia e ora collegato al liceo delle scienze umane “Dolci”, che i giovani del Mediterraneo si riuniscono nella loro seconda delle tre giornate siciliane all’insegna del motto “Non c’è pace senza accoglienza”. A promuovere l’appuntamento la rete Mare Nostrum a cui la Cei ha affidato il Consiglio; a costituirla quattro realtà di Firenze che tengono viva la profezia di riconciliazione fra i popoli di Giorgio La Pira: la Fondazione La Pira, l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II. «Gesù non ha mai detto: “Scusate, non posso aiutarvi…”. - sottolinea Pilar Perez Brown, 26 anni, volto della Chiesa spagnola in seno all’organismo -. Spesso ci concentriamo su discorsi teorici, ma dobbiamo domandarci che cosa possiamo fare nel quotidiano». Ecco il percorso di ospitalità che unirà le sponde del Mediterraneo. «C’è chi pensa che incontrare l’altro o averlo in mezzo a noi significhi indebolire la nostra identità. Niente di più falso. Il Vangelo è fraternità. E il Giubileo invita a spalancare le braccia e i cuori», rimarca Pilar.

Testimonial del progetto è il vescovo latino Cesar Essayan, energico vicario apostolico di Beirut, che porta a Palermo l’orrore e le sofferenze di un popolo sotto le bombe di Israele. «Non bisogna essere ingenui: l’accoglienza può generare paure», afferma. Vale anche per il suo Libano dove, riferisce, gli sciiti di Hezbollah si mescolano agli altri sfollati. «Ma noi accogliamo tutti», chiarisce. Poi il monito: «Occorre liberare il Vangelo dalle ideologie di gruppi o partiti che l’hanno preso in ostaggio». Il presule sposa l’iniziativa del Consiglio. «Dai migranti e dai rifugiati si leva un grido: “Signore, dove sei? Perché ci hai abbandonato?”. Tocca a noi ascoltarlo e rispondere a questo appello mostrando Cristo che vive in noi. Non da soli, ma insieme». Un invito a creare ponti intorno al grande mare. E ai giovani Essayan dice: «Trascinate i vostri vescovi. La Chiesa ha urgenza del vostro coraggio».





Sabato, 09 Novembre 2024

Indirizzare e verificare le attività, la programmazione e la progettualità della Pul, dal punto di vista accademico, scientifico e didattico, nonché la sua gestione amministrativa, economica e finanziaria. Questo il compito del Consiglio superiore di coordinamento della Pontificia Università Lateranense (Pul), del quale il Papa ha nominato ieri i membri, fra i quali vi sono otto laici (di cui due donne). I nomi: l’arcivescovo Alfonso V. Amarante, rettore della Pontificia Università Lateranense; monsignor Riccardo Ferri, pro-rettore della Pul; Sabrina Di Maio, direttore gestionale Pul; Immacolata Incocciati, segretario generale Pul; monsignor Roberto Campisi, assessore per gli Affari Generali, Segreteria di Stato; Luis Herrera Tejedor, direttore della Direzione per le Risorse umane della Santa Sede, Segreteria per l’Economia; Paolo Nusiner, direttore generale dell’Università Cattolica, direttore per gli Affari Generali del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, presidente dell’Ospedale Isola Tiberina - Gemelli Isola; Stefano Fralleoni, dirigente dell’Area Servizi e del Controllo gestione dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica); Aldo Fumagalli, presidente di Beldofin srl e amministratore delegato di Albe Finanziaria; Giacomo Ghisani, direttore del Segretariato per le Partecipate, gli Affari Generali e Giuridici della diocesi di Cremona; Mimmo Muolo, vaticanista e vice caporedattore di Avvenire. La comunità studentesca della Lateranense ha raggiunto nel 2023-2024 le 1.137 unità. Gli studenti provengono da Europa (657), Africa (180), Asia (169) e Americhe (130). I laici sono 421, gli ecclesiastici 347, i religiosi 290 e i seminaristi 79. A commentare la nomina del Consiglio per Avvenire è il rettore, l'arcivescovo Alfonso Amarante.

Il rilancio dell’“università del Papa” passa anche dal contributo delle esperienze e delle professionalità dei laici. La Pontificia Università Lateranense (Pul) vuole fare di meglio e di più, e per questo, nel rinnovato Consiglio superiore di coordinamento della Pul, assieme al rettore, l’arcivescovo Alfonso Amarante, e ad altri due ecclesiastici, sono stati scelti otto laici, tra cui due donne (per le nomine papali si veda il box qui sotto). Per lavorare su tre fronti: elaborare un piano di sviluppo che tenga conto della missione dell’ateneo; individuare strategie di comunicazione per promuovere l’Università Lateranense; pianificare strategie per la raccolta di fondi.

Monsignor Amarante, che valore ha per la Pontificia Università Lateranense questo Consiglio superiore di coordinamento?

È previsto dagli statuti dell’Università, ma il Papa, quando ad agosto mi ha nominato rettore, ha chiesto che il Consiglio prendesse ancora di più in mano le sorti dell’Università, da un punto di vista “politico” e amministrativo. E la presenza dei laici in questo organismo è una ricchezza enorme: vengono del mondo accademico, gestionale, della comunicazione. Un grande supporto alla nostra missione.

Su quali direttrici si svolgerà il lavoro?

Quelle del Dna della Lateranense: insegnare materie teologico-canonistiche. Ma il Consiglio è chiamato a un piano di sviluppo sull’offerta delle materie non canoniche e non teologiche – già c’è Diritto civile, Scienza della pace, ora Ecologia e ambiente – e a diffondere nel mondo la conoscenza della Pul.

Il nuovo Consiglio dovrà anche consigliarla sulla componente gestionale. E il Papa ha chiesto di cercare risorse esterne.

È una sfida enorme. Il Papa e la Chiesa credono nella Pul, nell’istruzione in genere. E continuano a investire. Lo sforzo economico nella cultura non ha un rientro nell’immediato. Quando fu costruita la Cappella Sistina, il Papa di allora venne accusato di sperpero. Oggi è un patrimonio dell’umanità, che illustra la bellezza e comunica il messaggio salvifico. Ora ci viene chiesto di trovare partner per la nostra missione. I primi sono gli ex studenti dell’Università, ma a livello mondiale, oltre gli episcopati, ci sono tanti uomini e donne di buona volontà che condividono questa visione.

Il rinnovamento dell’università andrà anche nel senso del dialogo con la cultura laica?

Per il Santo Padre le università pontificie, in particolare la Lateranense, devono essere luogo di studio e di ricerca, ma anche di incontro culturale. Oggi lo strumento di dialogo per eccellenza è la cultura, in cui la Chiesa ha ancora da dire la sua. Fino al ’900 la cultura generalmente era fatta in ambito cattolico, con un linguaggio oggi non più adeguato. Il Papa parla di una teologia capace di avere carne e corpo, cioè di parlare lo stesso linguaggio del popolo di Dio, spesso distante dal nostro. La sfida è trovare i canali giusti per declinare il sapere teologico in sapere di vita. Se parlo di anima, immanenza, spirito, la maggior parte delle persone non capisce. Bisogna trovare nuove forme di comunicazione per far capire la bellezza della vita eterna, il senso salvifico della nostra fede. La teologia è guardata quasi con sospetto dal mondo laico, a volte nemmeno considerata come una vera scienza. Invece è una scienza del cuore, capace di dialogare con l’uomo di oggi, a partire dalle domande di senso.

Un primo segnale di rinnovamento è il monologo affidato a Giacomo Poretti - del trio Aldo Giovanni e Giacomo - all’inaugurazione dell’anno accademico, il 13 novembre?

Lo abbiamo scelto perché riesce con l’ironia a parlare a una platea molto più grande di quella che potremmo raggiungere. Parlerà dell’anima, indispensabile anche per costruire una nuova università. Un modo per fare da ponte nel dialogo culturale tra il mondo teologico, canonistico, giuridico, e il mondo laico.

Che valore hanno i corsi di Scienza della pace e di Ecologia e ambiente?

Questi due cicli nascono dalla Fratelli tutti e dalla Laudato si’. Per creare un corso di studi serve una proposta forte assieme a una progettazione con investimento sui docenti. Ci sono altri progetti, dovranno essere inerenti al magistero ma anche riconosciuti dallo Stato italiano, per offrire sbocchi lavorativi anche agli studenti laici.

Il corpo studentesco della Pul è multiculturale. Condiziona le scelte dell’ateneo?

Io parlerei di opportunità. Siamo una delle poche università pontificie con un corpo studentesco composto per il 40% da laici italiani, che studiano materie civilistiche. Il resto sono per lo più stranieri indirizzati alla vita religiosa. Il corpo docente si va internazionalizzando, siamo chiamati a trovare nuovi metodi comunicativi, sempre usando l’italiano: non avrebbe senso a Roma, dove si respira la cattolicità, studiare in inglese.

In definitiva, quali sono i tratti distintivi dell’Università del Papa?

Dal 1773, quando fu fondata, approfondisce il magistero petrino e lo sviluppa. E questo dobbiamo continuare a fare anche con i nuovi cicli di studio che offrono ai giovani laici una formazione culturale cristiana.

© riproduzione riservata





Sabato, 09 Novembre 2024

Papa Francesco e Mar Awa III, catholicos patriarca della Chiesa assira dell'Oriente, hanno celebrato insieme in Vaticano il trentesimo anniversario della Dichiarazione cristologica comune tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira e il quarantesimo anniversario della prima visita a Roma di un patriarca assiro. La Dichiarazione cristologica comune, firmata l'11 novembre 1994 da san Giovanni Paolo II e dal catholicos patriarca Mar Dinkha IV, ha posto fine a 1500 anni di controversia cristologica risalente al Concilio di Efeso (431).
Mar Awa III era accompagnato dai membri della Commissione mista per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa assira dell'Oriente, istituita dalla stessa Dichiarazione e che ha recentemente avviato una nuova fase di dialogo sulla liturgia nella vita della Chiesa. Nell’occasione il Papa ha annunciato l'inserimento nel Martirologio Romano di Sant'Isacco di Ninive, noto anche come Isacco il Siro, uno dei Padri più venerati della tradizione siro-orientale.
Come ricorda una nota della Santa Sede, Isacco di Ninive, monaco e vescovo nella seconda metà del VII secolo apparteneva alla tradizione pre-efesina, cioè alle Chiese di tradizione assiro-caldea. Nato nell'attuale Qatar, dove visse una prima esperienza monastica, fu ordinato vescovo della città di Ninive, nei pressi dell'attuale Mosul (Iraq), dal catholicos di Seleucia-Ctesifonte, Giorgio I. Dopo alcuni mesi di episcopato, chiese di ritornare alla vita monastica e si ritirò nel monastero di Rabban Shabur a Beth Huzaye (nell'attuale Iran sud-occidentale). Qui compose varie collezioni di discorsi a contenuto ascetico-spirituale che lo hanno reso celebre. Nonostante appartenesse a una Chiesa che non era più in comunione con nessun'altra, perché non aveva accettato il Concilio di Efeso del 431, gli scritti di Isacco furono tradotti in tutte le lingue parlate dai cristiani: greco, arabo, latino, georgiano, slavo, etiope, rumeno e altre. Isacco divenne così un'importante autorità spirituale, soprattutto nei circoli monastici di tutte le tradizioni, che lo venerarono rapidamente tra i loro santi e padri.

La santità supera le divisioni

L'inclusione di Isacco il Siro nel Martirologio romano dimostra che la santità non si è fermata con le separazioni ed esiste al di là dei confini confessionali. Come ha dichiarato il Concilio Vaticano II: «riconoscere le ricchezze di Cristo e le opere virtuose nella vita degli altri, i quali rendono testimonianza a Cristo talora sino all’effusione del sangue, è cosa giusta e salutare» (Unitatis Redintegratio 4). San Giovanni Paolo II, da parte sua, ha dichiarato che «la communio sanctorum parla con voce più alta dei fattori di divisione» (Tertio Millenio Adveniente 37) e che «in una visione teocentrica, noi cristiani abbiamo già un martirologio comune» (Ut Unum Sint 84).
Anche il recente Sinodo sulla sinodalità ha ricordato che «l’esempio dei santi e testimoni della fede di altre Chiese e Comunioni cristiane è un dono che possiamo ricevere, inserendo la loro memoria nel nostro calendario liturgico» (Documento finale 122). Si augura che l’inserimento nel Martirologio Romano di Isacco di Ninive, testimone del prezioso patrimonio spirituale cristiano del Medio Oriente, contribuirà alla riscoperta del suo insegnamento e all’unità di tutti i discepoli di Cristo.

Cos'è il Martirologio romano

Come noto il Martirologio romano è il libro liturgico alla base del calendario che ogni anno determina le feste religiose. Il primo fu approvato da papa Gregorio XIII nel 1586. Nato per conservare la memoria di coloro che persero la vita a causa della loro fede, i martiri appunto, inizialmente ogni Chiesa ne aveva uno. Nel XVI secolo si decise di unificare i vari martirologi in un solo elenco in cui potesseri trovare posto tutti i santi e i beati riconosciuti tali dalla Chiesa cattolica. La compilazione fu curata dal cardinale Cesare Baronio. Successivamente vi furono apportate modifiche e revisioni. L’ultima edizione del Martirologio romano risale al 2001, quella precedente era del 1956.

La misericordia di Dio

Si diceva della grande quantità di discorsi e riflessioni spirituali composti da Isacco di Ninive. Tra i cardini del suo insegnamento, la misericordia di Dio «Un cuore impietoso – scrive Isacco - non sarà mai puro. L’uomo misericordioso è medico della propria anima, e come in un vento impetuoso scaccia da dentro di sé la nebbia della tenebra. Questa è la buona ricompensa di Dio, secondo la parola dell’evangelo di vita: Beati i misericordiosi, perché su di loro sarà la misericordia. E questo, oltre che in futuro, accade in mistero anche quaggiù. Quale misericordia, infatti, è più grande di questa: che quando un uomo è mosso dalla misericordia verso un suo fratello e diventa compagno della sua sofferenza, nostro Signore preserva la sua anima dall’oscurità della tenebra, che è la geenna intelligibile, e lo avvicina alla luce della vita, perché se ne delizi? Bene ha detto il beato Evagrio: la via limpida viene dalla misericordia».





Sabato, 09 Novembre 2024

Il francescano cappuccino milanese, fra Roberto Pasolini, è stato nominato nuovo predicatore della Casa pontificia. Prenderà il posto del cardinale Raniero Cantalamessa, che ricopriva questo ruolo dal 1980, quando era stato scelto da Giovanni Paolo II per tenere le meditazioni nei venerdì di Avvento e Quaresima alla presenza del Papa e della Curia romana.

Pasolni attualmente è docente di esegesi biblica presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale a Milano, città dove è nato il 5 novembre 1971.

Ha emesso i voti perpetui nell’Ordine Francescano dei Frati Minori Cappuccini il 7 settembre 2002 ed è stato ordinato presbitero il 23 settembre 2006. Dopo aver conseguito il dottorato in Teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma, è stato docente di Lingue bibliche e di Sacra Scrittura presso lo Studio teologico Laurentianum interprovinciale dei frati minori cappuccini a Milano e a Venezia.

Oggi, oltre a insegnare esegesi biblica presso la Facoltà teologica, collabora con l’arcidiocesi ambrosiana nella formazione dei docenti di religione e con la Conferenza italiana dei superiori maggiori (Cism).

Autore di diversi articoli e libri di spiritualità biblica, si dedica alla predicazione di ritiri e di esercizi spirituali. È apprezzato in particolare anche tra i giovani, ai quali propone il percorso delle «Dieci parole», con incontri sempre molto frequentati nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, affidata alla cura dei cappuccini di piazza Velasquez a Milano.

?





Sabato, 09 Novembre 2024

«Noi siamo sempre dalla parte dei più deboli». Il segretario generale della Cei, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, inaugura a Palermo l’evento “Non c’è pace senza accoglienza”. E quando dice “noi”, intende la Chiesa, compresa quella italiana, e il mondo cattolico. Il suo è un invito alla «solidarietà», una delle declinazioni della parola «accoglienza» che, aggiunge Baturi, richiede anche «cultura» e «amicizia» facendosi prossimi «alle sorelle e ai fratelli incontrati per strada». Poi il monito: «La fede non è esclusione, ma capacità di includere». L’arcivescovo originario di Catania dà il benvenuto - in videocollegamento - ai ragazzi giunti nel capoluogo siciliano dalle diverse sponde del grande mare che formano il Consiglio dei giovani del Mediterraneo. È il laboratorio di fraternità e di impegno ecclesiale e civico voluto dalla Cei dopo il “summit” dei vescovi e dei sindaci del Mediterraneo a Firenze nel 2022. A formarlo quaranta delegati, tutti under 35, delle Chiese legate al bacino che tornano a incontrarsi per lanciare il loro grido di apertura agli ultimi in vista del Giubileo. «La nostra esperienza di giovani di tre continenti diversi dimostra che la coesistenza è possibile, nonostante le differenze di contesti da cui proveniamo: differenze economiche, sociali, politiche», racconta Gabriel Cassar Tabone, originario di Malta, in rappresentanza dei tredici ragazzi presenti a Palermo.

Un appello che arriva mentre nella Penisola la questione migranti divide. «Oggi la parola d’ordine è “respingimenti”. Ne sono un segno i campi che l’Italia ha realizzato in Albania e che sono come prigioni», spiega l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale Cei per le migrazioni e della Fondazione Migrantes. È lui che conclude la prima delle tre giornate di lavori, ospitata dalla Facoltà Teologica di Sicilia. E che denuncia un «Mediterraneo che sanguina». Per «i morti: 50mila in fondo al mare in trent’anni»; per «i respingimenti in Tunisia e Libia che riportano le persone nei campi o nei deserti»; per «le guerre o le dittature con sofferenze, torture e morti». Eppure, aggiunge l’arcivescovo, «attorno a noi sentiamo ripetere: “bombardiamo”, “ignoriamo”, “chiudiamoci”, “non riconosciamo”. Invece un solo vocabolo dovremmo pronunciare: “vergogniamoci”». Perego ribadisce che le «navi delle Ong non possono essere ostacolate: salvano la gente». E chiama in causa anche l’Europa: per il nuovo «patto sull’immigrazione che porterà un’ulteriore limitazione dei diritti dei richiedenti asilo e rifugiati» e per il «trattamento differenziato» fra gli ucraini in fuga dalle truppe russe e «gli altri richiedenti che scappano da crisi e guerre nel mondo, non meno cruente e drammatiche». Poi, guardando al Consiglio, dice che «sono questi ragazzi a chiedere di costruire una cultura dell’incontro, come indica papa Francesco». Da qui la necessità di «lavorare di più anche nelle parrocchie italiane dove, secondo un’indagine Cei, la metà dei fedeli assidui è contraria all’accoglienza», rivela Perego. «E perché allungare i tempi per ottenere la cittadinanza italiana? Dovremmo essere felici di avere nuovi cittadini. Ed è la solidarietà che porta alla pace, quindi anche alla sicurezza delle nostre città».


A Palermo i giovani del Mediterraneo si ritrovano sui passi di due “testimoni”. Il primo è don Pino Puglisi, il prete assassinato da Cosa Nostra nel 1993, che «aveva spalancato le porte della parrocchia a bambini e anziani, a poveri ed ex detenuti e che in nome dell’accoglienza è stato ucciso per mano mafiosa», afferma Maurizio Artale, presidente del Centro d’accoglienza Padre Nostro che il sacerdote beato aveva fondato nel suo quartiere: Brancaccio. E l’altro è Giorgio La Pira, nativo della Sicilia e profeta della riconciliazione fra i popoli, che vedeva «nell’accoglienza una delle sfide più alte per il Mediterraneo», sottolinea Patrizia Giunti, presidente della Fondazione La Pira che, con l’Opera per la gioventù La Pira, il Centro internazionale studenti La Pira e la Fondazione Giovanni Paolo II, forma a Firenze la rete Mare Nostrum cui la Cei ha affidato il Consiglio dei giovani.

«Lo straniero e il povero non ci fanno paura», ripete don Mauro Frasi, parroco di Santa Maria al Giglio a Montevarchi, nella diocesi di Fiesole, che racconta della sua «canonica senza chiavi», con le porte aperte, diventata «casa di tutti», a cominciare dai dimenticati. «Cari giovani, aiutateci ad avere coraggio e a superare le resistenze ecclesiali e politiche», dice don Frasi al Consiglio del Mediterraneo. «L’accoglienza dovrebbe essere il cuore di ogni comunità parrocchiale», sostiene don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro a Pistoia, località finita più volte nel mirino per i migranti. Quindi la provocazione: «I migranti sono una risorsa per il nostro Paese. Dovremmo dire loro: “Benvenuti, venite...”». La Chiesa è in prima linea. «Nei decenni la Caritas Italiana ha contribuito a far crescere un sistema governativo di accoglienza», chiarisce Manuela De Marco.


Parla di «dovere dell’accoglienza» l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, che sprona a ritenere l’«ospitalità un criterio di azione, a maggior ragione se ci si dice cristiani». Infatti, prosegue, non si tratta «di nascondere i migranti ma di integrarli». Perché, «là dove c’è povertà, trova terreno fertile la criminalità». E il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, presidente dell’episcopato siciliano, sollecita «un’accoglienza fatta bene, con ordine e intelligenza. Del resto è facile che chi non crede nell’accoglienza possa usare taluni episodi negativi per esigere di alzare muri».





Sabato, 09 Novembre 2024

«Perché non vai in palestra e ti dedichi un po’ a te stesso?» Flavia e Simone Violante ogni tanto lo chiedono a papà Pasquale, le cui giornate sono scandite da attività significative e appassionanti. Pasquale è uno dei quasi 5.000 diaconi permanenti italiani, che coadiuvano i pastori nelle parrocchie e nelle diocesi. «Il diacono permanente è un ministro ordinato che condivide la vocazione alla guida della comunità cristiana. Il diaconato non è – come alcuni pensano – solo un grado di passaggio al presbiterato, è una vocazione specifica all’interno del ministero dell’Ordine, ed esercita una leadership che può orientarsi in modalità e ambiti diversi da quello del parroco, ma in piena sinergia e corresponsabilità con i preti impegnati nella loro missione nelle comunità cristiane», spiega padre Luca Garbinetto, teologo pastoralista, membro della Pia Società San Gaetano di Vicenza.

La congregazione religiosa il 22 gennaio 1969 ha offerto alla Chiesa i primi sette diaconi permanenti. Sono passati cinquantacinque anni, e sul diaconato si continua a riflettere. Per fare il punto su questa presenza nella vita della Chiesa, la Conferenza episcopale triveneta ha recentemente promosso un’indagine sociologica, che ha interessato oltre il 60% dei 388 diaconi permanenti (età media intorno ai 66 anni) del Nordest. Ne sono emerse la buona qualità delle relazioni familiari (oltre l’80% dei diaconi permanenti sono coniugati) e la capacità dei diaconi di vivere il luogo di lavoro come luogo di evangelizzazione. Esercitano il loro ministero specialmente nella liturgia, nell’annuncio della Parola e della carità; la maggior parte (oltre i due terzi) opera nel contesto delle parrocchie e/o delle unità e collaborazioni pastorali. «L’indagine evidenzia anche che ci sono a volte ancora difficoltà nel riconoscere lo specifico del diacono, da parte sia della gente che dei pastori – riprende padre Garbinetto –. Ma ci sono anche bellissime esperienze con diaconi che operano in vari settori – dalla sanità alle carceri – coordinando anche il lavoro dei preti. Persiste poi una certa confusione tra diaconato permanente e diaconato transeunte, quello cioè che precede il sacerdozio. Io penso che quest’ultimo andrebbe radicalmente ripensato. E andrebbe trovata una risposta sul senso della specificità del ministero diaconale, che è sacramentale, e non è secondario a quello sacerdotale. Per questo, da anni stiamo insistendo con la Conferenza episcopale italiana affinché costituisca una commissione specifica». La Pia Società San Gaetano gli scorsi 18 e 19 ottobre ha promosso il convegno “Diaconi e preti insieme, per una leadership sinodale”, alla cui organizzazione ha partecipato anche Pasquale Violante, cinquantasette anni, insegnante di Fisica, e con un diploma di Magistero in Scienze Religiose. Vive a Scafati, in provincia di Salerno, diocesi di Nola, dove si divide fra il lavoro e, appunto, gli impegni da diacono, molti dei quali condivisi con la moglie. «Il ruolo della moglie accanto al diacono sposato è cruciale – ripende padre Garbinetto –. Non si tratta solo di avere il suo consenso all’ordinazione, ma dev’essere coinvolta nel discernimento vocazionale, e nella formazione iniziale e permanente».

«Quest’anno per me è stato ricco di doni – racconta Pasquale –. Ho festeggiato dieci anni da diacono e venticinque di matrimonio con Carla, di cui amo sia la straordinarietà che le debolezze. Ho sempre sentito dentro di me una spinta a seguire il Signore più da vicino, ma non conoscevo il diaconato. È stato il libro “I diaconi” di Enzo Petrolino, presidente della Comunità del diaconato in Italia, a illuminarmi. Mi sono detto: “forse il Signore mi chiama a questo”. Ed eccomi qui. Da allora sono passati vent’anni, dieci di formazione e dieci da ordinato. Ricordo ancora l’emozione di quel giorno, prostrato a terra in segno di totale abbandono alla volontà di Dio. Ma non mi sento certo arrivato. Mi sento in cammino. So di aver fatto delle cose belle, ma sento di dover ancora crescere per poter offrire al meglio il mio contributo al Regno di Dio e alle persone che mi fa incontrare ogni giorno. Ho voluto diventare diacono – testimonia Pasquale – per lo stesso motivo per il quale ho voluto sposare Carla: il profondo desiderio di sentirmi amato e di dare amore. Sì, perché al centro di ogni azione umana c’è sempre il desiderio. Sono diventato uno sposo mosso dal profondo desiderio di sentirmi amato da Carla e di donarle amore. Sono diventato un diacono mosso dal profondo desiderio di sentirmi amato dal Signore e di amarlo».





Venerdì, 08 Novembre 2024

L’emozione nella voce del maestro Nicola Piovani, il sorriso del cardinale Pietro Parolin e il piccolo sussulto del pubblico alla prima nota sprigionata dal pianoforte. Al compositore, premio Oscar per la colonna sonora del film “La vita è bella” di Roberto Benigni, è andato il Premio Internazionale Achille Silvestrini per il dialogo e la pace. Un’iniziativa nata un anno fa per ricordare la figura del cardinale romagnolo scomparso nel 2019 e il suo impegno in campo diplomatico.

Il musicista romano è stato premiato ieri, 8 novembre, nel teatro di Villa Nazareth, a Roma, il collegio universitario di merito per studenti bisognosi del quale Silvestrini è stato presidente. La cerimonia è stata organizzata dall’Associazione culturale Premio
Internazionale Achille Silvestrini, a cui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha inviato una medaglia. «Il maestro Piovani - ha detto il cardinale Parolin, segretario di Stato della Santa Sede, nonché attuale presidente di Villa Nazareth - con la sua arte, con i concerti anche nei luoghi di conflitto, con sue le parole e la musica, ha testimoniato non solo la necessità, ma anche la possibilità di costruire la pace con l’ascolto e il dialogo».

Parolin ha poi citato il “Canto del legno”, composizione scritta dall’artista per ricordare il naufragio di migranti a Cutro, in Calabria, nel febbraio 2023. Per registrare la musica fu realizzato un violino proprio con il legno dei barconi, grazie al laboratorio di liuteria del
carcere milanese di Opera. «Segni che - ha aggiunto il porporato - hanno avuto un grande impatto sulla pubblica opinione, anche su coloro che sono meno sensibili all’inclusione». A consegnare il riconoscimento a Piovani (una somma in denaro e una ceramica artistica di Faenza di Goffredo Gaeta, sulla quale è riprodotto uno scritto del 1988 di Silvestrini), il cardinale Edoardo Menichelli, arcivescovo emerito di Ancona – Osimo e già segretario personale di Silvestrini. «In questo momento storico così drammaticamente segnato da conflitti, la lezione del cardinale resta un invito alla speranza e alla fiducia», ha sottolineato il porporato, a cui ha fatto eco anche monsignor Claudio Celli, vicepresidente di Villa Nazareth. «Nel suo nome e nella sua memoria, agli uomini costruttori di dialogo e di pace e a Nicola Piovani va il nostro grazie dal profondo del cuore», ha aggiunto Menichelli.
Carlo Felice Casula, responsabile culturale dell’associazione, ha letto invece la motivazione del premio: “Il riconoscimento vuole onorare non solo un talento straordinario, ma un artista che ha fatto dell'impegno civile la sua strada maestra. Unendo musica e parole, Nicola Piovani canta e testimonia i valori fondativi dell'ascolto, del dialogo, della solidarietà e della pace. Un'elegia della speranza contro il silenzio dell'indifferenza, la violenza delle disuguaglianze, i tuoni di guerra, che invita a ritrovare quel senso forte della vita capace di rendere il mondo un luogo più accogliente, illuminato dalla luce dell'umana fraternità”.

Visibilmente commosso, Nicola Piovani ha deliziato la platea al pianoforte con le note del film “La notte di San Lorenzo”. «Il dialogo e la pace sono cose serie, mentre la musica non ha contenuti, è asemantica, ma per i musicisti c’è la possibilità di affiancarsi al bene o al male – ha detto -. Sogno una realtà dove i droni lancino viveri e giocattoli, anziché bombe».





Venerdì, 08 Novembre 2024

La 64ª Assemblea Generale della Conferenza Italiana Superiori Maggiori (CISM) ha visto la presenza di 80 Provinciali, di differenti Istituti religiosi, ritrovarsi, dal 4 all’8 di novembre ad Assisi.

"La ragione di questo convenire è dettata dalla volontà di camminare insieme - scrivono i religiosi in un comunicato finale -, a partire dalle differenze carismatiche di ogni Istituto di vita consacrata e da ogni Società di vita apostolica. Questo percorso di comunione, fraternità, discernimento e collaborazione è la forma attraverso la quale vogliamo essere nella Chiesa e nella società segni di futuro, imparando a leggere i segni dei tempi, imparando ad abitare dentro questi segni, perché noi siamo stati presi dal popolo e siamo stati inviati al popolo, senza privilegi, senza sconti, senza comodità".

"Il percorso di riflessione, alla scuola del cammino sinodale e giubilare della Chiesa - prosegue il testo -, l’abbiamo avviato l’anno scorso e prevede tre fasi: vedere, interpretare, scegliere. Abbiamo scelto Assisi, ha ricordato il Presidente della Cism, padre Luigi Gaetani, perché, in questo luogo di santità e di bellezza, san Francesco ha creduto che si vede veramente solo spogliandosi, perché fino a quando si è rivestiti di tanto superfluo, di idee dominanti e potere clericale, la notte abita i cuori e la vita, facendo fatica a vedere quali strade lo Spirito apre all’umanità e alla vita religiosa in questo cambio d’epoca (Assemblea 2023); il poverello di Assisi ha saputo anche interpretare, discernere i segni dei tempi, calandosi nel baratro del suo tempo, così colmo di rivalità, di guerre, di relazioni bruciate dall’odio, sapendo leggere segni di speranza nella concretezza di una carne mangiata dal dolore, nella carne di un lebbroso che non rappresentava un motivo per scartare qualcuno ma per riavvicinare la reliquia di tanta umanità messa al margine (Assemblea 2024); l’immagine di Francesco ci ricorda anche che la vita ci pone dinanzi a scelte necessarie o difficili, come quella che Lui fece ritirandosi alla Verna, credendo fortemente che solo l’amore salva, che l’amore trasfigura le cose, le persone, i sentimenti, le relazioni fino a configurarci pienamente a Cristo, fino ad edificare la civiltà dell’amore, come ricordava S. Paolo VI (Assemblea 2025)".

L’avvio dei lavori è stato segnato dalla relazione del presidente, padre Gaetani, che ha sottolineato come l’interpretazione dei segni dei tempi è l’arte che ha reso possibile ai Fondatori di dare concretezza storica ai carismi, di porre in essere segni di speranza e di futuro, coniugando sogni, visioni e mistica. La vita consacrata rimane il luogo teologico ed esistenziale dove si dà forma alla speranza attraverso una forma di vita trasfigurata dall’amore, attraverso una molteplicità di opere che sono la grammatica della tenerezza, dello sguardo colmo di compassione, che danno diritto di cittadinanza a tanta umanità che rischierebbe di restare sospesa sul baratro del nulla. Arrampicati sulla croce del mondo, attraverso il cuore e gli occhi del Figlio di Dio, i religiosi intravedono e amano, con inventiva e amore, quello che Dio non ha mai cessato di cercare e amare: l’uomo. Attraverso le crepe del cuore e della vita dell’uomo e della società, i religiosi cercano di intravedere segni di futuro, ha ricordato don Giacomo Perego, alla scuola del profeta Elia, imparando a credere che la storia la fa Dio, alla scuola di Gesù, apprendendo l’arte dell’essere dono per gli altri, pane della vita dentro le paure e le solitudini di tanta umanità, alla scuola dell’apostolo Paolo che ha saputo attraversare la notte di Damasco, quella di Antiochia fino a ritenere che la missione non è mai indolore, rispetto alla comunità, agli amici, alle consuetudini.

Suor Simona Brambilla ha letto i segni di futuro, nel rapporto tra vita religiosa e cammino sinodale, a partire dal cuore, attorno al fuoco e riparando le reti rotte della vita, delle relazioni. Ci siamo chiesti quali reti rotte è chiamata a riparare la vita religiosa, attraverso quell’arte che riannoda fili interrotti e che ricuce squarci.

L’Assemblea ha vissuto due momenti di confronto ecclesiale con il presidente della Cei, cardinale Matteo Zuppi, e con Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario della Cei. Sono stati due incontri istituzionali, mettendo a tema il rapporto sinodale e missionario dei religiosi nella vita della Chiesa italiana e le strategie di governo delle Diocesi e delle Province religiose dinanzi a questo cambiamento che, senza dubbio, comporterà un modo diverso di vivere e riorganizzarsi in relazione al popolo di Dio e al territorio.

Sono stati due incontri improntati alla stima e al dialogo, nel tentativo di superare la visione dell’uso della vita consacrata, valorizzando il riferimento a Cristo, alla vita della Chiesa come comunione e non in funzione delle opere, alla capacità di attrazione perché comunione di cose diverse, all’essere soggetti che operano un discernimento comunitario, promuovendo la partecipazione ecclesiale, la corresponsabilità dei carismi e della missione, fino alla fraternità sacerdotale e alla valorizzazione dei beni per la missione della Chiesa.

Con il padre Luigi Sabbarese si sono affrontate le strategie di governo degli Istituti religiosi e la riorganizzazione delle Province in Italia. Questa riflessione ha avuto respiro pastorale, missionario e non solo giuridico, perché ogni riforma è per la Chiesa e si fa dentro un orizzonte di partecipazione ecclesiale, tenendo conto del popolo di Dio e del territorio, come ha ricordato il Papa, sapendo prestare attenzione a non avviare processi che fanno perdere i contatti con la nostra gente e con le radici culturali, territoriali dove le nostre comunità sono piantate e dove i nostri religiosi e sacerdoti sono segni di speranza.

"La parte conclusiva dell’Assemblea - afferma il comunicato finale - ha voluto leggere i segni di speranza e di futuro anche rispetto all’impegno nel sostenere la missione della Scuola cattolica, della Formazione e della valorizzazione del Patrimonio. In particolare, l’Assemblea ha voluto rimarcare che i beni degli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica hanno un valore sociale e che, pur essendo frutto dei sacrifici dei religiosi e della generosità dei benefattori, restano a disposizione delle persone, dei giovani e degli anziani, dei poveri e delle famiglie, dei giovani universitari che rischiano di non trovare alloggi, che vedono difficile affrontare un percorso di formazione con risorse limitate. L’Assemblea dei religiosi in Italia si impegna a promuovere e valorizzare il suo patrimonio attraverso la creazione di un “osservatorio tecnico”, per il bene di tanta parte della nostra gente, soprattutto dei poveri, continuando l’opera di servizio e di gratuità nel Paese, in collaborazione con la Chiesa italiana.

L’Assemblea ha anche affrontato, tramite padre Amedeo Cencini, il dramma e lo scandalo della violenza sui minori e le persone vulnerabili, ricordando che le vittime sono al centro della nostra attenzione, che gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica vogliono riconoscere le ferite inferte da parte di alcuni di noi e porre in essere tutti gli strumenti necessari per garantire un impegno di vigilanza e accoglienza delle denunce, rinnovando l’impegno a non accettare politiche o attitudini di saturazione, rimozione, normalizzazione o di resistenza.

La speranza non delude (Rm 5,5). Il presidente della Cism ha rimarcato che i carismi muoiono per mancanza di sguardo sul mondo, sull’umanità, per inversione di prospettiva o per la mollezza di accettare di vivere a quote normali. Il futuro della vita religiosa è tutta in uno sguardo, sta nel grido di tanta gente e nella prontezza di afferrare con mani umane, con cuore innamorato chi rischia di cadere nel vuoto. La vita religiosa non può guardare il mondo e girarsi dall’altra parte.





Venerdì, 08 Novembre 2024

È una piccola campana nel chiostro che ogni domenica annuncia la Messa a Tibhirine. A distanza di quasi tre decenni dall’assassinio dei sette trappisti nel 1996 rivendicato dal Gruppo islamico armato, il monastero nel cuore dell’Algeria islamica continua a essere una “lezione” di incontro e dialogo. Tenuta viva dai religiosi di Chemin-Neuf. E capace di attrarre ogni anno migliaia di visitatori, per il 90% algerini di fede musulmana. «Sono toccati dal sacrificio dei monaci e dalla pace del luogo – raccontano i consacrati della comunità francese a vocazione ecumenica che dal 2016 ha “ereditato” il monastero –. Vogliono conoscere meglio questo episodio che fa parte della storia nazionale». Se Tibhirine è «un luogo della riconciliazione», come lo chiama Chemin-Neuf, vive al tempo stesso le tensioni religiose che si toccano con mano in tutto il Paese. I monaci vengono scortati quando escono e il complesso è presidiato dalle forze dell’ordine. Di fatto è lo specchio di una nazione dove il rapporto con il mondo cristiano è ambivalente e contraddittorio.

A Orano il centro diocesano “Pierre Claverie” accoglie ogni settimana decine di bambini musulmani per attività extrascolastiche. «Le famiglie si fidano di noi – dicono gli animatori –. I cristiani di Francia accetterebbero di affidare i propri figli a una struttura collegata alla moschea?». Eppure, stando al rapporto 2024 sull’“Indice globale di persecuzione dei cristiani”, l’Algeria è, insieme con il Laos, il Paese in cui le azioni anticristiane sono cresciute di più in un anno. Il dossier parla della «fine di un sogno» nella nazione che costituiva «un’eccezione nel Maghreb con le sue grandi chiese cristiane». E l’ultimo report di “Aiuto alla Chiesa che soffre” denuncia: «Il rafforzamento autoritario del regime che detiene il potere politico ha dato luogo a un’intensificazione delle ostilità contro le minoranze religiose». A finire nel mirino sono soprattutto le comunità cristiane riformate che vengono accusate dalle autorità di proselitismo ed evangelizzazione in una terra dove l’islam è religione di Stato, in base alla Costituzione, e il proselitismo è reato. Infatti, secondo la famigerata Ordinanza del 2006 sulle religioni non islamiche, chiunque «seduca con l’intento di convertire un musulmano» rischia tra i tre e i cinque anni di carcere.

Secondo i dati ufficiali, quasi tutti i cristiani sono stranieri e provengono per lo più dall’Africa subsahariana. Si stima siano 129mila su 43 milioni di abitanti e vivano in gran parte nella regione di Cabilia, nel nord dell’Algeria. È quella in cui è più diffusa la comunità evangelica che conta 100mila credenti e che preoccupa lo Stato per le conversioni che ha favorito. Su 46 chiese, solo quattro restano aperte. Le altre sono state chiuse per disposizione governativa dal 2017 a oggi. Aumentano anche gli interventi repressivi della magistratura: il presidente dell’Église Protestante d’Algérie, Salaheddin Chalah, è stato condannato a 18 mesi di reclusione per «culto non autorizzato»; e a Orano il giudice ha confermato la condanna a cinque anni di prigione per Hamid Soudad, cristiano che ha ripubblicato una vignetta di Maometto su Facebook. Sotto scacco i musulmani convertiti che «subiscono pressioni sociali e vengono penalizzati nelle eredità», sottolinea “Aiuto alla Chiesa che soffre” che ricorda la chiusura definitiva di Caritas Algeria «il 1° ottobre 2022 a seguito di una richiesta delle autorità pubbliche». Complicato persino ottenere i visti d’ingresso per i ministri di culto cristiani che arrivano dall’estero.





Lunedì, 11 Novembre 2024

Nel documento finale del Sinodo sulla sinodalità appena concluso, il paragrafo approvato con più voti contrari è stato quello sulla presenza femminile nella Chiesa. «Non ci sono ragioni che impediscano loro di assumere ruoli guida» recita il testo, aggiungendo che anche «la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperto». Ma chi sono i diaconi? E le donne un giorno potranno esserlo? Ne parliamo con la teologa Cristina Simonelli.

Conduce Riccardo Maccioni






Giovedì, 07 Novembre 2024

«Signore fa’ di me uno strumento della tua pace». È il noto incipit della “Preghiera semplice” attribuita a san Francesco d’Assisi. E quale “strumento” migliore per costruire la pace dell’Istituto musicale “Magnificat” di Gerusalemme? «Per restare in tema possiamo dire che non è una “stonatura” questo accostamento perché la musica ha un suo linguaggio e una sua etica, i musicisti non dovrebbero avere bandiere e confini, questo è quello che cerchiamo di insegnare ai nostri allievi, nell’incontro tra culture, religioni e provenienze diverse che sono il volto del Magnificat». A parlare è fra Alberto Joan Pari, minore francescano e direttore da oltre otto anni di questa scuola di musica che vede insieme docenti e studenti delle tre grandi religioni monoteiste.

Tra meno di due mesi l’Istituto “Magnificat” avvierà i festeggiamenti per i suoi trent’anni di vita all’insegna dell’armonia e non solo musicale. La sua fondazione risale infatti al 1995. Un’opera profetica sognata da padre Armando Pierucci, un minore francescano oggi considerato tra i più grandi compositori viventi di musica sacra. Nato a Maiolati Spontini (Ancona) nel 1935, oggi risiede a Pesaro dove ha vissuto per quasi vent’anni fino al 1988. In quegli anni fu anche docente di organo al conservatorio Rossini, dove si specializzò in Direzione di coro e composizione organista.

«Fu il custode di Terra Santa dell’epoca a dirmi che avevano bisogno di un organista per la chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme», racconta padre Pierucci. Gli inizi non furono affatto semplici. «In sette anni non ero riuscito a persuadere neppure un ragazzo. Tutti dicevano che a Gerusalemme con la musica non si poteva vivere e così, appena li formavo, se ne andavano». Al colmo della disperazione fu sul punto di mollare. «Ma prima volli chiedere un segno al Signore e quindi mi recai in pellegrinaggio a piedi ad Ain Karem, alla chiesa della Visitazione, dove la madre di Gesù aveva proclamato il canto del Magnificat». Fu la svolta. Di lì a poco padre Armando riuscì a chiedere al Capitolo della Custodia di Terra Santa la creazione di una scuola di musica per dare continuità al suo lavoro. «Con mio grande stupore venne approvata all’unanimità – ricorda – e la chiamai Magnificat». Inizialmente la scuola era collocata nella vecchia macelleria risanata del convento. Poco alla volta si iscrissero ragazzi e ragazze cristiani, musulmani ed ebrei. I frati accettavano tutti e la scuola arrivò a contare circa duecento tra studenti e insegnanti. Quindi l’attuale Patriarca di Gerusalemme dei Latini, Pierbattista Pizzaballa, decise di sostenere l’istituto che nel frattempo stava ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. «Il cardinale ci conosce bene – dice fra Alberto –, sente spesso parlare di noi e ci incontra nei vari eventi dove è invitato e dove noi suoniamo, soprattutto nella Città Vecchia dove siamo come una piccola grande famiglia». Fondamentale fu poi la decisione del conservatorio “Pedrollo” di Vicenza che riconobbe il Magnificat come sua sede distaccata. In seguito il Ministero dell’Istruzione italiano consentì di rilasciare diplomi universitari validi in tutta Europa.

«Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo avuto un piccolo terremoto interno – racconta fra Pari –. Alcune famiglie non hanno più potuto sostenere le tasse scolastiche e hanno preferito ritirarsi. Il delicato equilibrio costruito in quasi trent’anni è stato minacciato in un attimo, ma siamo riusciti a mantenere la politica fuori dalla scuola: un piccolo miracolo». Così a giugno sono tornate a iscriversi intere famiglie e oggi si contano 220 studenti e 31 insegnanti. L’orchestra degli studenti avanzati è il fiore all’occhiello della scuola e spesso si esibisce in varie occasioni. Il coro degli adolescenti sta rinascendo dopo una pausa generazionale e da un anno è stato anche avviato un progetto per il coro dei più piccoli in collaborazione con l’associazione “Andrea Bocelli”.

«Per il trentennale – continua fra Alberto – abbiamo già realizzato un logo e abbiamo in programma un grande concerto in primavera e un altro al conservatorio di Vicenza dove coinvolgeremo tutti gli studenti che hanno concluso la laurea di primo e di secondo livello: sono tre cantanti, tre pianisti, un organista, un chitarrista e una fagottista». Anche in padre Pierucci il desiderio di festeggiare è grande. Ma la gioia si trasforma in preghiera non appena la mente vola alla sua martoriata Terra Santa. Così gli occhiali si appannano: «laggiù la gente è buona – testimonia – e chiede solo di vivere in pace».





Giovedì, 07 Novembre 2024

In quel tempo, Gesù, seduto di fronte al tesoro [nel tempio], osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.








Giovedì, 07 Novembre 2024

Nella storia della Chiesa i rapporti tra vescovi e ordini religiosi sono stati non di rado piuttosto dialettici e a volte anche turbolenti. Ma non sono mancati, e non mancano, momenti di grande sintonia e di evangelica collaborazione. Un esempio in questo senso può essere la giornata di ieri ad Assisi dove è in corso la 64ª Assemblea nazionale del Confederazione dei superiori maggiori d’Italia (Cism), che riunisce i provinciali delle congregazioni religiose presenti sul territorio del nostro Paese, sul tema “Sogni di futuro”. Ospiti sono stati il cardinale di Bologna Matteo Zuppi e l’arcivescovo di Cagliari Giuseppe Baturi, rispettivamente presidente e segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Il primo ha parlato del ruolo dei religiosi nella vita della Chiesa nella Penisola. Il secondo ha affrontato il tema delle “Strategie di governo delle diocesi e delle provincie religiose tra territorialità e popolo di Dio”. Entrambi gli interventi sono stati moderati, o meglio, vivacizzati, dal dehoniano padre Lorenzo Prezzi, giornalista e direttore dell’apprezzato blog “SettimanaNews”. All’incontro con Baturi ha preso la parola anche padre Luigi Sabbarese, scalabriniano, dell’Area giuridica del Cism.

Il cardinale Zuppi ha dedicato l’intera mattinata all’incontro. In un clima di grande cordialità. Il benvenuto è stato offerto da padre Luigi Gaetani, carmelitano scalzo, presidente della Cism. «Non chiediamo nulla, – sono state le sue parole – ma solo di camminare insieme per il bene del popolo di Dio». Quindi il botta e risposta con Prezzi. Diversi i temi trattati. A cominciare dall’uso dei beni. Con l’invito del presidente della Cei a discuterne «insieme» e a verificare quando sia «il caso di dare il testimone a qualcun altro» – sempre «con qualche verifica vera, seria, robusta» – magari affidando le opere ai laici. Un invito che è storicamente nelle corde del mondo religioso, basti pensare ai terz’ordini nati nel corso dei secoli. «Non facciamo – ha osservato il cardinale – come i nobili che, dilapidato il patrimonio, vanno ad abitare nell’abitazione del custode e trasformano la propria casa in un B&B». Zuppi ha poi invitato i religiosi a rifiutarsi di fare i «tappabuchi», affidandosi alla forza del proprio carisma. Invito accolto con gratitudine da padre Gaetani. Di qui l’esortazione a evitare di «diventare mediocri» e «il piccolo cabotaggio», a «pensare invece in grande» come fecero i fondatori a «reinvestire bene quello che abbiamo con fantasia e libertà evangelica». I religiosi insomma non devono limitarsi a lavorare nelle parrocchie ma devono immergersi, seguendo il proprio carisma, nella pastorale nei luoghi di misericordia come i santuari, nelle case di carità, nei luoghi di sofferenza come le Rsa e gli hospice. A creare delle piccole «Taizé» dove «i giovani possono imparare a pregare». In questo però, ha sottolineato il presidente della Cei, «la vera sfida è la comunione che dà valore a tutto». Padre Prezzi ha poi introdotto il tema degli abusi. Per Zuppi la questione rimane una «priorità» che va affrontata «con rigore e con tanta umanità, con le vittime in primo luogo» avendo però «la consapevolezza che non siamo una Chiesa di abusatori». Non è mancato lo spazio per alcune domande dei partecipanti all’Assemblea. Sulla polarizzazione esasperata che si manifesta a volte nella vita ecclesiale: per il cardinale di Bologna bisogna «difendere la comunione sempre», affrontando i singoli casi «con fermezza e pazienza». Sui rapporti, a volte difficili, tra i religiosi e il vescovo della diocesi in cui operano: «Il vescovo è un padre, aiutatelo ad esserlo, con grande libertà». Sulla questione dei migranti, «una grande sfida da affrontare con realismo e tanta umanità», con la necessità di «una politica seria di accoglienza e integrazione», e tenendo fermo il fatto che «i migranti in mare vanno soccorsi». Il Papa, ricorda Zuppi, «non dice tutti dentro, ma tutti salvi».

Nel pomeriggio è stata la volta dell’arcivescovo Baturi che senza entrare negli aspetti più tecnico-giuridici ha sottolineato il valore della vita religiosa che, ha ribadito, non deve essere relegata a fare da «tappabuchi» nell’attività pastorale delle diocesi. Lo ha fatto citando i Lineamenti della prima Assemblea sinodale delle Chiese che sono in Italia che si terrà la prossima settimana, laddove si riconosce che «per allontanare il rischio di guardare alla vita consacrata come ad una sorta di erogatore di servizi» diventa «importante valorizzare la sua partecipazione al discernimento dei carismi diffusi in tutto il popolo di Dio e alla cura del dialogo tra i diversi ministeri». Il presule, facendo riferimento anche alla vita della sua diocesi, ha in particolare osservato come i consacrati possano essere di aiuto al clero diocesano «per capire cosa sia la vita in comune». «Penso che l’esperienza religiosa – ha detto – guardata nella sua ricchezza, e non funzionalizzata alle nostre esigenze, possa aiutarci», perché, e qui il segretario generale della Cei ha fatto eco a quanto osservato in mattinata dal cardinale presidente Zuppi, «il tema di fondo è la comunione, che diventa fraternità e condivisione di beni, di risorse, di competenze in un’unica missione, e questo non lo si fa con un regolamento».





Mercoledì, 06 Novembre 2024

Piccoli segnali di un cammino ecumenico sui francobolli che le Poste del Regno Unito hanno deciso di dedicare alle festività natalizie di quest'anno. Un appuntamento annuale per i collezionisti filatelici britannici e non solo.

Negli scorsi anni sono stati utilizzati diversi soggetti per rappresentare il Natale. Nel 2018, ad esempio, i francobolli natalizi britannici mostravano diverse cassette postali per raccogliere le lettere da inviare a Babbo Natale.

Decisamente di carattere più religiose le emissioni degli anni successivi: nel 2018 sono stati utilizzati dei disegni della Natività, mentre nel 2020 furono scelte alcune Natività realizzate su vetrate a mosaico per la serie filatelica natalizia. Di analogo segno le emissioni del 2021 e del 2022 anche se in entrambi i casi si trattava di disegni ispirati al racconto della Natività. Lo scorso anno le poste britanniche hanno scelto come soggetti dei dipinti.

Quest'anno sui francobolli natalizi fanno il loro esordio le facciate di alcune Cattedrali, tra cui anche quella cattolica di Westminster. È una prima volta assoluta, come sottolinea il cardinale Vincent Nichols primate della Chiesa cattolica di Inghilterra e Galles.

«Siamo così orgogliosi perché il fatto che la Cattedrale di Westminster compaia, per la prima volta, sui francobolli natalizi britannici vuol dire che l’immagine verrà vista da moltissime persone che capiranno che una chiesa è un posto dove Dio abita e dove il sentimento della sua presenza è intenso e garantisce conforto e consolazione» dice il porporato in un video pubblicato sul sito della stessa Cattedrale cattolica.

I francobolli sono stati realizzati dall'artista britannica Judy Joel, che oltre alla Cattedrale di Westminster, che a Londra si trova a breve distanza dalla sede del Parlamento britannico, ha proposto altri quattro francobolli ritraenti altrettante Cattedrali ma della Comunione Anglicana.
Si tratta della Cattedrale di Edimburgo, principale luogo di culto della Chiesa di Scozia; la Cattedrale di Liverpool, sede dell'omonima diocesi anglicana e considerata la più grande chiesa del Paese; la Cattedrale anglicana di Armagh nell'Irlanda del Nord; e la Cattedrale di Bangor, che è la principale chiesa della diocesi anglicana nel Galles.





Mercoledì, 06 Novembre 2024

Si conclude domani il 70esimo Capitolo Generale dell'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, tenutosi a Czestochowa, in Polonia. Questo evento per questi religiosi meglio conosciuti come i Fatebenefratelli ha rappresentato un momento cruciale per la riflessione, il rinnovamento e la pianificazione del futuro. Il Capitolo ha visto la partecipazione di 67 fratelli e 19 collaboratori laici, riuniti per definire le principali linee guida e raccomandazioni che guideranno la vita e le attività dell'Ordine nei prossimi sei anni. Durante il Capitolo, è stato eletto come nuovo superiore generale il fratello Pascal Ahodegnon, originario del Benin, con una lunga carriera di servizio e leadership. Entrato nell'Ordine nel 1994, ha emesso i voti definitivi nel 2003 e si è laureato in Medicina e Chirurgia a Milano. Ha ricoperto il ruolo di Consigliere Generale dal 2012, con un focus particolare sulla regione dell'Africa. Il religioso succede allo spagnolo fra' Jesús Etayo che per 12 anni ha guidato questo istituto religioso.
Si tratta di un ordine mendicante sorto in Spagna grazie a san Giovanni di Dio (1495-1550), laico spagnolo e il nome deriva dal fatto che il fondatore con i suoi primi compagni, invitava i benefattori a collaborare economicamente alle opere di carità dell'ordine dicendo «Fate del bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio». I Fatebenefratelli nascono nella prima metà del XVI secolo e tra gli obiettivi di questo istituto vi è ln particolare a cura dei malati, dei poveri e delle prostitute.
Fra Pascal è nato il 10 aprile 1971 a Savé, in Benin. È entrato nell'Ordine nel 1994, ha emesso i voti temporanei il 15 agosto 1997 e ha emesso i voti definitivi il 25 maggio 2003. Si è laureato in medicina e chirurgia a Milano, Italia. È stato eletto consigliere generale nel 2012 e rieletto nel 2019, in particolare responsabile della regione Africa. Al Capitolo generale, iniziato il 15 ottobre, partecipano sessantasette Fratelli e diciannove collaboratori che si sono uniti per le prime due settimane. Questo incontro è stato l'occasione per definire i principali orientamenti e raccomandazioni per la vita dell'Ordine ospedaliero nei prossimi sei anni.
L'Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio comprende 161 comunità e 410 strutture sanitarie, sociali e medico-sociali in 54 Paesi, al servizio dei malati e dei bisognosi. È composto da 965 religiosi e 65mila collaboratori, che costituiscono la Famiglia ospedaliera di San Giovanni di Dio.
Nell'ultima settimana del Capitolo, l nuovo superiore generale formerà il suo Consiglio (composto da sei frati lo spagnolo Joaquim Erra i Mas, l'austriaco Saji Mullankuzhy, il senegalese Etienne Sene, David Lynch, superiore della Provincia del Nord America e il coreano John Jung) prima dell'adozione finale degli orientamenti e delle raccomandazioni che daranno forma al futuro dell'Ordine. Quest'anno la Polonia è il sesto Paese ad ospitare un Capitolo generale dell'Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio, dopo Italia, Colombia, Spagna, Messico e Portogallo.
Oltre a san Giovanni di Dio, gli altri ospedalieri elevati all'onore dell'altare sono stati i santi Riccardo Pampuri, Benedetto Menni e Giovanni Grande e i beati Eustachio Kugler, José Olallo Valdés e settantuno martiri della guerra civile spagnola (Braulio María Corres Díaz de Cerio, Federico Rubio Álvarez e 69 compagni). L’Ordine conta oggi circa 396 strutture distribuite in 51 Paesi del mondo. Queste includono ospedali, centri di riabilitazione, case di riposo e altri servizi sociali e sanitari destinati a persone vulnerabili.





Mercoledì, 06 Novembre 2024

Dal 15 al 17 novembre 2024, la Chiesa italiana si prepara a un evento unico: la prima Assemblea sinodale a Roma. Ma perché questo appuntamento è così importante? E come potrebbe riguardare i giovani? Il percorso sinodale (ovvero, etimologicamente, di “cammino comune”) rappresenta un’occasione speciale per capire come la Chiesa sta cambiando e come potrà cambiare, mettendosi in ascolto delle voci di tutti, inclusi i giovani, per costruire una comunità cristiana che risponda sempre meglio alle domande e alle attese delle donne e degli uomini di oggi.

Cos’è l’Assemblea Sinodale?

L'Assemblea Sinodale è un incontro nazionale organizzato dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) per riflettere insieme sulle esperienze di fede e sulle sfide che viviamo nel nostro tempo. Il Sinodo, un percorso che papa Francesco considera fondamentale per la Chiesa del futuro, è partito nel 2021 e si sviluppa in tre fasi: la prima fase ha riguardato l’ascolto (narrativa), la seconda la riflessione (sapienziale), e ora, nella terza fase, si vuole passare all’azione concreta (profetica).

Quali sono i temi principali?

Il documento di preparazione, chiamato “Lineamenti”, invita la Chiesa a interrogarsi su come rendere il Vangelo significativo per la nostra epoca, su come ascoltare veramente le persone e su come rispondere ai bisogni di una società in rapido cambiamento. Ecco alcuni dei temi su cui si concentreranno i circa mille delegati che parteciperanno all’Assemblea:

Missione – Come la Chiesa può essere più aperta e vicina alle persone? Oggi, purtroppo, tante persone si allontanano dalla fede e la Chiesa italiana vuole cercare nuovi modi per essere presente nella vita quotidiana, accogliere e costruire relazioni vere.

Partecipazione e corresponsabilità – La Chiesa vuole una maggiore partecipazione di tutti, inclusi i giovani e le donne, nei processi decisionali e nelle attività. Il documento invita a ripensare ruoli e responsabilità, per superare la divisione tra chi guida e chi partecipa e promuovere una leadership più inclusiva.

Formazione – Molti desiderano una Chiesa che sia autentica e non solo formale. Per questo si insiste su una formazione che porti tutti, clero, religiosi e fedeli, a un annuncio del Vangelo che sia profondo e non solo superficiale.

Strutture – Non si tratta solo di fare in modo che l’amministrazione dei beni sia più efficiente, ma di rendere le strutture della Chiesa più semplici e accessibili. Spesso, la burocrazia o l’organizzazione rallentano l’entusiasmo e l’iniziativa; ecco perché l’auspicio è che il cammino sinodali contribuisca a una Chiesa più leggera e meno concentrata sui formalismi.

Perché i giovani sono importanti in questo percorso?

Papa Francesco è chiaro: una Chiesa senza giovani è come un albero senza radici. I giovani portano freschezza e creatività, e le nuove generazioni possono dare alla Chiesa una spinta verso il cambiamento e la coerenza. La loro età li spinge a cercare un senso profondo nelle relazioni e nella vita quotidiana e sono più disposti a impegnarsi per ciò in cui credono davvero. Ecco la Chiesa italiana si è impegnata in un Cammino sinodale che sappia ascoltare le opinioni e le intuizioni dei giovani.

Il ruolo delle donne e di tutti i laici

Un tema chiave è anche il ruolo delle donne. Sebbene le donne siano spesso impegnate nella Chiesa, il confronto fin qui ha evidenziato come manchino per loro ruoli di responsabilità, e il Sinodo vuole cambiare questa realtà, valorizzando le capacità femminili come parte essenziale della vita comunitaria.

Come partecipare al cambiamento?

Cosa possono fare quindi i giovani per partecipare al cambiamento? Come sempre il primo passo è la consapevolezza: sono tanti i canali attraverso i quali la Chiesa italiana sta cercando di comunicare il processo in atto (tra questi anche Avvenire e tutti i media cattolici). Inoltre, questo è il tempo per far sentire la propria voce, anche di critica, come ha chiesto lo stesso papa Francesco dell’esortazione Christus vivit.

Sono tanti, poi, i giovani che parteciperanno all’Assemblea portando il loro punto di vista su tutti i temi di cui si discuterà. Anche attraverso la loro presenza la Chiesa sta lanciando un forte appello alle nuove generazioni perché si facciano sentire, per proporre idee e per confrontarsi su questioni che li toccano da vicino. L’obiettivo finale del Cammino sinodale è quello di dare forma a una Chiesa che cammina davvero accanto a tutti. La sfida è enorme, il risultato non è affatto scontato, ma l’occasione è preziosa e si inserisce in un tempo in cui gli strumenti della comunicazione digitale permettono una partecipazione larghissima.

Guardando al futuro

Anche se questa Assemblea Sinodale non vuole dare risposte preconfezionate, l’evento può rappresentare un passo importante per la costruzione di una Chiesa capace di offrire risposte autentiche alle domande di tutti, in particolare dei giovani. Ciò che lega lo stile che la Chiesa italiana vuole dare a questa fase di cambiamento e il modo di vivere delle nuove generazioni è di certo il senso di “rischio”, come auspicato da papa Francesco, il quale ha più volte ricordato che la Chiesa del futuro è una Chiesa che si mette in gioco per la giustizia e la pace e che sa stare in mezzo alle persone, accompagnandole nella loro quotidianità.





Mercoledì, 06 Novembre 2024

Si aggiunge un altro neologismo al vocabolario personale di papa Francesco. «Coca-colizzazione». Il Pontefice l’ha utilizzato ieri nella visita alla Pontificia Università Gregoriana, invitando appunto a non “coca-colizzare” il sapere. «In un’università - ha detto - la visione e la consapevolezza del fine impediscono la coca-colizzazione della ricerca e dell’insegnamento che porterebbe alla coca-colizzazione spirituale. Sono tanti, purtroppo, i discepoli della coca-cola spirituale».

Profondità di sguardo, dunque. Non solo bollicine. Francesco ha unito questa sua riflessione a tante altre notazioni, durante il discorso tenuto nel quadriportico della sede dell’ateneo che deve i suoi natali a sant’Ignazio di Loyola e ancora oggi è affidata alla Compagnia di Gesù. Ad esempio, l’invito «meno cattedre, più tavoli senza gerarchie» o l’esortazione ad adoperare parole, sguardi e pensieri «disarmati» o la sottolineatura della necessità di una dottrina viva e non «prigioniera dentro a un museo», come pure di un insegnamento che sia «atto di misericordia» e mai qualcosa fatto «dall’alto in basso». Non sono mancati infine la messa in guardia dai rischi dell’intelligenza artificiale e l’auspicio di una «teologia della speranza», mentre «il mondo è in fiamme» e «la follia della guerra copre dell’ombra di morte ogni speranza».

Papa Bergoglio è stato salutato al suo arrivo di un lungo applauso e dai saluti del preposito generale della Compagnia di Gesù (oltre che vice gran cancelliere della Gregoriana), padre Arturo Sosa, e del rettore, padre Mark Lewis. Il primo ha fatto notare come «la ricerca scientifica porti alla comprensione più profonda della creazione e contribuisce ad aprire nuovi cammini alla fede che si impegna nella trasformazione della società umana per renderla più giusta, più solidale, e più rispettosa della creazione». Il rettore ha aggiunto che compito della Gregoriana, «università di tanti Papi», rimane sempre quello di «fornire una solida formazione intellettuale ai futuri ministri della Chiesa», con particolare attenzione a dignità umana, «dimensione sociale della fede», cura della casa comune, dialogo ecumenico e relazioni con le altre religioni.

Papa Francesco ha voluto innanzitutto invitare a tenere lo sguardo puntato sull’orizzonte. «Quando si cammina preoccupati solo di non inciampare si finisce per andare a sbattere. Ma vi siete posti la domanda su dove state andando e perché fate le cose che state realizzando? È necessario sapere dove si sta andando, non perdendo di vista l’orizzonte che unisce la strada di ciascuno sul fine attuale e ultimo».

Quindi ha messo l’accento sulla parola cura. «Questo è un luogo - ha ricordato il Pontefice - in cui la missione si dovrebbe esprimere attraverso l’azione formativa, ma mettendoci il cuore. Formare è soprattutto cura delle persone e quindi discreta, preziosa, e delicata azione di carità. Altrimenti l’azione formativa si trasforma in arido intellettualismo o perverso narcisismo, una vera e propria concupiscenza spirituale dove gli altri esistono solo come spettatori plaudenti, scatole da riempire con l’ego di chi insegna». A tal proposito ha raccontato anche l’aneddoto di quel professore che era talmente pieno di sé che alla fine gli studenti gli fecero trovare l’aula vuota e un cartello con su scritto: «Aula occupata dall’Ego smisurato. Nessun posto libero».

In sostanza nell’insegnamento bisogna metterci il cuore. E andare verso l’altro. Per questo il Papa ha anche richiamato la questione dell’IA. «State considerando l’impatto dell’Intelligenza Artificiale sull’insegnamento, sulla ricerca? Nessun algoritmo potrà sostituire la poesia, l’ironia, e l’amore; e gli studenti hanno bisogno di scoprire la forza della fantasia, del veder germinare l’ispirazione, di prendere contatto con le proprie emozioni, e di sapere esprimere i propri sentimenti».

Infine l’invito a «deporre le armi, mettere l’altro sullo stesso piano, per guardarlo negli occhi, disarmarsi, disarmare i pensieri, disarmare le parole, disarmare gli sguardi e poi essere alla stessa altezza per guardarsi negli occhi. Non c’è un dialogo dall’alto in basso. Solo così l’insegnamento diventa un atto di misericordia». E l’esortazione ad andare incontro agli ultimi, generando «sapienze che non possono nascere da idee astratte concepite solo a tavolino ma che guardino e sentano i travagli della storia concreta e il grido dei poveri».

Nell’Università Gregoriana, che attualmente ha 2.952 studenti - uomini e donne, religiosi e laici - di 121 Paesi, hanno studiato nel corso dei secoli 27 santi, 57 beati e 16 papi. Sono ex studenti dell’ateneo dei gesuiti anche il 36% del collegio cardinalizio e il 24% dei vescovi cattolici nel mondo.








Mercoledì, 06 Novembre 2024

Quanti siano i santi e le sante non lo sappiamo, perché solo Dio conosce in profondità la vita di tutte le persone. Però per molti uomini e donne che hanno testimoniato in maniera straordinaria le virtù cristiane, la Chiesa cattolica è sicura: sono al cospetto del Padre buono. Ma cosa bisogna fare per arrivarci? È la domanda al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste, il podcast dedicato ai temi della fede, ad approfondire in cosa crede chi crede.. Tra gli argomenti trattati in questo numero anche la differenza tra santi, beati, venerabili, e le tappe seguite dalla Chiesa per stabiilire che una persona è santa. Si parla inoltri di miracoli e di Disma, il buon ladrone crocifisso accanto a Cristo cui Gesù promette di portarlo con sé in Paradiso.

Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga sui temi della fede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, di Halloween e del suo presunto dualismo con la solennità di Ognissanti, dell’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.

Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Martedì, 05 Novembre 2024


I tanti pellegrini che arrivano fra le Dolomiti, a Canale d’Agordo, visitano la casa natale del beato papa Luciani come fosse una reliquia. E si fermano a pregare per la sua canonizzazione. Domenica scorsa si è celebrata la “festa del colmo”, perché si sono conclusi i lavori di restauro. La lapide marmorea all’ingresso dell’edificio spiega tutto. «Questa casa natale del beato Giovanni Paolo I – proprietà della famiglia Luciani e acquistata nel 2019 dal cardinale Beniamino Stella postulatore della Causa di canonizzazione – fu donata alla diocesi di Vittorio Veneto durante l’episcopato di monsignor Corrado Pizziolo. Restaurata con i contributi della Cei, del patriarcato di Venezia e di alcuni generosi benefattori fu inaugurata il 23 aprile 2022. Conclusi i lavori definitivi viene consegnata alla memoria dei visitatori oggi, 3 novembre 2024». E poco sotto un’invocazione: «Dal cielo ci guidi il suo preclaro esempio di umiltà e ci protegga la sua intercessione di mite e sollecito pastore».

È stato il vescovo Pizziolo a procedere alla benedizione, a ringraziare i benefattori, a guidare la preghiera per la canonizzazione del beato pontefice che è stato vescovo di Vittorio Veneto negli anni Sessanta del secolo scorso. Tra i presenti il cardinale Beniamino Stella, il vescovo di Belluno-Feltre Renato Marangoni, il vescovo emerito di Belluno-Feltre Giuseppe Andrich, ed anche alcuni parenti di Luciani, oltre a numerosi rappresentanti della comunità di Canale e della diocesi vittoriese.

Il vescovo Pizziolo ha pubblicamente ricordato l’impegno economico che ha toccato i cinquecentomila euro, di cui metà coperti dalla generosità del cardinale Stella, il 30% da benefattori vittoriesi, il resto dal patriarcato di Venezia e dalla Cei. «Quando il nuovo papa Giovanni Paolo I, il 3 settembre 1978, aveva accolto i vittoriesi all’udienza privata aveva esclamato: “Il primo amore non si scorda mai!”. E fu in effetti il primo amore quello che unì il nuovo pastore vittoriese alla sua gente, nella sua prima esperienza da vescovo. È bello quindi – così in un messaggio del sindaco di Canale Massimo Murer – che sia stata proprio la diocesi del suo “primo amore” a essersi presa cura del luogo in cui il beato Giovanni Paolo I era nato il 17 ottobre 1912».

Dopo la benedizione e lo scoprimento della lapide, la festa è continuata nella chiesa parrocchiale con il concerto della Piccola Orchestra Veneta, con la lettura di alcuni discorsi di Luciani. Particolarmente intensa l’omelia che, pochi giorni dopo l’ordinazione episcopale, Luciani aveva pronunciato in quella stessa chiesa, domenica 4 gennaio 1959: «Io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto».

Il cardinale Stella, che ha avuto Luciani come vescovo di Vittorio Veneto, è molto devoto di questo “Pastore”. «Abbiamo appena celebrato il Sinodo a Roma, abbiamo parlato del lavoro di collaborazione e del vivere insieme e credo che Luciani sia stato un precursore di questo aiutarsi e collaborare insieme. Vicinanza e prossimità erano le caratteristiche di questo vescovo. Noi guardiamo a lui cercando anche di seguire le orme perché ce n’è bisogno e gli chiediamo di darci pastori numerosi. Oggi vediamo i sacerdoti che lavorano, che corrono, con il fiato lungo e direi che dia, dal cielo, questa ispirazione ai giovani di abbracciare questo impegno di vita che è così importante per la guida del popolo di Dio».






Martedì, 05 Novembre 2024

"Sono entrato come parroco alla Madonna del Prato a luglio 2016. Un mese dopo c’è stato il terremoto e la chiesa è stata chiusa". L’incipit non è confortante eppure è proprio da queste premesse, consegnateci da don Fabrizio Cellucci, che comincia la storia della rinascita di un prezioso edificio artistico e sacro, oggi tornato a risplendere grazie ai fondi 8xmille.

Siamo a Gubbio, la città di pietra, il cui dedalo di strade spande a destra e a manca esempi di arte medioevale. Prima di avventurarcisi varcando le porte dell’antico borgo, però, sulla soglia a metà tra la città e la campagna, sorge la chiesa della Madonna del Prato, la cui sobria facciata di pietra locale palombina nasconde al visitatore una ricca decorazione interna e una cupola affrescata: una goccia di Barocco resa unica tanto per lo stile delle decorazioni, inconsuete in questa zona, quanto per la notorietà degli artisti che vi lavorarono, tra cui spicca la firma di Francesco Castelli detto il Borromini.

"La Madonna del Prato - ci guida Elisa Polidori, direttrice dell’ufficio Beni culturali della diocesi di Gubbio e del Museo diocesano - è una chiesa con una sola navata e due cappelline laterali; è stata eretta nel 1662 per volere del vescovo Alessandro Sperelli, sul terreno di proprietà delle Monache di Santo Spirito, in sostituzione di una chiesa precedente che si trovava in quell’esatta porzione di terreno". Per edificarla vennero chiamate maestranze di peso e si convinse del progetto persino un architetto del calibro del Borromini. "Della sua bellezza - spiega Polidori - colpisce soprattutto la cupola, che è un tripudio di vortici e virtuosismi realizzati dalle mani di Francesco Allegrini e del francese Louis Dorigny e che attraggono lo sguardo del visitatore verso il cielo".

Purtroppo la chiesa ha subito vari danni strutturali durante i terremoti del 1984, del 1997 e del 2016 che hanno interessato l’Umbria. "In particolare - ammette Polidori - il sisma del 2016 ha dato il colpo di grazia alla Madonna del Prato. Le pitture murarie, gli stucchi aggettanti e le sculture in gesso, che sono parti fondamentali per leggere un’architettura barocca, hanno subito lesioni e movimentazioni gravi. Non si prefigurava un restauro facile".

"Appena sono arrivato - continua la storia il parroco della Madonna del Prato, don Cellucci - ho pensato di avviare le operazioni di controllo sismico della struttura; avevamo appena cominciato e c’è stato il terremoto: con le scosse tutte le criticità sono venute a galla e abbiamo dovuto chiudere la chiesa per un lungo periodo". Le celebrazioni della comunità - un gruppo di circa 1.200 persone - si sono spostate in un vicino prefabbricato che era stato edificato fin dal 1984 e che, a intermittenza, ha supplito alle esigenze di culto e alle attività ecclesiali durante i periodi di inagibilità della parrocchiale. "I fedeli erano così abituati a questa situazione che, quando a luglio 2018, abbiamo annunciato il restauro della chiesa, quasi tutti erano disincantati: non lo credevano possibile. In effetti era un sogno e stavamo sognando davvero in grande". Il progetto - che prevedeva il rifacimento impianti di riscaldamento e di illuminazione, la rimessa in sesto dell’architettura dal punto di vista strutturale, il restauro e il consolidamento di 330 metri quadri di intonaci, stucchi e affreschi - si preannunciava titanico ma è riuscito grazie a una sinergia tra parrocchia e diocesi e soprattutto ai contributi 8xmille alla Chiesa cattolica. Per merito delle firme dei contribuenti che hanno espresso questa scelta in dichiarazione, infatti, ben 533mila euro hanno potuto essere destinati alla riqualificazione della Madonna del Prato. A questi soldi si sono aggiunti circa 250mila euro provenienti dai fondi per il terremoto messi a disposizione dalla Regione Umbria.
I lavori sono cominciati a ritmo serrato e dopo quattro anni, comprensivi di progettazione ed effettivo cantiere cui hanno partecipato numerose e qualificate maestranze, il 20 dicembre 2020 la nuova Chiesa della Madonna di Prato di Gubbio è stata inaugurata. Dal vecchio prefabbricato oggi tutte le celebrazioni e le attività parrocchiali sono tornate nella loro sede originaria e ogni anno gravitano intorno alla chiesa 12mila persone, tra cui figurano scolaresche e numerosi turisti per i quali sono a disposizione anche visite guidate. Per chi arriva alla Madonna del Prato in autonomia invece è stata messa a punto una guida interattiva scaricabile con un QR Code realizzato grazie al progetto di promozione culturale presentato dall’associazione locale Ars Sacra e anch’esso finanziato con fondi 8xmille.

"Il progetto di miglioramento della Madonna del Prato è stato condotto anche con l’obiettivo di ridurre le emissioni inquinanti e l’impatto ambientale - aggiunge don Cellucci -. L’impianto elettrico è stato predisposto con lampade led a basso consumo, il vecchio riscaldamento ad aria sostituito con pannelli radianti a pavimento e, non potendo installare il fotovoltaico sul tetto di un bene di valore storico-artistico, come parrocchia abbiamo optato per un contratto per la fornitura elettrica proveniente esclusivamente da fonti rinnovabili". Nell’ambito del restauro c’è stato spazio anche per un piccolo adeguamento liturgico con la progettazione di un nuovo altare e ambone. "Il recupero della Madonna del Prato ha un valore simbolico per la città di Gubbio perché questa chiesa è davvero un unicum per il territorio" commenta Polidori. Ma è anche un cambiamento radicale che interessa la comunità di fede che qui si riunisce. "Prima dei restauri - rivela il parroco - celebrando alla Madonna del Prato si provava affetto, ma anche precarietà. Oggi il restauro e l’adeguamento degli impianti rendono la chiesa un luogo sicuro che favorisce l’accoglienza e l’ascolto e finalmente permette di leggere e apprezzare i simboli e le decorazioni di cui questa chiesa è rivestita".

?





Martedì, 05 Novembre 2024

«Dio cammina con il suo popolo... verso casa»: il tema del messaggio di papa Francesco per la 110ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato diventa invito della Chiesa marchigiana a un pellegrinaggio significativo, il 10 novembre prossimo, alla Santa Casa di Loreto.

La proposta è della Conferenza episcopale marchigiana e dalla Commissione regionale Migrantes che invitano i fedeli a darsi appuntamento con i migranti che si trovano nei vari centri della regione, in piazza della Basilica a Loreto, per un momento di preghiera e di festa.

«Quando il 21 settembre 1950 - racconta l’arcivescovo e delegato pontificio di Loreto, Fabio Dal Cin - la statua della Madonna di Loreto, benedetta in Vaticano da Pio XII, giunse in Belgio tra i migrati italiani, venne accolta dai nostri connazionali come la “Patrona degli emigrati”» Nel 2020 papa Francesco ha inserito nelle litanie Lauretane l’invocazione di Maria “Conforto dei migranti”.

«Dove c’è la Madre - aggiunge Dal Cin - ci si sente a casa, capiti e compresi nelle più profonde aspirazioni. Nel pellegrinaggio i migranti presenti sul nostro territorio giungeranno alla Santa Casa di Maria portando nel cuore i loro desideri di dignità, di pane e di pace, e nella Casa di Maria dove Dio è venuto a chiedere ospitalità agli uomini, ravviveranno la loro speranza e fiducia nel Signore, riconoscendo il suo volto anche nei gesti di bontà che hanno ricevuto e continuano a ricevere nel loro pellegrinaggio migratorio».

La proposta è stata accolta con molto favore dai tanti gruppi di migranti, appartenenti a decine di etnie diverse e si prevede una vasta partecipazione. L’appuntamento, per tutti, il 10 novembre, è alle 10.45 in piazza della Basilica, con l’invito a raggiungere a piedi il centro mariano, percorrendo a piedi anche solo l’ultimo tratto di accesso alla città.

Alle 11 è prevista la visita alla Santa Casa, con la presentazione dei gruppi etnici e l’animazione con canti proposti dalle varie comunità.

Alle 11.30 la celebrazione eucaristica, presieduta da Dal Cin. Al termine i partecipanti di sposteranno nella vicina Casa del Pellegrino, dove la festa proseguirà con preghiere, canti, musica. Tutti i partecipanti sono invitati a condividere le specialità gastronomiche delle terre d’origine e anche a arricchire la presenza con le bandiere e i costumi della propria gente.

Secondo il dato più recente, relativo a inizio anno, i residenti stranieri in regione sono 134.000, con un’incidenza del 9% sul totale della popolazione regionale; quasi un terzo si è stabilito in provincia di Ancona, che registra la densità maggiore. L’incidenza della popolazione straniera sul totale dei residenti offre tuttavia un dato diverso: il valore più elevato si riscontra infatti nella provincia di Fermo, con quasi 11 stranieri ogni 100 residenti; la provincia di Ascoli Piceno presenta l’incidenza più bassa con 7 stranieri ogni 100 residenti. C’è, complessivamente, una leggera prevalenza femminile (51,8%), mentre i paesi maggiormente rappresentati sono la Romania (17,4%), l’Albania (10,5%) e il Marocco (7%). Per la maggioranza gli immigrati nelle Marche sono cristiani (il dato più recente si attesta sul 48%) mentre quelli di fede islamica sono il 36%. Un 6,2% degli stranieri è induista e buddista, mentre il 5,8% si dichiara ateo/agnostico.





Lunedì, 04 Novembre 2024

?«Ringraziamo la Rai per il suo prezioso servizio. Quanto è importante presentare il mondo, la vita vera, non banalizzarla, farla conoscere, aiutare a capire e sconfiggere l’ignoranza con una conoscenza vera, profonda dell’umano e dell’umanità, del creato e delle creature e quindi, sempre, anche del creatore. Farlo richiede e esprime professionalità, creatività, rigore, servizio per fare conoscere e capire».

Lo ha detto domenica mattina nella sua omelia il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in occasione della Messa per i 70 anni della televisione, i 100 anni della radio e i 70 della trasmissione della Messa celebrata nella Basilica di Santa Maria in Trastevere a Roma.

Evento ricordato anche dall’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, Giuseppe Baturi durante la trasmissione «A Sua immagine» su RaiUno condotto da Lorena Bianchetti.

«L’ethos nazionale non sarebbe lo stesso, il nostro Paese non sarebbe lo stesso e noi tutti non saremmo gli stessi, senza questi 70 anni di televisione», ha proseguito Zuppi nella sua omelia: «Un’intera generazione non sarebbe uscita dall’analfabetismo senza la televisione e l’Italia sarebbe stata meno unita senza questo immaginario comune che crea anche quel tanto che ci unisce. Guai a dividerlo o indebolirlo, a fare qualcosa di parte quello che è di tutti».

Il cardinale ha poi ricordato che «i tempi sono cambiati, l’intelligenza artificiale apre frontiere straordinarie, alcune inquietanti perché spesso non ha ‘fasce protette’ con i tanti rischi per un immaginario che condiziona e può diventare oppressione e distorsione ma la tecnologia che progredisce continuamente chiede proprio quel "di più" di valore che il servizio pubblico ha come impegno primario, proprio perché pubblico, per tutti, libero da motivi commerciali e interessi di mercato, per aiutare il senso del bene comune, per riannodare il gusto per i legami e per il dialogo in un tempo luccicante di like e di comunanze superficiali e di pollici abbassati, di linguaggi aggressivi, di amici senza amicizia e di nemici che si condannano senza conoscerli».

E poi l'augurio finale: «Siate davvero amici della vita con sapienza e tanta umanità vera e non finta - ha detto Zuppi -, per regalare prossimità e vicinanza, unione e appartenenza, specialmente a chi vive situazioni di isolamento o di vera e propria solitudine».





Lunedì, 04 Novembre 2024

Un «cantico d’amore» controcorrente. Per testimoniare e lodare la «bellezza originale» di una Chiesa «sempre santa e sempre peccatrice». Che «mentre offre il suo servizio è guardata con sospetto». E mentre, con «amore tenace», «continua a curarsi dei più fragili e poveri», è «circondata dall’indifferenza, dall’ottusità, dalla stupidità dei ricchi e dei potenti». Nella festa di san Carlo Borromeo, compatrono della diocesi di Milano, l’arcivescovo Mario Delpini dà voce al suo predecessore e intona un «cantico d’amore» per la Chiesa ambrosiana e per la Chiesa universale, e per lo «spettacolo» di un’unità che non è mai omologazione ma armonia di differenze, come il Sinodo dei vescovi appena concluso (e che aveva Delpini fra i partecipanti) ha dimostrato.

È nell’omelia della Messa presieduta lunedì 4 novembre alle 17,30 in Duomo che Delpini ha provato a «esprimere i sentimenti» di san Carlo «verso la Chiesa». In molti modi egli intonò quel «cantico d’amore»: «con le sue prediche, anche quelle noiose, con i suoi provvedimenti, quelli lungimiranti e quelli del puntiglio, con le sue lacrime e la sua dedizione tenace, infaticabile fino all’esaurimento». Ebbene: qual è il «principio generatore» di «un’opera così straordinaria come quella dell’applicazione del Concilio di Trento alla riforma della Chiesa?». Non «il volontarismo» ma «l’amore appassionato per Gesù e la condivisione del desiderio di Gesù di rendere bella, santa, immacolata la sua Chiesa». Ed è per lei, «la Sposa dell’Agnello», ed è «perché sia santa e immacolata» che Gesù, «lo Sposo, dà la vita», scandisce Delpini – che prima della Messa si è raccolto in preghiera nello Scurolo di San Carlo, la cappella sotterranea nella quale è custodito il corpo del compatrono.

Ecco: «io canto della bellezza originale dello spettacolo della Chiesa universale», di questa moltitudine di uomini e donne di «ogni lingua, popolo, nazione – com’è stato con l’Assemblea sinodale appena conclusa – convocati e contenti di edificare il corpo di Cristo – ha esclamato Delpini –. Canto la fierezza e lo stupore perché in nessun luogo della terra, in nessuna istituzione degli uomini si dà questo convergere in comunione, per un servizio volonteroso e paziente». E poi: «canto della bellezza della comunione», «radunata dallo Spirito» e «frantumata dai puntigli e dai risentimenti, dalle incomprensioni e dalle ferite antiche», e «canto della moltitudine immensa delle persone che edificano la comunità, dei preti dedicati, dei santi della porta accanto, di quelli “che ci sono sempre” e sono anche capaci di lasciare il posto perché altri si facciano avanti mentre questi santi senza pretese continuano ad amare, servire, pregare».

E poi: «continuo a cantare di questa folla di uomini e donne – scandisce il presule – che prova simpatia per l’umanità ed è ricambiata dall’antipatia e dal disprezzo. Continuo a cantare di quella pazienza e mitezza della comunità che continua ad amare e servire tutti, anche coloro che si sentono in diritto di criticare e pretendere. Continuo a cantare di quella misericordia che prova compassione dell’umanità ferita e avverte di essere compatita e disprezzata». Ancora: «canto la bellezza di quest’opera prodigiosa della riforma della Chiesa» e «di questa stupefacente disponibilità a riconoscere i suoi peccati e a cercare in ogni tempo percorsi di rinnovamento, dentro un’umanità che più che convertirsi trova giustificazione ai suoi delitti... Canto dell’umiltà della Chiesa peccatrice. Canto del suo cammino verso la Gerusalemme del cielo».






Sabato, 02 Novembre 2024

«Non correte il terribile rischio che, per essere del tutto cristiani, diventate disumani». Il paradosso colpisce come uno schiaffo e costringe a rileggere due o tre volte: ma come, essere super cristiani ci può rendere disumani? Sono seicento le citazioni di questa potenza raccolte nel volume “Don Oreste Benzi. Aforismi, aneddoti e provocazioni” (Editore Sempre) da Elisabetta Casadei, teologa e postulatrice della causa di beatificazione del sacerdote di Rimini morto proprio il 2 novembre, nel 2007. Un libro snello, di quelli da comodino o da portare in borsa, con le seicento frasi che “si mangiano come le ciliegie”, in ordine o aprendo le pagine a caso, come gli antichi facevano con le “sortes” per lasciarsi guidare. «E’ un volumetto per camminare con un amico affidabile», dichiara l’autrice in prefazione, anzi, per trovare nei momenti difficili « un post dal Cielo» firmato da don Oreste e «con il solito post scriptum con cui terminava gli incontri: Dai! Ci stai?».

Si parla di amore e dolore, carriera e fallimento, politica e battaglie sociali, santità e incoerenza, giovani e solitudine, errore e redenzione (un ricco indice analitico aiuta e trovare gli aforismi dedicati ai vari temi), e il risultato è – per dirla con l’autrice – «uno scrigno di perle e di sberle», frasi affascinanti o scomode, colpi d’ala per gioire o ceffoni per darsi una mossa. Il tutto nello stile del prete romagnolo (fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII), ovvero senza mai puntare il dito, anzi, ricordando che «l’uomo non è il suo errore» (uno dei suoi più celebri aforismi), che «nessuna donna nasce prostituta, c’è sempre qualcuno che ce la fa diventare», e ancora che «dove c’è una persona arrabbiata o violenta, c’è sempre un cuore ferito. Sempre!».

Dunque l’antidoto che disarma rabbia e violenza è trattarle con amore, affermazione, questa, per nulla sdolcinata, basata sull’esperienza di un prete che in 42 nazioni ha creato 6.000 strutture di accoglienza per gli ultimi tra gli ultimi e gli scarti degli scartati. «Ho la convinzione profonda che nella misura in cui l’altro si sente amato smette di essere aggressivo», scrive infatti. Più che chi ha sbagliato, teme i giudici inflessibili (in fondo i “super cristiani” dell’inizio), cui non le manda a dire: «Quando vi sentite sicuri e distinguete molto bene fra i buoni e i cattivi, cominciate ad avere paura di voi stessi, perché forse non c’è un posto dove mettervi». Nelle sue centinaia di case famiglia ha accolto tutti senza distinzione, purché avessero bisogno, drogati e carcerati, malati e anziani soli, senzatetto e viados, vittime e sfruttatori: «Una volta ho chiesto a dei carcerati “che differenza c’è tra Padre Pio e voi?”. Nessuno sapeva rispondere. La dignità ci viene dal fatto che siamo figli di Dio! Padre Pio è vissuto da figlio di Dio ma la sua dignità non gli viene dalla sua santità. Avete sbagliato, ma c’è dentro di voi la grandezza di essere figli di Dio. Ecco perché siamo contro la pena di morte, l’ergastolo, la vendetta».

La sua logica è schiacciante, dietro l’aspetto bonario ci sono il cervello e la profonda cultura del teologo che però sa sporcarsi le mani, come scrive a proposito del rapporto imprescindibile tra la formazione e la vita concreta: «La formazione è quando ci sei dentro fino al collo. Esistono scuole di teologia molto valide, ma bisognerebbe fare sei mesi di studio e sei di condivisione», dichiara senza con franchezza. D’altra parte la “condivisione diretta” è il concetto base su cui si fonda l’agire quotidiano della sua Comunità sparsa nel mondo: «Dare da mangiare agli affamati, come dice il Vangelo, anzi, imboccarli, è l’atto più bello. Ma come fai a imboccarli? O vai tu a mangiare alla mensa (dei poveri) o li fai venire a casa tua. Vestire l’ignuno vuol dire che sei tu che devi vestirlo, non gli devi semplicemente mandare un container di pantaloni». Di nuovo logica stringente. E pure profetica, scritta anni prima che un neo eletto papa Francesco ci provocasse chiedendoci se, quando diamo l’elemosina, tocchiamo la mano del mendicante o stiamo attenti a far cadere la moneta senza contatti: «Stringi la mano al povero almeno una volta alla settimana», è il precetto di don Oreste.

Prete di tutti («Là dove è l’uomo, lì deve esserci il prete. Non può chiudersi nelle sacrestie, deve essere segno che orienta un cammino»), va sui marciapiedi notturni, nelle carceri, nelle discoteche, sulle panchine delle stazioni, dove la speranza è la prima a morire. Per questo lo criticano e lo fraintendono, ma lui ricorda che «La morale cristiana non è un insieme di regole ma una relazione d’amore» e che «Mi si rimprovera che vado nei locali dove sono esaltati certi comportamenti aberranti, ma non facciamo gli ipocriti, è il luogo che rende perverso l’uomo o è l’uomo che rende perverso il luogo? È a loro che il Signore mi manda. Spero che prima di morire il Signore mi faccia la grazia di andare in tutte le discoteche». Conosce bene la solitudine di tanti giovani privi di una guida: «Quanti ce ne sono di orfani con i genitori vivi!», e ancora «I figli non ascoltati diventeranno certamente disadattati e non sapranno più con chi parlare», così li va a cercare, se serve anche nei loro inferni, dove non servono prediche ma esserci, anche in silenzio: «I giovani, prima che stare a sentire, guardano cosa tu vivi». Esattamente come chi soffre e muore senza la fede: «Come si fa a parlare del dolore a chi non crede? Non si parla. Si vive a fianco».

Di fronte al dramma dell’aborto, poi, mette a nudo l’ipocrisia di una «società degenere, che finge di preoccuparsi dei malati e dei disabili, ma fa di tutto per ucciderli prima che nascano». Un misfatto ancora più atroce alla luce di un altro aforisma fulminante: «L’uomo è una parola irripetibile di Dio», ha una sola occasione.

La vera cura – l’amore – guarisce anche le persone così disabili da non saper fare nulla, i figli prediletti nelle sue case famiglia. Così spiega ciò che a tanti appare un mistero: «Noi accogliamo coloro che non abbiamo generato fisicamente non per curarli e istruirli, ma perché Dio li ama e ce li dona. Andiamo anche in capo al mondo per curarli e istruirli, ma li teniamo con noi anche se sono irrecuperabili». Don Benzi non si accontenta della carità, vuole la giustizia, la rivoluzione. Chiede che si aiutino le persone crocifisse ma intanto si distruggano le croci e chi le costruisce: «Non dobbiamo parlare di affamati ma di chi affama, non di oppressi ma di chi opprime. La devozione senza la rivoluzione non serve a niente». Su questa linea, allora, chi sono i barboni? «La gente risponde “i senza casa”. No: i barboni sono quelli che stasera non vogliamo nella nostra casa a dormire»... Come scrive ironicamente l’autrice, “Don Oreste non è proprio quel genere di preti che vorresti come santo della porta accanto, poiché ogni giorno (e anche di notte!) potrebbe succedere di tutto. Del tipo presentarsi all’uscio, come nulla fosse, con in braccio due bambini (di cui uno naturalmente disabile) e fissarti con quegli occhioni candidi, sotto il colbacco nero; o baby prostitute accompagnate dalla polizia in piena notte; o zingari accampati sul pianerottolo, solo per citare i casi più probabili...”.

Per dirla con don Oreste, «con i santi è una grande fatica stare, si sta meglio con i peccatori!», ma lui si metteva tra questi ultimi.





Lunedì, 04 Novembre 2024

Anche se non esiste tribunale che abbia il potere di infliggerla, una delle peggiori pene cui una persona può essere condannata, è l’indifferenza. Capita quando ci si sente dimenticati, messi da parte, invisibili. Una triste consapevolezza che pur in modi differenti colpisce a tutti i livelli e che diventa particolarmente grave quando si accompagna a una condizione di sofferenza e povertà. Non a caso il Papa mette in guardia dalla globalizzazione dell’indifferenza, l’atteggiamento per cui in nome del profitto ci si dimentica degli altri. Il cristiano però dev’essere diverso, sente il bisogno, sulla scia del Vangelo, di farsi piccolo tra i piccoli, privilegiando proprio i dimenticati, gli esclusi. E quest’impegno di servizio va vissuto il più possibile nella gioia e nell’ascolto dei bisogni degli altri. Vuol dire essere gentili, rispettosi, attenti con chiunque incrociamo sulla nostra strada: «la vostra affabilità – dice san Paolo ai Filippesi – sia nota a tutti». Uno stile, una risposta alla chiamata di Dio che san Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), apostolo della carità, ha vissuto ogni giorno della sua esistenza, e che testimonia in questa preghiera (conosciuta non a caso come "preghiera dei Vincenziani"), quasi un manifesto del suo amore a Dio e all’umanità.

«Signore, fammi buon amico di tutti,
fa' che la mia persona ispiri fiducia
a chi soffre e si lamenta.
A chi cerca luce lontano da te,
a chi vorrebbe cominciare e non sa come,
a chi vorrebbe confidarsi e non se ne sente capace.
Signore aiutami,
perché non passi accanto a nessuno
con il volto indifferente, con il cuore chiuso,
con il passo affrettato.
Signore, aiutami ad accorgermi subito
di quelli che mi stanno accanto,
di quelli che sono preoccupati e disorientati,
di quelli che soffrono senza mostrarlo,
di quelli che si sentono isolati senza volerlo.
Signore, dammi una sensibilità
che sappia andare incontro ai cuori.
Signore, liberami dall'egoismo,
perché ti possa servire,
perché ti possa amare,
perché ti possa ascoltare,
in ogni fratello che mi fai incontrare».





Domenica, 03 Novembre 2024

Quale immagine di Chiesa emerge dal Sinodo, concluso da papa Francesco lo scorso 27 ottobre? Per rispondere a questa domanda ricorro alle tre espressioni collegate al tema Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. La comunione è stata anzitutto quella sperimentata durante l’assemblea fra vescovi, presbiteri, consacrati e laici, uomini e donne provenienti da ogni parte del mondo, che si sono ritrovati a vivere uno scambio ricchissimo di riflessioni e di esperienze alla luce dell’unica fede e dello stesso amore a Cristo e alla Chiesa. Vari aspetti della comunione sono stati richiamati nel Documento finale: la sua origine dalla Trinità, il suo attuarsi in Cristo mediante lo Spirito Santo, la sua sorgente nell’Eucaristia, la sua espressione a vari livelli, fra i fedeli, le Chiese e i pastori, il ruolo del Successore di Pietro al servizio di questa multiforme comunione, quale «perpetuo e visibile principio e fondamento» dell’unità della Chiesa (cf. n. 16. 18 e 31). Anche il valore ecumenico di questa comunione è stato richiamato (cf. n. 40 e 137), col riferimento specifico ai recenti dialoghi intessuti con le altre Chiese e comunità ecclesiali sulla sinodalità e il suo rapporto al primato del Vescovo di Roma.

La comunione non si realizza, però, senza un’attiva partecipazione di tutti i membri del popolo di Dio, ciascuno secondo i carismi ricevuti e il ministero che gli è stato affidato: uniti nell’amore che viene dall’alto, i battezzati formano un popolo in cammino, dove a ognuno è chiesto di mettere al servizio di tutti quanto gli è stato dato. La Chiesa - afferma il Documento - «riceve da Cristo il dono e la responsabilità di essere il lievito efficace dei legami, delle relazioni e della fraternità della famiglia umana, testimoniando nel mondo il senso e la meta del suo cammino. Assume oggi questa responsabilità in un tempo dominato dalla crisi della partecipazione - cioè del sentirsi parte e attori di un destino comune - e da una concezione individualista della felicità e della salvezza» (n. 20). Di fronte a questo scenario, il Sinodo rilancia il valore della partecipazione di tutti, fondata sulla diversità dei doni e dei servizi: «È emersa l’aspirazione ad ampliare le possibilità di partecipazione e di esercizio della corresponsabilità differenziata di tutti i battezzati, uomini e donne” (n. 35). In questa luce una particolare attenzione è data ai vari organismi di partecipazione nella Chiesa locale, come a livello universale (nn. 87-94). Sulla partecipazione più ampia delle donne ai processi decisionali nella Chiesa, oggetto di una larga attesa, il Documento non va al di là di un auspicio, segnalando un bisogno di approfondimento (cf. n. 60). Il richiamo ad una maggiore corresponsabilità riguarda, comunque, tutti i battezzati (cf. n. 77).

È, infine, il tema della missione a permeare l’intero Documento: «La sinodalità non è fine a sé stessa, ma mira alla missione che Cristo ha affidato alla Chiesa nello Spirito... Sinodalità e missione sono intimamente congiunte» (n. 32). Certo, la missione non può attuarsi in una forma univoca, ma va adattata alle attese e alle sfide con cui viene a incontrarsi: «La chiamata al rinnovamento delle relazioni nel Signore Gesù risuona nella pluralità dei contesti in cui i Suoi discepoli vivono e realizzano la missione della Chiesa. Ciascuno di questi contesti ha peculiari ricchezze di cui è indispensabile tenere conto, legate al pluralismo delle culture” (n. 53). In particolare, «l’ascolto di chi patisce esclusione ed emarginazione rafforza la consapevolezza della Chiesa che fa parte della sua missione farsi carico del peso di queste relazioni ferite perché il Signore, il Vivente, le risani» (n. 56). Tutto questo esige una speciale attenzione al discernimento da operare: «Prevedendo l’apporto di tutte le persone coinvolte, il discernimento ecclesiale è allo stesso tempo condizione ed espressione privilegiata della sinodalità, in cui si vivono insieme comunione, missione e partecipazione. Il discernimento è tanto più ricco, quanto più tutti sono ascoltati» (n. 82). Molteplici i campi di impegno che vengono richiamati: dalla difesa della vita e dei diritti della persona al servizio del giusto ordinamento della società, dalla dignità del lavoro all’azione in favore di un’economia equa e solidale, dall’ecologia integrale alla missione evangelizzatrice, che la Chiesa è chiamata a vivere e incarnare nella storia (cf. n. 151).

Infine, nell’omelia della Messa conclusiva del Sinodo papa Francesco - che ha dichiarato di non voler scrivere un’esortazione post-sinodale, ma di accettare questo documento come il frutto del Sinodo da offrire a tutta la Chiesa - lancia un appello a continuare sul cammino della sinodalità, senza stanchezze e senza paura. La Chiesa che ha detto di sognare non è «una Chiesa seduta, ma una Chiesa in piedi. Non una Chiesa muta, ma una Chiesa che raccoglie il grido dell’umanità. Non una Chiesa cieca, ma una Chiesa illuminata da Cristo che porta la luce del Vangelo agli altri. Non una Chiesa statica, ma una Chiesa missionaria, che cammina con il Signore lungo le strade del mondo» (domenica 27 ottobre 2024). Nella visione del Papa, insomma, il Sinodo non termina qui, ma deve andare avanti come stile di vita e processo necessario, a cui nessuno ha il diritto di sottrarsi: e l’esperienza di sinodalità vissuta dai circa quattrocento partecipanti intorno a Lui diventa un modello da realizzare nei più diversi contesti, con l’apporto di tutti, nessuno escluso.

Arcivescovo di Chieti-Vasto padre sinodale eletto dalla Conferenza episcopale italiana






Sabato, 02 Novembre 2024

Dialoghi aperti e senza schemi precostituiti, domande che vanno al cuore dell’esistenza, racconti che testimoniano cosa tiene in piedi la vita quando la vita traballa. I giovani chiedono, otto preti rispondono. Evitando di ricorrere a dotte citazioni o di riproporre teorie, ma mettendosi in gioco personalmente. Il format è insolito, l’hanno chiamato “Con tutto il nostro umano”, si rivolge a un pubblico di giovani chiedendo loro di non essere semplici spettatori ma di interagire con i sacerdoti chiamati a portare la loro testimonianza. E a raccontare come fanno i conti con le domande sulla vita che in un tempo di crisi come quello che attraversiamo sono diventate ancora più brucianti e che li sfidano ad andare alla radice della loro vocazione. Accade a Milano, mettendo a confronto ogni volta due preti che affrontano un tema con due prospettive differenti. Si comincia il 4 novembre con “Bibbia vs social, la Parola e il like”, con Franco Manzi, biblista noto per i suoi studi su San Paolo, e Alberto Ravagnani, scrittore e molto popolare sui social. Seguiranno “Cappuccino vs Domenicano: l’affetto e la ragione” con Roberto Pasolini, cappuccino biblista noto per le sue predicazioni, e Marco Rainini, domenicano e storico della Chiesa (16 dicembre); “Tradizione vs Cambiamento: i primi secoli e l’era post-cristiana” con Carlo De Marchi, educatore dell’Opus Dei appassionato di letteratura, e Pierluigi Banna, docente di patrologia e cresciuto nel movimento di Cl (7 aprile 2025); “Beccaria vs Liturgia: il peccato e il perdono” con Claudio Burgio, cappellano al carcere minorile Beccaria di Milano, e Norberto Valli, liturgista esperto di rito ambrosiano (19 maggio). Sede degli incontri, promossi dall’associazione Kayros, sarà il Centro Culturale di Milano.

«Per molti giovani i preti sono marziani, gente che vive su un altro pianeta, io ne ho conosciuti due che hanno lasciato un segno importante nella mia vita, mi interessa dialogare su cosa è stato decisivo per la vocazione e cosa c’entra la fede con la vita - racconta Stefano, uno dei giovani che promuove l’iniziativa -. Abbiamo pensato a una formula interattiva e coinvolgente: realizziamo alcuni video che presentano impressioni raccolte tra i coetanei, offriamo un QRcode per inviare domande durante gli incontri, che potranno essere seguiti in live su un canale Instagram (contuttoilnostroumano) e nel quale presentiamo gli otto preti e raccogliamo testimonianze tra la gente». Anche Lidia è tra i promotori: «Mi interessa capire come si sono accorti che Dio li chiamava, penso che Dio chiama tutti ma ciascuno per nome, ognuno viene raggiunto con una modalità particolare. Anche la preparazione degli incontri si sta rivelando per noi un’esperienza affascinante: siamo giovani con storie e sensibilità diverse ma accomunati da domande sull’esistenza che chiedono risposte verificabili nella pratica quotidiana, non considerazioni accademiche, riflessioni spirituali o formule astratte che non servono per vivere».

I sacerdoti racconteranno come vivono la gioia e la fatica del loro impegno, l’esperienza del fallimento, la paura di non farcela, l’incomprensione delle scelte da parte dei superiori. Un dialogo con uomini che si mettono in gioco con tutto il loro umano e raccontano come si incontra Dio attraverso le più diverse circostanze, per scoprire ciò per cui siamo fatti: “What I was made for”, come recita il titolo della celebre canzone di Billie Eilish scelto per accompagnare il lancio dell’iniziativa.





Sabato, 02 Novembre 2024

Aprile 2021. “Non so se hai saputo di Nadia. È stata aggredita l’altra notte in casa in Perù, ma non si sa da chi. Ha una frattura al cranio e oggi la operano a Lima. Purtroppo non ci sono altre notizie. (…). Nadia non ce l’ha fatta. Preghiamo che salga veloce vicino al cuore di Dio”. Ottobre 2024. “Sammy Basso è morto. È stato chiesto al Vescovo di presiedere il suo funerale”. Messaggi che cambiano la vita per sempre, oltre che la giornata. Nadia De Munari, cresciuta nella periferia di Schio, è stata missionaria in Perù dell’Operazione Mato Grosso per 20 anni. Quando nessuno voleva aprire la comunità a Nuevo Chimbote disse a padre Ugo De Censi: “Se vuoi, vado io”. Queste sue parole piene di coraggio e libertà sono rimaste quasi come un testamento. Sammy Basso, scienziato e ricercatore vicentino affetto da progeria. Per tutti noi che l’abbiamo conosciuto era semplicemente Sammy, uno dei nostri ragazzi che ha fatto della sua croce, un punto di forza per raccontare al mondo che chi ha disabilità, malattie o semplicemente è diverso dallo schema che abbiamo, può essere una risorsa. Sammy è vita, ancora oggi, quasi un mese dopo l’ultimo “scherzo” che ci ha fatto, perché Sammy era “nostro”, ma ora è realmente di tutti. Era la coscienza. Niente di meno, ma del resto non poteva che essere quello il suo ruolo. Gli si voleva bene e basta, come alle persone migliori, alle quali basta un secondo per affascinare profondamente chiunque.

Nadia e Sammy. Cinque lettere più cinque. Una storia più un’altra. Bellissime. La storia di Nadia è stata purtroppo il mio primo comunicato stampa, perché “tu la conoscevi, sei cresciuta nella stessa parrocchia e conosci l’Operazione Mato Grosso”. Sammy, purtroppo, il mio primo vero funerale mediatico con il ruolo di ufficio stampa della diocesi. Lucidamente, per grazia, non per merito, in entrambi i casi mi sono trovata in una situazione di continuo discernimento. Con un’impressione, fisica, molto forte: stare su una soglia. Da una parte il diritto di cronaca, dall’altra il bisogno di tutelare famiglie con un enorme dolore. L’urgenza di comunicare nel modo migliore possibile vite che meritavano di essere restituite nella loro bellezza e insieme la fatica di trovare la misura per rispettare il lutto. La soglia è sempre uno spartiacque. Segna un prima ed un dopo, è tra una possibilità ed un’altra. È una scelta precisa, ma anche uno stile di vita, la possibilità di esserci, di essere pronti, vigilanti, attenti. Ma può anche diventare una specie di bolla nella quale si resta, inermi o pavidi, mentre la vita continua.

Ma un giornalista non può rimanere solo a guardare perché qualcosa deve “produrre”. Che sia cronaca, analisi, riflessione, un pezzo deve saltar fuori. E il lutto, soprattutto quello di un figlio, è uno spazio particolare. Per chi fa il nostro lavoro è un banco di prova nel quale ripensare – insieme ai colleghi - le notizie e i dettagli da raccontare, ma qual è il limite, la vera soglia entro cui rimanere per essere fedeli alla professione senza scadere nel voyerismo? Cosa significa darsi un limite oppure varcare una soglia senza essere invadenti? Abbiamo a che fare con le persone, non solo con numeri, ma come mettere in circolo la nostra umanità e custodire l’umanità di chi incontriamo? Non pare essere solo una questione etica, tantomeno solo di fede cristiana, quanto piuttosto la ricerca dell’umano che, forse, abbiamo perduto, e il desiderio di affrontare situazioni complesse con un approccio diverso. Quasi facendo un passo indietro, che non è di rinuncia, ma di delicatezza.

Stare sulla soglia e attendere il momento opportuno può significare arrivare secondi. Ma secondi nel lancio di una notizia, vuol dire arrivare primi nella relazione e nella vita. È attendere i tempi dell’altro. Mi tornano in mente le donne ai piedi della croce. Stare e condividere, com-patire e raccogliere con tutta la delicatezza e la discrezione del caso, ciò che viene condiviso. Ogni volta è stato come toccare la luce di una vita bellissima, che lascia un’eredità importante a chi resta. Non solo a chi ha conosciuto direttamente quella vita, ma anche a chi la conoscerà dopo. Arrivare dopo o con più calma, permette forse di poter davvero vedere una luminosità che la fretta nasconde perché va cercata, contemplata e amata. E per amare e servire l’Amore serve il tempo giusto.

Giornalista e responsabile dell'ufficio stampa della diocesi di Vicenza?






Sabato, 02 Novembre 2024

Wambrechies, comune francese di 9mila abitanti nella regione dell'Alta Francia, tra Lille e Roubaix. Uno sconosciuto entra nella bella chiesa parrocchiale dedicata a san Vaast, vescovo del V secolo, si dirige verso la statua di sant’Antonio di Padova, nella navata di sinistra, e dietro ad essa appoggia, ben nascosti alla vista, due lingotti d’oro del valore complessivo di oltre 150mila euro. Poi esce e telefona al parroco, Dominique Lemahieu, dicendogli che dietro l’effigie del santo taumaturgo troverà dell’oro. Il sacerdote pensa a uno scherzo, poi va a verificare e si rende conto che la faccenda è seria. Nel biglietto, anonimo, legge che i lingotti sono da consegnare al Comune, da usare per il completamento dei lavori di restauro della chiesa.

L’episodio più che singolare è avvenuto lo scorso luglio, ma è stato divulgato solo a fine settembre quando il consiglio comunale di Wambrechies ha votato la delibera per accettare la misteriosa donazione. In Francia nel 1905 con la legge di separazione fra Chiesa e Stato le chiese esistenti divennero proprietà dei comuni – a eccezione delle cattedrali che divennero proprietà dello Stato – ai quali da allora tocca farsi carico degli oneri di proprietà, tra cui i lavori di restauro. Per la chiesa neogotica di Wambrechies sono già stati eseguiti interventi sulle navate laterali e sul coro – anche per sanificarla da un fungo infestante – ma manca la navata centrale e soprattutto fino a un paio di mesi mancavano i soldi. Il vuoto da colmare era stimato tra i 120mile e i130mila euro, quindi i lingotti “piovuti dal Cielo” lasceranno in cassa anche un surplus di almeno 20mila euro.

Quello di Wambrieches non è l’unico soccorso inatteso e anonimo avvenuto recentemente. Sempre a settembre Sylvain Lelièvre, attuale sindaco di Saint-Hilaire-La-Croix, picolo comune di poco più di 300 abitanti nel dipartimento del Puy-de-Dôme, a una quarantina di chilometri da Clermont-Ferrand, è stato convocato da un notaio del posto. Il quale gli ha comunicato che il suo predecessore, Jean-Claude Habrial, sindaco molto amato, eletto per la prima volta nel 1995, morto la scorsa estate, aveva deciso di lasciare tutti i suoi averi al Comune, tra cui alcuni appartemeti e un terreno edificabile, per un valore stimato tra i 600mila e gli 800mila euro. Habrial non era sposato e non aveva figli. E nel lascito ha messo una clausola: i suoi beni dovranno servire a completare il restauro della piccola chiesa di Saint-Hilaire-La-Croix, intitolata a Santa Maddalena, un piccolo gioiello dell'arte romanica costruita nel XII secolo che Habrial sognava di riportare al suo antico splendore. Fino all’ultimo aveva organizzato visite guidate per sensibilizzare gli abitanti e non solo a quel patrimonio di arte e fede. «Jean-Claude era così, pensava sempre agli altri e al suo paese. Era attaccato alle sue radici e alla sua chiesa. Non lo dimenticheremo presto!» ha commentato l’accaduto un’anziana di Saint-Hilaire-La-Croix.

Dalla Francia alla Spagna. Nella diocesi andalusa di Almería, agli inizi di settembre, il vescovo Antonio Gómez Cantero ha informato tutti i fedeli che la vendita dello storico edificio del Seminario era stata bloccata. La decisione di dismettere il palazzo aveva incontrato l’opposizione quasi unanime del consiglio presbiterale – sia perché avrebbe compromesso l’esistenza stessa di un seminario per la Chiesa di Almería, il motivo principale, sia per il timore di una svendita dell’immobile – ma era stata ritenuta necessaria da Gómez Cantero per far fronte alle difficoltà economiche della diocesi, ossia un debito complessivo superiore ai 20 milioni di euro. Un uomo d’affari esterno alla comunità ecclesiale di Almería, che ha voluto tenere celata al pubblico la sua identità, è però venuto incontro alla diocesi offrendole una cifra non quantificata ma molto sostanziosa, tale da permetterle - grazie anche ad altre circostanze favorevoli - di ritirare il Seminario dal mercato.





Sabato, 02 Novembre 2024

Il mese di novembre è tradizionalmente legato alla commemorazione dei defunti. Anche chi non è solito frequentarli durante il resto dell'anno, va al cimitero, prega con più intensità per i cari già passati all'altra vita, programma Messe in loro suffragio. Succede soprattutto il 2 novembre, non a caso nella dicitura popolare il "giorno dei morti": In realtà la Chiesa ricorda in ogni Eucaristia chi ci ha già preceduti nell'incontro con il Signore ma in questo periodo la loro memoria è più forte e sentita.

Perché si prega per i defunti?

Sembra un paradosso ma non lo è per niente. Si prega per i morti per celebrare la vita, perché li si crede vivi nel Signore, per accompagnarli nel cammino di avvicinamento a Lui. Con la preghiera, infatti si aiutano le anime alle prese con un itinerario di purificazione. Parliamo del Purgatorio che il Catechismo della Chiesa cattolica definisce «lo stato di quanti muoiono nell'amicizia di Dio, ma, benché sicuri della loro salvezza eterna, hanno ancora bisogno di purificazione, per entrare nella beatitudine celeste». E aggiunge: «ln virtù della comunione dei santi, i fedeli ancora pellegrini sulla terra possono aiutare le anime del purgatorio offrendo per loro preghiere di suffragio, in particolare il Sacrificio eucaristico, ma anche elemosine, indulgenze e opere di penitenza». Tuttavia, al di là di queste motivazioni teologiche alla base della commemorazione dei defunti ci sono anche ragioni spirituali al limite dello psicologico. Pregare per i morti vuol dire infatti credere che esiste una vita oltre a questa, che incontreremo il Signore, che esiste un legame diretto tra la terra e il cielo. Ma è anche un modo per sentire più vicine le persone che abbiamo amato, per ringraziarle di esserci state, per imparare dal ricordo della loro esistenza, quello che il Signore vuole insegnarci.

Opere di misericordia

La Chiesa cattolica chiede esplicitamente di commemorare i defunti. L'ultima opera di misericordia spirituale invita infatti a "pregare per i vivi e per i morti" collegandosi direttamente a quella corporale di "seppellire i morti". «La Chiesa - disse papa Francesco durante l'udienza generale del 30 novembre 2016 - prega per i defunti in modo particolare durante la Santa Messa. Dice il sacerdote: “Ricordati, Signore, dei tuoi fedeli, che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace. Dona loro, Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, la beatitudine, la luce e la pace" (Canone romano). Un ricordo semplice, efficace, carico di significato, perché affida i nostri cari alla misericordia di Dio. Preghiamo con speranza cristiana che siano con Lui in paradiso, nell'attesa di ritrovarci insieme in quel mistero di amore che non comprendiamo, ma che sappiamo essere vero perché è una promessa che Gesù ha fatto. Tutti risusciteremo e tutti rimarremo per sempre con Gesù, con Lui».

Il 2 novembre

Da sempre, pur con modi e sfumature diverse, tutti i popoli ricordano e pregano per i defunti. Nella Chiesa la loro commemorazione è presente sin dal IX secolo ma già circa duecento anni prima nei monasteri un giorno all'anno era specificamente dedicato a questa celebrazione. Quanto alla scelta del 2 novembre, la storia ci riporta all'anno 928. Fu allora che l'abate benedettino Odilone invitò tutti i monaci dell'Ordine cluniacense a optare per quella data. Alla base il racconto che gli fece un confratello tornato dalla Terra Santa. A Odilone, da sempre molto attento alle anime del Purgatorio cui dedicava preghiere e sacrifici, il monaco raccontò che, a seguito di un naufragio sulle coste siciliane vi incontrò un eremita, che gli disse sentire spesso le voci sofferenti delle anime del Purgatorio e insieme le grida dei demoni che gridavano proprio contro di lui, l'abate Odilone. La tradizione delle commemorazione dei defunti venne poi ufficialmente fatta propria dall'intera Chiesa di Roma nel 1311.

Le preghiere

Sono tanti naturalmente i religiosi e i mistici che hanno guardato ai defunti. Il servita padre David Maria Turoldo, in una sua preghiera-poesia chiede il dono di comprendere meglio, attraverso di loro, il mistero della vita.


«Non ti chiediamo, Signore
di risuscitare i nostri morti,
ti chiediamo di capire la loro morte
e di credere che tu sei il Risorto:
questo ci basti per sapere
che, pure se morti, viviamo
e che non soggiaceremo
alla morte per sempre. Amen».

Pensa con fiducia alla vita che ci attende invece il poeta bengalese Rabindranath Tagore:

«Un giorno dopo l'altro,
o Signore della mia vita,
starò davanti a te a faccia a faccia.
A mani giunte,
o signore di tutti i mondi,
starò davanti a te a faccia a faccia.
Sotto il grande cielo
in solitudine e silenzio,
con cuore umile
starò davanti a te a faccia a faccia.
In questo tuo mondo operoso,
nel tumulto del lavoro e della lotta,
tra la folla che s’affretta,
starò davanti a te a faccia a faccia.
E quando il mio lavoro in questo mondo
sarà compiuto, o Re dei re,
solo e senza parole,
starò davanti a te a faccia a faccia».

Dal canto suo sant’Ambrogio mette al centro della sua invocazione il legame che unisce i vivi e i morti:


«Signore Dio,
non possiamo sperare per gli altri
più di quanto si desidera per se stessi.
Per questo io ti supplico: non separarmi
dopo la morte
da coloro che ho così teneramente amato sulla terra.
Fà o Signore, ti supplico
che là dove sono io gli altri si trovino con me,
affinché lassù possa rallegrarmi della loro presenza,
dato che ne fui così presto privato sulla terra.
Ti imploro Dio sovrano,
affrettati ad accogliere
questi figli diletti nel seno della vita.
Al posto della loro vita terrena così breve,
concedi loro di possedere la felicità eterna».

L'eterno riposo

La preghiera più famosa resta però L'eterno riposo, che recita: «L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Amen». Il testo ha origine da un passaggio tratto dal IV libro di Esdra, apocrifo dell'Antico Testamento. Venne poi ripreso dai padri della Chiesa entrando nel VI secolo nel Graduale, Libro liturgico del Rito romano.





Sabato, 02 Novembre 2024

«Pensavo di andare veloce, il Vento mi ha condotto lentamente a stare seduto ad ascoltare i punti interrogativi che passeggiano in questa parte di vita». Tra i punti interrogativi di don Francesco Fiorillo, custode e responsabile della Fraternità Monastero San Magno di Fondi (Latina), c’è da tempo il dolore dei genitori che hanno perso un figlio. Ferite a cui questo sacerdote, “nuotatore controcorrente” come lui stesso si definisce, ha prestato attenzione ancora prima di entrare in seminario, quando aveva 18 anni, di fronte allo strazio dei genitori di un amico fulminato da una overdose di ecstasy. Da allora il pensiero di quella sofferenza che sconvolge e annienta l’ha sempre accompagnato e l’ha portato successivamente, quando è nato quel “porto di terra” che è la Fraternità di Fondi, a dare vita a un gruppo di genitori “orfani di figlio”. L’ha voluto chiamare Nain, la località poco lontano da Nazareth «dove la disperazione, il senso di abbandono, la ribellione verso Dio e l’umanità, vengono toccati e trasformati». Ma è davvero possibile accompagnare e dare sollievo al dolore di una mamma, di un papà che si sono visti portare via il figlio per una malattia, per un incidente stradale, per un suicidio (seconda causa di morte tra i ragazzi al di sotto dei 30 anni), per una overdose, oppure per una di quelle congiure di crudeltà che chiamiamo bullismo?

Papa Francesco, indicando come intenzione di preghiera per il mese di novembre il dolore dei genitori, ricorda che si tratta di un dolore «particolarmente intenso» e al di fuori di ogni logica umana, perché «vivere più a lungo del proprio figlio non è naturale». Siamo così impreparati a sopravvivere alla morte di un figlio che nemmeno il nostro dizionario ha una parola adatta per descrivere questa condizione di vita. «Pensateci: quando un coniuge perde l’altro, è un vedovo o una vedova. Un figlio che perde un genitore è un orfano o un’orfana. Esiste una parola per dirlo. Ma per un genitore che perde un figlio – osserva ancora il Papa nel videomessaggio – una parola non c’è. È un dolore così grande che non esiste nemmeno una parola». Bisogna inventarla, come don Fiorillo è stato costretto a inventare parole di senso di fronte alle domande impossibili dei genitori annichiliti dal dolore. Non perché quelle risposte abbiano un senso solido e definitivo – come si fa a dire che la morte di un figlio è “sensata” – ma perché, spiega, quelle domande vanno comunque fatte e, riflettendo insieme, «si spalancano nuovi orizzonti verso l’infinito, si rende più digeribile il futuro».

Vediamo allora alcune delle domande messe in fila dal custode della Fraternità di Fondi e ordinate in un libro, Funamboli. Genitori che camminano sul filo dell’oltre (Paoline, pagine 197, euro 16) che in una giornata come quella di oggi dedicata alla memoria dei nostri defunti, potrebbe diventare un viatico confortante per tante mamme e tanti papà. «Come posso vivere il dolore?», si chiedono i genitori del gruppo Nain. E don Francesco risponde che il dolore è come una ferita che non va coperta da un cerotto. Per rimarginarsi deve prendere aria. Ma il dolore non fa crescere? «Non l’ho mai creduto», risponde il sacerdote, «è l’amore che fa crescere, quello che riusciamo a versare nello squarcio del dolore». Ecco perché di fronte al dolore, anche a quello più atroce e assoluto, non bisogna scappare, bisogna stare, «accettare il silenzio della vita davanti alla prova», che poi per il credente significa «accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze».

Ma ci sono altri atteggiamenti da imparare se si vuole convivere con il dolore senza che quell’artiglio implacabile afferri il nostro cuore e lo renda giorno dopo giorno indifferente alla vita, all’amore, al mondo. Può succedere, ma bisogna evitarlo. Sbagliato allora «lamentarsi e piangersi addosso», oppure «dare la colpa a qualcuno» per quello che è successo. E, ancora, nascondere il proprio stato d’animo, mascherare le ferite. Tutto sbagliato, anche nella sofferenza più lancinante che potrebbe indurre a scappare, a nascondersi, a evitare parole e contatti, dobbiamo parlare e condividere. «Penso a quanto ci faccia bene – riflette ancora don Fiorillo – lasciarci toccare dagli altri”»

Ma la domanda più atroce, quella che investe tutta la vita e che la può stravolgere, è per il credente sempre la stessa: «Dove eri, Dio? Tu che sei l’amore, come puoi far morire mia figlia? Se è vero che ci sei, perché hai permesso che accadesse?». Questioni da lasciare senza fiato, da ascoltare in silenzio, evitando di ripetere frasi che don Francesco definisce «bestemmie». Del tipo: «Dio strappa i fiori più belli per piantarli nel suo giardino, i vostri figli non vi appartengono, sono di Dio». Sbagliato. Sono parole che non confortano nessuno. Che dire allora, che fare? «Lasciare che le domande e l’incredulità e anche la rabbia verso Dio fluiscano, come un fiume, senza trattenerle». Perché Dio sente il dolore dei genitori diventati “orfani” di un figlio, di una figlia, «ha una immensa sensibilità, così grande da stare in silenzio per amore, anche quando noi vorremmo risposte».

La seconda parte del testo, quella dove strazio e conforto si mescolano e si confondano, ospita dodici testimonianze di genitori che raccontano il figlio che non c’è più. Sono mamme e papà che partecipano al gruppo di Nain e che in qualche modo, hanno saputo affrontare il dolore e hanno cercato ragioni, parole, contatti per non soccombere. Ma leggere quei ricordi vuol dire, soprattutto per un genitore, condividere e piangere con loro. Ma scoprire anche, inaspettatamente, che la speranza può rinascere insieme alla consapevolezza, come scrive Teresa, una mamma, «che vita e morte sono tutt’uno, che l’amore non conosce barriere ed è più forte della morte».





Sabato, 02 Novembre 2024

Pensava di arrivarci «da morto», frate Arturo Busetti, al cimitero. Che fosse quello di casa a Bergamo, «che è silenzioso e più raccolto», o il Monumentale di Milano, affollato questo primo di novembre come Gardaland, con le scolaresche in coda per la foto ricordo sui gradini davanti al Famedio e i vasi di fiori colorati sistemati ovunque per accogliere l’arcivescovo Mario Delpini alla tradizionale Messa di Ognissanti. «E invece – scherza il religioso, dei frati minori – sono vivo e vegeto, il cimitero è diventata la mia casa». La “chiamata” è arrivata un giorno del 2019, in un convento di Cermenate, vicino Cantù, «dove ero arrivato dopo tanti giri: non sono mai stato fermo, io, prima gli Spedali Civili di Brescia, poi Como, poi Monza». Infine Milano, appunto, col ruolo di cappellano del grande cimitero dove sono sepolti i cittadini illustri del passato lontanissimo e vicino e dove la chiesa è un gioiellino incastonato esattamente sotto la tomba di Alessandro Manzoni.

Un’emozione, celebrare Messa tutti i giorni qui? «Non lo so, a dire il vero non ci penso tanto. È più un’emozione vedere le panche stracolme e dover spesso lasciare aperte le porte di domenica, quando la chiesa si riempie di giovani famiglie e di bambini che scorrazzano a destra sinistra». Il piccolo prodigio della vita, al Cimitero Monumentale, si compie soprattutto grazie al grande popolo di Comunione e Liberazione, devoto al culto della tomba di don Luigi Giussani: un parallelepipedo di vetro, in fondo alla direttrice principale, sulla sinistra, con una foto semplice e un cassetta per le lettere e i messaggi lasciati dalle migliaia di pellegrini. «Per visitarla arrivano a gruppi sui pullman, da Milano o anche dal Veneto e dal Piemonte – racconta frate Arturo –: attraversano il cimitero, vanno sulla tomba di Giussani, poi ne approfittano per celebrare Messa qui da me». Ma ci sono anche gli affezionati del Pret de Ratanà, al secolo don Giuseppe Gervasini, un sacerdote molto conosciuto in Lombardia per le sue capacità taumaturgiche e anche lui sepolto lungo i viali costellati di statue e monumenti. Il risultato è «che ho una parrocchia più viva di molte altre, nel mezzo di un cimitero, e parrocchiani sempre diversi».

È ai vivi, d’altronde, che frate Arturo cerca sempre di parlare nelle lunghe giornate trascorse tra funerali e tumulazioni: «I primi assomigliano sempre a degli esami. Le famiglie si presentano qui facendo una breve descrizione di persone che non conosco ovviamente, che non fanno parte della mia comunità, dal momento che non ne ho una precisa. Ed è difficile, capire, è difficile prepararsi un discorso. Così quando cominciano a dirmi “desiderava questo e questo” io li ascolto e poi chiedo “e voi? Voi che cosa desiderate? Penso sempre che quel momento, e la Messa a seguire, mi serviranno per parlare ai vivi appunto – continua –. E non per convertirli, o per offrire loro risposte, ma per far sì che davanti a una cosa grande come la morte si facciano delle domande: chi sono? Che cosa voglio? Cosa mi dice il fatto che anche la mia vita potrebbe finire, all’improvviso, e cosa ne rimarrebbe?».

Non c’è un altro posto dove sia così chiaro, d’altronde, come l’ordine delle priorità di questo nostro mondo sia fragile e inconsistente: «Celebro sotto le spoglie di Manzoni, appunto, l’uscita posteriore della mia chiesa affaccia sulle tombe di Giorgio Gaber e Alda Merini, poco più in là tocca a Jannacci e a Fogar – continua frate Arturo – eppure davanti alla morte siamo tutti uguali». Sarà per quello che lui, cappellano del Monumentale da 5 anni, del cimitero sa ancora poco: «Mi piace scoprirlo un po' alla volta, ancora mi serve la mappa per capire dove mi trovo e quando mi chiamano sulle tombe per le benedizioni chiedo sempre d’essere prelevato qui in chiesa da un familiare. Camminando mi guardo intorno, leggo le frasi sulle tombe o davanti alle cappelle di famiglia. In questi spostamenti ho scoperto che ci sono tante statue di san Francesco, per esempio, poco conosciute». E poi? «E poi di nuovo i vivi: i turisti di passaggio che vengono a confessarsi, quelli che mi chiedono se serve aiuto e si mettono a spolverare, quelli che vogliono fare una donazione: a volte ne ho viste di impressionanti». Ad Arturo piace immaginare la sua chiesa del cimitero come un albero, su cui ci si posa per caso, inciampandoci quasi, si sta un po’ fermi per guardarsi intorno e prendere fiato, «per poi volare via di nuovo». Lui lo fa di pomeriggio, attraversa la grande piazza e raggiunge il convento con gli altri frati di Sant’Antonio, la grande mensa dei poveri, il centro d’ascolto: «Non finisce al cimitero, in fondo, la mia vita».





Mercoledì, 30 Ottobre 2024

Anche in Italia, da un po’ di anni, il 31 ottobre le strade e le piazze si riempiono di uomini e donne mascherati da diavoletti o scheletri mentre i bambini suonano alle case dei vicini chiedendo: dolcetto o scherzetto? E, poi, biscotti e torte a forma di zucca, coprilampade che imitano i fantasmi, nelle vetrine delle librerie racconti sui “morti viventi”. Halloween impazza, all’insegna di un fenomeno culturale che non fa parte, se non in alcune località del Centro Sud, delle tradizioni storiche italiane. Il 1° novembre, inoltre, si celebra la festività di Ognissanti, che un nutrito gruppo di credenti, come anche alcuni teologi ed esorcisti, vedono in contrasto con Halloween. Ma è davvero così? Il tema è al centro del nuovo numero di Taccuino celeste il podcast di Avvenire dedicato ad approfondire in cosa crede chi crede. Se ne parla a partire dalle origini, comuni, della due festività, dando spazio anche a chi ritiene che Halloween sia la porta d’ingresso al satanismo, o comunque una via che facilita l’azione del diavolo.

Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga sui temi della fede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, dell’esistenza del diavolo, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.

Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it







Venerdì, 01 Novembre 2024

Un concerto-evento degno delle grandi rockstar, ma anche una grande festa della fede proprio il giorno di Ognissanti. Oggi alle 20.30, al Padiglione B dell’Area Exp di Cerea, in provincia di Verona, ci sarà il concerto che celebra i 15 anni di missione dei Reale, band e progetto di Christian music italiana tra i più conosciuti e longevi del nostro Paese. L’evento è patrocinato dal Dicastero per l’evangelizzazione della Santa Sede che l’ha inserito tra i grandi eventi che aprono la strada al cammino dei giovani verso il Giubileo 2025.

Prodotto dai Reale e da La Gloria music, etichetta discografica indipendente di Christian music italiana. Con loro sul palco saliranno quelle realtà amiche che in questi 15 anni li hanno sostenuti: 5pani2pesci , Comunità Cenacolo, Kantiere Kairòs, Martin McNally. Un festival dell’evangelizzazione reale tra musica, testimonianze e preghiera, «uno spettacolo maestoso ad alto impatto emotivo, sul modello di quelli degli artisti di christian music d’oltreoceano come Hillsong, Elevation Worship, Brandon Lake e compagni, per dimostrare che anche in Italia è in atto un rinascimento spirituale che trova anche nella musica e nello spettacolo una forma d’espressione efficace e di qualità» spiega ad Avvenire Alessandro Gallo, frontman e fondatore della band che dal 2009 porta avanti la sua missione tra piazze, teatri e oratori trasmettendo il messaggio evangelico attraverso musica che va dal rock al pop. La band dei Reale vede oltre ad Alessandro Gallo, la moglie Francesca Cadorin, cantante, Dario Minazzo alla batteria, Francesco Lora e Luca Giurisato alle chitarre e Giorgio Munari al basso.

«Abbiamo investito tantissimo sulla qualità dello spettacolo – spiega il leader della band –. L’obiettivo è che i ragazzi vivano le stesse emozioni, se possibile più belle, dei concerti dei loro idoli, anche se non sono d’accordo coi nostri valori». Non mancheranno i brani di maggior successo della band riarrangiati, da “Luce” una delle più cantate nelle parrocchie d’Italia, “Alla porta del cielo” (Inno della marcia francescana 2016), “Come nessun altro”, “Giorno Uno”, “Fino a dove puoi arrivare”. La serata si concluderà con un momento di adorazione presieduto da don Tommaso assistente della associazione Trasforma con cui i Reale hanno sviluppato il progetto musicale. Già oltre mille i giovani che hanno acquistato i biglietti e che si apprestano ad affrontare viaggi in aereo e pullman da tutta Italia per vivere questa serata unica. La parrocchia di Cerea ospiterà i giovani nel centro parrocchiale dove sono pronti 300 posti “sacchi a pelo” in stile Gmg.

Il concerto è stato anticipato dall’uscita del singolo “Sono rimasto Vivo” (La Gloria - Reale) che segna un ritorno al rock delle origini degli anni 90. Il testo e il video giocano su immagini post-apocalittiche per affermare che anche quelle sofferenze che per ognuno possono rappresentare «la fine del mondo» si possono superare grazie alla fede.

Stasera, in anteprima per chi sarà al concerto, si potrà trovare anche il libro dal titolo «Io non c’entro niente», in uscita nelle librerie dall’8 novembre, edito da Effatà editrice, scritto da Alessandro Gallo. Una autobiografia che racconta il suo percorso di rinascita da una adolescenza ribelle nella droga e negli eccessi fino alla conversione in Comunità Cenacolo, l’incontro con Francesca sua moglie e il presente con i Reale. «Ho deciso di scrivere la mia storia ora che mio figlio ha compiuto 17 anni, la stessa età di cui io sono entrato in comunità di recupero a tirare le somme della mia vita – spiega il cantante 43enne –. La mia droga era la ricerca del successo, l’incontro con la musica cristiana è avvenuto in comunità grazie a madre Elvira e sono tornato a riavere voglia di avere una vita».

Lo spettacolo è solo uno dei progetti che i Reale stanno realizzando in preparazione al Giubileo 2025. È appena uscita la prima puntata di un podcast che durerà fino a luglio 2025, dal titolo «Esplosi - Felicità scomposte», prodotto con Rossella Pivanti, sempre patrocinato dal Dicastero per l’Evangelizzazione, in cui Alessandro Gallo si soffermerà sui temi della felicità, del successo, della realizzazione attraverso l’incontro con personaggi noti e meno noti come Nek, Andrea Delogu, Francesca Liberatore, Sara Ciafardoni, Matteo Rizzi, Giusy Buscemi e tanti altri. Si potrà ascoltare su tutte le piattaforme streaming dedicate e vedere sul canale YouTube dei Reale.

«Sogniamo di far vedere all’Italia quello che noi abbiamo il privilegio di vedere tutti i giorni, che c’è un esercito numerosissimo di giovani che credono in Dio, che cercano Dio e che credono nell’Amore, di giovani cattolici che si stanno “sporcando” nelle scuole, nelle strade, nelle opere umanitarie, nelle aule di università, senza vergogna, senza paura, mettendoci la faccia, con coraggio, fantasia e forza, per rendere il mondo e la nostra Italia un posto migliore e farlo con la Fede nel cuore» spiegano i Reale. «Siamo vittime di una mono-narrazione falsata in cui i cattolici sono generalizzati come retrogradi, ottusi e terrorizzati dalle ideologie, dalla sessualità, dalle innovazioni ed invece non è così e noi ne siamo testimoni – spiegano –. Il grande assente dal mondo della missionarietà è lo Spirito e noi vogliamo dargli voce attraverso le nostre voci: come ha salvato la vita a noi, la può salvare a qualcun altro, vale la pena provarci»

I Reale sono reduci dal “tour/pellegrinaggio” mondiale ’“Asking for Faith” tour, progetto patrocinato anch’esso dal Dicastero per l’evangelizzazione, che nel 2023 li ha visti protagonisti nei festival internazionali di Christian music più importanti del pianeta portando la loro musica e la loro testimonianza a Medjugorje, New York, Londra, Norimberga, Fortaleza e con tre show alla Gmg di Lisbona, tour internazionale che verrà ripreso nel 2026 puntando poi alla Gmg 2027. «Nel 2025 in particolare saremo presenti in concerto al Giubileo degli adolescenti il 26 aprile e al Giubileo dei giovani il 3 agosto a Tor Vergata – aggiunge Alessandro –. Questa è una rivincita. Nel Giubileo 2000 ero in comunità: per me è un regalo di Dio andare a Tor Vergata a cantare per un milione e mezzo di persone».






Giovedì, 31 Ottobre 2024

«Le vittime vogliono essere ascoltate, vogliono giustizia». Non ha dubbi Teresa Morris Kettelkamp, segretaria aggiunta della Pontificia commissione per la tutela dei minori, intervistata da Vatican News a proposito del primo Rapporto annuale, pubblicato il 28 ottobre. Il documento, chiarisce Morris Kettelkamp, «è uno strumento, un’istantanea dello status della Chiesa in relazione alla salvaguardia dei sopravvissuti» agli abusi e nasce dalla richiesta del Papa di avere un’idea riguardo a «come si sta comportando la Chiesa globale nel contesto della tutela dei minori».

Una richiesta, quella di Francesco, che ha imposto alla Commissione presieduta dal cardinale Sean Patrick O’Malley un compito serio e preciso, da condurre in modo appropriato. «Ma non avevamo un programma da seguire – spiega Morris Kettelkamp – e dovevamo pensare: “Come si fa a farlo?”». La raccolta dei dati si è quindi avvalsa di più contributi, a partire dall’incontro - ancora in corso – con i vescovi giunti a Roma per le visite ad limina: «Così abbiamo incontrato i vescovi dopo le loro udienze con il Santo Padre. Erano spesso le quattro del pomeriggio, faceva caldo, loro erano stanchi e probabilmente anche affamati. Ma parlavamo delle risposte ai loro questionari quinquennali e di come potevamo aiutarli a sviluppare risorse, che sono le fondamenta per la creazione di un ambiente sicuro in una Chiesa accogliente verso chi ha subito abusi». C’è stato poi un lavoro diviso tra le commissioni nelle diverse regioni del mondo, attraverso valutazioni di esperti su quali siano le sfide, ma anche le buone e le cattive notizie di ciascuna area. Infine, si è guardato «alla Chiesa al di fuori dalla Chiesa, ovvero la Caritas e altri ambiti nell’ambiente ecclesiastico che aiutano i bisognosi».

Le domande che hanno guidato il lavoro della Commissione sono state sempre le stesse: «Dove sono le misure di salvaguardia? L’apertura all’accoglienza dei sopravvissuti?». E se è pur vero che «non abbiamo ancora una cultura della salvaguardia», «un dato che emerge – sottolinea la segretaria - è che il desiderio di sviluppare meccanismi di salvaguardia per la Chiesa è universale nonostante le sfide, le culture e risorse diverse». La differenza di vedute è forse il più grande ostacolo con il quale la Commissione si trova a dover fare i conti. Un caso è quello del “conforto” che i sopravvissuti dovrebbero trovare nei centri in cui si recano, sul quale le definizioni possono non coincidere: «Negli Stati Uniti, ad esempio, il conforto può essere equiparato al denaro, ma questo non corrisponde alla realtà». E ancora: «Ciò che significa per me giustizia può essere diverso da quello che significa per te. Ma [le vittime] vogliono quella, vogliono indietro la loro integrità. Questa è una delle sfide che abbiamo riscontrato nella Chiesa».

Il Rapporto, commenta Morris Kettelkamp, «è un progetto pilota, un’istantanea. Ci sono lacune. Ma questa è la nostra prima volta e la Chiesa è seriamente impegnata nella salvaguardia. Anche se mancano le risorse, nel corso della mia esperienza non ho trovato un solo leader ecclesiale che abbia ignorato la salvaguardia». Una disponibilità che sostiene il primo passo e incoraggia i prossimi: «Dobbiamo fare di più per fare sentire ciascuno accolto e perché le vittime di abusi possano farsi avanti, senza che ulteriori danni siano loro inflitti».





Giovedì, 31 Ottobre 2024

Immaginatevi un bancone, con tanto di caffè, cappuccini e caffelatte, le noccioline “addormentasuocere” e gli immancabili lupini, di cui abbiamo perso memoria. Alle spalle il campionario di alcolici, sigarette, toscani. Nel frigorifero la spuma, la cedrata e il ginger. Ma il tabaccaio è un predicatore, sui generis, un comunista obbediente al vescovo che non lo capisce tanto. Si è convertito e non riesce a tenere per sé quanto il Vangelo scrive dentro di lui, con una passione per “l’Altro Cristo”, san Francesco che «partì solo: modificò un’epoca».

Renzo Buricchi (Seano 1913- Prato 1983), gestore di un bar in piazza del Comune a Prato, è già riconosciuto come servo di Dio e il processo di beatificazione avviato dalla diocesi di Prato va avanti, con l’acquisizione di testimonianze e documenti, come quelli presentati in un recente convegno dal postulatore don Alessandro Andreini sui rapporti tra Buricchi e i francescani del Santuario della Verna, negli anni Cinquanta. Buricchi rimane colpito dalla processione notturna dei frati e prima ancora dalla scelta della povertà in Francesco che lo ha portato lassù. E anche lui, con gli avventori che gli si fanno vicino colpiti dal suo dialogare, cominciano la sera a pregare davanti all’ospedale e a farsi vicini ai poveri della città tessile. Tra di loro figurerà anche Marcello Pierucci, giornalista de l’Unità, ateo che si converte, al quale dobbiamo due libri che hanno fatto conoscere Buricchi. Il tabaccaio si sente partecipe di una missione a Prato che non deve essere «elementare, ma santa e sapiente, in modo da coordinare il buono e travolgere il cattivo».

Le lettere recuperate da Andreini tra Buricchi e i frati della Verna sono dodici, di cui tre di fra’ Giovacchino Cioncolini, una del guardiano fra Girolamo Buratti e otto di Buricchi stesso, che per la rivista del Santuario scrive alcuni articoli. Dopo una visita di Buricchi alla Verna nell’ottobre 1955, il tono nelle lettere si fa più confidenziale. Cioncolini gli scrive il 7 novembre dello stesso anno: «Veramente profonde le tue riflessioni sulle necessità di farsi prendere, non dalla mania di fare, ma dallo spirito, che solo sa e può dare un significato alla vita dell’uomo. Ammiro la tua riuscita su questo punto e mentre faccio voti perché debba essere così ancora per l’avvenire, ho una santa invidia di seguirti per questa via».

Per Buricchi tutta l’opera di Francesco «si ingigantisce... e l’ordine nei secoli, ha grandezza, quando si abbevera nella Sua imitazione, si impoverisce quando conserva le Sue glorie: il tempo nel passare annienta la sostanza della gloria richiamando al Suo seno chi l’edificò. I conservatori sono i lenti demolitori di essa».

Bisogna mettere in conto di non essere capiti e in suo articolo Buricchi attribuisce a Francesco l’espressione «Vuoi vincere? Perdi!». Vinse più battaglie san Francesco «col colloquio al sultano che tutti i generali delle crociate». Su Buricchi “inciampa” il vescovo di Prato, Pietro Fiordelli, che chiede ai frati di non farlo più scrivere sulla loro rivista. Buricchi disse che «non solo non avrebbe più scritto sul giornale della Verna, ma da nessuna altra parte. E così fece», ricorda Pierucci. Nel frattempo Roncalli diventa Giovanni XXIII e Buricchi sottolinea nella sua corrispondenza «un Papa cosciente di questo nostro tempo».





Giovedì, 31 Ottobre 2024

La cosa bella della santità è la fantasia. Tra le vite di chi la Chiesa indica come modelli non ce n’è una uguale all’altra. Parliamo delle esistenze vere, fatte di sacrifici e gioia, di lacrime e sorrisi, storie dinamiche, non imbalsamate, come spesso succedeva invece nelle vecchie agiografie. La solennità di “Tutti i Santi” che si celebra il 1° novembre, diventa allora occasione per conoscere più da vicino l’umanità, il travaglio terreno di chi ha già raggiunto il cielo.

Un aspetto, quello dell’ordinario che diventa straordinario, sottolineato da Francesco sin dall’inizio del suo pontificato. «I santi – disse il 1° novembre 2013 – non sono superuomini, né sono nati perfetti. Sono come ognuno di noi, persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale». Li ha cambiati l’amore di Dio, seguito «con tutto il cuore, senza condizioni e ipocrisie». Significa unire contemplazione e azione, trovare nella preghiera la forza per spendersi nel servizio agli altri, sopportando sofferenze e avversità senza odiare e anzi «rispondendo al male con il bene». Un cammino di “perfezione normale” verrebbe voglia di dire giocando con i contrasti, che segue il filo rosso tracciato da Bergoglio nell’Esortazione apostolica “Gaudete et exsultate” dedicata appunto alla santità nel mondo attuale.

Un tempo, il nostro, in cui il Signore, accanto ai «mezzi di santificazione» che già conosciamo, dalla preghiera all’accostarsi con frequenza all’Eucaristia e ai Sacramenti, chiede a chi voglia imitarlo una grande capacità di sopportazione, pazienza e mitezza. E insieme l’impegno a fare comunità, audacia e fervore nel seguire il Vangelo, gioia e senso dell’umorismo. Requisiti magari difficili da esercitare con costanza, però alla portata di ciascuno, perché Dio non chiede a nessuno l’impossibile o meglio, lo rende possibile a tutti.

«Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e donne che lavorano per portare a casa il pane, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere!». Questa, annota il Papa nella “Gaudete et exsultate” è «tante volte la santità della porta accanto». Uno stile di vita che ritroviamo, con sottolineature differenti, in chi più di recente è salito agli onori degli altari.

Quanto ai numeri, tra gli ultimi Pontefici, Giovanni Paolo II ha canonizzato 482 beati, Benedetto XVI 45, Francesco 926 molti dei quali però, martiri riuniti in gruppi molto numerosi. Durante il Sinodo sulla sinodalità, il 20 ottobre scorso il Papa ha presieduto il rito per 14 nuovi santi. Tra di loro due italiani: Giuseppe Allamano (1851-1926), fondatore dell'Istituto dei Missionari della Consolata e delle Suore Missionarie della Consolata. Sebbene non sia mai partito per una missione, dedicò la sua vita alla formazione missionaria e alla ristrutturazione del Santuario della Consolata. E poi suor Elena Guerra (1835-1914) che dedicò la vita all'educazione e alla devozione allo Spirito Santo, pubblicando opere che influenzarono la vita della Chiesa. La sua causa di canonizzazione è stata riaperta dopo un miracolo attribuito alla sua intercessione nel 2010.

A completare l’elenco dei nuovi santi: suor Marie-Léonie Paradis (1840-1912) che ha fondato le "Piccole Suore della Santa Famiglia", dedicandosi ai servizi nei collegi e seminari. Era stata beatificata nel 1984; i Martiri di Damasco, otto frati francescani e tre laici, uccisi nel 1860 durante persecuzioni contro i cristiani in Libano e Siria. La loro canonizzazione rappresenta un messaggio di pace e dialogo in un contesto medio-orientale travagliato.

Con il rito celebrato il 20 ottobre diventano quattro i Sinodi in cui è avvenuta una canonizzazione, dopo quelle del 2015 (3 santi), del 2018 (7 santi, tra cui Paolo VI e Oscar Romero) e del 2019 (5 santi). Quanto ai prossimi nuovi santi non si conoscono ancora le date, però è prossima la canonizzazione del giovane beato Pier Giorgio Frassati (1901-1925) une delle figure più luminose cresciute in Azione Cattolica. Il rito è previsto durante il Gubileo del 2025. Vicino anche il riconoscimento della santità del giovanissimo beato Carlo Acutis (1991-2006) conosciuto, tra le altre cose, per la sua opera di diffusione attraverso internet.

Figure differenti tra loro, come sono le biografie di tanti testimoni della fede cresciuti in tempi ormai lontani. Persone accomunate, ebbe a dire papa Francesco il 13 ottobre 2019, dal fatto di rappresentare delle «luci gentili nel buio del mondo». Significa che guardare a loro, vuol dire vedere più chiara la strada che ci porta fuori dal tunnel, che potrebbe essere la rabbia per una punizione ingiusta, una malattia, un lutto. I santi come indicatori della strada e guide sicure dunque, uomini e donne che ritmano il cammino verso la libertà ma senza cedere alla presunzione.

«Il comportamento del cristiano – diceva il cardinale John Henry Newman santo dal 2019 – è talmente lontano dall’ostentazione e dalla ricercatezza che a prima vista si può facilmente prenderlo per una persona ordinaria». La sua forza infatti consiste nel farsi abitare dal Signore, nel dimenticare il più possibile sé stesso per fargli spazio. «Dio costruisce sul nulla. È con la sua morte che Gesù ha salvato il mondo; è con il niente degli apostoli che ha fondato la Chiesa» sottolineava Charles de Foucauld canonizzato il 15 maggio 2022. Un uomo diventato grande quando si rese conto della sua piccolezza. Com’è nella logica del Padre che giudica secondo il parametro dell’amore, che gioisce nel perdonare, che è disposto ad aprire le porte del cielo anche all’ultimo momento. Non a caso il primo santo “sicuro”, portato in Paradiso da Gesù stesso era un malfattore: il buon ladrone, capace di rubarsi il cielo.






Giovedì, 31 Ottobre 2024

Ce li portiamo nei nomi, li celebriamo in alcune ricorrenze, li invochiamo nelle difficoltà. Sono con noi, ma a volte la loro vita ci pare talmente esemplare da essere proprio irraggiungibile. La famiglia italiana è ancora devota ai santi? Come li pensiamo, in particolare in prossimità della festa del primo novembre? Lo abbiamo chiesto a Marco e Romina Manali, coppia di sposi impegnata nell’approfondimento e nella formazione teologica (coinvolta nel Progetto misterogrande, un laboratorio teologico-pastorale per la promozione del matrimonio e della famiglia), che ha recentemente pubblicato Compagni di viaggio. I santi che illuminano la vita di famiglia (Edizioni San Paolo). «Abbiamo la fortuna di vivere in Umbria, a poca distanza dai monasteri di Francesco e Chiara. Da qui vediamo ancora una splendida devozione da parte di tanti pellegrini e visitatori, fatta dall’incontro coi luoghi che riecheggiano una grande storia. E poi, sicuramente, gioca la sua parte la ricerca interiore di ciascuno», spiegano.

Ma chi si rivolge ai santi, nella nostra contemporaneità?

Naturalmente ci sono i credenti, che nei santi vedono l’esperienza del divino, cioè il modo in cui Dio si manifesta nella vita delle persone, ma ci sono anche in non credenti, che si avvicinano ai santi attraverso percorsi culturali, perché hanno dentro al cuore una domanda di senso.

Nel vostro nuovo libro c’è un percorso d’incontro con dodici figure, tra santi e beati, che appartengono al nostro tempo: da don Pino Puglisi a Carlo Acutis, da Chiara Luce Badano a don Oreste Benzi. Sono profili che forse sanno stare più vicini ai problemi moderni?

Sicuramente la loro vita ci parla da un orizzonte vicino, che conosciamo; il loro quotidiano è stato simile al nostro. Ed esercitano una fortissima attrattiva nei giovani. Qualche estate fa abbiamo fatto un campo estivo “alternativo” coi ragazzi della nostra parrocchia: siamo stati ospitati per alcuni giorni nell’episcopio di don Tonino Bello. Abbiamo incontrato di persona chi lo aveva conosciuto e amato, e che oggi continua a promuovere i suoi progetti per i poveri. L’esperienza, per i nostri ragazzi, è stata fortissima: hanno conosciuto una storia santità “dei giorni nostri”, hanno sperimentato la domanda di cambiamento e realizzazione che porta una vita così esemplare. Puoi restare uguale, dopo essere stato accanto a un santo, dopo aver capito il senso del suo servizio?

“Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità”, ha scritto Papa Francesco nella Gaudete et Exsultate. Il suo richiamo alla “santità della vita di famiglia” è costante anche in Amoris Laetitia e nei tanti interventi che dedica alle coppie di sposi. Viene quasi da schermirsi: ma come, proprio noi, santi?

Certo, capita di sentirsi così, un po’ “inadeguati”, perché i santi li associamo allo straordinario, ai gesti eroici, al sopportare terribili prove. Ma anche le più straordinarie vicende dei santi della storia, dobbiamo ricordarlo, sono solo momenti eccezionali maturati in un quotidiano sconosciuto. Il vivere nell’ordinario, rispondendo alla chiamata dell’amore, ci avvia su un cammino di santità che è la ricerca costante e incrollabile della pienezza di vita. In un tempo in cui il modello della famiglia è ampiamente in crisi, viverlo fino in fondo, superando insieme le difficoltà, significa essere testimoni di santità.

Colpisce, in tema di pienezza, il percorso di un giovane come Piergiorgio Frassati, che esercita il fascino della coerenza delle scelte, ma anche la gioia di vivere.

Sì, Piergiorgio Frassati - come Carlo Acutis, del resto – ci porta due diversi doni: non aver paura del proprio tempo, usandone i mezzi in modo buono, e intravedere il cambiamento portando in sé una testimonianza di bellezza. Carlo e Piergiorgio hanno capito, in un mondo spinto sempre più verso la ricchezza, l’egoismo e l’imperialismo degli oggetti, che le cose si usano e le persone si amano, non il contrario.

Anche Gianna Beretta Molla, che voi associate alla speranza, è un modello di donna che ci interroga tutte, al giorno d’oggi. Diventata medico tra tante difficoltà, amava profondamente suo marito e ha messo al mondo i figli che desiderava. Adesso invece viviamo nel dramma di dover scegliere: o la carriera o i figli.

Gianna ha portato avanti tutto quello che si era prefissata e ha fatto una vita bellissima, all’insegna non della sottrazione, “o questo o quello”, ma dell’incremento: “sia questo, sia quello”. Ha tenuto insieme studi, lavoro, amore, figli: seguire la via di Cristo insegna questo, a tenere insieme l’impossibile.

Allora, nel giorno dei santi, chi pregherete?

Pregheremo tutti i santi che ci parlano, con la loro vita, dal lungo svolgersi della storia, e che ci testimoniano non la grandezza, ma la pienezza della vita. Pregheremo per gli sconosciuti che hanno vissuto loro accanto, e ne sono stati cambiati, e per quelli che hanno percorso una via silenziosa di santità. Pregheremo anche per le generazioni che ci hanno preceduti e che si sono impegnate a fare dei cristiani un popolo bello, capace di portare speranza nel mondo. E il giorno dopo, il 2 novembre, pregheremo per i morti, che hanno vissuto con fede il loro quotidiano, e che ci aspettano nel Regno dei Cieli, insegnandoci la bellezza del nostro essere umani abitati da un’anima immortale.





Venerdì, 01 Novembre 2024

Lo scorso 22 ottobre a Lima, capitale del Perù, si è spento a 96 anni padre Gustavo Gutierrez, uno dei fondatori della Teologia della liberazione cui anzi ha dato il nome grazie al titolo della sua opera più celebre. Ma chi è stato Gutierrez e cosa ci lascia quella che è stata una delle correnti teologiche più discusse del 900? Riccardo Maccioni ne parla con il teologo Brunetto Salvarani






Giovedì, 31 Ottobre 2024

«Era un santo il nostro cardinale. La sua fede era vera perché si specchiava nelle dolore della povera gente. La sua voce per la giustizia sociale e la libertà fu una spina nel fianco per la dittatura del generale Pinochet». Questa la testimonianza di un’anziana donna nel docufilm di Cote Correa “Requiem per il Cile: il cardinale Raúl Silva Henríquez” che questa sera verrà proiettato a Moliterno (Potenza) nel corso della quindicesima edizione della rassegna sulle nuove cinematografie del mondo «Frammenti autoriali». Il cardinale Henríquez» fu tra gli alti presuli della Chiesa cilena che trovarono in papa Montini il loro più fervido sostenitore nella difesa delle istanze dei ceti più deboli. Nato nel 1907 a Talca, nella regione del Maule, da salesiano padre Raúl studiò teologia nella capitale cilena e in Italia, a Torino. Dopo essere stato vescovo di Valparaiso, venne nominato nel 1962 cardinale di Santiago del Cile da Giovanni XXIII, la nuova carica gli permise di partecipare ai lavori del Concilio Vaticano II e al Conclave che portò al soglio pontificio Paolo VI. Con padre Raúl «l’episcopato» di Santiago del Cile conobbe per un ventennio un fervore profetico senza precedenti. Ispirandosi alle direttive ecclesiali e sociali della Conferenza episcopale di Medellín del 1968, Henríquez divenne una figura scomoda nel suo Paese, ma per amore del suo popolo non tacque né alzò la resa, «la Chiesa del Cristo - dirà - non smetterà mai di difendere i diritti dell’uomo. E sappia, il generale Pinochet, che io sono pronto a nascondere i rifugiati e i perseguitati anche sotto il mio letto». Nel 1976, non a caso, inaugurò il “Vicariato della solidarietà” per dare assistenza sanitaria e legale a chiunque ne avesse avuto bisogno, in particolare ai dissidenti al regime. «Di fronte a questo ennesimo sgarbo - dice un sacerdote nel docufilm - Pinochet andò su tutto le furie come quando il 18 settembre del 1973, pochi giorni dopo il golpe, il cardinale non volle celebrare nella scuola militare di Santiago il “Te Deum” che ricorda l’inizio dell’indipendenza del Cile». Dopo la morte di Paolo VI, il cardinale avvertì un senso di solitudine, molti che gli erano stati accanto nella sua opera pastorale l’abbandonarono, per cui nel 1982 decise di lasciare la guida dell’arcidiocesi di Santiago. « Il suo impegno per i diritti e la causa del popolo ebbe una portata del tutto evangelica - dice un altro sacerdote nel docufilm di Correa - oggi dobbiamo ricordare Henríquez come una grande figura della Chiesa. Un profeta». Raúl Silvia Henríquez morì nel 1999, al suo funerale una marea di fedeli, riecheggiando l’appello delle innumerevoli manifestazioni contro gli abusi di Pinochet, andò cantando per le strade di Santiago: «Raúl, amigo, el pueblo esta contigo» (Amico Raúl, il popolo è con te).





Giovedì, 31 Ottobre 2024





Giovedì, 31 Ottobre 2024

«L’Ucraina guarda con favore all’azione diplomatica della Santa Sede: sia che si tratti di sforzi per la liberazione della nostra gente, sia che riguardino tentativi di negoziati distinti». L’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, conosce bene il “peso” della Chiesa cattolica sulla scena internazionale. E sa quanto per Kiev sia importante l’appoggio vaticano. Mercoledì 30 ottobre è cominciato in Canada il secondo summit internazionale sulla Formula di pace del presidente Volodymyr Zelensky. Dopo il vertice in Svizzera dello scorso giugno, stavolta l’incontro di due giorni ha un unico tema in agenda: la “liberazione di tutti i prigionieri e deportati”, quarto dei dieci punti targati Kiev. «Ed è presente una delegazione vaticana con l’arcivescovo Paul Richard Gallagher», afferma Yurash.

Dalla sua rappresentanza diplomatica, affacciata sulle mura leonine a Roma, è passata la preparazione dell’ultima udienza di papa Francesco a Zelensky avvenuta l’11 ottobre. «È stato il quarto incontro da quando il presidente è in carica; il terzo dall’inizio dell’invasione su vasta scala. Non molti altri leader mondiali hanno avuto l’opportunità di incontrare così spesso il Santo Padre. Direi che si è instaurato un rapporto di fiducia reciproca. E mai abbiamo avuto un livello così significativo di comprensione e interazione», sostiene Yurash. Poi riferisce di cinque liste che Zelensky ha affidato alle mani “vaticane”. «Il presidente ha chiesto al Papa di continuare a fare tutto il possibile per riportare a casa i nostri concittadini dalla Russia. E, tramite questa ambasciata, ha fatto arrivare alla segreteria di Stato cinque elenchi di nomi: uno dei giornalisti; uno dei civili in condizioni di salute critiche; uno dei militari feriti; uno di ecclesiastici catturati; e naturalmente quello dei bambini». Una pausa. «Come ha dichiarato lo stesso presidente, la Santa Sede è al primo posto in questa nostra attenzione. Non da sola: abbiamo altri partner come il Qatar o il Canada. Ma il suo apporto è fondamentale». L’ambasciatore cita il Papa, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, la rete delle nunziature e la “missione” del cardinale Matteo Zuppi che «nelle scorse settimane, andando a Mosca per la seconda volta, è tornato a parlare con i russi».

L’Ucraina è in sintonia con la missione di pace della Santa Sede?

«Già prima che iniziasse la guerra nel febbraio 2022, l’Ucraina vedeva nella Santa Sede uno snodo e un luogo per possibili negoziati con la Russia (collegati agli scontri in Donbass, ndr). Ma, per una trattativa, serve che le due parti siano disposte a incontrarsi. Sfortunatamente la Russia non lo era, mentre l’Ucraina è da anni favorevole all’iniziativa vaticana di moderare il dialogo».

La diplomazia umanitaria è via di pace, secondo l’assunto d’Oltretevere?

«Sicuramente. Come può esserci pace se una parte del nostro popolo si trova prigioniero in un altro Stato? Sono migliaia gli ucraini deportati nella Federazione Russa, compresi i minori. Non è un caso che il loro rimpatrio sia uno dei punti della Formula del presidente Zelensky. La Santa Sede ha partecipato sia al summit in Svizzera a giugno, sia all’attuale vertice in Canada per implementare il piano del presidente e supporta il punto relativo a questo tema. Di fatto aiuta il nostro Paese con un intervento che sta a cuore alla popolazione».

Sul rientro dei ragazzi “rubati” i numeri sono ancora ridotti.

«La Santa Sede sta facendo il massimo. Tuttavia le operazioni sono complesse. Occorre inviare le liste, avere contatti con le autorità di Mosca, capire i luoghi in cui i bambini si trovano, portarli fuori della Russia».

Il Papa ha criticato la nuova legge ucraina che mette al bando la Chiesa ortodossa legata a Mosca. C’è un giro di vite sulla libertà religiosa?

«L’Ucraina garantisce la piena libertà di culto, secondo gli standard internazionali. Tuttavia siamo in guerra e ci sono ragioni di sicurezza nazionale. Oggi il 90% della popolazione chiede che la Chiesa ortodossa presente nel Paese non sia più dipendente da Mosca. Il presidente Zelensky ho ha ribadito nell’udienza con il Papa. Il patriarcato di Mosca ha contribuito alla preparazione della guerra, l’ha benedetta, continua a favorirla, collabora con i militari russi nelle zone occupate. Quindi la legge da poco varata non è contro l’ortodossia, ma contro la subordinazione a Mosca. E non è contro i credenti: infatti, abbiamo una Chiesa ortodossa autocefala, indipendente canonicamente e riconosciuta dal patriarcato ecumenico di Costantinopoli, e i fedeli ortodossi possono unirvisi per professare la loro fede».

Negli incontri vaticani di Zelensky si è parlato dell’arruolamento obbligatorio dei sacerdoti che preoccupa la Chiesa cattolica.

«In segreteria di Stato il presidente ha spiegato che non è prevista alcuna mobilitazione del clero. Nessun prete verrà mandato in prima linea come soldato o imbraccerà un’arma. Al massimo può essere integrato nell’esercito come cappellano. E il ministero della Difesa ha creato un dipartimento per il reclutamento di nuovi cappellani militari che sostengano spiritualmente i soldati».





Giovedì, 31 Ottobre 2024

«Sono padre Oreste, father Oreste, non abbiate paura, la polizia when I am here non vi fa niente...». Il nebbione è fitto, il buio è quello pesto e disumano delle periferie, le ragazze restano acquattate nella boscaglia. Ma lui scandisce più volte la parola chiave, «father Oreste Benzi, father, father». Funziona: escono in quattro, poi cinque, urlano di gioia e lo circondano, come avessero visto Gesù Cristo in persona. Seminude loro, tonaca e cappotto nero il prete, sono schiave e lui è lì per liberarle...

Inizia così, con una tra le migliaia di “avventure” che si potrebbero raccontare di don Oreste Benzi, il docufilm (da oggi nelle sale cinematografiche) “Il Pazzo di Dio” del regista Kristian Gianfreda, dedicato al sacerdote riminese nell’anno che culminerà con il centenario della sua nascita (7 settembre 1925). E titolo non potrebbe essere più azzeccato: in sessanta minuti si viaggia sulle montagne russe di un prete che ha fatto la rivoluzione e ha cambiato la sua fetta di mondo. Il perché ce lo spiega lui stesso: «Sono sempre stato spregiudicato, che significa non mettere paletti davanti al Dio che viene, cioè all’avventura, adventus è qualcosa che viene e che quindi non c’era. Allora mi piace andare incontro a ciò che viene e non restare fermo a ciò che c’era». Ed ecco allora le sue invenzioni geniali, prima tra tutte la casa-famiglia, “semplicemente” dare una famiglia a chi non l’ha. Ecco poi la battaglia per la chiusura degli istituti, casermoni in cui orfani, disabili, senzatetto, drogati, anziani venivano ammucchiati e dimenticati. Ed ecco il principio su cui si fonda la sua creatura più folle e straordinaria, l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII (anzi Xxiii, con il logo che stilizza una famiglia), oggi diffusa in tutti i continenti con oltre 600 strutture di accoglienza e 26mila persone soccorse tutti i giorni: i poveri non vengono a cercarci, allora dobbiamo andarci noi a cercare loro. «Se venite via dalla strada io vi do un tetto, un passaporto e un lavoro», propone a quelle ragazze don Benzi nel suo inglese-romagnolo, e in migliaia lo hanno seguito.

Nel lavoro di Gianfreda, già autore del film “Solo cose belle”, delizioso affresco di ciò che avviene nelle case-famiglia di don Benzi, filmati d’epoca e testimoni di oggi si alternano nel raccontare il don Oreste di tutti i giorni e di tutte le notti, quello che non dormiva mai (si appisolava ogni tanto) «perché guai a lasciare indietro qualcuno, può darsi che non tornerà più». Con questo spirito prima di salutare le ragazze lascia loro il numero di cellulare e in Comunità l’ordine è di rispondere a qualsiasi ora, «chi mi ha cercato potrebbe non richiamare». E con lo stesso spirito, mentre corre in macchina verso Roma con un suo stretto collaboratore per incontrare un ministro, pretende di uscire dall’autostrada e tornare a Rimini, dove a un senzatetto aveva detto di ripassare la sera.

«Dopo anni di dolore desideravo solo morire – testimonia una ex prostituta – ma quella notte si fermò un’auto da cui uscì un uomo, lui non mi chiese quanto costi, mi chiese quanto soffri, e mi disse di seguirlo». «Ero per terra in stazione la notte di capodanno, ero fatto di ogni tipo di droga, avevo perso gli affetti, mi restava solo la morte, mi dicevo “è finita e sono contento che sia finita” – racconta Oscar Baffoni, poi missionario della Papa Giovanni XXIII nel mondo –. Di colpo in sala d’attesa entrò questo cappottone nero, in mano una bottiglia e un panettone, venne da me e mi chiese se volessi brindare con lui. Finì che gli raccontai la mia vita e lui mi fece una proposta: vieni con me, vedrai che facciamo tutto nuovo».

Stride di fronte al fuoco di don Benzi la tiepida miopia di opinionisti televisivi, politici e giornalisti, lontani anni luce dalla vita vera, quella che lui non ha timore a raccontare nei talk show come nelle Aule del potere e della Giustizia. Senza remore, bistratta volti ancora oggi noti (e attivi) che alle sue denunce oppongono la banalità del quieto vivere (sono schiave? sì ma in fondo è il mestiere più antico del mondo, perché cambiare la cose...) e davanti a chi in tivù lo tratta da santo («Lei è straordinario, mica possiamo vivere come lei, noialtri») scuote la testa amareggiato perché quello che pretende è solo il minimo della giustizia.

In pieno Sessantotto non contrasta i movimenti giovanili, anzi, li sfida ad essere coerenti fino in fondo, manifesta con loro il primo maggio ma in mezzo ai suoi disabili in carrozzina: chiedono lavoro, dignità, uguaglianza, sulle loro bandiere sventolano slogan mai visti prima, “Chiudiamo gli istituti e apriamo le fabbriche. Gli handicappati devono entrare in società».

Sullo sfondo, costante, la sua fede innamorata di Dio, «il mio respiro», come la definisce. Chi è don Benzi ce lo spiega lui stesso con la parabola del cane, che del suo amico umano non capisce i progetti ma lo ama profondamente e si fida: «Chi è don Benzi? Quel cane».

© riproduzione riservata





Mercoledì, 30 Ottobre 2024

Mentre nella mattinata di sabato 26 ottobre, ultimo giorno di lavori al Sinodo dei vescovi, il nostro sguardo scorreva i numeri del Documento finale, la mente è andata al mondo là fuori che attendeva una scossa energica e una parola di speranza. Per accendere l’animo m’è venuta in soccorso la parola appassionata di Paolo VI nel Discorso di chiusura dell’ultimo giorno del Vaticano II: «La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta, un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani […] ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo». Possiamo dire anche noi di aver portato la stessa passione nel cuore? Credo di sì: ma ora bisognerà passare dal Sinodo di carta al Sinodo di carne. Per farlo indico cinque temi notevoli.

Sfide cruciali

Il tema della fede in Dio nel mondo contemporaneo e la cura dell’iniziazione alla vita cristiana delle nuove generazioni è la sfida cruciale. È andata in crisi non solo la trasmissione della fede, ma soprattutto la consegna delle forme buone della vita. La difficoltà a generare alla vita e alla fede in formato grande si staglia sullo sfondo del mondo occidentale secolarizzato. Anche gli altri continenti ne subiscono l’influsso dirompente. Ormai la ricerca di spiritualità non si presenta più solo come un bricolage del sacro che attinge a luoghi e tradizioni diverse, ma ciascuno si siede a una tavola imbandita di senso e di esperienze per vivere, in cui la dimensione trascendente è un cibo per occasioni eccezionali come la nascita, la sofferenza e la morte. Le vere sfide si concentrano tutte nel ricupero della forza generativa del Vangelo. Ciò richiede soprattutto per ragazzi, adolescenti e giovani la ripresa del triangolo educativo tra famiglia, scuola e comunità cristiana. Su questo il Sinodo ha speso parole importanti.

Chiese di cristallo

Il Sinodo ha dedicato ampia attenzione all’autenticità della testimonianza della Chiesa nel mondo. La Chiesa dev’essere come una casa di cristallo. Tutti la osservano e devono poter vedere attraverso la trasparenza delle sue pareti come si parla, si decide e cresce la vita cristiana. Tre aspetti hanno interessato i dibattiti ai tavoli: i processi del discernimento comunitario, la sinodalità delle decisioni, la trasparenza delle valutazioni e dei rendiconti. Ma la sinodalità è condizione della missione, così che i più sensibili hanno posto l’accento sulla vita fraterna e sull’immagine di Chiesa delle parrocchie, dei movimenti e dei consacrati. La presenza capillare alla vita delle persone dev’essere capace di ringiovanire le comunità, attorno alla Parola, ai Sacramenti e alla Carità. La sinodalità delle decisioni e dei rendiconti non deve aumentare la burocrazia, ma coinvolgere tutti nello snellimento di una Chiesa obesa, per renderla duttile, sciolta, dinamica, più missionaria.

Nuovi venuti

Il prossimo 21 novembre ricorrono sessant’anni della Lumen Gentium, la costituzione conciliare sulla Chiesa, che ha messo in luce il suo carattere di mistero e di popolo di Dio. I laici furono il detonatore della riscoperta della Chiesa come soggetto storico, il popolo dei battezzati in cammino verso il Regno. Essi sono i “nuovi venuti” del Concilio per sedersi alla stessa mensa dei ministeri istituiti. Tanto è vero che nel primo periodo dopo il Concilio si parlò persino di “una Chiesa tutta ministeriale”. Ma se fosse così chi vivrebbe semplicemente la vita battesimale e la missione nel mondo? Oggi, la questione dei ministeri (di fatto e istituiti), radicati nel battesimo, intende superare il dualismo preti e laici e dare finalmente alla Chiesa un volto variegato come nel primo millennio. Su questo punto il Sinodo mi è sembrato timido, ha ripreso gli interventi di papa Francesco, senza scorgere il carattere strategico dei nuovi venuti per il rinnovamento della forma ecclesiale. La Chiesa di domani o sarà una Chiesa fraterna dal volto multiforme oppure semplicemente non sarà. Il numero 60 sulla partecipazione della donna alla missione ecclesiale è rimasto incompiuto e ha ricevuto il maggior numero di no (97).

Sinodi di carne

Uno dei punti più discussi ha riguardato la sinodalità (episcopale e battesimale). La natura pastorale e l’autorità dottrinale delle Conferenze episcopali (nazionali, regionali, provinciali e persino continentali) è stata oggetto di forte dibattito, anche per la critica delle Chiese orientali. Il pericolo paventato è quello di trasformare la Chiesa cattolica in un’Onu delle Chiese o in una confederazione di Chiese nazionali, dimenticando che storicamente la collegialità episcopale sorge dai sinodi provinciali. Ora però la questione più impellente è quella di passare dal Sinodo di carta al sinodo di carne. La sinodalità deve diventare una postura stabile di tutte le Chiese, attraverso gli strumenti di partecipazione, che talvolta si trascinano stancamente. A un tavolo è emersa la proposta originale di prevedere ogni cinque anni in ogni diocesi un’“Assemblea diocesana sinodale”, perché questo stile di Chiesa entri stabilmente nella pratica della vita ecclesiale. Non ha raggiunto però il livello del testo finale.

Povertà dimenticate

Grande impressione ha fatto nel Sinodo il grido che s’è levato dai teatri di guerra nel Medio Oriente, in Ucraina e in molti altri siti del mondo, all’origine di imponenti fenomeni migratori e della divaricazione tra popoli ricchi e poveri. Tuttavia, lo sguardo sul mondo delle povertà va differenziato. Non ci si può concentrare solo sull’indigenza materiale, ma occorre farsi prossimi della vulnerabilità e di tante povertà spirituali che affliggono anche il mondo del benessere e i figli dell’abbondanza. Il volto delle povertà è tentacolare e richiede ai cristiani lo sforzo di uscire dai luoghi comuni. Soprattutto da noi in Occidente la mancanza di senso e di futuro mina come un male oscuro le fasce giovanili, generando disagio, dipendenze, depressione, male di vivere.

Ecco cinque aree notevoli del Sinodo. Chi ha partecipato può correggere o arricchi-re l’elenco, perché il mondo là fuori senta che il Sinodo non lo ha dimenticato. E dei “punti scottanti” dei dieci “Gruppi di studio” al Sinodo non si è parlato? Sì, ai tavoli molto! Il tentativo di collegarli al lavoro sinodale è stato un po’ timido, ma i risultati non potranno tardare.

vescovo di Novara, ha partecipato alla Seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi






Mercoledì, 30 Ottobre 2024

Halloween? Dolcetto o scherzetto? No grazie. Come accade ormai da quasi un decennio, la sera del 31 ottobre, nella vigilia della solennità di Tutti i Santi, la Fondazione degli Oratori Milanesi-Fom propone ai ragazzi un modo diverso di vivere, se non proprio tutta la notte, almeno una gran parte della serata in cui tanti loro coetanei festeggiano, appunto, solo Halloween. Torna, infatti, l’ormai tradizionale appuntamento della “Notte dei Santi”, giunto alla nona edizione, ma in questo 2024 con un valore aggiunto. Un viaggio alla scoperta della figura del beato Carlo Acutis, il giovane milanese scomparso nel 2006 a soli 15 anni per una leucemia fulminante e del quale papa Francesco ha annunciato la canonizzazione prevista per il Giubileo del 2025.


L’iniziativa, dedicata per lo più agli adolescenti di età tra i 14 e i 16 anni, permetterà infatti di percorrere i luoghi che Carlo Acutis frequentava, dalle scuole dove ha studiato alla parrocchia in cui si recava quotidianamente per pregare e partecipare all’eucarestia: un itinerario caratterizzato da momenti di animazione, riflessione e testimonianza che culminerà con l’incontro e il dialogo finale con l’arcivescovo Delpini (tra le 21.30 e le 22.15) e i vescovi ausiliari che saranno tutti presenti, in momenti differenti della sera.
Divisi in gruppi, con partenze scaglionate fra le ore 18 e le ore 20.30, i 1500 ragazzi attesi si incontreranno in largo Cairoli per poi dirigersi nelle tre scuole che videro la presenza di Carlo studente: il Collegio San Carlo e gli Istituti delle Marcelline di piazza Tommaseo e Leone XIII. Proprio in quest’ultima scuola si potrà entrare visitando l’aula dove Carlo studiò nel suo ultimo anno di vita. Gli adolescenti, inoltre, incontreranno due testimoni che lo hanno conosciuto: al “Leone” il professore di religione dell’Istituto Fabrizio Zaggia, e alle “Marcelline” suor Monica Ceroni, oggi responsabile della scuola di piazza Tommaseo. Nella medesima piazza, di fronte alla scuola, si svolgerà l’ultima tappa dell’itinerario presso la parrocchia di Santa Maria Segreta dove i giovani saranno accolti da Delpini e dagli altri vescovi.


«Sono stata la preside e l’insegnante di religione di Carlo, dai suoi 6 anni ai 14, avendo frequentato da noi le scuole elementari e medie», ricorda suor Ceroni. «Era una ragazzo normalissimo e vivace, amante della libertà e credo davvero che sia un bell’esempio per i ragazzi di oggi perché testimonia che non serve essere fuori misura per essere santi. Un bravo studente e buon amico: penso che questa sia la santità che il Signore vorrebbe da un ragazzo di quell’età».


«Stiamo lavorando da diverso tempo sulla figura di Acutis – spiega, da parte sua, don Stefano Guidi, direttore della Fom –, perché i ragazzi e gli adolescenti vedono in lui anzitutto un coetaneo, dal punto di vista non soltanto anagrafico, ma anche culturale. La vita di Carlo non è semplicemente la vita di un santo adulto che è stato adolescente, ma è la vita di un adolescente che diventa santo».
Non a caso, ad Assisi, nel Santuario della Spogliazione, accanto all’urna che conserva il corpo di Carlo, continua ad ardere la “Lampada degli oratori della arcidiocesi di Milano”, un segno visibile del forte legame fra Acutis e i ragazzi degli oratori ambrosiani. Un rapporto ormai consolidato, come dimostra il pellegrinaggio della reliquia del “santo 2.0”, ospitata per brevi periodi di tempo in tante diverse realtà oratoriane sull’intero territorio diocesano.





Martedì, 29 Ottobre 2024

Il corpo di Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla mafia il 21 settembre 1990 e beatificato il 9 maggio 2021, sarà presto traslato dalla cappella del cimitero comunale alla chiesa di Santa Chiara in Canicattì, il paese dove viveva coi genitori. L’intenzione è di fare della chiesa il Santuario del beato Livatino, martire della fede e della giustizia, un luogo simbolico della nuova evangelizzazione, con un linguaggio legato al tema della giustizia e della legalità. A darne l’annuncio è stato monsignor Alessandro Damiano, arcivescovo di Agrigento, al termine dell’Assemblea diocesana convocata proprio a Canicattì nella chiesa di Santa Chiara.

Significativa la data scelta, il 29 ottobre, memoria liturgica del beato, in ricordo del giorno in cui nel 1988, a 36 anni, ricevette il sacramento della Cresima. Lo scorso 14 ottobre l’Arcivescovo aveva richiesto al Dicastero delle Cause dei Santi l’autorizzazione alla ricognizione canonica e alla traslazione del corpo. Il 21 ottobre il prefetto del Dicastero, il cardinale Marcello Semeraro, ha autorizzato a procedere. Attenendosi alle disposizioni dell’Istruzione sull’autenticità e la conservazione delle reliquie e alle prescrizioni del Regolamento di Polizia Mortuaria del Comune di Canicattì, la traslazione sarà eseguita nel corso del prossimo Anno giubilare.

Prima di giungere alla scelta della chiesa di Santa Chiara per la custodia del corpo del martire, l’Arcivescovo, affiancato da un’apposita commissione, ha valutato la possibilità delle altre chiese di Canicattì. Rispetto a queste, Santa Chiara è dotata di un’aula liturgica capace di accogliere più di mille fedeli e dispone di strutture di servizio adeguate all’accoglienza dei pellegrini e dei devoti: servizi igienici, sale comunitarie, ampissima sala per convegni, spazi all’aperto e parcheggi nel contesto urbano. Trattandosi inoltre di una nuova chiesa, nata per le esigenze pastorali legate all’espansione della parrocchia di Santa Lucia, non ha vincoli devozionali legati alla pietà popolare e proprio per questo si pensa di farne il Santuario dedicato al giudice martire.

Inoltre, la collocazione nella chiesa di Santa Chiara favorirà un pellegrinaggio simbolico anche nei luoghi degli affetti e della vita cristiana del beato: la Chiesa Madre, dove ha ricevuto il battesimo; la chiesa parrocchiale di san Domenico, dove ha ricevuto la Cresima, ha vissuto il suo cammino di fede, dove tutte le domeniche si recava a Messa assieme ai genitori e dove è stata aperta nel 2011 e successivamente chiusa nel 2018 la causa diocesana di beatificazione; infine la casa natale, dove ha vissuto fino all’ultimo giorno con i genitori, ma anche dove viveva un boss mafioso, tra i coinvolti nel suo tragico omicidio sulla statale 640 Caltanissetta-Agrigento in corrispondenza del viadotto Gasena. Anche questo è un luogo di memoria, con la presenza del monumento fatto erigere dai genitori e, da alcuni mesi, di un parco a lui dedicato.





Giovedì, 18 Luglio 2024

"Camminavo nella tendopoli del paese, dove abitano centinaia di migranti in attesa del permesso di soggiorno. A un certo punto, in un angolo, ho visto un ragazzo: stava cucinando pasta e fagioli in una pentola lurida, completamente annerita. Sono rimasto impressionato e ho detto: dobbiamo fare qualcosa". Il diacono Michele Vomera, direttore della Caritas calabrese di Oppido Mamertina-Palmi, racconta così la scintilla che ha acceso l’idea di creare una mensa diocesana a San Ferdinando, paesino della città metropolitana di Reggio Calabria, a due passi da Rosarno e dal porto di Gioia Tauro.

Era il 2019. L’intuizione di Vomera si concretizzerà un anno dopo, grazie ai fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica: circa 115mila euro, ricevuti tra il 2020 e il 2022, che hanno finanziato l’acquisto di tutte le attrezzature per una cucina solidale allestita nei locali messi a disposizione dalle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida. Oggi la mensa funziona a pieno regime: conta 100 posti a sedere e, grazie a 40 volontari, distribuisce 400 pasti alla settimana a persone fragili e in difficoltà economica. Fin dalla sua inaugurazione, in piena pandemia, ha attivato un servizio da asporto che ancora oggi vede giovani volontari fare la spola tra la cucina e i bisognosi, compresi quelli della tendopoli di San Ferdinando da cui è partito il progetto.

"La nostra diocesi - spiega Vomera - è piccola: ha circa 175mila abitanti e 66 parrocchie. Sul territorio i migranti costituiscono il 6% della popolazione ma vivono separati dal resto della società, in punti ben precisi e riconoscibili della città, per esempio nella tendopoli di San Ferdinando, a contrada Russo a Taurianova o nel villaggio della solidarietà di Rosarno. Qui le persone arrivate in Italia non riescono a integrarsi e sono letteralmente messe da parte. Forse anche per questo all’inizio molti non si aspettavano che i migranti avrebbero accettato da noi un piatto di pasta; c’era l’idea che preferissero cucinare le ricette tipiche della loro cultura. Invece non c’è mai stato nessun problema, abbiamo sempre ricevuto complimenti e ringraziamenti. E oggi nel menù, oltre alle preparazioni della cucina italiana, abbiamo aggiunto anche qualche piatto tipico africano".

Ma in diocesi non ci sono solo stranieri e tra gli italiani la Caritas si interessa soprattutto ai numerosi anziani dei paesini dell’entroterra che vivono il fenomeno dello spopolamento. "A molte persone che frequentano la mensa - dice Vomera - non manca il pasto ma affetto, dialogo e supporto. Ricordo il caso di Enrico: mi raccontò di un problema di salute che non riusciva a superare per un intoppo burocratico; ne abbiamo parlato a tavola e lo abbiamo aiutato a risolvere attivando una rete proprio come si farebbe per un amico".

Da qualche anno a Gioia Tauro la diocesi, su impulso delle quattro parrocchie locali che hanno anche offerto gli spazi di un ex asilo, ha voluto anche un emporio della solidarietà, un piccolo supermercato dove le famiglie possono fare la spesa in materia autonoma. L’emporio, reso possibile anche dai fondi dell’8xmille alla Chiesa cattolica e aperto tre giorni alla settimana, sostituisce la distribuzione dei pacchi alimentari ai bisognosi e, più che un servizio assistenzialista, assomiglia a un piccolo negozio di vicinato dove le persone prese in carico dai Centri di ascolto Caritas possono acquistare prodotti alimentari, di pulizia e igiene usando un’apposita carta a punti. "L’approccio è molto diverso - ci spiega il direttore Caritas - perché le persone possono scegliere quello di cui hanno realmente bisogno, evitano sprechi e si vedono restituita la loro autonomia". L’esperimento funziona e la Caritas sta attualmente pensando di aprire succursali in altre località.

All’emporio la Caritas aggiungerà presto anche un negozio di vestiti (nuovi o in ottimo stato) dove gli utenti potranno comprare pantaloni e magliette al prezzo simbolico di 1 euro al pezzo. L’ennesimo anello di una catena di solidarietà che la mensa e l’emporio hanno innescato sul territorio. Attualmente, per esempio, la Caritas sta studiando come recuperare le eccedenze alimentari collaborando con alcune catene di grande distribuzione e ha attivato una cooperazione con aziende locali che da un lato donano materie prime importanti per le attività di ristorazione e dall’altro si prestano a ospitare giovani per un percorso lavorativo.
"Sul territorio della nostra diocesi il lavoro nero è dappertutto", spiega il direttore della Caritas che non a caso ha dedicato gli ultimi progetti 8xmille al contrasto di impieghi precari e irregolari. "Abbiamo permesso ad alcuni ragazzi di inserirsi in aziende in regola e di avviare stage di minimo sei mesi per approcciarsi al mondo del lavoro. Ha funzionato: la metà dei 21 tirocini attivati finora si è trasformata in un contratto a tempo indeterminato".

?





Martedì, 29 Ottobre 2024

La Chiesa, a tutti i livelli, è sempre più determinata a portare luce nelle tenebre della terribile piaga degli abusi. Lo si evince anche dal Rapporto annuale della Commissione pontificia per la Tutela dei minori presentato ieri. Tra le altre cose, vi si raccomanda di procedere a forme di risarcimento alle vittime, non solo economico, si fa un bilancio delle forme di lotta all’abuso messe in atto in diverse aree geografiche (promossa la Chiesa italiana) e soprattutto, come ha fatto nella conferenza stampa il presidente della Commissione, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston, si fa ancora un mea culpa di fronte a coloro che sono stati colpiti da questa piaga. Il porporato ha comunque sottolineato, sia nell’introduzione al documento (composto da circa un centinaio di pagine), sia rispondendo alle domande dei giornalisti, che si è definitivamente voltato pagina e non verranno ripetuti gli errori del passato.

«Fornire riconoscimento e riparazione alla crisi degli abusi nella Chiesa è difficile - ha scritto -. Come espresso nella preghiera di San Francesco, dove ci sono le tenebre, dobbiamo lavorare incessantemente per portare la luce. Il Rapporto Annuale è uno strumento che può aiutarci a continuare a lavorare insieme per la tutela e la protezione del popolo della Chiesa e di tutte le persone di buona fede». Secondo il porporato è un bene il fatto che alcune «vittime e sopravvissuti abbiano coraggiosamente parlato. La vostra resilienza è una testimonianza di speranza. E sono anche grato - ha aggiunto - a tutti coloro che stanno lavorando per sviluppare e implementare le politiche e le procedure necessarie affinché la Chiesa sia il più possibile capace di prevenire il ripetersi di abusi».
Il cardinale ha diviso il cammino della lotta agli abusi in due periodi. Quello passato, in cui per 40 anni, come sacerdote e vescovo, ha detto, è stato testimone del dolore delle vittime. «Grazie alla vicinanza personale con le vittime, le loro famiglie, i loro cari e le loro comunità - ha ricordato -, ho ascoltato potenti testimonianze del tradimento che si prova quando si subisce un abuso da parte di una persona in cui si è riposta fiducia, e delle implicazioni che tale abuso comporta per tutta la vita». Ma oggi è diverso. Oggi, ha detto il presidente della Commissione voluta da papa Francesco, «la responsabilità, la cura e la preoccupazione per le vittime cominciano a fare luce sull’oscurità. È un periodo in cui esistono solidi sistemi di denuncia che ci permettono di ascoltare e rispondere alle vittime, con un approccio informato sui traumi. È un periodo - ha fatto notare - in cui i protocolli di gestione del rischio e la supervisione informata promuovono ambienti sicuri. È un periodo in cui la Chiesa fornisce servizi professionali di accompagnamento delle vittime, come impegno per il viaggio verso la guarigione. È un periodo in cui tutti coloro che svolgono un ministero e lavorano nella Chiesa ricevono la formazione e l’addestramento necessari per promuovere una cultura della tutela. È un periodo in cui la Chiesa abbraccia pienamente il suo ministero di salvaguardia».
Ne ha dato atto anche una ex vittima, ora membro della Commissione, Juan Carlos Cruz. «Non avrei mai creduto che sarebbe arrivato un giorno come questo. Ringrazio Papa Francesco per essersi preso cura dei sopravvissuti, per essere impegnato in questo sforzo. Verità, giustizia, riparazioni, sono parole che in passato erano un tabù in molti luoghi». Cruz ha poi rivolto un pensiero a «coloro che non ci sono più perché molti si sono tolti la vita, hanno lasciato questo mondo senza alcuna speranza. Ma questo è un nuovo giorno», ha concluso.
Il cardinale O’Malley ha notato tuttavia che molto lavoro resta da fare. E durante la conferenza stampa ci si è soffermati anche sugli aspetti da migliorare. Nel Rapporto si chiede ad esempio l’intera materia venga affrontata in un documento del magistero, magari un’enciclica. Si chiede inoltre di prevedere una procedura definita che porti alle dimissioni di quei “leader” ecclesiastici, che siano stati inattivi di fronte al problema, ma volte “coprendo” ecclesiastici pedofili. Ma soprattutto dalle pagine del Rapporto emerge anche una fotografia di come nelle diverse nazioni e nei diversi continenti viene affrontata questa terribile piaga. In Europa, ad esempio, non sono stati fatti complessivamente gli auspicati progressi «Se da una parte nelle Chiese locali sono stati condotti alcuni seri studi sulla prevalenza degli abusi con avanzato impegno in materia di tutela, in diverse parti del continente si registra una persistente assenza di statistiche affidabili sull’entità degli abusi da parte di chierici e religiosi», sottolinea il documento.
La Chiesa italiana però ne esce bene. Essa viene inserita tra quelle che hanno portato avanti «buone pratiche», insieme alla Francia, al Belgio. all’Irlanda e alla Germania: «In Italia, la Chiesa ha istituito commissioni diocesane indipendenti formate anche da esperti laici per supervisionare e indagare sulle accuse di abuso, promuovendo la trasparenza e l’esercizio della responsabilità istituzionale nella gestione di tali casi», si legge infatti nel Rapporto. Dal Messico invece non c’è stata alcuna risposta e il cardinale O’Malley ha detto di essere deluso.
Bisogna lavorare inoltre per ovviare alla «mancanza di meccanismi di denuncia accessibili, e di un seguito dato a dette denunce da parte delle autorità ecclesiastiche». Ciò provoca «frustrazione tra le vittime a causa della gestione dei loro casi da parte del sistema canonico. Anche nei Paesi in cui esiste un alto grado di efficienza nell’ambito della giustizia civile, il rispetto da parte della Chiesa del potere riservato agli Stati - che prevede di attendere la conclusione di un processo penale prima di procedere con quello canonico, come indicato esplicitamente anche dal Dicastero per la Dottrina della Fede nel Vademecum del 2022 - viene visto da molte vittime come un ulteriore silenzio da parte della Chiesa», evidenzia il Rapporto. «In alcuni Paesi la reputazione della Chiesa sembra avere priorità rispetto alla protezione delle vittime».
Resta da colmare infine la lacuna circa i dati. Secondo la giurista Maud de Boer-Buquicchio, «gran parte della Chiesa rimane priva di solide pratiche o capacità di raccolta dati. Eppure, i dati sono fondamentali per la nostra capacità di promuovere la responsabilità. Dobbiamo impegnarci di più in questo senso».




Martedì, 29 Ottobre 2024

L’immagine più chiara ed efficace è quella del cammino da fare insieme. Nel senso che il Sinodo sulla sinodalità è finito ma in realtà continua. Lo stesso Documento conclusivo approvato sabato scorso deve diventare strumento di vita vissuta coinvolgendo tutti, recita il testo, in un percorso condiviso di consultazione e discernimento. Significa che «si continuerà a lavorare a diversi livelli – spiega il vicepresidente della Cei monsignor Erio Castellucci arcivescovo di Modena-Nontantola, vescovo di Carpi e presidente del Comitato nazionale del Cammino sinodale –. Il primo è quello delle diocesi. Ci sono tanti spunti ed esperienze cristallizzati nel Documento finale, un testo che non è nato semplicemente dal lavoro di qualche settimana, ma è maturato in questi tre anni e che ora avendo annunciato il Papa che non ci sarà alcuna esortazione apostolica, diventa il testo da consegnare alle Chiese locali. E poi c'è il livello dei gruppi di studio che continuerà a lavorare sui temi sinodali, alcuni molto impegnativi per l'intera Chiesa».

I commenti si sono concentrati soprattutto sulle donne.

Il tema delle donne diacono è importante, ma potrà riguardare eventualmente solo una piccolissima minoranza, invece quello delle donne in quanto tali, riguarda tutti e tutte. Il Papa ci sta dando degli esempi mettendo presenze femminile in ruoli di governo nella Chiesa. Bisognerà superare diverse mentalità un po’ arroccate e aprire le diocesi, le parrocchie, a questa prospettiva.

La parola chiave emersa al termine dei lavori è armonia, armonia delle differenze.

Sì, è stata usata l'immagine molto cara ai cristiani d'Oriente della Chiesa come sinfonia, del Sinodo come armonia, per indicare che la Chiesa non è né una uniformità, un solo tono, un solo strumento, un solo spartito e neanche un’anarchia ma vi si trova una confluenza delle diversità così come l'inverso. Cioè il fatto che, come a Pentecoste, una sola lingua può venire udita nelle lingue di tutti. Bisogna cercare di individuare quelle diversità che non possono essere accolte, perché creano solamente divisione, ma soprattutto quelle, e sono molte, che creano ricchezza e quindi vanno recepite.

Al Sinodo si è parlato anche della necessità di superare certe rigidità che caratterizzano la vita della Chiesa. C’è, a suo modo di vedere, uno scollamento tra vertici e base?

Credo che oggi lo scollamento sia non tanto verticale, con i vertici da una parte e dall'altra il popolo santo, ma trasversale, con delle guide, peraltro non tante, che si sono arroccate su posizioni nostalgiche, indietriste, dice papa Francesco, allergiche e anche pesantemente critiche nei confronti di qualsiasi cambiamento. Una posizione che però non è esclusiva di alcuni vescovi o preti ma trova posto abbondantemente anche nella gente semplice, che non riesce a distinguere tra le proposte di vera tradizione di Chiesa e quelle di stampo tradizionalistico, che invece impediscono qualsiasi cambiamento.

La sfida riguarda sia pastori che laici, insomma. Non a caso Sinodo vuol dire camminare insieme.

Alcuni meccanismi da sbloccare sono stati individuati sia nel Sinodo generale che nel Cammino italiano e riguardano la prospettiva di una missione più snella. A grande voce tutte le persone che hanno partecipato al primo anno della proposta sinodale hanno chiesto una formazione più adatta a tutti, cioè non per alcuni specialisti ma che passi attraverso esperienze fatte insieme, con creatività, momenti di servizio, testimonianze. Un’iniziazione cristiana ripensata in n modo meno scolastico e più esperienziale. Un secondo nucleo, secondo me, da sbloccare è quello della partecipazione ai processi decisionali nella Chiesa.

Una svolta importante.

Attualmente, tutti gli organismi di partecipazione sono consultivi, cioè si danno dei consigli ma poi chi deve decidere, i parroci, i vescovi, è libero di farlo autonomamente. Su questo tema il Sinodo ha messo a punto dei percorsi, c'è una Commissione per questo, di maturazione. Nel senso che l’aspetto consultivo e quello a deliberativo si devono intrecciare. E questo comporterà anche il coinvolgimento delle donne, che sono parte del mondo laicale, anzi la maggior parte. Un passaggio molto più importante di quello che sembra, perché metterà a disposizione la sensibilità e l'intelligenza femminile delle decisioni della Chiesa che oggi spesso appaiono molto maschili e poco integrate nella vita comunitaria.

Un altro aspetto riguarda molto il nostro Paese.

Sì, il problema della gestione delle strutture, che riguarda le Chiese di antica cristianità o di post-cristianità. Abbiamo strutture materiali, pastorali, mentali, burocratiche che sono ritagliate sui tempi della cristianità quando, probabilmente in modo più ipotetico che reale, c'era una buona saldatura tra la Chiesa e la società, sia dal punto di vista culturale che operativo. Adesso quel legame non c'è più. Però ci restano le strutture, comprese quelle materiali che ci stanno crollando addosso. E che oltretutto agiscono da fumo negli occhi, perché danno l’idea che la Chiesa sia molto ricca mentre invece spesso rappresentano solo costi, di manutenzione e di restauro senza portare benefici pastorali.

A proposito delle Chiese in Italia siamo alla vigilia di un appuntamento importante, quello della prima Assemblea sinodale, che si svolgerà dal 15 al 17 novembre in San Paolo fuori le Mura, a Roma.

Sì, per noi è questa la fase finale del Cammino sinodale, che poi sarà, speriamo, la fase iniziale di un rinnovamento. Raccogliamo i frutti di questi anni, vissuti sempre in contatto, anzi il primo proprio in osmosi con il Sinodo generale. Li raccogliamo attorno ad alcuni elementi specifici per l'Italia che sono in gran parte condivisi. Il fatto che il Papa abbia deciso di non scrivere un'Esortazione apostolica consegnando alle diocesi il Documento approvato sabato ci facilita molto, perché ci dà già dei punti di riferimento fermi. Poi noi dovremmo procedere anche considerando le peculiarità dell'Italia. Per esempio dovremmo tenere conto che da noi il 95% della formazione attualmente riguarda i bambini e i ragazzi, cioè l'iniziazione cristiana in preparazione ai sacramenti, però aprendoci al discorso degli adulti, dei giovani. Un altro tema, quello dei ministeri femminili e maschili, in Italia è abbastanza consolidato, ma anche a rischio clericalismo; quindi, dovremmo vedere come collocarlo dentro un orizzonte missionario che non sia solo al servizio di una conservazione che vorremmo superare ma di una Chiesa più estroversa, più in uscita, come dice il Papa. Inoltre, ripeto, la questione delle strutture, abbastanza specifico per noi, intrecciando la legislazione concordataria con quella italiana che assegna al responsabile pastorale della Comunità, il parroco, anche la responsabilità legale.

Tornando ai calendari, dopo quella del 15-l 17 novembre, dal 31 marzo al 4 aprile si terrà la Seconda assemblea sinodale.

A novembre si partirà dai i Lineamenti che sono già stati distribuiti e che inquadrano i temi che dovranno essere trasformati durante l'Assemblea in uno strumento di lavoro consegnato alle diocesi, che avranno tre mesi per integrarlo con osservazioni e proposte. Nell’Assemblea di fine marzo e inizio aprile verranno discusse e votate le proposizioni cui i vescovi daranno forma definitiva nell'Assemblea generale di maggio, così da diventare orientative e normative per le Chiese italiane.

Ma se lei dovesse riassumere il bello del Sinodo appena concluso, il segno da cui si è sentito maggiormente arricchito?

Direi il contatto quotidiano per un mese con uomini e donne, vescovi, laici, papà, mamme, religiosi, religiose di tutto il mondo, la possibilità di ascoltare la testimonianza di Chiese tra loro diversissime, realizzando l’immagine di una sinfonia, fatta di note, strumenti, voci, spartiti che apparentemente non sono legati. Chiese in situazioni di guerra, Chiese di territori dove i cattolici sono un'infima minoranza, dove i credenti non possono esprimere la loro fede. Eppure il concerto, la sinfonia, era segnato dalla gioia di essere cristiani, dalla bellezza del credere, dalla possibilità di vivere la carità verso i fratelli e le sorelle, anche quelli di altre fedi o di nessuna religione. Dove da noi spesso prevale la noia o la nostalgia, là si vive la gioia di essere lievito, piccole comunità ma creative.





Martedì, 29 Ottobre 2024

La parola chiave che ripetono all’unisono è gratitudine. Geneviève Jeanningros e Anna Amelia Gigli, piccole sorelle di Gesù che hanno varcato già da qualche tempo la soglia degli 80 anni vivendo in due caravan nel Luna park di Ostia Lido, sul litorale romano, vogliono dire il loro grazie al Signore «a conclusione del nostro servizio nel mondo del circo e dello spettacolo viaggiante, per quanto ci ha permesso di vivere in questi anni. Per i volti e le storie che abbiamo incontrato, per il dono dei fratelli con cui abbiamo condiviso la nostra vita, per tutti gli amici che in questi anni ci hanno ricolmato di amore, per la fiducia e l’affetto che le nostre responsabili ci hanno sempre dimostrato». Oggi pomeriggio alle 18.30 il vescovo ausiliare del settore Sud della diocesi di Roma, monsignor Dario Gervasi, presiederà la celebrazione eucaristica sulla pista dell’autoscontro del Parcolido in piazza della Stazione vecchia, meteo permettendo. Un luogo amato anche da papa Francesco, che ha incontrato due volte con semplicità – la prima il 3 maggio 2015, l’ultima pochi mesi fa, a fine luglio – le due religiose e le famiglie che lavorano in un settore precario come quello dei giostrai.

«Sono tutti dispiaciuti per la nostra partenza», dice piccola sorella Geneviève. Di origine francese, la suora ha condiviso con i giostrai 55 dei suoi 81 anni e mezzo, ma è nota anche per il suo impegno nei confronti della comunità LGBT+, avendo più volte organizzato incontri tra papa Francesco e persone trans e omosessuali.

Raccontano le due suore che, nelle loro giornate scandite da preghiera, spesa, cucina, faccende, lavoro pomeridiano e serale allo stand diviso fra giochi e vendita di lavori artigianali in creta e gesso realizzati da piccola sorella Anna Amelia, «abbiamo ricevuto tanto dai nostri amici delle giostre. La vicina Elisabetta diceva: “Noi siamo esseri liberi” e un po’ di questa libertà l’abbiamo presa anche noi. Poi la vocazione dei giostrai e circensi è portare gioia dove sono, con la loro presenza. Cercano sempre davanti al pubblico di scordarsi le loro pene per essere accoglienti: un’altra bella qualità. Formiamo una grande famiglia con loro, che sono aperti a tutti e ci hanno aiutato a fare altrettanto. I rapporti sono veri, non sono belle parole e pennellate: se non sono d’accordo, te lo dicono». E piccola sorella Anna Amelia aggiunge: «Per loro siamo delle sorelle. Ci chiedono di tornare ogni tanto a trovarli, quando non potremo verranno loro».

Al Parcolido per ora resterà così com’è il caravan visitato per la prima volta da un Papa il 3 maggio 2015, prima di andare nella parrocchia S. Maria Regina Pacis. «Il 31 luglio scorso è venuto nel pomeriggio a benedire una statua della Madonna che i nostri amici hanno voluto mettere nel Luna park. Per noi è un padre e un fratello: lo chiamano papà, babbo. Sa che ce ne andiamo, è dispiaciuto anche lui, pur comprendendone i motivi», confida piccola sorella Geneviève. E la consorella aggiunge: «C’è qualcosa di profondo che resta sempre quando vuoi bene veramente a qualcuno. Soffri e scoprirai cose belle, ma non starai ferma».

La presenza nel mondo dei giostrai era stata fortemente voluta dalla fondatrice, piccola sorella Magdeleine, di cui è in corso la causa di beatificazione. Nel gennaio 1965 aveva pensato a una presenza con uno stand al Luna park del quartiere Eur di Roma: «È la Chiesa che va verso il mondo. Lo stand si chiamerà “Nuit de Lumière”, Notte di luce. E sarà il presepe permanente, il Natale permanente». Fu inaugurato il 29 giugno 1966 e nel 2008, quando il Luneur chiuse da un giorno all’altro, per un anno le piccole sorelle parteciparono ai Luna park vicini, fino al 2010 quando furono accolte al Luna park di Ostia dal responsabile Ginetto Pugliè, che con grande disponibilità le ha sempre fatte sentire parte della comunità del Parcolido. Le piccole sorelle avevano allestito uno stand con giochi e lavori artigianali, vivendo dal 2012 in un caravan prestato e allestito a cappella nella parte posteriore, mentre un vecchio camion era stato trasformato in due camere da letto e un piccolo magazzino. Collaborando con l’allora Pontificio Consiglio per gli itineranti e con la Fondazione Migrantes della Cei, piccola sorella Anna Amelia ha curato i testi per la catechesi di bambini e adulti. «Vivere con e come loro, condividendo gioie, fatiche, speranze, sofferenze. E nello stesso tempo cercando nel cuore dell’altro i segni di amore, i semi di Dio, ed essere per ciascuno una sorella, un piccolo segno della tenerezza di Gesù, una porta aperta. E a nostra volta siamo state accolte come sorelle, come parte della loro famiglia»: così sintetizzano la loro esperienza.

Anche se anziane, restano profondamente innamorate di questa vita «come Gesù a Nazaret, con la porta sempre aperta e il cuore spalancato a chiunque passi, lasciando trasparire la sua tenerezza». Sui passi della loro fondatrice, che parlando della congregazione, definita «fraternità», diceva: «Non ho voluto fare altro che un’opera d’amore. E ora sta a ciascuna di voi, che vi siete impegnate con me su questo stesso cammino, di continuare a farne un’opera d’amore, tenendo bene in mente che quest’opera non ci appartiene, ma che è un’opera della Chiesa».





Lunedì, 28 Ottobre 2024

Secondo quanto trapelato dai lavori sinodali sono state due le questioni su cui il dibattito e le riflessioni hanno marcato le maggiori differenze tra le varie sensibilità presenti nell’assise: la questione del ruolo delle donne nella Chiesa e quella dello statuto teologico e dottrinale delle Conferenze episcopali. E in effetti proprio i due paragrafi riguardanti questi temi, pur risultando approvati con la richiesta maggioranza qualificata dei due terzi, hanno ricevuto il maggior numero di voti negativi.

La questione donna, trattata nel paragrafo 60 del documento, è quella che ha avuto la (relativamente) più bassa cifra di consensi: 258 su 355. I voti negativi sono stati invece 97 (il 27,3%: probabilmente la somma di quanti vi hanno trovato troppe novità e di chi al contrario ne ha riscontrate troppo poche). Lo scorso anno il paragrafo più “contestato” (era quello sul “diaconato femminile”) ebbe 69 “no” su 344 votanti.

Nel paragrafo in questione, dopo l’affermazione che le donne «costituiscono la maggioranza di coloro che frequentano le chiese», che esse «contribuiscono alla ricerca teologica» e che «sono presenti in posizioni di responsabilità nelle istituzioni legate alla Chiesa, nelle curie diocesane e nella Curia Romana», si sottolinea la presenza di donne «che svolgono ruoli di autorità o sono a capo di comunità». «Questa Assemblea – prosegue il paragrafo in questione - invita a dare piena attuazione a tutte le opportunità già previste dal diritto vigente relativamente al ruolo delle donne, in particolare nei luoghi dove esse restano inattuate. Non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta. Occorre proseguire il discernimento a riguardo». Discernimento che verrà attuato dalla Commissione presieduta dal cardinale Giuseppe Petrocchi e poi dal Gruppo di studio coordinato dal prefetto del Dicastero per la dottrina della fede, il cardinale Victor Manuel Fernandez.

Il tema sui poteri delle Conferenze episcopali è stato trattato nel paragrafo 125 del documento finale, che è stato approvato con 310 “sì” e 45 “no” (il 12,7%). In esso si afferma che le Conferenze episcopali «sono uno strumento fondamentale per creare legami, condividere esperienze e buone pratiche tra le Chiese, adattare la vita cristiana e l’espressione della fede alle diverse culture». Di qui la richiesta «di precisare l’ambito della competenza dottrinale e disciplinare delle Conferenze episcopali», senza però «compromettere l’autorità del vescovo nella Chiesa a lui affidata né mettere a rischio l’unità e la cattolicità della Chiesa». Un siffatto esercizio collegiale di tali competenze infatti «può favorire l’insegnamento autentico dell’unica fede in un modo adeguato e inculturato nei diversi contesti, individuando le opportune espressioni liturgiche, catechetiche, disciplinari, pastorali, teologiche e spirituali». In particolare il paragrofo 125 chiede «di specificare il vincolo ecclesiale che le decisioni prese da una Conferenza episcopale generano, rispetto alla propria diocesi, per ciascun vescovo che ha partecipato a quelle stesse decisioni». Riguardo questo tema è utile ricordare che già nel motu proprio Apostolos Suos del 1998 si riconosceva alle Conferenze episcopali un qualche potere di carattere dottrinale, a determinate condizioni (unanimità o maggioranza dei due terzi con “recognitio” vaticana).

Dei 155 paragrafi che compongono il documento finale solo altri due hanno avuto 40 e più voti contrari. Si tratta del numero 27 sulla liturgia (approvato con 312 “sì” e 43 “no”), in cui si chiede «l’istituzione di uno specifico Gruppo di studio, a cui affidare anche la riflessione su come rendere le celebrazioni liturgiche più espressive della sinodalità», e che «si potrà inoltre occupare della predicazione all’interno delle celebrazioni liturgiche e dello sviluppo di una catechesi sulla sinodalità in chiave mistagogica». Le norme in vigore – seppure a volte disattese – prevedono che le omelie siano obbligatoriamente tenute da ministri ordinati.
Il paragrafo 148 infine è quello che ha è stato approvato con 315 “sì” e 40 “no”. Riguarda la formazione al sacerdozio con la richiesta «di una presenza significativa di figure femminili», e «di una revisione della Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis che recepisca le istanze maturate nel Sinodo, traducendole in indicazioni precise per una formazione alla sinodalità».

Il Documento finale è formato da cinque parti. Alla prima - intitolata Il cuore della sinodalità - segue la seconda parte - Insieme, sulla barca di Pietro - «dedicata alla conversione delle relazioni che edificano la comunità cristiana e danno forma alla missione nell’intreccio di vocazioni, carismi e ministeri». La terza parte - Sulla tua Parola - «identifica tre pratiche tra loro intimamente connesse: discernimento ecclesiale, processi decisionali, cultura della trasparenza, del rendiconto e della valutazione». La quarta parte - Una pesca abbondante - «delinea il modo in cui è possibile coltivare in forme nuove lo scambio dei doni e l’intreccio dei legami che ci uniscono nella Chiesa, in un tempo in cui l’esperienza del radicamento in un luogo sta cambiando profondamente». Infine, la quinta parte - Anch ’io mando voi - «permette di guardare al primo passo da compiere: curare la formazione di tutti alla sinodalità missionaria». In conformità alla Costituzione Episcopalis Communio la scelta di papa Francesco di non pubblicare una esortazione post-sinodale ma di approvare espressamente il Documento finale significa - ha spiegato il segretario speciale del Sinodo don Riccardo Battocchio - che questo testo partecipa del Magistero ordinario del Successore di Pietro, non con valore normativo, ma dando delle linee di orientamento. «Non è normativo - ha puntualizzato il teologo rettore dell’Almo Collegio Capranica - non significa che non impegna le Chiese» ma indica «una direzione da prendere tutti insieme» in quella «pluralità che caratterizza fin dalle origini l’essere Chiesa di Cristo».





Lunedì, 28 Ottobre 2024

È morto ieri mattina il cardinale protodiacono Renato Raffaele Martino, figura eminente della Curia Romana durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, strenuo difensore del diritto alla vita e instancabile promotore di pace. Tra pochi giorni avrebbe compiuto 92 anni. Era infatti nato il 23 novembre 1932 a Salerno. Alunno dell’Almo Collegio Capranica era stato ordinato sacerdote nel 1957 e il nel 1962 era entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede, lavorando, oltre che nella Segreteria di Stato, nelle nunziature in Nicaragua, Filippine, Libano, Canada e Brasile. Nel 1980 era stato nominato arcivescovo e pro-nunzio apostolico in Thailandia. Nel 1986 aveva ricevuto l’incarico di osservatore permanente della Santa Sede presso la sede Onu di New York, dove era rimasto per ben 16 anni. In questa veste aveva partecipato come capodelegazione vaticana alla Conferenza sulla popolazione e lo sviluppo svoltasi nel 1994 al Cairo, dove riuscì a coagulare un consenso per stabilire che l’aborto in nessun caso può essere considerato un metodo di pianificazione familiare. Nel 2002 Giovanni Paolo II lo aveva nominato presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace e nel Concistoro del 21 ottobre 2003 lo aveva creato cardinale. L’11 marzo 2006 Benedetto XVI lo aveva designato anche presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, rinunciando all’incarico il 28 febbraio 2009. Il 24 ottobre dello stesso anno aveva rinunciato alla presidenza del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace. Dal 12 giugno 2014 era cardinale protodiacono. In qualità di presidente di Giustizia e Pace Martino aveva dato voce all’opposizione del Papa e della Santa Sede alla seconda Guerra del Golfo del 2003 e aveva continuato e portato a termine la redazione del prezioso Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, venuto alla luce nel 2005.

Con la scomparsa del cardinale Martino il numero dei cardinali scende momentaneamente a 233 di cui 121 elettori in un eventuale Conclave. Dopo il Concistoro previsto per il 7 dicembre, che vedrà la creazione di 20 nuovi porporati di cui 19 votanti, il Sacro Collegio risulterà composto da 253 membri, di cui 140 elettori (che diventeranno 139 il 24 dicembre per gli 80 anni dell’indiano Oswald Gracias e 138 il 22 gennaio 2025 per quelli dell’austriaco Christoph Schönborn). Protodiacono a pieno titolo diventa ora il cardinale corso-francese Dominique Mamberti, 72 anni, prefetto della Segnatura Apostolica. Quello di protodiacono è un titolo onorifico, che però acquista un particolare valore in caso di Conclave. È lui infatti ad annunciare alla Chiesa e al mondo il nome del nuovo Vescovo di Roma. Le esequie del cardinale Martino si terranno domani, alle 15, all’Altare della Cattedra della Basilica di San Pietro. La liturgia sarà presieduta dal cardinale decano Giovanni Battista Re. Al termine della celebrazione papa Francesco presiederà il rito dell’Ultima Commendatio e della Valedictio.





Lunedì, 28 Ottobre 2024

Nel sistema educativo di san Giovanni Bosco hanno avuto un ruolo fondamentale le passeggiate con i giovani: itinerari di amicizia, di festa, di vita in gruppo, opportunità di nuove scoperte e di contemplazione della natura.

Ciò che colpisce nella santità di don Bosco è proprio il suo atteggiamento di semplicità, creatività e allegria. La gioia, di cui l’allegria è l’espressione esterna, è stata (ed è ancora) uno degli elementi basilari della sua pedagogia, fattore essenziale di un ambiente educativo. Da vero “genio del bene”, don Bosco aveva capito che il divertirsi, il ridere, il camminare insieme, creano una positiva sensazione di benessere e rappresentano una preziosa opportunità di relazione con le persone e con la natura. Sono perciò il segreto della vera amicizia, della profonda sintonia e quindi della vera comunicazione.

Ecco perché i divertimenti, gli svaghi avevano una grande importanza ai suoi occhi di educatore e di padre spirituale. Tra i tanti passatempi da lui inventati e promossi, don Bosco diede importanza anche alle passeggiate. Nell’esperienza pedagogica preventiva del prete di Valdocco questi mezzi, come altri, avevano anzitutto lo scopo di sottrarre i ragazzi dai pericoli del tempo libero vissuto senza impegno e, nello stesso tempo, erano un’occasione di maturazione e di divertimento sano e piacevole che arricchisce il corpo e lo spirito. Ciò che don Bosco voleva mostrare ai giovani era che il servire Dio può andare di pari passo con l’onesta allegria.

Una delle mete preferite da don Bosco per le passeggiate con i suoi giovani era la Basilica di Superga. Nelle Memorie dell’Oratorio si legge che un giorno, provvisti del necessario, si incamminarono verso la collina tra canti e tanta allegria. Arrivati ai piedi della salita, don Bosco trovò un cavallo mandato da don Anselmetti, curato di quella chiesa, e così a cavallo, circondato dai suoi giovani, tra canti e risate, giunse alla Basilica. Inoltre, ogni anno, in ottobre, per la festa della Madonna del Rosario, era diventata tradizione che la comitiva facesse tappa ai Becchi – luogo di nascita del santo, frazione di Castelnuovo d’Asti – dove il fratello di don Bosco, Giuseppe, per ospitarli metteva a disposizione non solo la casa, ma anche il granaio.

Dal 1859 le passeggiate autunnali si trasformarono in veri e propri itinerari festosi attraverso le colline del Monferrato. Don Bosco le scaglionava in tre o quattro settimane nei mesi di settembre e ottobre: erano veri campi di vacanza, i giovani però le meritavano solo con la buona condotta! La preparazione veniva fatta molto tempo prima: don Bosco si preoccupava non solo del vettovagliamento e dell’alloggio, ma anche della musica, del canto, del teatro, che per lui erano fattori indispensabili per queste escursioni. Particolarmente curato era l’aspetto formativo, perché l’intento dell’educatore piemontese era quello di fare del bene non solo ai ragazzi, ma anche di “edificare” le persone che avrebbero incontrate sul loro cammino. Era una forma di evangelizzazione e di apostolato.

Lo schema era diventato abbastanza comune: la comitiva entrava in paese in mezzo ad un gran frastuono e con la banda in testa. Dopo aver salutato la gente, i giovani si dirigevano subito in Chiesa, seguiti anche dalla gente del posto, forse un po’ sconcertata e meravigliata. Dopo una breve funzione, che oggi chiameremmo catechesi, andavano alla ricerca di un alloggio per passare la notte. La mattina dopo, prima di tutto partecipavano alla Messa, poi si divertivano con giochi vari e anche piccoli concerti. Dopo una giornata di viaggio tra le colline, a sera, dopo la benedizione con il SS. Sacramento, vi era la tipica rappresentazione teatrale sulla piazza principale del paese o in una sala apposita. La giornata terminava con il lancio di palloni aerostatici e l’accensione di razzi e ruote pirotecniche: era uno spettacolo attraente che si godeva anche dai paesi vicini.

Le passeggiate di don Bosco con i suoi giovani potrebbero forse dare ad alcuni l’impressione del vagabondaggio, del puro pellegrinaggio religioso, del teatro popolare ambulante; ma nella loro essenza erano un’intenzionale strategia educativa all’insegna della gioia per i giovani e un’occasione di apostolato per lui, sacerdote dal cuore missionario. Per i suoi ragazzi restarono nella memoria come avventure indimenticabili!

Con le camminate insieme ai giovani e con i soggiorni in campagna o in collina don Bosco precorse il turismo giovanile e, sotto certi aspetti, anche le colonie estive e i campi-scuola. Egli era, infatti, convinto che il movimento sia ciò che più giova alla salute fisica e che la poca salute dei suoi giovani potesse derivare dalla mancanza di movimento. Soprattutto era persuaso che l’allegria sia la condizione per il benessere sia fisico che spirituale e che i bambini e i ragazzi ne abbiano bisogno soprattutto nell’età - delicata - dello sviluppo della loro personalità.

Le passeggiate, dunque, mai improvvisate, ma preparate da lui con cura in ogni dettaglio e vissute in un clima di sorpresa, di allegria e di scoperta, erano per don Bosco non un vuoto passatempo, ma un mezzo efficace di maturazione, di vita di gruppo, di apertura di nuovi orizzonti, di conoscenza e di amicizia, soprattutto per i giovani più poveri.





Lunedì, 28 Ottobre 2024

«Abbiamo già perso più della metà delle parrocchie. E, con l’esercito russo che avanza, altre decine di chiese sono state evacuate». Maksym Ryabukha è il neo-vescovo dell’esarcato greco-cattolico di Donetsk, la diocesi nell’Ucraina sud-orientale tagliata dalla linea del fronte. È la diocesi del Donbass e dell’oblast di Zaporizhzhia che in buona parte è controllata dal Mosca. Ed è la diocesi dove i militari di Putin stanno continuando a strappare nuovi villaggi nella regione che dà il nome all’esarcato. «La situazione è sempre più preoccupante», racconta monsignor Ryabukha che nel suo viaggio in Italia ha visitato anche la redazione milanese di “Avvenire”. Salesiano, 44 anni, è diventato vescovo in piena guerra, nel dicembre 2022. Prima ausiliare di Donetsk e da pochi giorni titolare della stessa diocesi.

Non restano più arredi sacri, mobilia e panche nelle chiese di Pokrovsk, Mirnohrad e Kostiantynivka, tre località su cui puntano i battaglioni del Cremlino per tentare di completare la conquista dell’oblast di Donetsk. «I nostri sacerdoti restano vicini alla popolazione e visitano i profughi che hanno lasciato le loro case». Vale anche per lui. Pastore che non può mettere piede in oltre il cinquanta per cento dell’esarcato. Perché è nelle mani di Mosca. Dice di «essere vescovo in un tempo di dolore, di drammi, di ingiustizie, di impotenza». E aggiunge: «Per questo c’è più che mai bisogno di farsi padre. Il che significa abbracciare la gente per ricordare a tutti che non si è mai soli sotto le bombe». Nei territori finiti sotto la Russia la Chiesa in comunione con Roma è stata messa al bando. «Chi dice a viso aperto di essere cattolico sparisce: alcuni vengono fucilati; altri incarcerati. Non si ha diritto a professare liberamente la propria fede. I nostri fedeli ripetono: “Resistiamo, ma è come essere rinchiusi in un carcere”».

Proprio nelle prigioni di Putin sono rimasti per oltre un anno e mezzo padre Bohdan Geleta e padre Ivan Levitskyi. Due preti del vescovo Ryabukha catturati a Berdiansk, città della sua diocesi nella parte espugnata della regione di Zaporizhzhia. «I loro racconti dopo la liberazione avvenuta lo scorso giugno - chiarisce il presule - mostrano come la forza della preghiera sia un sostegno vitale in mezzo alle atrocità. I nostri due sacerdoti hanno sentito la vicinanza della Chiesa che ha permesso loro di resistere al male, alle torture, alla disumanità che hanno sperimentato nelle celle russe. Ed è con la preghiera che anche io mi faccio prossimo alle comunità che mi impediscono di visitare. Ogni giorno chiedo al Signore di proteggerle». A cadenza regolare Ryabukha visita i soldati in prima linea: cinquecento i chilometri di trincee che dividono l’esarcato. «Molti dei militari, prima di indossare la divisa, erano semplici genitori o anche ex allievi salesiani. Hanno messo da parte i loro progetti per difendere il Paese», afferma il vescovo. Una pausa. «Sappiamo che la guerra finirà. Ma tutti desideriamo che avvenga al più presto possibile e con una pace che sia nel segno della giustizia».

Intanto lui getta semi di speranza fra i raid dal cielo e le offensive via terra. Partendo dalle nuove generazioni e sui passi di san Giovanni Bosco. A Zaporizhzhia, il capoluogo dove vive e dove è stata trasferita la curia diocesana, ha appena inaugurato la prima scuola cattolica cittadina. «Sotterranea, nei seminterrati della parrocchia - fa sapere - perché è solo così che possono essere garantite le lezioni in presenza in un’area costantemente sotto attacco e a cinquanta chilometri dalla linea di combattimento».

Ma ne sta costruendo anche una nuova. «Sempre in città e sempre sottoterra, frutto della generosità di donatori europei», sottolinea il vescovo. Poi c’è un percorso professionale. «La capacità di sognare - avverte - fa parte del Dna del credente. Anche noi in Ucraina non smettiamo di sognare un mondo più umano. E la ricostruzione del Paese avrà necessità di giovani preparati. All’Occidente chiediamo di sostenerci e di non lasciarsi contagiare da proposte che mettano a rischio l’avvenire del nostro popolo».






Lunedì, 28 Ottobre 2024

L’uomo per realizzare pienamente sé stesso, così come è stato pensato dal buon Dio, deve sognare in grande. Perché siamo tutti fatti per realizzare cose importanti, al servizio di quella civiltà dell’amore che è la forma del mondo desiderata dal Signore. Tuttavia, per riuscirci non possiamo puntare solo su noi stessi bensì occorre liberarsi dalla presunzione, condividere con gli altri le proprie qualità e difetti, e, nell’ottica della fede, farsi umili, semplici, docili all’azione dello Spirito che chiede di abitare in noi. È l’atteggiamento che anima Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944), l’autore del Piccolo Principe, che pure, aviatore coraggioso, di imprese ardite ne aveva immaginate tante. Nel segno della felice espressione: “l’essenziale è invisibile agli occhi”, probabilmente la frase più nota del suo capolavoro letterario, in questa preghiera Saint-Exupery ci invita a guardare la realtà con il cuore, liberi da ogni arroganza. E allora scopriremo la bellezza di gustare il tempo, la dolcezza che può nascondersi dietro un incontro in apparenza banale, l’importanza di non sprecare niente del giorno che ci viene dato di vivere. Nella consapevolezza che anche le montagne più alte si scalano poco per volta, un passo dopo l’altro.

«Non ti chiedo né miracoli né visioni
ma solo la forza necessaria per questo giorno!
Rendimi attento e inventivo per scegliere
al momento giusto
le conoscenze ed esperienze
che mi toccano particolarmente.
Rendi più consapevoli le mie scelte
nell’uso del mio tempo.
Donami di capire ciò che è essenziale
e ciò che è soltanto secondario.
Io ti chiedo la forza, l’autocontrollo e la misura:
che non mi lasci, semplicemente,
portare dalla vita
ma organizzi con sapienza
lo svolgimento della giornata.
Aiutami a far fronte,
il meglio possibile,
all’immediato
e a riconoscere l’ora presente
come la più importante.
Dammi di riconoscere
con lucidità
che le difficoltà e i fallimenti
che accompagnano la vita
sono occasione di crescita e maturazione.
Fa’ di me un uomo capace di raggiungere
coloro che hanno perso la speranza.
E dammi non quello che io desidero
ma solo ciò di cui ho davvero bisogno.
Signore, insegnami l’arte dei piccoli passi».






Sabato, 26 Ottobre 2024

Il Sinodo sulla sinodalità è finito. Oggi ci sarà la Messa finale in San Pietro. Ma ora comincia il suo cammino nelle comunità ecclesiali di tutto il mondo. Non ci sarà un’esortazione apostolica conclusiva. Il Papa ha annunciato questa sera, a conclusione dei lavori assembleari che vale in tutto e per tutto il documento votato nell’Aula Paolo VI. E già questa è una novità. L’altra è rappresentata dal fatto che continuerà il lavoro delle dieci commissioni su problemi particolari. E lo stesso Francesco continuerà ad ascoltare vescovi e Chiese su questi temi.

«Alla luce di quanto emerso dal cammino sinodale - ha detto il Pontefice nel suo discorso finale lungamente applaudito - , ci sono e ci saranno decisioni da prendere». Ma «in questo tempo di guerre dobbiamo essere testimoni di pace, anche imparando a dare forma reale alla convivialità delle differenze», ha osservato. Per tale ragione - ha spiegato Francesco - non intendo pubblicare una esortazione apostolica. Basta quello che abbiamo approvato. Nel documento ci sono già indicazioni molto concrete che possono essere di guida per la missione delle Chiese, nei diversi continenti, nei diversi contesti: per questo lo metto subito a disposizione di tutti» in modo che «sia pubblicato».

Il Papa ha detto di voler così «riconoscere il valore del cammino sinodale compiuto, che tramite questo documento consegno al popolo santo di Dio». Quindi l’annuncio che il lavoro comunque continua: «Su alcuni aspetti della vita della Chiesa segnalati nel documento, come pure sui temi affidati ai dieci gruppi di studio, che devono lavorare con libertà, c'è bisogno di tempo. Continuerò ad ascoltare i vescovi e le loro comunità. Questo non è per rimandare all’infinito le decisioni, ma corrisponde allo stile sinodale: ascoltare, convocare, discernere, decidere e valutare».

Il documento, tuttavia, «è un dono a tutto il popolo di Dio, nella varietà delle sue espressioni», perché «ciò che abbiamo vissuto è un dono che non possiamo tenere per noi stessi. Lo slancio che viene da questa esperienza, di cui il documento è un riflesso, ci dà il coraggio di testimoniare che è possibile camminare insieme nella diversità, senza condannarci l’uno con l’altro. Veniamo da tutte le parti del mondo - ha notato ancora Francesco -, segnati dalla violenza, dalla povertà, dall'indifferenza. Insieme, con la speranza che non delude, uniti nell'amore di Dio diffuso nei nostri cuori, possiamo non solo sognare la pace ma impegnarci con tutte le nostre forze perché, magari senza parlare tanto di sinodalità, la pace si realizzi attraverso processi di ascolto, dialogo e riconciliazione. La Chiesa sinodale per la missione, ora, ha bisogno che le parole condivise siano accompagnate dai fatti».

Non è mancato infine un riferimento alla propria missione petrina. «Anche il Vescovo di Roma - ha spiegato infatti papa Bergoglio - ha bisogno di praticare l’ascolto, anzi vuole praticare l’ascolto. E il mio compito è di custodire e promuovere l’armonia che lo Spirito diffonde nella Chiesa». Una Chiesa, ha insistito nuovamente il Papa, «aperta a tutti, tutti, tutti, nessuno escluso, nessuno fuori». «Quanto male fanno gli uomini e le donne di Chiesa quando erigono dei muri, quanto male - ha ammonito -. La rigidità è un peccato che a volte entra nei chierici, nei consacrati, nelle consacrate».

Il documento approvato oggi si compone di 45 pagine e 154 paragrafi. Molti i temi affrontati. Tutti i paragrafi hanno ottenuto larghissime maggioranze. Il record dei voti contrari (97 su 355 votanti) spetta al paragrafo 60 dedicato al ruolo della donna. Vi si legge tra l’altro: «Non ci sono ragioni che impediscano alle donne di assumere ruoli di guida nella Chiesa: non si potrà fermare quello che viene dallo Spirito Santo. Anche la questione dell’accesso delle donne al ministero diaconale resta aperta. Occorre proseguire il discernimento a riguardo». Sono stati invece 45 i no al paragrafo 125, che riguarda le Conferenze episcopali e il loro ruolo, con la richiesta di specificare meglio «il vincolo ecclesiale che le decisioni prese da una Conferenza episcopale generano, rispetto alla propria diocesi, per ciascun vescovo che ha partecipato a quelle stesse decisioni». Qualche dissenso (43 no) anche per il paragrafo 27 che chiede di studiare «come rendere le celebrazioni liturgiche più espressive della sinodalità». Per il paragrafo 148, che contiene «la richiesta che i percorsi di discernimento e formazione dei candidati al ministero ordinato siano configurati in stile sinodale», infine, 40 no.

Una delle sottolineature più importanti del testo è l’invito a una «conversione relazionale», cioè «la richiesta di una Chiesa più capace di nutrire le relazioni: con il Signore, tra uomini e donne, nelle famiglie, nelle comunità, tra tutti i cristiani, tra gruppi sociali, tra le religioni, con la creazione». L’esigenza di conversione nelle relazioni, afferma il testo, «riguarda inequivocabilmente quelle tra uomini e donne. Il dinamismo relazionale è iscritto nella nostra condizione di creature. La differenza sessuale costituisce la base della relazionalità umana. “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò”», afferma la Genesi.

Dipendono del resto da relazioni malate «i mali che affliggono il nostro mondo, a partire dalle guerre e dai conflitti armati, e dall’illusione che una pace giusta si possa ottenere con la forza delle armi. Altrettanto letale - affermano i sinodali - è la convinzione che tutto il creato, perfino le persone, possa essere sfruttato a piacimento per ricavarne profitto». E sono relazioni non buone anche le «disuguaglianze tra uomini e donne, il razzismo, la divisione in caste, la discriminazione delle persone con disabilità, la violazione dei diritti delle minoranze di ogni genere, la mancata disponibilità ad accogliere i migranti». Per questo nella preghiera finale recitata inAula il patriarca di Alessandria dei copti cattolici, Ibrahim I. Sedrak, ha invocato dallo Spirito Santo di «insegnarci ad osare la parola e l’ascolto profondo, ad aprire il cuore alla voce degli altri».





Sabato, 26 Ottobre 2024

La XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi si è conclusa con l’approvazione del Documento finale e, oggi, con la Messa presieduta da papa Francesco nella Basilica di San Pietro.

Nel 2021 il Papa chiese a tutte le Chiese di preparare il Sinodo avviando una consultazione sul tema: Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione. La fase di ascolto e il suo discernimento portarono, dopo due anni, allo strumento di lavoro che animò la Prima Sessione del Sinodo (ottobre 2023), e che si concluse con una Relazione di Sintesi. La stessa Relazione ritornò poi alle Chiese locali, permettendo di arrivare al nuovo Instrumentum laboris che abbiamo esaminato e discusso in questo ultimo mese, votando infine un Documento finale. Esso verrà ora consegnato al Papa quale frutto del cammino di questi anni, per le opportune decisioni che vorrà offrire a tutte le Chiese del mondo.

Come siamo arrivati all’approvazione del Documento? In questi giorni la stesura della prima bozza è stata rivista grazie agli emendamenti che abbiamo presentato. Sono state 951 le richieste di revisione giunte dai Circoli minori (sostituzioni, cancellazioni e riscritture), e 184 quelle individuali. Nel mio gruppo abbiamo preparato 23 emendamenti, numero che rientra nella media, tenendo conto che i Circoli minori sono complessivamente 36.

Il Documento, anche se chiamato finale, non può essere considerato definitivo, rimarrà insufficiente rispetto a quanto condiviso e, soprattutto, essendo il Sinodo un camminare insieme, in futuro avrà bisogno di passi, percorsi e tappe che lo Spirito Santo continuerà a chiedere, anche “incalzando” la Chiesa.

Proprio per questo, nel Documento, una parola chiave è conversione: quella del cuore, della pastorale, delle strutture. Tutto, in realtà, all’interno di una conversione nello Spirito, espressione richiamata continuamente per costruire uno stile sinodale nella preghiera e nella condivisione della missione.

Noi, pur essendo molti e diversi, anche solo per lingua, cultura e tradizioni, è stato stupendo constatare che tutto questo non ci divide, ma ci unisce in una «armonia delle differenze», sempre da ricreare. Per alcuni la Chiesa cambia in maniera drammatica, per altri cambia troppo poco. Altri non hanno smesso di desiderare risposte immediate. Sicuramente qualcuno rimarrà deluso.

Abbiamo parlato molto di noi stessi, è vero; di quella Chiesa ad intra che sembra dimenticarsi del mondo che la circonda. Questo però non solo non ha impedito che molte sofferenze «siano risuonate in mezzo a noi non solo attraverso i mezzi di comunicazione, ma anche nella voce di molti, personalmente coinvolti con le loro famiglie e i loro popoli in questi tragici eventi», ma ha preparato altri passi.

Abbiamo parlato di noi per guardarci dentro, per capire che cosa ci manca come Chiesa per andare davvero in missione – tutti siamo in terra di missione! – sempre gioiosi e coraggiosi nell’annunciare il Vangelo. Il cambiamento d’epoca al quale assistiamo non può essere solo una minaccia e un pericolo, ma diventi un’opportunità. Facendo esperienza concreta di sinodalità abbiamo riscoperto come cercare di essere discepoli missionari. Quindi non chiusi in noi stessi.

Tre le espressioni chiave, che chiudono in questa settimana l’esperienza del diario.

Pasqua. Il Documento sceglie di rileggere il Sinodo partendo dall’esperienza del mattino di Pasqua di Maria Maddalena, Pietro e Giovanni e di altri discepoli. Anch’essi sono diversi, e i loro passi non sono eguali nello scoprire il Risorto. Hanno fatiche e ferite da portare. Rileggo in loro il cammino sinodale che abbiamo compiuto e che rimarrà sempre un compito. Ritrovo, in loro e in noi, atteggiamenti che sono riassunti bene da alcuni termini: paura, interrogativi, ricerca, dialogo, comunità e, finalmente, stupore. Ogni parola apre un cammino da fare o da riprendere. Scoprendo, alla fine, che il Risorto c’era, anzi ci ha preceduto, come sempre.

Sinodalità. Avremo finalmente capito cosa si intende? Parola spesso incompresa e, per molti, allarmante. Ma non è così. Se non abbiamo capito che dobbiamo aiutare la Chiesa ad essere più partecipativa e missionaria, sarà sempre più difficile parlare all’umanità. Il Documento parla di stile, ma anche di processi da avviare, e non dimentica di dire che il Popolo di Dio – il Corpo di Cristo! – merita di essere convocato e ascoltato dai pastori della Chiesa, perché solo così, come battezzati, in una «corresponsabilità differenziata», contribuiremo ad evangelizzare il mondo. «Nulla più dell’Eucaristia mostra che l’armonia creata dallo Spirito non è uniformità e che ogni dono ecclesiale è destinato all’edificazione comune».

Partecipazione e ruolo delle donne. «Favorire la più ampia partecipazione possibile di tutto il Popolo di Dio ai processi decisionali è la via più efficace per promuovere una Chiesa sinodale». «Uomini e donne – scrive il Documento – godono di pari dignità nel Popolo di Dio (…) questa Assemblea invita a dare piena attuazione a tutte le opportunità già previste dal diritto».

Le parole del cardinale Víctor Manuel Fernández, prefetto del Dicastero per la Dottrina della fede, hanno chiarito «che il Santo Padre ha espresso che, in questo momento, la questione del diaconato femminile non è matura e ha chiesto che non ci intratteniamo adesso su questa possibilità». Vera preoccupazione del Papa, ha aggiunto, è che il ruolo delle donne sia riconosciuto e valorizzato, perché il loro ruolo nella Chiesa non si risolve col diaconato.

Confermo che per la grandissima maggioranza la partecipazione delle donne alla vita della Chiesa non passa dalla loro ammissione al diaconato. Tantomeno dal ministero sacerdotale. Pochissime le voci favorevoli. Convinzione comune è che la partecipazione delle donne alla vita ecclesiale, anche nei posti guida, può essere molto più importante – e più ampia – dell’attribuzione, a poche, del sacramento dell’ordine. Un Sinodo quindi ricco di passi che ne prepara tanti altri. Perché lo Spirito non si ferma, né si può fermare.

La frase. «La speranza non è l’ottimismo, ma che tutto abbia un senso» (padre Timothy Radcliffe).





Sabato, 26 Ottobre 2024

La Cattedra di San Pietro, il trono ligneo simbolo del primato di Pietro, rimarrà esposta al pubblico nella Basilica di San Pietro. Domani, domenica 27 ottobre sarà portata presso l’altare della Confessione della Basilica Vaticana al termine della celebrazione eucaristica delle 10, presieduta da papa Francesco a conclusione del Sinodo dei Vescovi. Sarà la prima col baldacchino disvelato dopo i restauri.

La «Cathedra Sancti Petri Apostoli» è considerata da secoli il seggio episcopale di Pietro: un trono in legno decorato con placchette in avorio che rappresentano le fatiche di Ercole e sei costellazioni. La venerata reliquia è stata estratta dal suo monumentale “reliquiario” di bronzo dorato, il monumento berniniano, per consentire il restauro nell’abside della Basilica nell’ambito dei lavori di restauro intrapresi dalla Fabbrica di San Pietro in vista del Giubileo.

Nell’occasione sarà sottoposta a una serie di meticolose indagini diagnostiche e conoscitive svolte in collaborazione e in sinergia col Gabinetto di Ricerche Scientifiche applicate ai Beni Culturali dei Musei Vaticani. Era infatti necessario rimuovere il prezioso seggio in legno per valutarne lo stato di conservazione a cinquant’anni di distanza dall’ultima estrazione (1969-1974).

Il seggio ligneo è da molti ritenuto il trono dell’imperatore Carlo il Calvo, re dei Franchi, incoronato nell’antica Basilica di San Pietro nel Natale dell’875 dal Papa Giovanni VIII. Non è tuttavia da escludere che questo seggio imperiale del IX secolo possa aver accolto in un secondo tempo il pannello con le fatiche di Ercole forse da riferire a un precedente e più antico seggio papale.

Lo scorso 2 ottobre, nella Sagrestia Ottoboni della Basilica di San Pietro, prima della Messa di apertura della XVI Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, papa Francesco ha potuto osservare da vicino l’antica e venerata Cattedra di San Pietro assieme al cardinale Mauro Gambetti, arciprete della Basilica Papale.

Il Papa ha allora disposto di esporla alla venerazione dei fedeli a conclusione del Sinodo dei vescovi. E la Cattedra lignea potrà essere venerata e ammirata presso l’altare della Confessione fino al prossimo 8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione.

«La Basilica vuole celebrare l’antica reliquia come la Cattedra dell’Amore – spiega il cardinale Gambetti - Il buon Pastore, infatti, che dà la vita per le sue pecore, le conosce una ad una e le chiama per nome, chiede a Pietro: “Mi ami tu più di costoro?”. E solo in forza di questo amore, il primo e il più importante dei comandamenti, che Gesù lo investe del compito di pascere le sue pecore, rendendolo di fatto suo Vicario in terra e primo degli apostoli. L’antica Cattedra di Pietro è la cattedra dell’amore perché ci mostra come solo dall’amore scambievole possa nascere la vera comunità cristiana, certamente sinodale».

«Riportandoci al clima che si respirava nella prima comunità cristiana – aggiunge Gambetti - la Cattedra di Pietro ci parla di un ritrovarsi insieme, riuniti in assemblea, di una Chiesa raccolta intorno al suo pastore, dove ciascuno è chiamato personalmente a seguire Gesù, ma in un cammino che non è mai individualistico bensì sempre condiviso e illuminato dai fratelli e dalle sorelle».

«La Cattedra ci insegna che la vita non è potere ma è servizio» afferma Padre Enzo Fortunato, direttore della
comunicazione della Basilica di San Pietro.





Sabato, 26 Ottobre 2024

Da sempre l’uomo è affascinato dalla natura perché essa vive secondo regole ben precise che hanno l’obiettivo di ristabilire l’equilibrio dopo eclatanti catastrofi. Questa straordinaria caratteristica si evince, in particolare, osservando un alveare, che colpisce anche per l’instancabile lavoro che compie, affinché si rinnovi la vita di giorno in giorno.

Nell’immaginario collettivo l’ape regina è una monarca in senso stretto: impartisce ordini ai suoi sudditi che da bravi operai(e) eseguono. In realtà una colonia di api è più vicina a una democrazia che a una monarchia. Per quanto, infatti, con i suoi feromoni, l’ape regina sia in grado di influenzare alcuni comportamenti delle sue operaie, queste sono capaci di prendere decisioni a maggioranza senza consultare la regnante. Un esempio è la scelta del sito verso il quale la famiglia sciamerà, una decisione nella quale ogni operaia è chiamata ad esprimere il proprio voto.

Cos’è un monarca senza i propri sudditi? Nulla. Questo vale anche per l’ape regina, costantemente circondata da un gruppo di ancelle che si occupano di tenerla pulita, in ordine, ma anche di sfamarla digerendo il cibo per lei. Essa ha il ruolo importante di deporre le uova e non è dotata delle stesse ghiandole che le operaie usano per digerire il cibo. Per nutrirla, le sue ancelle le forniscono cibo predigerito. Se non avesse le sue fedelissime api a servirla, l’ape regina non potrebbe sopravvivere un giorno.

L’alveare è diventato così nel tempo metafora cristiana della vita casta, caritatevole e regolata della comunità ecclesiale. I Padri della Chiesa, sempre sensibili alle metafore tratte dalla vita quotidiana e dalla natura, reinterpretando e arricchendo il linguaggio biblico, hanno paragonato il mondo misterioso delle api e del loro bene prezioso alla nuova realtà della Chiesa, che celebra e vive il mistero del dono della salvezza in Cristo. E le prime comunità cristiane hanno compreso molto bene il loro insegnamento, ne hanno colto la profondità avendo davanti agli occhi il mondo affascinante delle api, delle loro arnie e del miele.

L’immagine dell’alveare pone innanzitutto l’accento sulla comunione che esprime il mistero stesso della Chiesa. Il cuore e la fonte di questa comunione è il Cristo, paragonato all’ape regina. Le api vivono nella comunità e per questo i Padri le interpretano non solo come modello della vita sociale, ma soprattutto come modello per la vita della Chiesa.

Sant’Atanasio per esempio scriveva: «Ora la Chiesa e` l’ape. Produce il miele perché apprezza molto la sapienza di Dio. Grazie al suo lavoro i re e anche la gente semplice si guariscono, benché siano deboli. Il messaggio della Chiesa non si basa su discorsi persuasivi di sapienza (cf. 1Cor 2,4). La sua parola è il suo aculeo che testimonia la forza e la potenza di Dio. Con l’aculeo può servire per mettere via le eresie…» (Commento al Salmo 117,12).

Nella letteratura patristica l’ape è anche simbolo, diremmo oggi, dell’economia di comunione perché lavora per gli altri; è il simbolo della sapienza e dell’abilità perché è capace di scegliere dai fiori quello che è più prezioso, e viene considerata come esempio di condivisione per i profeti, per gli apostoli e per i predicatori perché il miele che dà alla gente è lo stesso miele del quale si nutre lei stessa, così come gli annunciatori del Vangelo dovrebbero nutrire se stessi innanzitutto della Parola di Dio. L’ape si propone come modello di sapienza perché nel prato in piena fioritura raccoglie il polline da fiori diversi.

Gregorio Nazianzeno presentava l’ape come emblema di laboriosità e capacità di discernimento di ciò che è utile. In particolare paragonava l’annuncio della Parola di Dio, e soprattutto il sentirlo nel corso della lunga liturgia pasquale, a un prato in piena fioritura nella quale noi, come le api, possiamo volare. Il prato e` cosi` immensamente vario come la stessa Scrittura che contiene la piena conoscenza di Dio.

Si nota dunque come l’ammirazione per la natura guidava all’estasi della contemplazione gli uomini che univano la cultura alla fede. La comunità delle api, diceva sant’Ambrogio, era il modello esemplare della comunione tra i credenti e della concordia tra cittadini. E con stupore faceva notare: «Quale architetto ha insegnato loro a costruire gli esagoni delle cellette dai lati perfettamente simmetrici? Le potresti vedere tutte compiere a gara le loro funzioni: alcune dedicarsi premurose alla ricerca del cibo, altre esercitare un’attenta vigilanza sull’accampamento, altre spiare l’avvicinarsi delle piogge e osservare l’accumularsi delle nuvole, altre formare dai fiori la cera, altre raccogliere con la bocca la rugiada spruzzata sui fiori; nessuna tuttavia insidiare il lavoro altrui e procurarsi i mezzi per vivere rapinando» (Exameron. I sei giorni della creazione, Omelia VIII, 323).

Durante le omelie quaresimali del 378, anche san Basilio, trattando della creazione del mondo, e in specie dei volatili, indugiava sulla vita delle api: «Fra gli animali ve ne sono alcuni che vivono in società, se è proprio della vita sociale far convergere a uno scopo comune l’attività dei singoli, così come si può vedere nelle api. Esse vivono in comune, volano insieme e unico è il lavoro di tutte; e la cosa più straordinaria è che intraprendono le loro attività sotto la guida di un loro re e comandante, e non si decidono a volare sui prati prima di vedere il loro re volare alla loro testa» (Omelia sulla Genesi, VIII, 4,1-9).

Grazie alla penna di Tommaso d’Aquino, la liturgia latina ha ufficialmente consacrato il miele a simbolo dell’Eucaristia, prendendo come Introito della Messa del Corpus Domini le parole: «Li ha nutriti con la migliore sostanza del frumento, li ha saziati col miele dalla pietra», trasposizione di un versetto del Salmo 81: «Lo nutrirei con fiore di frumento, lo sazierei con miele dalla roccia».

Di api e di miele si parla poi nel canto liturgico dell’Exultet, che viene intonato dal diacono nel corso della solenne veglia pasquale nella notte del Sabato santo. Citando l’ape madre, il Preconio vuole marcare uno degli aspetti fondamentali della celebrazione pasquale: la vita nella comunione. È chiaro il riferimento simbolico: come nell’alveare si manifesta il miracolo della vita, così nella notte di Pasqua la Chiesa celebra il trionfo di Cristo sulla morte; inoltre come le api operaie hanno raccolto la cera, così le mani dell’uomo hanno modellato la cera per la realizzazione di questo nuovo cero, simbolo della luce di Cristo.

Va ricordato, infine, che l’ape è anche modello monastico della lectio divina! Come essa sugge il nettare dai fiori e si ritrae nella propria cella, così il monaco raccoglie le parole della Scrittura per ritirarsi in meditazione.

In questo tempo in cui la Chiesa sta celebrando la seconda sessione della XVI Assemblea Generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, come i Padri della Chiesa, allo stesso modo noi siamo invitati a guardare con sguardo sempre nuovo la realtà che ci circonda e nella quale viviamo, per rintracciare i segni della presenza di Dio, che ci parla anche attraverso l’immagine dell’alveare.

Una Chiesa sinodale ha in fondo molto da imparare dall’industriosa collegialità delle api, abili nello sciamare in perfetta armonia. Come un alveare, così i membri della Chiesa sono chiamati a lavorare insieme, anche nelle difficoltà e diversità. La Chiesa in fondo assomiglia a un’arnia dove le api (i cristiani) lavorano con zelo e fedeltà ricercando, ed ottenendo, il meglio da ogni fiore: il miele, l’“amore di Dio”.

docente di esegesi biblica presso l’Istituto Teologico Abruzzese Molisano e l’Istituto superiore di Scienze religiose di Pescara






Venerdì, 25 Ottobre 2024

A salire, zaino in spalla, ci si impiega non più di due ore da Cornalba (Bergamo). Uno sforzo ampiamente ripagato dalla bellezza delle montagne della Val Serina e, perché no, da una polenta con il brasato. Tanto più se con quel pranzo si aiutano le missioni sull’altopiano boliviano. Il rifugio Monte Alben, infatti, aperto nel 2022 dopo tre anni di ristrutturazione di una vecchia casera, viene gestito a turno da un gruppo di volontari che si alternano d’estate e nei weekend autunnali per ricavarne fondi da mandare in missione. Sono giovani e intere famiglie che hanno in vario modo incontrato padre Antonio Zavatarelli, fidei donum della diocesi di Gubbio, da 12 anni in Bolivia nelle missioni di Peñas, Santiago de Huata e Batallas. Originario di Menaggio, sul lago di Como, descritto da tutti come «uomo di chiesa e di montagna» alpinista e soccorritore, “padre Topio” come viene chiamato è riuscito negli anni non solo a essere una presenza significativa e vivificante per la sua parrocchia di Peñas, ma a creare un forte legame tra giovani un po’ di tutta Italia e le popolazioni dell’Altopiano boliviano.

Un legame di solidarietà, di carità, capace di superare anche le barriere della lingua Aymara parlata dalle popolazioni indigene. Grazie all’impegno di oltre 200 volontari, riuniti nell’associazione La Cordillera, infatti, è stato possibile negli anni sviluppare una serie di interventi non solo di assistenza ma di vicinanza, condivisione e crescita. Come il progetto “FisioPeñas”, partito su iniziativa del docente di fisioterapia Guido Barindelli, con cui giovani professionisti si alternano ogni tre mesi per assicurare un’assistenza continua e gratuita alle popolazioni locali. Collaborando con una dottoressa boliviana nell’ambulatorio della parrocchia Virgen de la Nadividad di Peñas e, grazie alla donazione di una jeep, raggiungendo i pazienti nei diversi villaggi sparsi sull’altopiano. Un’attività a cui più di recente si è affiancata una collaborazione e uno scambio con il corso universitario di fisioterapia dell’Università di La Paz.

E, a proposito di formazione, dal 2016 è stato sviluppato il progetto di una scuola universitaria di “Turismo Rurale con menzione in Avventura”, un corso tecnico realizzato grazie alla collaborazione con l’Università Cattolica Boliviana e la provincia di Trento. L’obiettivo è offrire una concreta occasione di formazione gratuita e poi di lavoro ai campesinos poveri per evitarne lo sradicamento e l’emigrazione forzata verso la città. Sono nati così sia un piccolo caseificio sia un’agenzia viaggi, che opera in una prospettiva di turismo etico e sostenibile.

L’altopiano a quattromila metri e la montagna ritornano così come filo conduttore della solidarietà e della missione. «Nel 2019, quando con il lavoro dei volontari e di alcune famiglie della Val Serina stavamo ristrutturando la baita assegnataci dal comune di Cornalba, pensavamo più che altro a un luogo in cui riunire tutti gli amici dell’associazione – racconta Davide Tincani, uno dei referenti –. Poi abbiamo pensato che potesse diventare una fonte di finanziamento per la missione e i diversi progetti. Noi ci alterniamo nella gestione, chi sale quassù può godere della bellezza del creato ed esserne parte in condivisione coi fratelli in Bolivia».





Venerdì, 25 Ottobre 2024

Un testo sorprendente, tanto spirituale quanto concreto: Dilexit nos, la nuova enciclica di Papa Francesco, parla a tutti gli uomini e al tempo stesso al mondo intero, così disperatamente alla ricerca di elementi di unione e di pace.

Marco Ferrando ne parla a Dentro l'Avvenire con Matteo Liut, responsabile dell’area Catholica di Avvenire.





Giovedì, 24 Ottobre 2024

Il vescovo chiede di parlarmi. Non riesco a immaginare che cosa potrà mai volere. «Mi ha contattato la madre generale delle suore di una congregazione spagnola, le “Figlie di Gesù”. Sarebbero contente di aprire una casa nella nostra diocesi. Ho accolto la richiesta ma voglio che vengano da te, al Parco Verde». Non mi sembra vero. Le attendiamo con ansia. Arrivano in quattro, due italiane, più giovani, e due spagnole. Suor Consuelo Fresneda sarà la superiora. La nostra canonica, messa a disposizione, è piccola, ma loro non si lamentano. Consuelo sceglie per sé lo spazio più angusto, quello meno comodo, una sorta di corridoio di passaggio.

Un vecchio armadio farà da paravento. Non indossano l’abito religioso ma si vede da lontano che sono donne consacrate a Dio e al prossimo. La fondatrice, Madre Candida, basca, morta nel 1912, canonizzata nell’anno 2010, seppure analfabeta, comprese, a suo tempo, l’importanza dell’educazione dei giovani, per questo volle che le sue suore si consacrassero a questa opera benemerita.

Un’altra suora, Maria Antonia Bandrés y Elòsegui, morta nel 1919 a soli 21 anni, è beata. Per lei nutro una grande devozione. Il miracolo che l’ha portata agli onori degli altari è davvero singolare. Nel 1961, un suo cugino, Antonio Navarro, a Pizzarra, una cittadina a sud della Spagna, scivola sotto le ruote del treno diretto a Malaga. Avrebbe dovuto essere stritolato. Disperato, all’ultimo momento, invoca la religiosa che in famiglia già godeva di fama di santità: «Antonita de mea alma!». Immediatamente, nel buio pesto, tra gli assi delle ruote, vede una sorta di trave di ferro illuminarsi. L’afferra. Quando il treno passa oltre, la gente, che, inorridita, si aspetta di imbattersi in un corpo lacerato, vede rialzarsi, invece, un uomo quasi del tutto nudo con appena qualche escoriazione. Incredulità. Euforia. Si grida al miracolo. Nei momenti difficili mi porto davanti al dipinto che la ritrae, la fisso e le dico: «Antonita mia cara, tu che sai aiutare le persone in situazioni ben più complicate, non mi verrai in soccorso?».

Siamo diventati amici. La invoco spesso. Pregatela anche voi. Saverio Gaeta, nel suo libro “Miracoli” racconta anche questo prodigio. Consuelo, dicevamo. Viene dall’Andalusia, è una donna ancora giovane, in ottima salute. Laureata nel nostro Paese, distinta, colta, distaccata, parla benissimo l’italiano. L’italiano, appunto, non il napoletano. E in un quartiere popolare di Caivano, una suora che desidera relazionarsi con le persone anziane, i malati, i bambini, le ragazzine, deve “per forza” imparare la lingua con la quale esprimono i concetti e le emozioni più profonde. Non solo, deve essere in grado di decifrare i gesti, i motteggi, i movimenti con cui i napoletani accompagnano il loro pittoresco eloquio. Consuelo lo sa e, umilmente, accetta di imparare. Sovente, con risvolti comici. Come quella volta che, di ritorno da una visita a una famiglia povera e problematica, viene a cercarmi: «Maurizio, sono stata da Maria, ma non ho capito niente. Lei, mentre parla, si mette la mano in faccia con le dita allargate e, piagnucola: «“Suora Consuela” voi capite? Mio figlio…come si fa? Come si fa? Ci sono i bambini…». Per non mortificare la signora, Consuelo tace, fa finta di capire, ma quella mano con cui si copre il volto proprio non riesce a interpetrarla. L’ascolto e scoppio a ridere, nel vederla ripetere goffamente il gesto incomprensibile.

«Consuelo, il figlio di Maria è detenuto, si trova nel carcere di Poggioreale, un nome che lei non pronuncerebbe mai. Le dita allargate della sua mano, rappresentano le grate». Scuote il capo, divertita. È una donna povera, poverissima, Consuelo, ma senza ostentazione. Il suo guardaroba è striminzito ma sempre pulito, sistemato, profumato. Ogni anno, in estate, fa ritorno in famiglia per andare a trovare l’unico parente che le è rimasto, il marito di sua sorella morta di cancro. Con noi si trova bene. Con i poveri ha una pazienza e una bontà infinite. Prega, Consuelo, e tanto. Si rannicchia in un angolo della chiesa, abbassa la testa in grembo e sprofonda in un dialogo muto con Dio. Per ore. È un’artista. Dipinge. Disegna cartelloni, bigliettini di auguri, segnalibri per la catechesi, le feste con i bambini. Il tocco delle sue mani fatate si vede anche nei vasi di fiori sull’Altare.

Ogni fiore al suo posto, ogni colore calcolato con attenzione. Scherzando, mentre sta ultimando la confezione di fiori bianchi e gialli che dovrà adornare il tabernacolo, mi faccio avanti con un gigantesco gladiolo rosso mezzo appassito a fingo di volerlo inserire nel vaso. Un urlo mi raggiunge. Risate. Ha il gusto del bello. I nostri santini baroccheggianti non le piacciono. È sempre di buon umore. Nessuno l’ha mai vista arrabbiata o scoraggiata. Mi vuole un gran bene, e anch’io ho imparato a volerle bene. Donna tollerante, concreta, punta all’essenziale. «Maurizio, quando morirò – mi diceva -, non darti pena di niente. Chiudimi in un sacco e gettami in mare. Ci penseranno i pesci…». «Sei pazza? Mi arresterebbero per occultamento di cadavere» le rispondevo, divertito. «Allora, ricordati, che sulla mia bara voglio solo un mazzo di garofani rossi». Il garofano rosso, nostalgico ricordo della sua bella terra andalusa. Un giorno mi viene incontro con il volto triste. «Consuelo, che c’è?». Trattenendo le lacrime: «Mio cognato… un infarto… stamattina. Ormai non ho più nessuno». Mi si stringe il cuore. «No, Consuelo, non dirlo, non è vero. Ci siamo noi, lo sai…» In Spagna, da quel giorno, non volle tornare più. Non lo diceva, ma in cuor suo, sono certo che avrebbe desiderato rimanere a Caivano. Invece, qualche anno dopo: «Maurizio, debbo parlarti…».

Non disse altro. Non so per quale misteriosa intuizione, compresi subito quello che mi avrebbe detto. Gridai: «No, non voglio… non devi, non puoi andartene. Non puoi farci questo, non puoi lasciarci…». Col volto rassegnato e triste: «Maurizio, lo sai, è la nostra vita, le superiori hanno deciso così. Bisogna obbedire». Obbedire. Nessuno saprà dire mai quanto costi a una persona consacrata rinunciare ai propri progetti, ai propri desideri, alle proprie aspirazioni, alle persone care, per tentare di fare la volontà di Dio. Il distacco fu doloroso. La festa di addio, insopportabilmente penosa. In parrocchia, le donne – più coraggiose – piangevano. I maschi – codardi – ingoiavano le lacrime e si rischiaravano la voce. Foto, abbracci, dolci, carezze, i suoi disegni alle pareti, promesse di rivederci, progetti di viaggi. Il cuore al buio. In Spagna si ammalò. Venivamo informati dell’andamento della malattia. Facevo di tutto per evitare di essere presente alle videochiamate che le facevano dalla parrocchia. Vederla invecchiata, sofferente, sulla sedia a rotelle mi faceva troppo male. Lo so, sono stato vigliacco ed egoista. L’ultima volta, le sue care consorelle mi tesero un tranello. Non mi fu possibile sgaiattolare via. Mi feci forza: «Consuelo, come stai? Vengo a trovarti. Appena posso, parto. Promesso», mentìì. «No, non vieni, lo so che non vieni…».

Aveva ragione. Persi tempo, rimandavo. Cercavo mille scuse. La verità era una sola e sono certo che lei, come me, la conoscesse. Non andai. Si aggravò. Volò via. Sensi di colpa. Rimpianti. Rimorsi. Richieste di perdono. Da Malaga ci arrivavano le foto e i video del funerale. A Caivano, nella parrocchia che ha tanto amato e servito, ci demmo appuntamento per la celebrazione della Messa. Sull’Altare tanti, tanti garofani rossi.





Giovedì, 24 Ottobre 2024

Al di là dei contenuti teologici e pastorali Dilexit nos, la quarta enciclica del Papa si caratterizza per l’ampio respiro spirituale e la semplicità dello stile, capace di toccare in profondità chi legge. Nell’annunciarla il 5 giugno scorso, il Pontefice aveva detto: «Credo che ci farà molto bene meditare su vari aspetti dell’amore del Signore che possano illuminare il cammino del rinnovamento ecclesiale; ma anche che dicano qualcosa di significativo a un mondo che sembra aver perso il cuore».

Non tutto si può comprare

Significativo in questo senso, uno degli ultimi paragrafi del testo, il numero 218 in cui si richiama la necessità di una svolta, di una vera e propria conversione, la cui necessità riguarda anche la Chiesa, nella consapevolezza che solo l’amore di Cristo renderà possibile una nuova umanità.«Oggi – scrive il Papa - tutto si compra e si paga, e sembra che il senso stesso della dignità dipenda da cose che si ottengono con il potere del denaro. Siamo spinti solo ad accumulare, consumare e distrarci, imprigionati da un sistema degradante che non ci permette di guardare oltre i nostri bisogni immediati e meschini. L’amore di Cristo è fuori da questo ingranaggio perverso e Lui solo può liberarci da questa febbre in cui non c’è più spazio per un amore gratuito. Egli è in grado di dare un cuore a questa terra e di reinventare l’amore laddove pensiamo che la capacità di amare sia morta per sempre».

La poesia nell'era dell'Intelligenza artificiale

Tra gli aspetti più originali del testo anche quella che si potrebbe chiamare “spiritualità della tenerezza”, che anche attraverso la memoria e il richiamo ai piccoli gesti della vita quotidiana facilita l’emergere delle domande che davvero contano, lontane dal desiderio di soddisfazioni superficiali e di apparire agli altri diversi da quel che siamo.

«Nell’era dell’intelligenza artificiale – recita il numero 20 dell’enciclica -, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore. Ciò che nessun algoritmo potrà mai albergare sarà, ad esempio, quel momento dell’infanzia che si ricorda con tenerezza e che, malgrado il passare degli anni, continua a succedere in ogni angolo del pianeta. Penso all’uso della forchetta per sigillare i bordi di quei panzerotti fatti in casa con le nostre mamme o nonne…. E potrei citare migliaia di piccoli dettagli che compongono le biografie di tutti: far sbocciare sorrisi con una battuta, tracciare un disegno al controluce di una finestra, giocare la prima partita di calcio con un pallone di pezza, conservare dei vermetti in una scatola di scarpe, seccare un fiore tra le pagine di un libro, prendersi cura di un uccellino caduto dal nido, esprimere un desiderio sfogliando una margherita». Si tratta di piccoli dettagli che educano alla responsabilità di aiutare l’altro. Perché prendere sul serio il cuore ha conseguenze sociali. Come recita la costituzione conciliare Gaudium et spes: «Ciascuno di noi deve adoperarsi per mutare il suo cuore, aprendo gli occhi sul mondo intero e su tutte quelle cose che gli uomini possono compiere insieme per condurre l’umanità verso un migliore destino».

L'esempio dei Padri della Chiesa

La devozione al Sacro Cuore infatti non va ridotta a semplice spiritualismo ma dev’essere tradotta in attenzione agli altri, nel segno anche dell’affetto concreto, modellato sull’insegnamento di Cristo. E qui papa Francesco si richiama all’insegnamento dei Padri della Chiesa. «San Basilio – leggiamo al numero 62 - sottolinea che l’incarnazione del Signore non è qualcosa di fantasioso, ma che “il Signore ha posseduto gli affetti naturali”. San Giovanni Crisostomo propone un esempio: “Se non avesse avuto la nostra natura, non avrebbe sperimentato più volte la tristezza”. Sant’Ambrogio afferma: “Poiché ha preso l’anima, ha preso le passioni dell’anima”, E Sant’Agostino presenta gli affetti umani come una realtà che, una volta assunta da Cristo, non è più estranea alla vita della grazia: “Il Signore Gesù prese tutte queste conseguenze proprie della debolezza umana (come ne prese la morte corporale), non per una necessità impostagli, ma per una volontà di misericordia. […] Per cui, se a qualcuno fosse capitato di rattristarsi e di soffrire in mezzo alle tentazioni umane, non dovesse, perciò, ritenersi abbandonato dalla grazia di Cristo».

L’enciclica è del resto ricca di citazioni di maestri della spiritualità. Non solo santa Margherita Maria Alacoque e san Claudio de La Colombière fondamentali per diffondere la devozione al Sacro Cuore di Gesù. Ma anche, tra gli altri, san Francesco di Sales, sant’Ignazio di Loyola, Charles de Foucauld e Santa Teresa di Lisieux. Grandi testimoni della fede, capaci di trasformare l’amore a Gesù in impegno a dare vita. «L’amore per i fratelli – scrive il Papa al numero 168 - non si fabbrica, non è il risultato di un nostro sforzo naturale, ma richiede una trasformazione del nostro cuore egoista. Nasce allora spontaneamente la ben nota supplica: “Gesù, rendi il nostro cuore simile al tuo”. Per questo stesso motivo, l’invito di san Paolo non era: “Sforzatevi di fare opere buone”. Il suo invito era precisamente: “Abbiate tra voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù”» (Fil 2,5).





Giovedì, 24 Ottobre 2024

Le sue gambe sono in acciaio e plastica. Così come i piedi. «Ma ho ripreso anche a camminare. Me lo hanno insegnato nel centro di riabilitazione dove ho imparato a usare le protesi», racconta Yevhen Koretskyi. Parla da una carrozzina. Ed è un ex prigioniero di guerra. Catturato fra «le mura di casa», come lui stesso rivela, nei territori dell’Ucraina orientale che la Russia aveva occupato nei primi mesi di guerra prima di essere liberati nell’autunno 2022. «Sono stato percosso ovunque, anche con tubi di plastica». Poi preso a «calci e pugni». E nella stanza delle torture dove è stato rinchiuso «sono stato ferito alle gambe». Quando è stato rilasciato, «le ginocchia erano nere e mi muovevo a stento. Le gambe erano in cancrena». E all’ospedale di Kharkiv i medici sono stati costretti ad amputarle. La sua testimonianza entra fra dolore e speranza nella conferenza sulla crisi umanitaria in Ucraina organizzata a Roma dall’Ordine di Malta a Villa Magistrale.

Yevhen è in uno dei 100mila ucraini mutilati che hanno perso gli arti nei due anni e mezzo di invasione russa. Una stima per difetto, spiega il dottor Yehor Iordek del Feofania hospital di Kiev, che interviene all’incontro organizzato con l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede e l’Ordine di Malta, Andrii Yurash. È il medico a lanciare l’allarme mine. «A causa della guerra che si combatte fin dal 2014 siamo il Paese più contaminato al mondo», afferma. Se l’ex prigioniero di guerra può stare in piedi, lo deve al millenario ordine religioso laicale che ha già fatto impiantare 244 protesi nella clinica di riabilitazione aperta a Leopoli. Ma sono almeno 35mila le persone che necessitano di una gamba o di un braccio artificiale, viene spiegato nella tavola rotonda.

Altra emergenza è quella dei bambini. «I dati ufficiali – avverte Pavlo Titko del Malteser Relief Service – sono drammatici: 3 milioni i ragazzi direttamente colpiti dalla guerra; 15.551 i feriti minorenni e 633 quelli che hanno perso la vita». Così l’assistenza psicologica diventa una delle priorità per l’Ordine. Già 45mila i ragazzi in tutto il Paese che sono stati sostenuti con progetti di supporto. Come dice Natalia, psico-terapeuta a Kharkiv: «È indispensabile quando un piccolo vive sotto le bombe oppure ha perso un parente, un amico o la casa. Di fatto la guerra ha rubato l’infanzia». Non è un caso che sei bus con la croce a otto punte stiano portando nell’Ucraina occidentale attività e specialisti per aiutare le nuove generazioni ad affrontare traumi e disagi.

Dall’inizio dell'invasione, l'Ordine di Malta è in prima linea sul fronte umanitario e ha soccorso quattro milioni di persone. Distribuite più di 10mila tonnellate di aiuti in oltre 70 località. Un’«azione apolitica, nel segno della nostra tradizionale neutralità», ricorda il Gran Cancelliere, Riccardo Paternò di Montecupo. Eppure, sottolinea l’ambasciatore dell’Ordine a Kiev, Antonio Gazzanti Pugliese di Cotrone, «si registra un declino di aiuti umanitari. E il Paese chiede di non essere abbandonato». Parla di «assistenza tempestiva» il premier ucraino, Denys Shmyha, in un videomessaggio per l’incontro, dove definisce l’impegno dell’Ordine «il più grande contributo dalla seconda guerra mondiale». Quindi il grazie anche per i «passi diplomatici» dell’Ordine che vede nel sostegno umanitario una via di pace.


«Sette hub dell’Ordine di Malta sono stati chiusi a causa degli attacchi della Russia che non consente attività umanitarie», denuncia l’ambasciatore ucraino Yurash che descrive la resistenza di Kiev come una «lotta per continuare a esistere». Nella storica sede del Gran Priorato di Roma dei Cavalieri di Malta, sul colle dell’Aventino, ha voluto che venissero allestite le mostre di due artisti ucraini, Mykola Stupinky di Leopoli e Dmytro Moldovanov di Mykolaiv, città nel mirino di Putin da cui il creativo ha scelto di non andarsene e dove continua a realizzare le sue opere sotto le bombe.





Giovedì, 24 Ottobre 2024





Mercoledì, 23 Ottobre 2024

Alla base del suo pensiero c'è il più profetico e dirompente brano dei Vangeli: le beatitudini, con l'affermazione della profonda dignità dei poveri, degli ultimi, dei semplici. Questo era uno dei capisaldi del pensiero di padre Gustavo Gutierrez, il padre della teologia della liberazione, morto martedì 22 ottobre 2024 nel convento di San Domenico a Lima a 96 anni.

Il religioso - era diventato domenicano nel 1999 - è ricordato per aver dato avvio a una delle correnti teologiche più discusse del '900 e aver attraversato le nebbie dei sospetti e dei dubbi. Ci sono voluti anni perché la sua opera fosse in qualche modo capita e accolta anche oltre i confini di quell'America Latina dove era nata, in un contesto caratterizzato da forti fenomeni di marginalizzazione e di povertà. La sua opera principale, «Teologia della liberazione», era stata pubblicata nel 1971, arrivando in Italia per i tipi di Queriniana nel 1972. Da lì ne era nato un dibattito, che ha portato alla nascita di diverse correnti (ecco perché spesso di parla di teologie della liberazione, al plurale), alcune caratterizzate anche da estremismi.

Vent'anni dopo la prima pubblicazione, Gutierrez diede le stampe una versione rivista della sua opera, ammettendo l'esistenza di alcuni errori nella prima versione. Il 14 settembre 2013, pochi mesi dopo l'elezione, papa Francesco accolse Gutierrez in Vaticano per un incontro che contribuì in modo definitivo a diradar ogni nebbia.

Gustavo Gutierrez era nato a Lima, in Perù, l'8 luglio 1928. Aveva studiato medicina e letteratura nel Paese natale, spostandosi poi in Europa, per gli studi in psicologia e filosofia a Lovanio in Belgio. Avevo proseguito poi il percorso all'Università Cattolica di Lione, e poi, ancora, a Roma e a Parigi, approfondendo gli studi teologici.

?





Mercoledì, 23 Ottobre 2024

Dicono tanti intellettuali, non solo cattolici, che la più grande astuzia del Diavolo sia far credere di non essere una presenza reale. Lo ha ricordato spesso papa Francesco che lo scorso 25 settembre ha parlato di “strano fenomeno”. «A un certo livello culturale – ha detto - si ritiene che semplicemente il Demonio non esista. Sarebbe un simbolo dell’inconscio collettivo o dell’alienazione, insomma una metafora». E questo malgrado la Bibbia parli chiaramente dell’esistenza del Demonio (si pensi a Gesù tentato nel deserto) e il Catechismo sia perentorio nel dire che «il male non è un’astrazione; indica invece una persona: Satana, il maligno, l’angelo che si oppone a Dio». È dedicato proprio al Diavolo, al dibattito intorno alla sua presenza, a come riesca a interagire con le nostre vite, il nuovo episodio di Taccuino celeste, il podcast di Avvenire dedicato ai temi della fede, della religione. Se ne parla alla luce delle Scritture e del magistero della Chiesa cattolica.

Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga su "cosa crede chi crede". Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.

Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Martedì, 22 Ottobre 2024

«Vorrei essere come il filo di un vestito che tiene insieme i vari pezzi e che nessuno vede se non il sarto che ce lo ha messo, ovvero il Signore». La poesia della venerabile Madeleine Delbrêl sembra descrivere bene la vicenda del Pio sodalizio delle artigiane cristiane di Candelara a Pesaro.

Quel lungo filo intrecciato dalla Provvidenza alimenta ancora oggi nuove relazioni umane che hanno portato al recupero dell’ex scuola di cucito e ricamo, costruita circa un secolo fa. In questo istituto che ha avviato al lavoro centinaia di donne, si è trasferita ora “La perla preziosa”, una casa famiglia dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, nata 14 anni fa a Monte Santa Maria, sulle colline pesaresi. «Si è iniziato a pensare ad una nuova abitazione quando l’allora arcivescovo di Pesaro Piero Coccia ha coordinato l’opera di ristrutturazione come rappresentante dell’ente proprietario dello stabile – spiega l’avvocato Giorgio Paolucci, liquidatore del Pio sodalizio - si sono unite nell’intento la parrocchia di Candelara, l’associazione Pie artigiane cristiane e la Comunità Papa Giovanni XXIII». Per coprire gli ingenti costi di abbattimento delle barriere architettoniche del vecchio fabbricato, per il rifacimento del tetto e per l’allaccio dell’impianto fognario, sono state coinvolte alcune realtà tra cui il Rotary Club di Pesaro e le fondazioni Azimut di Milano, Meuccia Severi e Cassa di Risparmio di Pesaro. Fondamentale è stato l’intervento delle singole persone che hanno raccolto fondi per 50mila euro. Lo scorso 13 ottobre in centinaia erano presenti all’inaugurazione della nuova “Perla Preziosa” a cominciare dal sindaco di Pesaro Andrea Biancani. A seguire la Messa presieduta dall’arcivescovo Sandro Salvucci. Poi tutti stretti in un gigantesco abbraccio attorno Nicoletta Poderi e Francesco Simonetti, 42 e 44 anni, e ai loro figli naturali: Emanuele, Tommaso, Greta, Paolo e Agata di età compresa tra 15 e un anno. Completano la famiglia tre figli acquisiti: Stefano di 23 anni con fragilità dovuta ad abbandoni familiari, Antony di 22 anni con problematiche mentali e Great di 8 anni nigeriano tetraplegico. «Mentre questi tre figli fanno ormai parte stabile del nucleo familiare - spiega Francesco – nella storia della nostra casa famiglia sono passate diverse decine di persone quasi tutte con disabilità. Abbiamo accolto anche ragazze madri, adolescenti abusati, donne di strada e ragazzi con un passato di tossicodipendenza». Tutte storie che poi hanno continuato verso altri progetti. «Quello che sentiamo nelle nostre corde – spiega Francesco - è soprattutto il dialogo con i giovani, per questo incontriamo spesso gruppi scout e di catechismo per fare attività all’aria aperta e pregare insieme, aiutati anche da alcuni sacerdoti come don Enrico Giorgini che ci segue sempre». All’evento era presente anche Stefano Paradisi, responsabile di zona della Papa Giovanni XXIII di Fano. Presenti inoltre le altre due case famiglia di Pesaro mentre diversi fratelli da Riccione a Jesi che hanno animato la Messa. «L’anno prima di sposarci abbiamo viaggiato con don Oreste Benzi – hanno poi ricordato Francesco e Nicoletta - che ci ha esor tato a non mollare mai: “di fronte a tutto ciò che può accadere nella vita nessuno potrà mai impedirvi di fare del bene”. Parole che conserviamo nel cuore». Infine il bellissimo augurio dell’arcivescovo Salvucci che ha definito «la casa famiglia come il luogo dove Gesù fissa il suo sguardo d’amore e dove ciascuno diventa per l’altro segno di questo sguardo a cui è impossibile sottrarsi».





Martedì, 22 Ottobre 2024

Un rinnovo raddoppiato. L’Accordo Santa Sede-Cina sottoscritto la prima volta il 22 settembre 2018 e già prolungato due volte, nell’ottobre 2020 e nell’ottobre 2022 si rinnova oggi non per i soliti due anni ma per altri quattro. Questo il comunicato reso noto con due comunicati ufficiali paralleli: «La Santa Sede e la Repubblica popolare cinese, visti i consensi raggiunti per una proficua applicazione dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, dopo opportune consultazioni e valutazioni, hanno concordato di prorogarne la validità per un ulteriore quadriennio, a decorrere dalla data odierna». Vengono così specificate le ragioni della decisione presa sulla proroga e si afferma: «La Parte vaticana rimane intenzionata a proseguire il dialogo rispettoso e costruttivo con la Parte cinese per lo sviluppo delle relazioni bilaterali in vista del bene della Chiesa cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese».
L’Accordo provvisorio sulle nomine dei vescovi cattolici cinesi – che prevedeva un periodo di applicazione ad experimentum della durata di due anni – era stato firmato a Pechino il 22 settembre 2018 da rappresentanti della Santa Sede e del governo della Repubblica popolare cinese. Nell’ottobre del 2020, la validità dell’Accordo era stata poi prorogata per un altro biennio.
Mentre si avvicinava la scadenza della terza proroga, dichiarazioni pubbliche di papa Francesco e del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin avevano tuttavia lasciato intendere chiaramente che da parte della Santa Sede c’era l’intenzione positiva di proseguire il percorso negoziale, insieme alla richiesta di veder applicato l’Accordo in maniera puntuale e di confrontarsi sui margini di un suo progressivo miglioramento, con l’unico intento di affidare l’ufficio pastorale a vescovi degni e idonei. Proprio sul volo di ritorno dal lungo viaggio apostolico in Estremo Oriente il 14 settembre scorso, nel corso della conferenza stampa, il Papa, infatti, aveva espresso queste dichiarazioni, rispondendo a una domanda diretta riguardo all’Accordo: «Lei è soddisfatto o no dei risultati del dialogo, che sono stati finora ottenuti?». Alla domanda Francesco aveva risposto: «Io sono contento dei dialoghi con la Cina, il risultato è buono, anche per la nomina dei vescovi si lavora con buona volontà. E per questo ho sentito la Segreteria di Stato, su come vanno le cose: io sono contento». Di particolare interesse è stata inoltre anche l’affermazione: «Credo che la Cina sia una promessa e una speranza per la Chiesa». Si è trattato di considerazioni che il Papa non aveva ancora mai espresso pubblicamente e in un contesto internazionale. Anche alle luce di queste dichiarazioni si comprende dunque la volontà di raddoppiare gli anni di proroga. La strada del dialogo attraverso lo strumento dell’Accordo, dal 2018 ad oggi, ha contribuito a favorire cambiamenti concreti che toccano il vissuto delle comunità cattoliche cinesi – è stato fatto osservare dalla Santa Sede – considerato che la vita ecclesiale in Cina procede nel segno di una ritrovata ordinarietà pastorale, dopo l’ordinazione di vescovi nominati secondo le procedure definite dall’Accordo.

Del resto il primo dato oggettivo da rilevare è che dalla firma dell’Accordo provvisorio a oggi, tutti i vescovi cattolici della Repubblica Popolare cinese sono oggi in piena e pubblica comunione gerarchica con il Vescovo di Roma.
Dalla firma dell’Accordo, in Cina non si sono più verificate ordinazioni episcopali illegittime, quelle celebrate senza consenso papale, che dalla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso avevano ferito la comunione ecclesiale e provocato lacerazioni tra i cattolici cinesi. Negli ultimi sei anni, nella Cina continentale sono state celebrate nove nuove ordinazioni episcopali cattoliche, con procedure che implicano l’emissione della bolla di nomina da parte del Papa. Nello stesso tempo, otto vescovi cosiddetti “clandestini”, consacrati in passato senza seguire i protocolli imposti dagli apparati cinesi, su loro richiesta sono stati pubblicamente riconosciuti nel loro ruolo episcopale anche da parte delle autorità politiche di Pechino.
In questo arco di tempo si sono superati momenti di tensione e difficoltà, come quelli seguiti al trasferimento del vescovo Giuseppe Shen Bin a Shanghai su disposizione delle autorità governative, nell’aprile 2023. Lo scorso 21 maggio, proprio Giuseppe Shen Bin è stato uno dei relatori, a fianco del cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, al Convegno sui cento anni dal primo Concilium Sinense (1924/2024), organizzato a Roma dalla Pontificia Università Urbaniana (parte integrante del Dicastero per l’evangelizzazione) in collaborazione con la vaticana Agenzia Fides. Poi, il 22 giugno, il trasferimento del vescovo Giuseppe Yang Yongqiang dalla diocesi di Zhoucun alla sede diocesana di Hangzhou è avvenuto senza problemi. Segno che anche sulla questione dei trasferimenti di vescovi da una diocesi all’altra il dialogo tra Santa Sede e Pechino ha permesso di definire e porre in atto procedure condivise. Anche quest’anno inoltre sono presenti all’Assemblea generale del Sinodo dei vescovi in corso in Vaticano due vescovi della Repubblica popolare cinese: Vincenzo Zhan Silu, vescovo di Funing-Mindong e Giuseppe Yang Yongqiang, vescovo di Hangzhou. «La Chiesa in Cina è uguale alla Chiesa cattolica negli altri Paesi del mondo: apparteniamo alla medesima fede, condividiamo lo stesso battesimo e siamo tutti fedeli alla Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» ha detto il vescovo Giuseppe Yang Yongqiang nel suo intervento in aula sinodale.
Vescovi della Repubblica Popolare cinese avevano preso parte alle Assemblee sinodali solo nel 2018 e poi nel 2023. «Abbiamo vissuto un miracolo. Siamo qui per ringraziare, abbiamo atteso tanti anni questo momento e finalmente è arrivato» aveva raccontato il vescovo Giuseppe Guo Jincai nell’ottobre 2018 ad «Avvenire», in occasione della sua partecipazione al Sinodo sui giovani. In precedenza, nessun presule proveniente dalla Cina continentale aveva potuto prender parte al Concilio Vaticano II, né alle successive Assemblee generali del Sinodo dei vescovi.
«Per cogliere le ragioni dell’orientamento manifestato dal Papa e dai suoi collaboratori, basta tener presente la storia recente del cattolicesimo in Cina e riconoscere quale è la bussola che da decenni guida i passi della Santa Sede davanti alle vicende dei cattolici cinesi» ha affermato il direttore di Fides, Gianni Valente. «Nelle rappresentazioni dominanti dei rapporti Cina-Vaticano vengono di solito rimossi e occultati i fattori che hanno mosso la Santa Sede sul cammino intrapreso, e i criteri che l’hanno guidata nelle scelte su questioni tanto vitali per il sensus Ecclesiae dei cattolici cinesi. Chi bolla l’Accordo come una operazione con risultati scarsi o addirittura come un errore di cui doversi pentire – è scritto su Fides lo scorso 22 settembre – deve rimuovere non solo i riferimenti alle dinamiche sacramentali che fanno vivere la Chiesa, ma deve occultare anche tutto quello che è successo negli ultimi settant’anni alla cattolicità cinese. Ci sono state stagioni in cui nei media ufficiali degli apparati cinesi vescovi e Vaticano venivano normalmente definiti come “cani da guardia” dell’imperialismo occidentale. Adesso, pur nella fase di crescente tensione internazionale tra Repubblica Popolare Cinese e soggetti geopolitici occidentali, in Cina a nessuno viene in mente di insultare il Papa e la Chiesa cattolica come agenti di forze ostili».
Per la Santa Sede – è stato spiegato da tempo – si tratta di una questione profondamente ecclesiologica, in conformità a due principi così esplicitati: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Sant’Ambrogio) e “Ubi episcopus, ibi Ecclesia” (Sant’Ignazio di Antiochia)». Lo scopo principale dell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi in Cina è quello di sostenere e promuovere l’annuncio del Vangelo, ricostituendo la piena e visibile unità della Chiesa. I motivi principali, infatti, che hanno guidato la Santa Sede in questo processo, in dialogo con il governo cinese, «sono fondamentalmente di natura ecclesiologica e pastorale». E la linea seguita dalla Santa Sede è stata espressa nel Messaggio di papa Francesco del 26 settembre 2018 diretto ai cattolici della Repubblica popolare nel quale sono spiegate le ragioni dell’Accordo provvisorio. Oggi nell’attuale rinnovo dell’Accordo con parole semplici viene richiamata di nuovo quale è la premura che muove e orienta le scelte della Sede apostolica nel dialogo con le autorità cinesi. Il fattore primario che guida la Santa Sede nel dialogo con la Repubblica Popolare Cinese non è l’ansia di riaffermare primazie di giurisdizione politica su una comunità ecclesiale che per decenni è stata custodita nella fede cattolica attraversando sentieri impervi e tempi di prova anche cruenti. Il criterio, anche nei rapporti con le autorità civili e il loro dirigismo, è fare le scelte più appropriate per favorire che il cammino di quella comunità ecclesiale continui a procedere nella storia seguendo il grande solco della Tradizione cattolica. Le cronache ordinarie della vita ecclesiale delle comunità cattoliche cinesi, raccontate e descritte anche dall’Agenzia Fides, mostrano che, muovendosi dentro le linee imposte dal quadro politico e legislativo cinese, le comunità cattoliche in Cina riescono a dispiegare tutta l’ampiezza della loro missione apostolica, nei suoi termini fondamentali: celebrazione dei misteri, preghiera, amministrazione dei sacramenti, catechismo e annuncio del Vangelo, condivisione della Parola di Dio, opere di carità, iniziative di formazione per giovani e adulti. La sacramentalità e la apostolicità della Chiesa riconosciuta, custodita e vissuta nella vita ecclesiale di ogni parrocchia cinese, e la piena comunione di tutti i vescovi con il Vescovo di Roma non possono dunque essere definiti deludenti dal punto di vista della Santa Sede. Adattandosi al contesto la Chiesa cattolica, nel solco della Tradizione apostolica, sta trovando le vie per vivere e testimoniare la sua missione nella Cina di oggi.





Martedì, 22 Ottobre 2024

Questa mattina alle 10, nella Cattedrale San Salvatore di Mazara del Vallo, sarà avviata la sessione iniziale della fase diocesana per il riconoscimento del martirio del padre gesuita il servo di Dio Giovanni Matteo Adami, mazarese, sacerdote religioso della Compagnia di Gesù, missionario in Giappone, ucciso a causa della fede cristiana il 22 ottobre 1633 a Nagasaki. Il vescovo Angelo Giurdanella ha convocato tutto il clero diocesano per oggi. Padre Giovanni Matteo Adami nacque a Mazara del Vallo il 17 maggio 1576 e fu un sacerdote della Compagnia di Gesù sino alla sua morte, avvenuta dopo essere stato catturato e condannato al supplizio. Inviato missionario al Giappone, vi sbarcò nel 1604. Durante le persecuzioni del 1614 riparò a Macao. Riuscì a tornare in Giappone nel 1624, ed esercitò il suo ministero apostolico in Echigo, Sado, Ôshû, Edo, ecc. Scoperto, venne condannato a morte il 22 ottobre 1633 a Nagasaki. Va incontro alla morte lodando Dio, ringraziando per il privilegio del martirio, di cui si sentiva indegno, perdonando i suoi assassini alla maniera di Santo Stefano:« Signore, non imputare loro questo peccato».
Padre Adami fu molto apprezzato da personalità di rilievo nella storia della Chiesa del suo tempo, come il cardinale Giulio Antonio Santori e lo stesso Preposto Generale, padre Claudio Acquaviva; così come molto vicino gli fu padre Pietro Spinelli, rettore di importanti collegi gesuitici, compreso il Collegio Romano, dove avvenne la prima formazione di padre Adami. Di padre Adami rimangono le poche lettere manoscritte, sopravvissute a naufragi e traversi diverse che tormentarono le comunicazioni fra Giappone ed Europa e costituiscono uno dei riferimenti più importanti della sua storia. Sono conservate presso l’Archivum Romanum Societatis Iesu di Roma (Arsi) con date di invio che vanno dal 1615 al 1624. Si tratta di lettere in lingua italiana e in lingua portoghese.





Martedì, 22 Ottobre 2024

Sono in fase di maturazione le lacrime di Giobbe, pianta tropicale che produce dei semi da cui si ricavano grani utilizzati per realizzare corone del Rosario. Nella diocesi di Acireale, nel catanese, c’è un solo posto dove viene coltivata questa pianta: l’Eremo di Sant’Anna, ad Aci San Filippo, nel Comune di Aci Catena. Qui nel 1751, un frate eremita, fra Rosario Campione, fondò l’eremo e furono i frati a coltivare questa pianta. Dopo la morte dell’ultimo eremita, avvenuta nel 2005, il giardino ebbe un periodo di declino. Da qualche anno, l’eremo è abitato dalla comunità religiosa Fraternità mariana Totus Tuus che nel giardino ha trovato alcune piante delle Lacrime di Giobbe e ne ha sviluppato una piccola coltivazione. Tra fine dicembre e gennaio i grani possono essere raccolti. «Appena raccolti possiamo subito realizzare i Rosari - spiega padre Enzo Calà della Comunità Totus Tuus - non vengono né dipinti, né lucidati. Lo fa la nostra comunità e anche qualche volontario che ci aiuta a realizzarli. Dopo che raccogliamo questi grani, la pianta secca, assomiglia al granoturco. In seguito potiamo la pianta, ne abbassiamo il fusto, dopodichè riprende la vegetazione». I grani raccolti si presentano robusti e sono naturalmente lucidi. Con un piccolo trapano si allarga un foro dentro i grani per passare un filo. Quest’anno anche questa pianta ha risentito della grave siccità e del caldo torrido prolungato che ha colpito l’isola e non si è sviluppata come gli anni passati, malgrado i membri della comunità con tanta abnegazione abbiano abbeverato assiduamente le piante.

La Fraternità mariana Totus tuus è una piccola comunità di fratelli e sorelle che si ispira alla Regola primitiva carmelitana, seguendo la spiritualità mariana di san Luigi Maria Grignion de Montfort. I frati e le sorelle emettono oltre ai tre consueti volti di povertà, castità e obbedienza anche un quarto voto: quello di appartenere del tutto a Maria. La coltivazione delle lacrime di Giobbe è, quindi, espressione di un carisma, della loro scelta di vita sotto lo sguardo dalla Madonna, non solo il mantenimento di una pratica agricola, portata avanti da eremiti dei secoli passati. «Pur essendo una comunità contemplativa - dice padre Enzo - non ci chiudiamo alle esigenze del mondo: viviamo questo carisma accogliendo gli altri, ascoltandoli. Siamo una comunità mariana e per noi è importante aiutare gli altri di riscoprire l’importanza del rapporto con Maria, nostra madre. Durante l’anno organizziamo dei percorsi di preparazione alla consacrazione a Maria di laici si consacrano, secondo lo spirito di san Luigi Maria Grignon De Monfort». Quest’anno il percorso culminerà in una solenne celebrazione il 7 dicembre, mentre gli incontri di preparazione si terranno il 29 ottobre, nei giorni 5,12,19 e 26 di novembre e il 3 dicembre. Ogni primo sabato del mese, invece, dopo la Messa delle 9, la Comunità si riunisce per pregare il Rosario, seguito da 15 minuti di meditazione dei misteri, come chiesto dalla Madonna a Fatima.

Questo mese di ottobre, inoltre, sono ripresi i ritiri mensili, appuntamento che si rinnoverà sino a giugno. La comunità si dedica alla preghiera assidua e alla meditazione della Parola del Signore, attraverso la lectio divina; l’osservanza del sacro silenzio; l’accoglienza nella carità di ogni fratello e sorella; la pratica della penitenza; la meditazione della beata Passione del Signore; l’attività apostolica e il lavoro, in varie forme, per il bene della Chiesa e dell’umanità.

Grazie anche alla sua collocazione, su una rigogliosa collina sopra l’abitato di Aci San Filippo, l’eremo è, sin dai tempi antichi, un luogo di meditazione, di preghiera, di riscoperta della vita interiore, ancora prima della fondazione dell’eremo. Da oltre un anno, nell’eremo, è stata aperta anche una cappellina dove ogni giorno, da lunedì a sabato, dalle 6 del mattino alle 22 si adora continuamente il Santissimo Sacramento, grazie a 120 adoratori che si avvicendano nella preghiera.





Lunedì, 21 Ottobre 2024

È in arrivo una nuova enciclica del Papa. Si intitolerà Dilexit nos (Ci ha amati) e sarà pubblicata giovedì 24 ottobre. Si tratta della quarta enciclica di Francesco, questa volta dedicata al Sacro Cuore e diretta a «un mondo che sembra aver perso il cuore». Al centro dell'attenzione sarà l'amore in un contesto drammatico in cui sembrano avere la meglio i conflitti, le disuguaglianze, le ferite alla dignità dell'uomo e alla terra. Il tutto arriva mentre è quasi alla fine il Sinodo e ci si prepara al Giubileo.

Dilexit nos giunge dopo Lumen Fidei (2013), Laudato si’ (2015) e Fratelli Tutti (2020). Ad annunciare il testo sul Sacro Cuore era stato lo stesso Bergoglio nell’udienza generale del 5 giugno di quest’anno: «Stiamo percorrendo questo mese – aveva detto riferendosi appunto al mese di giugno – dedicato al Sacro Cuore. Il 27 dicembre dello scorso anno ricorreva il 350° anniversario della prima manifestazione del Sacro Cuore di Gesù a Santa Margherita Maria Alacoque. In quell'occasione si è aperto un periodo di celebrazioni che si concluderà il 27 giugno del prossimo anno. Per questo sono lieto di preparare il documento che raccolga le preziose riflessioni di testi magisteriali precedenti e di una lunga storia che risale alle Sacre Scritture, per riproporre oggi, a tutta la Chiesa, questo culto carico di bellezza spirituale. Credo che ci farà molto bene meditare su vari aspetti dell’amore del Signore che possano illuminare il cammino del rinnovamento ecclesiale; ma anche che dicano qualcosa di significativo a un mondo che sembra aver perso il cuore», sottolineava in quella occasione il Pontefice.

L'Enciclica sarà presentata alla stampa da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, e da sorella Antonella Fraccaro, responsabile generale delle Discepole del Vangelo.

La devozione al Sacro Cuore nasce nel 1673 quando suor Margherita Maria Alacoque, inizia a ricevere le visite di Gesù che le chiede di avere particolare devozione al Suo Sacro Cuore. Gesù appare alla suora visitandina per 17 anni e le promette che chi avesse ricevuto la comunione per nove mesi consecutivi il primo venerdì del mese, sarebbe stato fatto dono di morire ricevendo i sacramenti e in assenza di peccato.





Lunedì, 21 Ottobre 2024

Si è spento nella serata di domenica 20 ottobre presso la Cittadella della Carità di Negrar di Valpolicella (Verona) dove era ospite da qualche anno, l’85enne cardinale Eugenio Dal Corso, religioso della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza (Don Calabria)

Era vescovo emerito di Benguela (Angola). Nei giorni scorsi le condizioni di salute del porporato si erano improvvisamente aggravate e domenica sera è deceduto. Era stato creato e pubblicato cardinale da papa Francesco nel Concistoro del 5 ottobre 2019.

I funerali, presieduti dal vescovo di Verona, Domenico Pompili, saranno celebrati giovedì 24 ottobre alle 14.30 nella Cattedrale di Verona.

Originario della contrada Corso, nella frazione di Lugo di Grezzana (Verona), Eugenio Dal Corso era nato il 16 maggio 1939, secondo di sei figli. I suoi genitori, dopo la scuola dell'obbligo, lo inviarono all’Istituto don Calabria per completare gli studi, dapprima a Roncà (Verona), quindi a Maguzzano (Brescia) e poi nella casa Nazareth, a Verona. E fu proprio in quegli anni che decise di diventare missionario. Emessa la prima professione religiosa l’8 settembre di 65 anni fa, venne ordinato prete a Verona il 17 luglio 1963.

Quindi a Roma effettuò gli studi in Teologia dogmatica. Impegnato nell’attività pastorale nella parrocchia veronese di Santa Maria della Pace (Madonna di Campagna), a quel tempo affidata all’Opera don Calabria, e poi a Napoli, nel 1975 iniziò il suo ministero missionario. Dapprima a Laferrere, nella Gran Buenos Aires, in Argentina. Nel 1986 venne mandato in Africa, a Luanda, capitale dell’Angola, dove si impegnò per le persone più deboli e fragili. Nominato Vescovo coadiutore di Saurimo (15 dicembre 1995), ricevette l’ordinazione episcopale il 3 marzo 1996 e il 15 gennaio 1997 divenne Vescovo titolare della medesima diocesi. Il 18 febbraio 2008 fu trasferito a Benguela, Chiesa che guidò fino al 26 marzo 2018 quando, quasi 79enne, fu accolta dal Papa la sua rinuncia per raggiunti limiti di età. Tuttavia, fino a quando la salute glielo consentì, rimase a svolgere il proprio servizio missionario in quella terra africana.

Il ricordo di don Massimiliano Parrella

«Il cardinale Dal Corso è stato un vero uomo di Dio, un grande dono per l’Opera don Calabria e per la Chiesa tutta – commenta don Massimiliano Parrella, superiore generale della Congregazione religiosa fondata da san Giovanni Calabria nel 1907 –. Nei suoi tanti anni di missione è sempre stato vicino agli ultimi e ai dimenticati della terra. Anche dopo essere stato creato cardinale, ha voluto continuare a prestare servizio come cappellano in una parrocchia sperduta dell’Angola (a Caiundo, nella diocesi di Menongue, ndr) dove c’era bisogno di sacerdoti per portare avanti il lavoro pastorale. Ed è particolarmente significativo che sia morto proprio la domenica in cui si celebrava la Giornata missionaria mondiale. Il cardinale Eugenio è stato un vero Povero Servo secondo lo spirito di don Calabria: un uomo che ha vissuto la povertà e il distacco totale dai beni materiali fino alla fine, e contemporaneamente un servo che ha donato tutto se stesso per la Chiesa e per l’Opera».





Lunedì, 21 Ottobre 2024

La piccola città della diocesi di Brescia Bienno, borgo in cui era nato nel 1937, piange oggi la morte di uno dei suoi cittadini più illustri l’arcivescovo Giovanni Battista Morandini, già nunzio apostolico in vari angoli del pianeta dal Ruanda al Guatemala, dalla Mongolia alla Siria.

A dare la notizia è stato il settimanale diocesano La Voce del Popolo. Il presule è spirato nella Rsa di Benno. E il 30 giugno scorso aveva compiuto 87 anni.

Il 22 luglio del 1962 venne consacrato presbitero per la sua diocesi Brescia. Laureato in Diritto canonico Morandini nel 1966 è entrato nel servizio diplomatico della Santa Sede. Dopo la formazione e gli studi a Roma ha svolto il suo ministero in varie nunziature Bolivia (1966-1970) Kenya (1970-1971), Belgio (1971-1975), Brasile (1975-1979). Rientrato a Roma è stato collaboratore del Consiglio per gli Affari pubblici della Santa Sede (1978-1983). A 46 anni l’8 ottobre 1983 è stato ordinato vescovo, a 46 anni, a Brescia dall’allora segretario di Stato il cardinale Agostino Casaroli.

Dopo la sua ordinazione avvenuta 41 anni fa è stato inviato come nunzio apostolico in Rwanda (1983-1990), in Guatemala (1990-1997), in Corea e Mongolia (1997-2004) e in Siria (2004-2008). Si è ritirato da ogni incarico il 21 settembre 2008.

Nel 2016 il presule bresciano aveva donato al comune di Bienno oltre 40 opere d'arte che aveva presentato ai suoi concittadini in quella che poi sarebbe diventata la Pinacoteca dell'arcivescovo Morandini a palazzo Simoni Fè.

?Mercoledì 23 ottobre i funerali a Bienno

La veglia funebre è fissata per domani, alle 19, presso la chiesa parrocchiale dei Santi Faustino e Giovita di Bienno. Le esequie verranno celebrato mercoledì 23 ottobre, alle 15, presso la chiesa parrocchiale dei Santi Faustino e Giovita in Bienno. L’arcivescovo Giovanni Battista Morandini verrà sepolto presso la cappella dei sacerdoti nel cimitero di Bienno.





Lunedì, 21 Ottobre 2024

Il servizio, non la ricerca del potere, è lo stile di vita del cristiano. Lo ha sottolineato il Papa durante l’omelia della Messa di canonizzazione di 14 nuovi santi celebrata in Piazza San Pietro. E il servizio – ha aggiunto - «non riguarda un elenco di cose da fare, quasi che, una volta fatte, possiamo ritenere finito il nostro turno; chi serve con amore non dice: “adesso toccherà a qualcun altro”. Questo è un pensiero da impiegati, non da testimoni. Il servizio nasce dall’amore e l’amore non conosce confini, non fa calcoli, si spende e si dona. L’amore – ha spiegato ancora Francesco - non si limita a produrre per portare risultati, non è una prestazione occasionale, ma è qualcosa che nasce dal cuore, un cuore rinnovato dall’amore e nell’amore». Ed è appunto una mentalità di servizio, modellata sull’amore a Gesù e alla Chiesa, nella piena testimonianza del Vangelo, quella che ha caratterizzato i 14 nuovi santi, tra cui due italiani: Giuseppe Allamano fondatore dei Missionari della Consolata ed Elena Guerra “l’apostola della Spirito Santo” cui si deve la Congregazione delle Suore di Santa Zita. A completare questo straordinario elenco, che è stato presentato dal cardinale Marcello Semeraro prefetto del Dicastero delle Cause dei santi, Marie-Léonie Paradis fondatrice delle Piccole Suore della Santa Famiglia e i cosiddetti martiri di Damasco, perché uccisi in odio alla fede in un attacco al loro convento in Siria nel 1860. Si tratta dei francescani Manuel Ruiz Lopez con sette compagni e i tre fedeli laici Francesco, Abdel Mooti e Raffaele Massabki. Si tratta com’è ovvio di uomini e donne dalle personalità differenti, accomunate però dal desiderio di imitare il Signore, il cui stile di servizio, ha aggiunto il Pontefice, si riassume in tre parole: vicinanza, tenerezza e compassione. «Dio si fa vicino per servire; si fa compassionevole per servire; si fa tenero per servire. Vicinanza, compassione e tenerezza». La fede e l’apostolato che hanno portato avanti i nuovi santi, ha proseguito il Papa, «non ha alimentato in loro desideri mondani e smanie di potere ma, al contrario, essi si sono fatti servi dei fratelli, creativi nel fare il bene, saldi nelle difficoltà, generosi fino alla fine».

L’Angelus
Al termine dell’Eucaristia cui era presente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante l’Angelus guidato alla fine della celebrazione, il Papa ha preso spunto dalla vita di san Giuseppe Allamano per ricordare la necessaria attenzione verso le popolazioni più fragili e più vulnerabili. «In particolare - ha aggiunto Francesco - penso al popolo Yanomami, nella foresta amazzonica brasiliana, tra i cui membri è avvenuto proprio il miracolo legato alla canonizzazione» del fondatore dei Missionari della Consolata, cioè la guarigione di un indigeno gravemente ferito dall’attacco di un giaguaro. «Faccio appello alle autorità politiche e civili – ha continuato Bergoglio - , affinché assicurino la protezione di questi popoli e dei loro diritti fondamentali e contro ogni forma di sfruttamento della loro dignità e dei loro territori». Un messaggio tanto più significativo dal momento che coincideva con la Giornata Missionaria Mondiale, il cui tema – “Andate e invitate al banchetto tutti” (cfr Mt 22,9) – ci ricorda, ha spiegato il Papa, «che l’annuncio missionario è portare a tutti l’invito all’incontro festoso con il Signore, che ci ama e che ci vuole partecipi della sua gioia sponsale. Come ci insegnano i nuovi santi: “ogni cristiano è chiamato a prendere parte a questa missione universale con la propria testimonianza evangelica in ogni ambiente”» (Messaggio per la XCVIII Giornata missionaria mondiale). Infine, a margine della recita dell’Angelus un nuovo invito a «pregare per le popolazioni che soffrono a causa della guerra – la martoriata Palestina, Israele, Libano, la martoriata Ucraina, Sudan, Myanmar e tutte le altre – e a invocare per tutti il dono della pace».





Lunedì, 21 Ottobre 2024

«Farò tutto ciò che è in mio potere per bandire gli orrori e i sacrifici della guerra il prima possibile, e per ridare al mio popolo la benedizione della pace amaramente mancata». A vent’anni dalla beatificazione proclamata da Giovanni Paolo II, avvenuta il 3 ottobre 2004, è uscito il nuovo libro «Carlo d'Asburgo e il coraggio della pace nella Grande Guerra. La vita e i tempi dell’ultimo Imperatore d’Austria (Carlo I) e Re d’Ungheria (Carlo IV), 1887-1922» (512 pagine, Gaspari Editore), scritto dal professor Roberto Coaloa, docente all’Università Sorbonne di Parigi con don Marco Eugenio Brusutti, sacerdote della diocesi di Trieste e presidente della Fondazione Brusutti. Dieci capitoli, più le conclusioni, con la prefazione del cardinale Angelo Comastri e la postfazione di Martino d’Austria-Este, nipote del beato Carlo, per ripercorre, e riscoprire con tanto materiale inedito, la figura dell’ultimo imperatore, di cui oggi ricorre la memoria liturgica.

«Fu l’unico sensibile alle parole di papa Benedetto XV che, riferendosi alla prima Guerra mondiale, parlò di inutile strage», spiegano gli autori. Alla stessa espressione si richiama Comastri: «Ora, proprio mentre il mondo vive l’orrore di tante guerre, è opportuno riflettere sulla figura di questo uomo di pace, di questo uomo dal cuore grande, spalancato all’amore per il prossimo, che sapeva guardare al futuro e che riuscì a trasformare la sua famiglia in piccola chiesa domestica. Ancora molto si potrà e dovrà scrivere di questo illuminato monarca, di questo indiscusso eroe dell’era contemporanea che ci auguriamo possa presto essere riconosciuto santo perché continuano a pervenire notizie di eventi straordinari per sua intercessione che forse verranno riconosciuti come miracoli».

Coaloa e don Brusutti ricordano che Carlo disse: «Come imperatore devo dare il buon esempio. Se tutti esercitassero i loro doveri cristiani, non avremmo tanto odio e tanta miseria nel mondo». E lo definiscono «sovrano illuminato, ha fatto tutto ciò che ha potuto per la pace; testimone con la sua vita di essere un cristiano che la “C” maiuscola”, sempre attento ai poveri e dedito alla carità, come quando decise di donare tutte le sue camicie ai bisognosi».

Il 31 dicembre 1918, l’imperatore non volle mancare a Vienna alla celebrazione del Te Deum e a chi gli chiedeva perché lo facesse, dopo aver perso tutto, potere per primo, rispose: «I miei popoli hanno finalmente la pace e per questo voglio ringraziare Dio».

Carlo d’Asburgo sposò nel 1911 Zita di Borbone-Parma il 21 ottobre, giorno scelto per la sua memoria liturgica; nel 1916 succedette a Francesco Giuseppe quale imperatore d’Austria e poi anche re d’Ungheria. Morì in esilio nell’isola di Madera nel 1922, invocando Gesù nella sua ultima preghiera.

Il libro è anche il frutto delle ricerche condotte nei Royal Archives che hanno svelato lettere personali e nuovi documenti che Carlo scrisse al re d’Inghilterra Giorgio V, il quale, dopo il crollo dell’impero, si prodigò per salvare lui e la moglie per non replicare la storia dei Romanov, massacrati dai bolscevichi nel 1918.

«Fin dall'inizio – disse Giovanni Paolo II proclamandolo beato – l'Imperatore Carlo concepì la sua carica come servizio santo ai suoi popoli. La sua principale preoccupazione era di seguire la vocazione del cristiano alla santità anche nella sua azione politica. Per questo, il suo pensiero andava all'assistenza sociale. Sia un esempio per noi tutti, soprattutto per quelli che oggi hanno in Europa la responsabilità politica!». Parole che testimoniano l'attualità della figura di Carlo d'Asburgo.





Lunedì, 21 Ottobre 2024

Lo sappiamo tutti: quando ci sentiamo perduti l’unico rifugio davvero sicuro, la sola persona che non ci abbandona mai, è nostra madre. Vale anche per la vita dello spirito: nei momenti di difficoltà tanti credenti trovano più facile rivolgersi alla Vergine, affidando le loro angosce all’intercessione della Madonna. Spesso anzi, l’Ave Maria, testimonianza di gioia che sperimenta chi si abbandona totalmente a Dio, è l’ultima preghiera che resta sulle labbra di chi fatica a trovare una via d’uscita, nella certezza che la Madre non farà mancare il suo aiuto. Lo sottolinea in questa riflessione Charles Peguy (1873-1914) notissimo poeta e scrittore francese, che fu un cantore appassionato, un autentico innamorato della figura della Vergine. Il richiamo al valore dell’Ave Maria risulta quanto mai attuale nel mese di ottobre che la Chiesa cattolica dedica (anche) al Rosario.

«Padre nostro che sei nei cieli…». Tre o quattro parole, ma beato chi si addormenta sotto la protezione di queste tre o quattro parole. Sono le parole che precedono ogni preghiera, come le mani giunte precedono il volto di un orante.
Il Padre Nostro è il padre delle preghiere. L’Ave Maria è come un’umile donna. Il regno del Padre Nostro è il regno della speranza: dacci oggi il nostro pane. Ma il regno dell’Ave Maria è un regno più intimo, più segreto, più nascosto.
Le preghiere a Maria sono preghiere di riserva. Nel meccanismo della salvezza l’Ave Maria è l’ultimo aiuto. In tutta la liturgia non vi è altra preghiera che possa essere detta veramente dal più miserabile peccatore come l’Ave Maria. Con l’Ave Maria nessuno può dirsi perduto.
Signore, al giudizio universale non ci sarà bisogno di memoriali o di certificati. Ma nessuno potrà cancellare la traccia di un Pater o di un’Ave».






Domenica, 20 Ottobre 2024

La tutela dei minori dagli abusi, nella prospettiva della Chiesa, non vuol tanto dire repressione ma piuttosto educazione, formazione, consapevolezza. Lo spiega Chiara Griffini, psicologa, dal maggio scorso presidente del Servizio tutela minori e adulti vulnerabili della Cei. Appuntamento di rilievo è della Giornata di preghiera per le vittime e i sopravvissuti agli abusi del prossimo 18 novembre

Come mai avete scelto di intitolare questa Giornata “Ritessere fiducia”?

Le ricerche ci dimostrano che l’abuso sessuale accade nel cosiddetto cerchio della fiducia, potremmo dire che all’origine di ogni abuso insieme all’abuso di potere come ebbe a dire papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio dell’agosto 2018, vi è un abuso di fiducia. E in questo cerchio vi è anche la Chiesa. Una rottura nella fiducia che non riguarda solo vittima e autore ma una comunità, in ciascuna delle sue forme e dei suoi membri. Una rottura che investe anche coloro che esercitano l’autorità nella comunità. Anche costoro sono attraversati dalla stessa domanda delle vittime, dei genitori, magari non riescono ad assumerla per ciò che tale assunzione comporterebbe: a chi ho dato fiducia? “Ritessere fiducia” è ripartire da questa consapevolezza per crescere nel promuovere la fiducia come qualità fondamentale di ogni relazione nella Chiesa, e il suo rispetto al di sopra di tutto, e sostenere coloro che ne sono stati traditi in un lento e faticoso percorso di ritessitura, perché perdere la fiducia è perdere se stessi nel dinamismo proprio dell’umano che è affidarsi e tendere ad essere affidabili e del credente che perde la fiducia in una comunità di fratelli e sorelle, oltre che la fede in un Dio che è Padre.

Le riflessioni preparate per la Giornata da alcune vittime di abusi e da alcuni genitori di ragazzi abusati presentano varie domande laceranti. Segno che la Chiesa è finalmente disponibile ad aprire il cuore con trasparenza e coraggio per tentare di dare alle vittime tutte le risposte possibili?

Le riflessioni sono frutto di un cammino che è partito dall’incontro periodico di queste vittime e di familiari di vittime con la Presidenza e la Segreteria generale della Cei. Non sono testi su commissione, sono vita condivisa nel dolore di strappi ancora presenti che hanno aperto una via per la Chiesa italiana, la via della cura ecclesiale e spirituale, richiesta da chi è stato ferito, per un cammino di conversione della Chiesa italiana. I testi rivelano non solo come le ferite non vanno in prescrizione, ma che hanno tempi di rimarginazione lunghi, non prevedibili a tavolino, che vanno oltre i percorsi di giustizia. Vorrei anche fare una sottolineatura sulla fiducia tradita non solo in chi subisce in prima persona, ma anche nei genitori e nei familiari che si trovano a convivere con il dolore e il senso di colpa, direi perpetui, del sentirsi responsabili dell’affidamento dei loro figli e delle conseguenze che ciò ha generato sulle relazioni familiari, sui figli a livello di perdita di fede, di valori a cui saldare la vita.

Nella prima riflessione preparata per la Giornata c’è una sorta di identikit dell’abusatore ecclesiale che fa paura (ne parliamo nell’articolo qui sotto). Come è possibile sospettare di una persona così?

Gli strumenti sono l’informazione che diventa formazione. Una formazione ad essere persone affidabili che ti porta a riflettere su cosa significhi dare e ricever e fiducia. Direi però anche una formazione e una vigilanza comunitaria. I modelli situazionali parlano chiaro. Urge riappropriarci del paradigma evangelico del vegliare che deve saldarsi con quello formativo. Un contesto informato e formato sa intercettare i segnali e alzare le barriere che impediscono all’abuso di compiersi. Il primo segnale su cui formare e vigilare sono i rapporti esclusivi ed escludenti, le modalità di relazione che mescolano interesse personali e di servizio, l’assenza di relazioni alla pari e di collaborazione, i “brillanti e dediti solisti”, gli indispensabili per ogni attività, le calamite da cui tutto e tutti dipendono, da cui a ben guardare si è invece usurpati e appropriati.

Di grande interesse anche il passaggio in cui si fa riferimento alla “cultura del rendiconto” su tre livelli: verso i superiori, verso i pari, verso la comunità di appartenenza”. Non si tratta di un auspicio vano?

No, non è un auspicio vano se seriamente introduciamo la parola verifica nella nostra vita ecclesiale. Spesso passiamo da una progettazione all’altra senza esserci fermati su quella compiuta. Soprattutto la domanda non è che audience abbiamo raggiunto ma come siamo stati insieme, come ci siamo relazionati gli uni con gli altri, come ci siamo garantiti la libertà di ascoltarci ed esprimerci, anche nelle critiche. Il rendiconto va inteso come il riconoscere che tutti siamo dei mandati e riceviamo un mandato che va consegnato e passato ad altri, non semplicemente come un tempo di incarico definito, ma come l’agire dentro e a nome di una comunità, nel nome di una comune appartenenza e di un dono di cui essere amministratori, non possidenti e autoreferenziali.

La rete di esperti e di operatori pastorali costruita nella maggior parte delle diocesi per accogliere e accompagnare le vittime di abuso e per diffondere una nuova cultura della generatività si sta rivelando adeguata?

Diciamo che è stata impiantata, ora serve potenziarla per un agire sempre più diffuso, per evitare che restino dei buchi, che vanificano poi il lavoro di tutti. Credo che la prima adeguatezza sia data dal numero di persone, sacerdoti, religiosi/e, laici, la maggioranza, che con competenza e passione vi si dedicano e nello stile di lavorare in équipe che progressivamente si sta diffondendo nei diversi servizi diocesani e regionali. Credo che questo stile di lavoro ha anticipato quanto sta emergendo dal cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, non la necessità, ma la scelta e la bellezza di lavorare veramente e concretamente insieme da parte di tutte le componenti del popolo di Dio e delle competenze in esso presenti.

Dopo il primo quinquennio del Servizio nazionale Cei per la tutela dei minori che potremmo definire di avvio, visto che per la prima volta la Chiesa italiana decideva di darsi una struttura specifica per affrontare il problema, sotto la presidenza dell’arcivescovo Lorenzo Ghizzoni, ora il nuovo quinquennio sarà quello del consolidamento. E sarà lei a guidare la struttura. Se dovesse scegliere tre obiettivi per i prossimi cinque anni quali indicherebbe?

Anzitutto la chiarificazione della vera natura e finalità del servizio, tutela come promozione e salvaguardia del bene relazionale, capace di promuovere generatività che nei suoi tre movimenti fondamentali – dare la vita, curare e lasciare andare (McAdams, 2006) – è l’opposto dell’abuso spirituale e di coscienza. Secondo, la sedimentazione, ovvero la tutela intrinseca alla pastorale, in quanto educare è tutelare. La tutela da problema emergenziale a missione permanente della Chiesa. Vorremmo promuovere una riflessione teologica ed ecclesiologica su tutela minori e adulti vulnerabili, e sull’etica del servizio. Terzo, implementare la collaborazione con la società civile per una alleanza sistemica preventiva. La Chiesa come sentinella di tutela sui minori che le vengono affidati intercettando situazioni di abusi e disagio provenienti da altri contesti, capace di bonificare legami tossici con legami di generatività sociale e spezzare catene che possono trasformare da abusati in abusatori. Lavorare in rete con tutte le istituzioni ed enti rilanciando il patto educativo globale indicato nel 2018 da papa Francesco.

Il nuovo Consiglio di presidenza che si è riunito per la prima volta nei giorni scorsi, vede anche l’ingresso di membri chiamati per la prima volta a questo incarico. Quali competenze portano?

Metodo di lavoro transdisciplinare proprio del nuovo consiglio e da esportare alle equipe dei servizi diocesani e regionali. Nuovi apporti per quanto riguarda l’associazionismo in campo educativo e in campo del contrasto e la prevenzione agli abusi online e alla pedopornografia, emergenze di questo tempo. Raccogliendo anche quanto detto dal Papa nel primo incontro nazionale dei referenti (“Non dimenticarsi dei minori abusati con i telefonini”).

In riferimento ai 613 fascicoli riguardanti altrettanti casi di abuso giacenti presso il Dicastero per la dottrina era stato annunciato un “progetto pilota” frutto della nuova collaborazione tra Cei e Vaticano. Si arriverà davvero, come annunciato, entro il 2025 a vedere qualche frutto? Perché sarebbe importante questo traguardo?

È quello che si prevede. Sarà importante anzitutto nella logica del rendere conto alla Chiesa stessa, a coloro che sono stati feriti, di ciò che è accaduto, di come si è reagito, per una ulteriore consapevolezza e conoscenza della fenomenologia ma soprattutto di partire da dati accertati per affinare sempre di più e meglio l’azione di tutela intrapresa e su tale base magari definire criteri per ulteriori ricerche affinché, partendo dall’emerso e dall’accertato, non si lasci nulla di intentato nella prevenzione e nel contrasto agli abusi.





Sabato, 19 Ottobre 2024

Per la quarta volta nel suo pontificato, papa Francesco inserisce nel corso di un Sinodo dei vescovi la canonizzazione di alcuni santi. La prima volta fu nel 2015 con tre canonizzazioni. Nel 2018 furono ben sette e tra loro c’erano papa Paolo VI e l’arcivescovo di San Salvador Oscar Romero, martire della Chiesa salvadoregna. L’anno successivo le canonizzazioni in tempo di Sinodo furono cinque. Oggi sono 14 i testimoni della fede che vengono proclamati santi durante la Messa in piazza San Pietro: si tratta di don Giuseppe Allamano, suor Elena Guerra, suor Marie-Léonie Paradis e degli undici Martiri di Damasco.

Giuseppe Allamano, il missionario che non è mai partito

«Non tutti potranno realizzare il desiderio di recarsi in missione, ma tale desiderio dovrebbe essere di tutti i sacerdoti». Queste poche parole racchiudono tutto il ministero del beato Giuseppe Allamano, che sarà canonizzato oggi da papa Francesco durante la Messa in Piazza San Pietro. Nato a Castelnuovo d’Asti nel 1851, il futuro don Giuseppe fu a contatto con la santità già nella famiglia d’origine: suo zio, infatti, era don Giuseppe Cafasso, proclamato santo nel 1947 e molto noto per la sua amicizia con un altro santo, don Giovanni Bosco, presso il quale lo stesso Allamano ebbe la possibilità di formarsi.

Dopo gli anni all’oratorio di Valdocco e l’ordinazione sacerdotale nel 1873, don Allamano accettò dall’allora arcivescovo di Torino, Lorenzo Gastaldi, il compito di rettore del Santuario della Consolata. Nel 1880, quando il presbitero vi mise piede, il Santuario versava in condizioni critiche: persino la costruzione era in rovina. Ma è qui che, nei restanti 46 anni della sua vita, don Allamano produsse i più grandi frutti del suo ministero. Accanto ai necessari lavori di ristrutturazione, il nuovo rettore promosse una completa trasformazione del Santuario, che si arricchì di numerose iniziative e divenne ben presto un centro missionario.

Fin da ragazzo, infatti, il beato guardava con passione e interesse a questo mondo, nel quale vedeva la massima realizzazione della vocazione sacerdotale, ma fu solo nel 1901 che, con l’approvazione dell’arcivescovo di Torino Agostino Richelmy, riuscì a fondare l’Istituto dei Missionari della Consolata, il cui primo gruppo partì per il Kenya l’anno successivo. L’apporto di don Allamano alla causa missionaria non si esaurì così: sentendo l’esigenza di una presenza femminile nell’opera di evangelizzazione in Africa, il beato ottenne dapprima la collaborazione delle suore del Cottolengo di Torino, per poi fondare, nel 1910, un secondo Istituto, le Suore Missionarie della Consolata, consacrate pienamente all’apostolato in terra di missione. Pur senza muoversi mai dal Santuario, don Giuseppe divenne, attraverso i due istituti, un riferimento imprescindibile, un collegamento vivo e diretto con quanti portavano il Vangelo lontano da casa.

Morto nel 1926, il sacerdote è stato beatificato nel 1990. La sua causa non poteva che passare per una missione: alla sua intercessione è stata infatti attribuita la guarigione miracolosa, nel 1996, di un indigeno della foresta amazzonica brasiliana, gravemente ferito da un giaguaro. Arrivato in ospedale dopo diverse ore dall’aggressione, l’uomo fu raggiunto dalla moglie insieme a sei suore e un sacerdote della Consolata, che pregarono intensamente il loro fondatore. L’indigeno si svegliò a dieci giorni dall’intervento e poco dopo poté tornare nel suo villaggio completamente ristabilito.

Elena Guerra, una devozione per lo Spirito che raggiunse anche il Papa

Il fascino del Vangelo e il desiderio ardente di raccontarlo sono stati i cardini della vita di suor Elena Guerra. Nata nel 1835 a Lucca da una famiglia appartenente alla nobiltà locale, la sua giovinezza fu divisa tra l’impulso a seguire la propria forte devozione, che più volte la spinse verso la vita religiosa, e alcuni eventi avversi, da un’iniziale contrarietà della famiglia alla grave malattia che la costrinse a mesi di immobilità. Dopo un pellegrinaggio a Roma e varie esperienze da laica, come l’assistenza ai malati di colera, la donna trovò il proprio posto nella vocazione educativa. Nel 1872 aprì una scuola per le figlie della borghesia e della nobiltà lucchese: quando l’opera si consolidò, la beata fondò con un gruppo di compagne l’Istituto di Santa Zita, una realtà laica dedita all’educazione delle fanciulle. Nel 1882 il sodalizio prese la forma di vita comunitaria, in un nuovo palazzo e con un nuovo nome: erano nate le Oblate dello Spirito Santo.

Gli anni della maturità furono per suor Elena l’occasione di affiancare all’educazione alla vita cristiana la pubblicazione di numerosi testi, che spaziavano da problemi riguardanti le donne e la scuola fino a temi ascetici e spirituali. Lo Spirito Santo fu l’argomento più trattato in questi scritti: la sua esortazione a un maggiore riconoscimento del Paraclito arrivò fino a papa Leone XIII, che con un “Breve” del 5 maggio 1895 sollecitò tutti i vescovi a predicare una novena per la festa di Pentecoste. Negli anni successivi, il confronto con la religiosa ispirò al Papa l’argomento dell’enciclica Divinum illud munus del 1897, ancora una volta tesa a raccomandare la devozione allo Spirito Santo.

Tra il 1905 e il 1906, alcuni contrasti sorti in seno alla congregazione indussero la beata a dimettersi da superiora e le proibirono di dare alle stampe altri scritti. Gli ultimi anni di vita furono segnati da una salute malferma, che la condusse alla morte l’11 aprile 1914. Dopo il decesso, la sua fama si diffuse e papa Giovanni XXIII la scelse nel 1959 come prima beatificazione del suo pontificato.

La sua causa fu riaperta dopo che nel 2010 una guarigione inspiegabile fu attribuita alla sua intercessione. A beneficiarne fu un signore brasiliano, che si era procurato un gravissimo trauma cranico mentre era intento a potare un albero. Dopo essere rimasto sospeso tra la vita e la morte per oltre due settimane, durante le quali ne era stata dichiarata anche la morte cerebrale, l’uomo ebbe un miglioramento negli stessi giorni in cui i membri del Rinnovamento carismatico del luogo completavano una novena di invocazioni alla beata Elena Guerra. Dimesso il mese successivo, controlli mensili e annuali hanno evidenziato il buono stato di salute del paziente.

Suor Léonie Paradis, la grazia di collaborare accanto ai sacerdoti

Suor Marie-Léonie Paradis nacque come Elodia Virginia Paradis nel 1840 in Québec (Canada) e già da bambina si mostrò sensibile ai più poveri e umili. A 17 anni fece la sua professione di fede e fu impegnata nella formazione di religiose in varie Case religiose tra Stati Uniti e Canada. Fu in questo periodo che l’arcivescovo di Montréal Édouard-Charles Fabre suggerì di fondare una piccola comunità per svolgere i servizi nei collegi. Dopo una prima breve cerimonia nel 1877, la nuova comunità fu pienamente costituita nel 1880 con il nome di “Piccole Suore della Santa Famiglia” e lo scopo specifico di attendere ai lavori domestici nelle comunità religiose, nei collegi e nei seminari. La raccomandazione principale di suor Léonie alle sue figlie era quella di aiutare il sacerdote materialmente e spiritualmente, venerando in lui la persona stessa di Cristo. La beata morì nel 1912, testimone del grande successo del suo Istituto, poi diffusosi anche in Honduras, Italia e Stati Uniti.

Papa Giovanni Paolo II l’ha beatificata l’11 settembre 1984 a Montréal, durante il suo viaggio apostolico in Canada, in virtù della guarigione miracolosa, avvenuta nel 1912, di una religiosa affetta da tubercolosi polmonare. Per la causa di canonizzazione, invece, alla beata è stata riconosciuta un’intercessione nella guarigione di Marie-Nicole, neonata canadese venuta alla luce in gravi condizioni: la piccola presentava una “prolungata asfissia perinatale con insufficienza multiorgano ed encefalopatia”.

I Martiri di Damasco, vittime delle persecuzioni in Libano e Siria

Gli altri nuovi santi differiscono per età e provenienza, ma condividono la stessa morte, incontrata tra il 9 e il 10 luglio 1860, nel contesto delle persecuzioni contro i cristiani che si erano estese in quell’anno dal Libano fino alla Siria.

Il barbaro assassinio dei cosiddetti “Martiri di Damasco” si consumò quando un gruppo di miliziani drusi, animati da un radicato odio antireligioso, raggiunsero la città di Damasco, seminando ovunque distruzione e morte. Quella notte il loro odio si rivolse contro il convento e la chiesa francescana di San Paolo, dove trovarono la morte otto frati francescani e tre laici presenti sul posto, di confessione cristiano maronita. Sopraggiunti al convento, gli aggressori chiesero alle undici vittime di rinunciare alla fede cristiana e di abbracciare l’Islam: quando essi respinsero l’invito ebbe inizio il massacro. Manuel Ruiz Lopez, superiore del convento dei Frati Minori a Damasco, fu ucciso ai piedi dell’altare. Con lui persero la vita sette confratelli, sei di nazionalità spagnola e uno austriaco, e i tre fratelli Massabki, Francesco, Abdel Mooti e Raffaele, uomini devoti e padri di famiglia.

La beatificazione fu celebrata da papa Pio XI il 10 ottobre 1926. La causa di canonizzazione è stata poi ripresa nel 2022 a motivo dalla crescente fama del martirio e del sempre maggiore numero di segni attribuiti all’intercessione degli undici Martiri di Damasco, nonché dalla diffusione del loro culto. A ciò veniva associata la certezza che una loro canonizzazione potesse costituire un messaggio di dialogo, di pace e di unità nel contesto medio-orientale, ora più che mai turbato da guerra e violenza.





Sabato, 19 Ottobre 2024

La notavo ogni domenica alla Messa di mezzogiorno. Sedeva sempre in uno degli ultimi banchi a destra dell’Altare, spesso accompagnata dall’anziana mamma o dalla sorella. Una ragazza bella, dalla voluminosa chioma riccioluta. Poi scompariva per il resto della settimana.

Si presentò, si chiamava Teresa, veniva da un’altra parrocchia, lavorava a Caserta. Era fidanzata, ma a Messa non veniva con il suo ragazzo. Mi disse che stavano pensando al matrimonio. Non passava inosservata, aveva una personalità forte e risoluta, un carattere da fiera donna meridionale, lontana mille miglia dalla schiera dei piagnucoloni.

Con la Prima domenica di Avvento diamo inizio al corso di preparazione al matrimonio. Teresa arriva, finalmente, insieme al fidanzato. Si chiama Carmine, come lei è un giovane riservato e discreto. Oserei dire, timido. Come la maggior parte dei maschi, durante gli incontri, non prende la parola, non esprime pareri, non contesta né approva. Ascolta. Sono quasi sempre le donne a suscitare dibattiti. Teresa e Carmine sono tra le coppie più presenti; arrivano, ogni domenica pomeriggio, prima dell’incontro, mi aiutano a sistemare la sala, e restano, poi – cosa che non tutti fanno – per la Messa della sera.

Un tantino diffidente all’inizio, lentamente, anche Carmine si apre. Inizia tra noi un dialogo che va al di là dei temi strettamente matrimoniali. Da “fidanzato di Teresa” assume una propria identità. Quando il lavoro glielo consente, si fa vedere anche durante la settimana, anche senza la fidanzata. Mi cerca. Facciamo lunghe chiacchierate. Si parla di attualità, di politica, dei problemi del nostro Paese, di religione. Capita anche di andare, qualche volta, a mangiare una pizza insieme.

La primavera sta consumando i suoi ultimi giorni, l’estate è ormai alle porte. Il giorno del matrimonio si avvicina, i preparativi fervono. Sono fiero di loro, penso in futuro di coinvolgerli nella pastorale parrocchiale. La presenza di Carmine diventa sempre più assidua, i discorsi si fanno sempre più profondi. Si parla della bellezza della famiglia – piccola Chiesa domestica –, dei problemi che affronta, dei figli che arrivano e portano gioia e preoccupazioni. Si discute della fede, della preghiera, della vita spirituale, di Dio, della vocazione alla quale ognuno deve rispondere.

Da parte mia insisto sulla vocazione al matrimonio. Lui, lo sposo, non ricusa di fare domande sul sacerdozio. Solo curiosità? In cuor mio, lo spero. Uomo di poca fede quale sono, penso di avere intuito qualcosa che non mi fa piacere ammettere. Voglio troppo bene a Teresa. So che, se dovesse accadere quel che temo – come già altre volte – seguirà per me un periodo difficile.

Inizio – come sempre mi accade quando in ballo c’è il destino delle persone – ad avere paura. Prego. Chiedo luce. Mai ho tentato di spingere questo giovane a imboccare la strada del sacerdozio. Al contrario. I segni, però, sono sempre più chiari; la fatidica data sempre più vicina. Teresa è contenta che il suo ragazzo mi sia diventato amico. A mia volta sento di tradire la fiducia di questa donna bella ed elegante che ha grande fiducia in me. Sono nei guai. Un pulcino nella stoppia.

Carmine non è più il ragazzo imbarazzato dei mesi precedenti. Vuole capire, domanda, legge, prega, si confronta. Si sente scombussolato. Non sa dare un nome all’inquietudine che lo abita. Inizia a parlarne con Teresa. Lei, donna di fede, capisce. Lo aiuta. Accetta di rimandare il matrimonio. Disdicono gli impegni presi. Gli dà tempo per fare luce dentro di sé. Poi, si arrendono. Si lasciano. Lui va per la sua strada. Lei rimane sola. Io mi sento come svuotato. Trovo pace in uno scritto di Edith Stein: «Non sappiamo e non dobbiamo chiedere prima del tempo dove ci vuole condurre su questa terra il Figlio di Dio. Sappiamo solo questo: che per coloro che amano il Signore, tutto si volge al bene».

Carmine parte per una congregazione religiosa. Teresa rimane a Caivano. Temo che non verrà più nella nostra parrocchia. Invece, eccola là, al suo posto, come sempre. E mi vuole sempre bene. «Teresa – le chiedo – come fai a volermi ancora bene? Tu dovresti avercela con me. In qualche modo sono anch’io responsabile del fallimento del tuo matrimonio». «No, padre. Se questa era la volontà di Dio, è stato meglio così», risponde sorridendo.

Passano gli anni. Carmine è sacerdote. Fa di tutto per non incontrare l’ex fidanzata, quando accade diventa rosso come il peperone. Se è costretto a celebrare in sua presenza, si imbarazza fino a farfugliare. Lei, no, è più serena e sicura di sé. Mi aiuta nelle opere di carità. Da Caserta, dove lavora, raccoglie e mi porta offerte per i miei poveri, mi accompagna e mi sostiene nella lotta ambientale che tanti danni sta facendo alla nostra terra. Come tutti noi è arrabbiata e addolorata per le moltissime persone che si ammalano e muoiono di cancro. È rimasta sola, con la mamma, Teresa.

Un giorno viene a inginocchiarsi davanti a me per la confessione. Con grande serenità mi dice: «Padre Maurizio, ho il cancro». La guardo incredulo. Mi gira la testa. Ancora? Ancora? «Che dici, Teresa? Stai scherzando, vero?». No, non sta scherzando. E ha inizio la battaglia. Una battaglia da me già vissuta decina di volte e che poche volte è giunta alla vittoria.

La chemioterapia la segna pesantemente, ma ancora non riesce a rubarle il sorriso e la speranza. L’antica chioma è ormai un ricordo, una pietosa parrucca ne ha preso il posto. Lotta, si aggrappa alla vita, Teresa. Il pensiero di lasciare sola la mamma la devasta. L’ha sempre chiamata “la mia cucciolotta”.

Le cose precipitano. Si aggrava. Entra in coma. Una sera – è ritornato il bel tempo di Avvento – squilla il telefono. Corro. La sua casa è già addobbata per il Natale. L’albero, le palline colorate, i fili d’oro e le lucine accese mi mettono addosso una tristezza immensa. Nel suo letto Teresa mi appare come un uccellino senza piume. Che tenerezza. Il morbo l’ha consumata. La chiamo, non sente. Le accarezzo il volto, non vede. Le chiedo, in cuor mio, ancora una volta, perdono per averla fatta soffrire.

Suonano alla porta. È don Carmine. Sale le scale di corsa. Gli corro incontro. È scosso. Ha saputo che il suo vecchio amore sta morendo. Occorre fare presto. Bisogna donarle l’Unzione degli infermi. «Vai tu, Carmine. Vai a consegnare Teresa nelle braccia misericordiose del buon Dio». Carmine si fa forza. Appoggia le sue mani consacrate sulla fronte di Teresa: «Per questa santa unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo. E liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi».

Poche ore dopo, Teresa, è libera. Conservo gelosamente il suo ultimo messaggio: «Padre, siete la mia stella cometa». Hai combattuto la buona battaglia, Teresa, hai conservato la fede. Hai vinto. Adesso, vola! Vola per i cieli infiniti, i tempi eterni. E dal cielo continua a volerci bene.





Sabato, 19 Ottobre 2024

Padre Giovanni Gentilin, missionario canossiano, dal 1989 fra le baracche della periferia di Manila, ha aiutato migliaia di bambini e ragazzi a spezzare le catene della povertà con l’istruzione e la cultura. E mai da solo, ma promuovendo lo strumento del sostegno a distanza. Suor Elvira Tutolo, missionaria delle Suore della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, dal 2001 dedica tutta se stessa alle nuove generazioni della Repubblica Centrafricana, per strapparle alla violenza della strada e agli orrori delle bande armate che infestano il Paese, e aiutarle a costruirsi un futuro. Marilena Valvano, laica, dal 1993 è campesina fra i campesinos del Venezuela, dove non solo si è occupata di alfabetizzazione e di assistenza sanitaria e agricola, ma per dare nuova speranza ai bambini delle aree rurali ha creato una scuola di musica oggi riconosciuta a livello nazionale. Ecco il denominatore comune delle tre persone che oggi a Brescia ricevono il Premio Cuore Amico 2024: l’attenzione ai bambini e ai ragazzi più poveri e fragili. Un impegno senza risparmio nell’evangelizzazione e nella promozione umana, nella tutela dell’intangibile dignità di ogni essere umano, nei Paesi in cui la chiamata di Cristo e la missione della Chiesa li hanno inviati, che ha saputo mettere al centro le nuove generazioni. Cioè il futuro di quelle comunità.

Il Premio missionario Cuore Amico, giunto alla 34ª edizione, viene assegnato ogni anno a ottobre, alla vigilia della Giornata missionaria mondiale – che in questo 2024 è dedicata al tema “Andate e invitate al banchetto tutti (Mt 22,9)”, che papa Francesco, come si legge nel suo messaggio, ha tratto dalla parabola evangelica del banchetto nuziale. «I nostri missionari – spiega don Flavio Saleri, direttore dell’associazione Cuore Amico – sono inviati nel mondo per portare la gioia, la giustizia e la fraternità della Famiglia di Dio. A quel banchetto di nozze ci sono degli invitati speciali di Dio: “i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi”», come si legge in Luca 14,21. A quegli “invitati”, ultimi fra gli ultimi, si sono dedicati anche i missionari che oggi ricevono il premio. La cerimonia si apre alle 9,30 nell’auditorium “Monsignor Capretti” in via Piamarta 6, a Brescia. All’incontro – moderato da Luciano Zanardini, direttore del settimanale diocesano La Voce del Popolo – interverrà, fra gli altri, il vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada.

Nel corso della cerimonia si terrà anche la sesta edizione del Premio Carlo Marchini, promosso dall’associazione bresciana Carlo Marchini onlus, da più di trent’anni impegnata nel sostegno all’infanzia disagiata del Brasile.

La premiata di quest’anno è suor Maria Helena de Resende, Figlia di Maria Ausiliatrice, che ha dedicato la vita ai bambini poveri di diverse zone del grande Paese sudamericano e, dal 1998, si trova nel Minas Gerais. Le verranno assegnati diecimila euro con i quali intende acquistare libri da distribuire a 120 bambini e adolescenti particolarmente vulnerabili, realizzando anche laboratori e altre iniziative.

Ricevono invece cinquantamila euro ciascuno i tre premiati da Cuore Amico nelle sezioni “religiosi”, “religiose” e “laici”. Padre Gentilin, vicentino, sacerdote dal 1967, dalla fine degli anni ’80 si dedica al popolo della sterminata baraccopoli di Tondo, a Manila, la capitale delle Filippine. In 35 anni, grazie al sostegno a distanza (fra cui gli aiuti di Cuore Amico e dei suoi benefattori), 3.830 ragazzi si sono diplomati e hanno trovato lavoro. Il missionario canossiano ha anche avviato una piccola clinica per dare assistenza gratuita ai malati di tubercolosi, un centro nutrizionale per i più piccoli e le cliniche mobili per monitorare le condizioni di salute di chi va a scuola nel pomeriggio mentre, al mattino, lavora in discarica con i genitori.

Suor Elvira Tutolo, molisana di Termoli, classe 1949, dopo essersi occupata di giovani “difficili” in Italia, è partita per il Ciad nel 1990. Nel 2000 è stata mandata in Camerun. Dal 2001 risiede a Berberati, nella Repubblica Centrafricana. Tutto è partito dall’accoglienza data a dodici ragazzini abbandonati alla vita di strada. Oggi sono una cinquantina i minori tra orfani, bambini “stregoni” e bambini soldato affidati alle cure di coppie che si prendono cura di loro, o che vengono formati a svolgere piccole attività e aiutati a diventare indipendenti.

Marilena Valvano ha sposato la causa dei campesinos nel 1993 quando, partita da Salò (Brescia), ha raggiunto il Venezuela grazie al progetto di una ong bresciana, il Servizio Volontario Internazionale. Ha insegnato infermieristica, ha costruito cisterne per l’agricoltura e per l’allevamento. E nel 2010, per i bambini della zona di Pozo Verde, ha avviato le lezioni di una scuola di musica. All’inizio non avevano né strumenti né sedie. Oggi partecipano 150 bambini e ragazzi delle comunità rurali (che ricevono anche buoni per l’alimentazione). Quindici allievi, nel frattempo, sono diventati professori di musica.

Il Premio Cuore Amico è stato istituito nel 1991 da don Mario Pasini, sacerdote bresciano, al quale si deve, nel 1980, la nascita dell’omonima associazione. Lo scopo: sostenere l’opera dei missionari nel mondo. Come fa Cuore Amico grazie alla generosità di una rete di 25mila donatori. Che negli ultimi 15 anni ha permesso di assegnare aiuti per oltre 60 milioni di euro, tutti destinati all’evangelizzazione e alla promozione umana dei poveri del mondo. Perché nessuno rimanga escluso dal “banchetto” della gioia, della giustizia e della fraternità della “famiglia di Dio”.





Venerdì, 18 Ottobre 2024

Una grande festa cui siamo tutti invitati: il banchetto di Gesù. È il tema della 98 Giornata Missionaria Mondiale 2024, «Andate e invitate al banchetto tutti (cfr. Mt 22, 9)», ma è anche il leit motiv del video realizzato grazie al lavoro delle direzioni nazionali delle Pontificie opere missionarie (Pom) australiana e maltese con la collaborazione di molte direzioni delle Pom sparse in tutto il mondo.

Missionarie e missionarie, direttori nazionali e laici impegnati nelle Pom e, ospite di eccezione il Cardinale Soane Patita Paini Mafi, vescovo di Tonga, hanno prestato voce e volto per questo video, che vuole essere uno strumento tanto semplice quanto efficace di animazione missionaria e sensibilizzazione alla raccolta fondi in occasione della Giornata missionaria mondiale del 20 ottobre 2024.

«La missione e` andare ed annunciare il Vangelo. Tutto quello che facciamo serve a rendere questo possibile. E` il Vangelo a guidarci ed il compito delle Pontificie opere missionarie e` sensibilizzare alla missione e al contempo raccogliere i frutti spirituali e i sacrifici finanziari per poi ridistribuirli a seconda delle esigenze delle Chiese locali – spiega l’arcivescovo Nappa, presidente delle Pom -. Questa nostra vocazione ci spinge oggi anche sulla frontiera della rievangelizzazione di Chiese di antica cristianità, specialmente in Occidente dove il numero dei cristiani e` in diminuzione».

Andare, invitare, annunciare il Vangelo, celebrare, condividere, giustizia, gioia e fraternità ricorrono nelle parole dei protagonisti di questo video di circa tre minuti dove fanno da sfondo immagini dell’operato delle Pom in alcune missioni. «L’evangelizzazione è veramente calarsi nella cultura dell’altro per scoprire insieme i valori del Vangelo. Le Pom sono un grande tesoro, anche per la sinodalita` delle loro natura e tradizione, con cui continuano ad operare a servizio della Chiesa universale e a nome e per conto del Papa – aggiunge Nappa -. L’esempio piu` concreto e` il Fondo universale di solidarieta` (Fus), costituito dalle offerte dei fedeli di tutto il mondo, con cui vengono sostenuti i progetti per le Chiese di missione».





Venerdì, 18 Ottobre 2024

La figura del medico sopravvissuto a Nagasaki, morto nel 1951 in fama di santità, e della sposa che fu decisiva nella sua conversione sono tornate d’attualità col Nobel per la Pace agli "hibakusha". E' in corso la loro causa di beatificazione


Preghiera per chiedere l’intercessione, la beatificazione e la canonizzazione dei Servi di Dio Takashi Paolo Nagai e Midori Marina Moriyama, coniugi


O Padre misericordioso,
che non lasci mai soli i tuoi figli nel cammino della vita,
Ti ringraziamo di avere donato
al popolo dei credenti e al mondo intero
Paolo Takashi Nagai e la sua sposa Marina Midori.
Midori, dopo aver condotto lo sposo alla Tua amicizia,
nell’umile dedizione alla sua vocazione
gli ha mostrato la via della carità perfetta.
Insieme, nell’abbandono fiducioso alla Tua volontà,
hanno dato volto al bene che la Tua Provvidenza
sa trarre anche dal male e sono diventati
annuncio di speranza e testimoni di carità
per il popolo ferito.
Dopo la morte della sua sposa,
camminando in profonda povertà di spirito,
Takashi ha sperimentato nel deserto atomico
la tenerezza della Tua amicizia e,
testimone della grazia e del centuplo,
ha rigenerato nel suo popolo il gusto della vita
e il coraggio per ricostruire.
Concedi a tutti noi
per l’intercessione di questi Tuoi sposi,
la grazia di rispondere alla nostra personale
chiamata alla santità
e donaci, se è a maggior Tua Gloria,
la grazia che imploriamo (…)
nella speranza che questi sposi possano essere presto
annoverati tra i Tuoi Santi.
Per Cristo Nostro Signore.

Imprimatur: monsignor Joseph Mitsuaki Takami, Arcivescovo di Nagasaki, 9 novembre 2021





Venerdì, 18 Ottobre 2024

«La vita comunitaria: fascino e sfide». È il tema del convegno che si svolgerà il 19 ottobre, a Mestre, promosso dalla Cism e dall'Usmi triveneti, rispettivamente la Conferenza Italiana dei Superiori Maggiori e l'Unione Superiore Maggiori Italiane.

All’evento che si svolgerà all’Istituto salesiano San Marco di Mestre è prevista la partecipazione di oltre 450 religiosi presenti nella regione ecclesiastica del Triveneto (che comprende il Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia). L’appuntamento di domani è costruito in stretta sinergia , in stretta sinergia con la segreteria dei giovani religiosi del Triveneto.

Il tema scelto per questo 2024 è «La vita comunitaria: fascino e sfide», declinato attraverso le parole di San Paolo ai Corinzi «Abbiamo un tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4,7), ed il relatore sarà Luigino Bruni, storico del pensiero economico ed ordinario di economia politica all'Università Lumsa di Roma. L’idea di chiedere a Bruni un intervento sul tema della comunità è nata dalle segreterie trivenete riunite che hanno apprezzato il suo libro La comunità fragile. Perché occorre cambiare molto per non perdere troppo.

Del resto, il tema della comunità è fondamentale nella vita religiosa che, come molte altre realtà, sta vivendo un lungo tempo di crisi. I 450 religiosi che interverranno a Mestre sono infatti un numero importante considerando l’età media sempre più alta, le necessità legate a servizi offerti da consacrati e consacrate spesso anche all’interno delle case religiose, come strutture di ospitalità, servizi sociali… Bruni, nel libro citato, spiega che «Comunità è parola invocata nelle solitudini e nella malattia, cercata e agognata quando le community virtuali ci hanno sfinito e sentiamo il bisogno di respirare. I suoi legami caldi e forti ci chiamano e non ci lasciano anche se, in altri momenti, ci fanno paura. La comunità sta però cambiando forme così rapidamente da non riconoscerla quasi più».

Parole che mettono in luce l’intreccio di tradizione, nuove esigenze legate al mondo del lavoro, a ritmi di vita differenti e che, spesso, non coinvolgono l’intera comunità, ma singoli. E i cambiamenti richiesti impattano su comunità, quelle di vita attiva, che ancora fanno fatica a uscire dal modello monastico, basato su ritmi più collettivi e condivisi.

Bruni indica, qualche pagina dopo, la regola aurea: «Se vuoi avere persone generative, creative e libere devi generare una cultura dove le persone sono talmente libere da non poterle controllare negli aspetti più importanti della loro vita. Devi quindi imparare a vivere dentro un grande via-vai di gente, in entrata e in uscita; perché generare persone libere significa metterle nelle condizioni di potersene un giorno anche andare via, e stupirsi felici se lo fanno».

Scommettere cioè sulle motivazioni di oggi e sulla libertà. «Ripensare le nostre comunità è un compito dal quale non possiamo più prescindere perché l’interculturalità e l’intergenerazionalità ci interpellano quotidianamente», ha detto fra’ Alessandro Carollo, ministro della provincia del Triveneto dei frati minori cappuccini e presidente Cism Triveneto. «Dove le fraternità sono serene, i consacrati riescono ad esprimersi in pienezza sentendosi protagonisti e diventano una testimonianza visibile, concreta, autentica. Il nostro impegno di superiori deve guardare al bene futuro delle nostre fraternità, salvaguardando e valorizzando l’apporto dei più giovani, che sono il nostro tesoro più prezioso», ha concluso fra’ Carollo.






Azione Cattolica Italiana - Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla - Atto normativo

sito registrato nella