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Venerdì, 20 Giugno 2025

Martiri della guerra. Uccisi dai loro persecutori per essere rimasti accanto alla propria gente e fedeli alla Chiesa. Sono i 174 nuovi beati di cui papa Leone ha autorizzati la promulgazione dei decreti, ricevendo questa mattina in udienza il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi. Sacerdoti, seminaristi, consacrati, laici: tutti vittime della ferocia di due conflitti che hanno insanguinato l’Europa nella prima metà del Novecento. Centoventiquattro uccisi in odio alla fede durante la Guerra civile spagnola; cinquanta dai nazisti durante la seconda Guerra mondiale. I loro nomi sono come un nuovo appello di pace che Leone XIV lancia al mondo. E un’eco alle sue parole durante l’udienza generale di mercoledì scorso. «Il cuore della Chiesa è straziato per le grida che si levano dai luoghi di guerra. Non dobbiamo abituarci alla guerra», aveva detto il Pontefice ripetendo il richiamo di Pio XII: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra»

All’onore degli altari salgono testimoni del Vangelo in mezzo alla follia dell’odio e della vendetta. Come don Manuel Izquierdo Izquierdo, il “capofila” del primo gruppo di martiri della diocesi andalusa di Jaén che comprende anche 58 suoi compagni. Nella documentazione della causa si spiega che la Guerra civile iniziata nel luglio 1936 ha avuto «aspetti di crudele persecuzione anticattolica». A promuovere le violenze i «rivoluzionari che, mossi da sentimenti antireligiosi, massacrarono numerosi sacerdoti, religiosi e laici, profanando e saccheggiando chiese». Guerriglieri comunisti e anarchici «spinti dalla propaganda atea» che si erano accaniti contro «la Chiesa, i suoi ministri e tanti fedeli». E con particolare spietatezza era diventato un loro bersaglio don Manuel Valdivia Chica, finito in un vortice di torture e maltrattamenti, al quale prima della morte vennero tagliate le mani con le quali aveva consacrato.

Vittime dello stesso clima di persecuzione sono stati don Antonio Montañés Chiquero e altri 54 sacerdoti, nove uomini e una donna laici, massacrati fra il 1936 e il 1937. Anche loro della diocesi di Jaén. «La maggior parte era stata catturata dai miliziani e alcuni di essi subirono insulti, vessazioni e crudeli percosse». Nel processo canonico è emerso come i preti «volessero restare vicini al popolo nelle parrocchie senza fuggire, malgrado il pericolo». E alcuni di loro, tra cui don Antonio, chiesero di «essere uccisi per ultimi per poter così confessare gli altri e aiutarli a morire santamente».

C’è sempre l’orrore della guerra alla base del martirio di don Raymond Cayré, del frate minore francescano Gérard-Martin Cendrier, del seminarista Roger Vallée, del tornitore Jean Mestre e di altri 46 compagni. Tutti francesi. E tutti morti tra il 1944 e il 1945 per mano del regime di Hitler che aveva occupato parte del Paese. Fra loro preti, frati francescani, un gesuita, seminaristi, scout e molti laici della Gioventù operaia cristiana. Accogliendo le indicazioni dell’arcivescovo di Parigi, il cardinale Emmanuel Suhard, avevano seguito i lavoratori francesi deportati in Germania. «A causa dell’apostolato che compirono, furono arrestati, torturati e messi a morte prevalentemente in campi di concentramento», si legge nel sito del Dicastero. Luoghi dell’orrore, come Mauthausen, Buchenwald o Dachau.

Insieme a loro, ha stabilito il Papa, sarà beato lo spagnolo Salvador Valera Parra (1816-1889), il prete dei malati che, allo scoppio dell’epidemia di colera nel 1865, aveva assistito i moribondi. E poi aveva dedicato l’ultima parte della sua vita ai poveri e ai degenti promuovendo anche una casa per anziani abbandonati. Il miracolo che lo porterà all’onore degli altari è la guarigione prodigiosa, attribuita alla sua intercessione, di un bambino statunitense, Tyquan, nato prematuro nel 2007, senza respiro e con frequenza cardiaca bassissima. Il medico curante aveva invocato don Valera Parra, suo conterraneo, per salvare il neonato in condizioni disperate. «Poco tempo dopo, senza alcun intervento esterno, il piccolo aveva recuperato il battito cardiaco cominciando a rianimarsi», fa sapere il Dicastero.

Sempre durante l’udienza al cardinale Semeraro, Leone XIV ha autorizzato la pubblicazione dei decreti di quattro nuovi venerabili. Tre sono italiani. Uno è Raffaele Mennella (1877-1898), il giovane originario di Torre del Greco morto a 21 anni e appartenente alla Congregazione dei Missionari dei Sacri Cuori di Gesù che aveva incontrato durante alcune missioni popolari. Una breve vita religiosa, la sua, nel segno della costante preghiera e della «carità che esercitava recandosi a visitare gli ammalati negli ospedali» fino alla diagnosi di una grave forma di tubercolosi.

Poi c’è suor Teresa Tambelli (1884-1964), al secolo Maria Olga, di Revere, in provincia di Mantova. Infermiera, aveva vestito l’abito vincenziano ed è stata la “madre” dei bambini e delle giovani più disagiate. Il suo nome è legato a Cagliari, la città dove ha svolto gran parte della sua missione. Compreso il recupero nel secondo dopoguerra dei ragazzi di strada, i cosiddetti “marianelli”. Ma aveva anche fondato la Scuola di religione, l’Associazione delle Dorotee (gruppo misto di ragazze studentesse e lavoratrici) i Circoli Santa Teresa (riservati a giovani donne) e l’Associazione delle Zitine (organizzazione riservata alle domestiche). Durante la dittatura fascista aveva lottato per difendere la libertà delle sue opere; e in piena guerra aveva dato ospitalità a molti sfollati.

È originaria di Serramazzoni, in provincia di Modena, Anna Fulgida Bartolacelli (1928-1993), la donna che, nonostante una grave forma di osteopsatirosi che le comportò il nanismo e la carrozzella, si è dedicata all’apostolato dei malati dopo aver incontrato l’associazione Silenziosi operai della Croce in cui aveva compreso il valore della sofferenza e l’apporto che ciascun malato può portare al bene comune. Per aiutare i malati devolveva loro ogni mese una quota fissa della sua pensione di invalidità.

Viene dal Brasile, invece, il quarto nuovo venerabile: João Luiz Pozzobon (1904-1985), discendente di emigrati italiani. A lui si deve la nascita della “Campagna per la preghiera del Rosario”, innovativa iniziativa che prevedeva l’uso delle “Piccole Madonne pellegrine” in gruppi di famiglie. Una missione che ha toccato anche ospedali, carceri, luoghi di lavoro, scuole e contribuito alla fondazione 43 eremi dedicati alla Madre di Dio.





Giovedì, 19 Giugno 2025





Giovedì, 19 Giugno 2025

«Se la Santa Sede lo proponesse, sarei il primo a garantire la disponibilità dell’Iran a sedersi intorno a un tavolo in Vaticano con gli Stati Uniti per discutere sul nucleare». L’ambasciatore della Repubblica islamica dell'Iran, Mohammad Hossein Mokhtari, traduce nel concreto la disponibilità vaticana a «far incontrare i nemici» che ha annunciato Leone XIV. A una condizione, però, avverte il rappresentante diplomatico di Teheran presso la Santa Sede: «È necessario che si fermi l’aggressione del regime sionista». Sì, l’ambasciatore chiama Israele «regime sionista» per raccontare la guerra cominciata con l’«attacco selvaggio» di venerdì, dice. E mostra le foto, una accanto all’altra, delle vittime dei bombardamenti israeliani. «Civili, civili - ripete -. Un neonato di due mesi; un bambino che in questo scatto viene tenuto dal padre fra le sue braccia; studenti; molte donne». E subito la domanda provocatoria: «Dove sono adesso le organizzazioni internazionali che difendono i diritti delle donne? Per anni ci hanno accusato. Ora neppure una voce che si leva…».

Papa Leone ha detto che la «minaccia nucleare» si risolve con il «dialogo sincero e rispettoso».

L’Iran stava già dialogando con gli Usa proprio sul versante nucleare. E forse saremmo arrivati anche a un accordo se Netanyahu con il suo governo non ci avesse attaccato. La nostra volontà all’incontro c’è sempre stata. Ma il regime sionista ha voluto sabotare i colloqui. Secondo gli statuti dell’Onu, siamo di fronte all’aggressione di uno Stato indipendente. Anzi, è un membro delle Nazioni Unite che colpisce un altro membro Onu. C’è una chiara violazione del diritto internazionale. Però nessuno si è mosso anche dopo l’uccisione di centinaia di civili. Gli organismi internazionali nati per assicurare pace e stabilità al mondo si voltano dall’altra parte quando si tratta di Israele: accade anche per il genocidio di Gaza dove non possono neppure entrare gli aiuti umanitari. Comunque, come ha affermato il nostro ministro degli Esteri, non appena si fermerà l’aggressione, riprenderemo il dialogo.

Eppure l’Aiea ha reso noto la scorsa settimana che l’Iran non starebbe rispettando gli obblighi nucleari...

Una decisione politica, quest’ultima, presa per il pressing di Stati Uniti e di tre nazioni europee: Gran Bretagna, Francia e Germania. Paesi che, infatti, approvano l’aggressione contro di noi. Quindici precedenti dossier dell’Agenzia Onu avevano approvato il nostro percorso di arricchimento dell’uranio per scopi civili che avviene, appunto, sotto l’egida dell’Aiea. Aggiungo che gli attacchi ai siti nucleari possono causare la dispersione indiscriminata di radiazioni mortali.

L’Iran vuole la bomba atomica?

Mai abbiamo previsto armi di distruzione di massa atomiche. C’è anche una fatwa della guida suprema che ne vieta la produzione, la detenzione e l’uso. Inoltre abbiamo sempre accettato i controlli internazionali; ma non si può dire lo stesso di Tel Aviv che possiede testate nucleari e che non ha mai fornito informazioni precise.

Una guerra preventiva, la considera Israele.

Nessuno ha il diritto di colpire strutture nucleari per uso civile. Sono impianti pacifici. Così come nessuno può uccidere militari di alto rango di un altro Stato, massacrare gli scienziati, compiere un bagno di sangue di civili.

Anche Israele denuncia che i missili iraniani seminano morte e distruzione.

I nostri sono missili ad altissima precisione e avvisiamo di evacuare le aree dove sono diretti. Si tratta di legittima difesa. Il regime sionista, invece, sta indirizzando i suoi ordigni verso zone residenziali in cui non ci sono aree militari o soldati e persino sulla tv di Stato.

Il Papa ha ammonito: «Nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza dell’altro».

L’Iran non ha mai detto in maniera ufficiale che vuole cancellare Israele. È solo una scusa per giustificare il conflitto. E non siamo contro il popolo ebraico. Caso mai è il regime sionista che destabilizza l’intera regione dichiarando guerra ai suoi vicini.

Come vede la posizione Usa?

Il governo Netanyahu non agisce senza il consenso di Washington. Quindi gli Stati Uniti sono corresponsabili di quanto sta succedendo.

Israele ha come obiettivo un cambio di regime in Iran. Timori?

Come le cancellerie e l’opinione pubblica internazionale possono accettare una simile prospettiva? L’attuale sistema politico è frutto della Rivoluzione islamica. Abbiamo vari partiti con sensibilità differenti. Però questa guerra ha prodotto un effetto: tutti si sono compattati nel nome della difesa dal regime sionista. Anche la popolazione chiede questo alle nostre autorità.

Quale spazio per il dialogo fra le fedi?

È fondamentale. L’Iran è favorevole a ogni iniziativa che faccia dialogare popoli e religioni. Pertanto sarebbe auspicabile che i leader religiosi condannino insieme l’aggressione che subiamo: non per ragioni politiche, ma in base al comune denominatore spirituale.

E il nuovo Papa?

L’Iran ha rispetto e stima per il Pontefice. E intende rafforzare i rapporti con la Santa Sede. Al termine della Messa di inizio pontificato, il nostro ministro della Cultura ha consegnato a Leone XIV la lettera di saluto del presidente Masud Pezeshkian. La collaborazione intorno alla dimensione religiosa può contribuire ad allentare le tensioni sul piano internazionale nel segno della giustizia e della lotta all'oppressione.





Mercoledì, 18 Giugno 2025

Arrivano questa mattina le prime nomine di vescovi italiani da parte di Leone XIV. In un caso si tratta dell'accettazione della rinuncia alla guida del governo pastorale dell’arcidiocesi di Lecce, presentata dall'arcivescovo Michele Seccia. Gli succede l'arcivescovo Angelo Raffaele Panzetta, finora arcivescovo coadiutore della medesima arcidiocesi. Nato in provincia e diocesi di Taranto il 26 agosto 1966, l'arcivescovo Panzetta ricopriva l'incarico di coadiutore dal 28 agosto 2024, dopo essere stato arcivescovo di Crotone-Santa Severina dal 2020, ricoprendo anche l'incarico di amministratore apostolico di Catanzaro-Squillace dal 2021 al 2022.

Nel secondo caso, invece, si tratta della nomina di un nuovo pastore per due Chiese rimaste senza un vescovo titolare. Sono le Chiese di Matera-Irsina e di Tricarico a ricevere il loro nuovo vescovo, che subentra nell’impegno pastorale all’arcivescovo Antonio Giuseppe Caiazzo, che dallo scorso 13 marzo ha preso possesso della sua nuova diocesi, quella di Cesena-Sarsina Il nuovo pastore della due Chiese della Basilicata, unite in persona episcopi nel 2023 (e tali restano ancora), arriva dal Vicariato di Roma, dove era vescovo ausiliare per l’ambito della diaconia della carità. Si tratta del vescovo Benoni Ambarus, nato in Romania il 22 settembre 1974, e diventato cittadino italiano soltanto lo scorso 28 marzo. Ma Ambarus è vescovo dal 2021, nominato ausiliare di Roma, dopo essere stato dal 2018 al 2021 direttore della Caritas di Roma. Dal 2007 era incardinato nella diocesi di Roma, dopo essere stato ordinato sacerdote nella diocesi romena di Iasi il 29 giugno 2000. Dal 2001 era presenta a Roma con un primo incarico di assistente al Pontificio Seminario Romano Maggiore. L’annuncio della nomina, in contemporanea alla Sala Stampa Vaticana, è stato dato sia a Matera nel Salone degli stemmi dell’Episcopio dall’amministratore diocesano don Angelo Gioia sia a Tircarico dove l’annuncio è stato dato dall’amministratore diocesano monsignor Nicola Urgo nel salone delle udienza del Palazzo vescovile.





Mercoledì, 18 Giugno 2025

Riproponiamo i migliori episodi della nostra serie podcast che ha avuto un grande successo, "Taccuino Celeste", a cura di Riccardo Maccioni. Per l'estate, pubblicheremo ogni settimana le puntate che gli ascoltatori hanno trovato più interessanti. Per commenti e suggerimenti si può scrivere a social@avvenire.it


Dicono tanti intellettuali, non solo cattolici, che la più grande astuzia del Diavolo sia far credere di non essere una presenza reale. Lo ha ricordato spesso papa Francesco che lo scorso 25 settembre ha parlato di “strano fenomeno”. «A un certo livello culturale – ha detto - si ritiene che semplicemente il Demonio non esista. Sarebbe un simbolo dell’inconscio collettivo o dell’alienazione, insomma una metafora». E questo malgrado la Bibbia parli chiaramente dell’esistenza del Demonio (si pensi a Gesù tentato nel deserto) e il Catechismo sia perentorio nel dire che «il male non è un’astrazione; indica invece una persona: Satana, il maligno, l’angelo che si oppone a Dio». È dedicato proprio al Diavolo, al dibattito intorno alla sua presenza, a come riesca a interagire con le nostre vite, il nuovo episodio di Taccuino celeste, il podcast di Avvenire dedicato ai temi della fede, della religione. Se ne parla alla luce delle Scritture e del magistero della Chiesa cattolica.

Come detto Taccuino celeste è un podcast che riflette e si interroga su "cosa crede chi crede". Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, delle differenze tra Sinodo e Concilio, della netta diminuzione delle presenze dei fedeli a Messa, del dovere cristiano di custodire il creato, di cosa possono diventare le Chiese che smettono di essere luogo di culto, del segno della croce, di come “portare Dio in vacanza”, delle falsità che circondano la figura di Maria Maddalena, dell’esistenza del Purgatorio, di scomuniche ed eresie, di come dovrebbero essere le omelie.

Taccuino celeste è un appuntamento settimanale che però può essere ascoltato tutti i giorni, sempre gratuitamente (anche le vecchie uscite), sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Mercoledì, 18 Giugno 2025

Sperano le donne, in ogni parte del mondo, dall’Africa al Sudamerica fino alla vecchia Europa. Sperano che un marito, o un padre, smetta di picchiarle. Sperano di poter conciliare la gestione dei figli a casa, e dei genitori anziani, con il lavoro senza cui la famiglia in molti casi non avrebbe di che vivere. Sperano di poter studiare, d’essere assunte e pagate come gli uomini, d’essere ascoltate e di poter dire quello che pensano e quello di cui hanno bisogno nelle riunioni di quartiere, nei consigli di quartiere o nelle assemblee cittadine così come in parrocchia e negli organismi pastorali.

Ed è nel segno della speranza, ciò che è al cuore del Giubileo in corso, che l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche (Wucwo) ha deciso di organizzare nei giorni scorsi un grande incontro a Roma per rendere protagoniste le donne dentro e fuori dalla Chiesa con le loro storie di tenacia e di protagonismo. A cominciare da quello contagioso della presidente generale dell’associazione, Mónica Santamarina, che da due anni ha assunto l’incarico dopo che la sua predecessora Maria Lia Zervino è stata nominata membro del Dicastero per i vescovi. Messicana, vedova, mamma di due figlie e due figli, nonna di nove nipoti («cinque femmine e quattro maschi a cui insegno dal giorno in cui sono nati la parità di genere»), Monica ha ricoperto diversi ruoli istituzionali, è stata presidente dell’Azione cattolica messicana e membro del comitato editoriale della rivista cattolica più antica del Paese, Acción Femenina, per oltre 25 anni, sempre attenta alle storie delle donne più vulnerabili.

Sono state queste storie di fragilità a convincerla della necessità di un impegno concreto a fianco delle donne?

È proprio così. Ho incontrato donne che sono state vittime per anni di violenze familiari o sessuali, che sono state discriminate o escluse, ho ascoltato le storie terribili di chi è stata costretta a fuggire dal proprio Paese e affrontare l’odissea delle migrazioni. Nonostante tutto questo, ognuna di loro mostrava una fede e un amore incredibili. Il loro esempio mi ha ispirato: ho da subito sentito la chiamata a fare tutto il possibile per aiutarle.

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«Subiamo spesso violenza
e conosciamo le fragilità:
per questo possiamo aiutare
le comunità a essere più vicine ai bisognosi»

Che cos’è l’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche?

È un’associazione che raggruppa 100 organizzazioni in tutto il mondo, attive in oltre 50 Paesi di tutti i continenti, per un totale di circa 8 milioni di donne cattoliche di tutte le età rappresentate. La nostra missione è promuovere la partecipazione e la collaborazione delle donne nella società e nella Chiesa, consentendo loro di vivere pienamente la missione di evangelizzazione e di sviluppo umano integrale. In una parola, far sì che le donne si impegnino con la loro responsabilità. Lo facciamo a partire da un programma di azione quadriennale che ha al cuore la difesa della libertà religiosa, il sostegno alla formazione e alla famiglia, la cura del Creato, l’attenzione a migranti e rifugiati, la sinodalità.

E come possono impegnarsi in ruoli di responsabilità, le donne, se non hanno le stesse possibilità degli uomini?

Queste possibilità vanno costruite. Occorre dare a tutte le donne opportunità sufficienti per sviluppare pienamente se stesse e fiorire secondo i loro carismi e i doni che Dio ha loro concesso, a cominciare dall’educazione. È evidente come esista ancora un grande divario nella piena partecipazione e nell’equità dei diritti per le donne, ad ogni livello. Uno dei problemi principali che contribuisce a questo divario è proprio la negazione del diritto allo studio: se le donne non ricevono la stessa informazione, educazione e formazione degli uomini non potranno mai raggiungere lo stesso livello. E poi c’è la ferita della violenza: un’indagine condotta dal nostro Osservatorio mondiale su oltre 10mila donne in 38 Paesi africani ha rivelato che l’80% di loro subisce ancora violenza domestica.

Il divario di cui parla esiste anche nella Chiesa? Il tema è ovviamente molto discusso e il ruolo delle donne nella Chiesa è stato al centro dei lavori sinodali: quale dovrebbe essere?

Non è un segreto che il divario esista. Ovviamente non a tutti i livelli, e non nello stesso modo. Va detto che sono stati fatti grandi passi avanti, specialmente grazie a papa Francesco, che è stato un “campione” di inclusione: ha promosso la partecipazione delle donne attraverso documenti ed esempi concreti, come la nomina dell’ex presidente della Wucwo Maria Lia Zervino insieme ad altre due donne al Dicastero per i vescovi e poi al Segretariato del Sinodo, e questo nonostante le resistenze di molte parti della Chiesa. Tuttavia persiste ancora molto clericalismo, soprattutto a livello locale.

Voi cosa vorreste?

Che le donne fossero ascoltate, innanzitutto. Alla Chiesa serve una pastorale dell’ascolto delle donne: sacerdoti, vescovi, diaconi e catechisti devono essere preparati a sapere come ascoltare le donne, lasciarle parlare e poi saperle indirizzare verso l’aiuto necessario, anche se non sono psicologi o avvocati. Nei seminari c’è una mancanza di formazione riguardo alle donne: i semina-risti, rimanendo chiusi per anni solo con uomini, non sanno come trattare le donne o comprendere i loro problemi. Il risultato è che anche molte decisioni vengono prese senza tener conto delle donne, e questo nonostante proprio da donne sia composta la maggioranza del popolo di Dio.

E poi?

Ascoltare le donne significherebbe aprirsi alla loro visione del mondo, allo sguardo e al racconto che solo loro possono avere della fragilità e della vulnerabilità delle comunità in cui vivono, perché per prime le sperimentano la fragilità e a vulnerabilità in quanto donne. La Chiesa potrebbe e dovrebbe avere un “volto femminile”: per la loro natura le donne sono più esperte nell’essere vicine agli ultimi, sono più empatiche, queste capacità permetterebbero alla Chiesa di uscire da se stessa e a diventare ancora più missionaria, raggiungendo tutte le persone che ne hanno bisogno, specialmente chi è ai margini, gli ultimi. Noi insistiamo spesso sulla necessità di una metanoia, di un cambiamento di cuore nella Chiesa: le donne non vogliono essere sacerdoti o vescovi, ma vogliono camminare “mano nella mano” con i sacerdoti, con i vescovi, con i seminaristi e con il resto del popolo di Dio perché insieme si può fare molto meglio. La Chiesa perde molto se non permette alle donne di partecipare pienamente.

Come vi state impegnando su questo fronte?

Poco alla volta, passo dopo passo, a cominciare dal basso. Stiamo formando le donne alla Scuola per la sinodalità, un’esperienza di ascolto reciproco e condivisione con l’obiettivo di cambiare le strutture e le mentalità proprio a livello locale. Parliamo coi preti, coi seminaristi, con gli uomini, parliamo anche con le donne: il fatto che siano escluse è un problema di cultura, non di donne o di uomini. Spesso, anzi, sono proprio le donne ad avere le idee più conservative. Ci confrontiamo anche coi vescovi nelle diocesi e col Vaticano nei diversi dicasteri. Serve pazienza e serve tempo, ma siamo convinte che un cambiamento è possibile.

Mónica Santamarina Una foto di gruppo con le partecipanti al laboratorio promosso dal Wucwo e svoltosi in Uganda nei mesi scorsi. Al centro c’era il progetto dell’Osservatorio mondiale delle donne





Mercoledì, 18 Giugno 2025

Un «particolare legame» unisce la Chiesa italiana al Papa. Un vincolo unico al mondo, un dono speciale, e una responsabilità: quella di chi ha il compito di mostrare come si vive la «collegialità con il successore di Pietro». Di chi conosce il modo di seguirlo.
Le parole consegnate da Leone XIV ai vescovi del nostro Paese, ricevuti ieri in Vaticano in un incontro assai atteso per “fare conoscenza” diretta, hanno un peso specifico più che doppio. Perché sono le prime di un rapporto che è per sua natura stretto, familiare, un «legame privilegiato»; e perché, com’era nelle previsioni, Leone ha voluto «indicare» ai nostri vescovi «alcune attenzioni pastorali». Non sue personali priorità, ma la lettura di ciò che «il Signore pone davanti al nostro cammino e che richiedono riflessione, azione concreta e testimonianza evangelica».

Basterebbe questo punto per cogliere l’essenziale, quel che conta ora. La sintonia tra la Chiesa italiana e il Papa, che ne è il primate, è nella struttura stessa della cattolicità, che a Pietro e a Roma guarda come al suo centro, e che dunque vede nell’Italia la prima testimone del Vangelo. Vale per qualunque Papa. E l’incontro di ieri con Leone ne ha offerto un’immagine nuova e insieme consolidata. Quel che Prevost domanda oggi a una Chiesa alla quale è legato da un rapporto «comune e particolare» (qui cita Paolo VI) e «che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente» (espressione di Benedetto) è l’«audacia » e la «profezia» che «portano a lasciarsi “disturbare” dagli eventi e dalle persone e a calarsi nelle situazioni umane» (espressione assai riconoscibile di Francesco). Abbiamo il privilegio di leggere la nostra realtà attraverso quel che ci vede Pietro in persona, di sentire col suo cuore, di sapere dove volgere lo sguardo: è il carisma della Chiesa in Italia, tutt’uno col Paese e la sua stessa materia prima fatta di un sentire profondo che non viene meno anche sotto i colpi della secolarizzazione, in forme e occasioni imprevedibili. Quello che il Papa ha da dire al Paese attraverso i suoi vescovi ci riguarda tutti, perché ognuno è dentro questa Chiesa per la sua parte di vocazione a far parlare il Vangelo attraverso la propria vita.

Ed è proprio a «uno slancio rinnovato nell’annuncio e nella trasmissione della fede» che il Papa – «innanzitutto» – ci chiama: oggi, «in un tempo di grande frammentarietà», mettere «Gesù Cristo al centro» portandolo «nelle vene dell’umanità» è «il primo grande impegno che motiva tutti gli altri». Una priorità nuova? Richiamando sul punto la Evangelii gaudium, pubblicata da Francesco agli inizi del suo pontificato, è Leone stesso a ricordarci che il suo predecessore aveva additato la medesima direzione invitando allora a «una nuova tappa evangelizzatrice». La novità che introduce Leone XIV, semmai, è nell’innestare su questo fondamento le altre tre «coordinate» che giudica essenziali per «essere Chiesa che incarna il Vangelo» in Italia: la pace, la dignità della persona umana e la cultura del dialogo. Una scelta che è come un “compito a casa” sul quale rifletteremo lungo la strada che ci attende, ma che già al primo ascolto mostra la sua pertinenza alla realtà nella quale viviamo. La «relazione con Cristo», sempre «personale », genera infatti l’esigenza e il dovere di essere «Chiesa capace di riconciliazione » – anzi, proprio «casa della pace» – nelle troppe situazioni «umane e sociali» dove «il conflitto prende forma, magari in modo sottile». L’annuncio va reso efficace, incontrabile in uno stile di relazioni rigenerato. Altrimenti è solo bella teoria sociale.

È un impegno preciso al quale il Papa lancia la nostra Chiesa chiedendole originali «iniziative di mediazione nei conflitti locali» e «progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro». Ci conosce, Prevost, sa cosa siamo capaci di fare. E con la serena fermezza che ci sta diventando familiare non fa sconti: se questo è il nostro talento, mettiamolo a frutto, fino in fondo. La sua moltiplicazione per guarire le ferite del mondo e affrontarne le formidabili sfide dipende però da quanto ci è chiaro chi è davvero la persona umana, qual è la sua dignità. Per questo Leone formula l’«auspicio» che «il cammino delle Chiese in Italia includa, in coerente simbiosi con la centralità di Gesù, la visione antropologica come strumento essenziale del discernimento pastorale». Un’espressione precisa, che impegna e indica un percorso frutto di una «riflessione viva sull’umano» in ogni sua dimensione («corporeità», «vulnerabilità, «sete d’infinito», «capacità di legame»), e garanzia che la «dignità dell’umano» trovi nella Chiesa in Italia custodia e promozione.

Come questo vada poi fatto nel concreto viene descritto nel quarto tema scolpito dal Papa: il «confronto», l’«ascolto», la «comunione». In una parola, il «dialogo », garanzia dell’annuncio di una verità «credibile», anche grazie al fatto che «la sinodalità diventi mentalità, nel cuore, nei processi decisionali e nei modi di agire». Consegne per un viaggio da vivere senza ansie, come nello stile di un Papa che con i vescovi – salutati uno a uno, di tutti ascoltando una parola e a tutti offrendo attenzione – ha creato un clima di serenità con le idee chiare e di forza tranquilla, spingendoli a «scelte coraggiose». Ricordandogli chi sono, chi siamo: « Nessuno potrà impedirvi di stare vicino alla gente» e di «annunciare il Vangelo», ma facendolo sempre «con la gioia nel cuore e il canto sulle labbra». C’è altro da dire per sentirci una volta in più fortunati e felici per essere cattolici, e italiani?





Martedì, 17 Giugno 2025

Era l’adempimento che l’Assemblea generale dei vescovi italiani era chiamato ad affrontare e votare: la ripartizione e l’assegnazione delle somme derivanti dall’8xmille dell’Irpef per l’anno 2025. A questo meccanismo accedono, assieme allo stesso Stato italiano, anche altre confessioni religiose, oltre alla Chiesa cattolica, che firmò un accordo con lo Stato italiano. L’8xmille è assegnato alle diverse realtà in base alle firme raccolte in fase di presentazione della dichiarazione dei redditi. Il comunicato della Cei sottolinea che la cifra è stata assegnata in base alle dichiarazioni dell’anno 2022 (sui redditi 2021) e che in quella occasione il 69,51% dei contribuenti ha indicato la Chiesa cattolica (con un lieve calo dello 0,83% rispetto all’anno precedente. Però, quest’ultimo dato nel 2021 per le firme in favore della Chiesa cattolica aveva registrato un calo dell’1,4%. Quindi in un anno- dal 2021 al 2022 - la diminuzione ha rallentato di oltre mezzo punto percentuale). Secondo quanto riferito dal comunicato ufficiale della Conferenza episcopale italiana, alla Chiesa cattolica per il 2025 è stata assegnata la somma di 1.014.987.405,48 euro «determinati da euro 1.053.268.335,86 a titolo di anticipo per l’anno in corso, ed un conguaglio sulle somme riferite all’anno 2022 di -38.280.930,38 euro». Rispetto allo scorso anno la somma assegnata alla Chiesa cattolica risulta in aumento: nel 2024 erano a disposizione euro 910.266.483,20. Nel 2020 la quota per la Chiesa cattolica era stata di 1 miliardo e 139 milioni di euro.

Il Consiglio permanente della Conferenza episcopale ha presentato all’Assemblea generale dei vescovi un piano di ripartizione dei fondi nelle tre grandi aree: esigenze di culto e pastorale; interventi caritativi; sostentamento del clero. L’80ª Assemblea generale dei vescovi italiani, riunita questa mattina - 17 giugno -per la prima udienza con il nuovo Pontefice, Leone XIV, ha in un secondo momento approvato la proposta di ripartizione dei fondi per il 2025.

Al grande capitolo denominato “Esigenze di culto e pastorale”, sono stati attribuiti 350.987.000 euro (con un incremento di quasi 105 milioni di euro). Al suo interno questo capitolo si suddivide in altre cinque voci. Per le esigenze di culto e pastorale delle diocesi italiane sono stati stanziati 101.664.000 euro (con un forte incremento rispetto allo scorso anno). Sempre a questo capitolo di spesa «è ulteriormente destinata la somma di euro 56,336 milioni prelevandola dal Fondo “a futura destinazione per le esigenze di culto e pastorale e per gli interventi caritativi” costituito dalla 51ª Assemblea Generale» spiega la nota della Cei. Resta invariato il fondo per l’edilizia di culto con 129 milioni (104 milioni per l’edilizia esistente e nuova edilizia, e 25 milioni per la tutela dei beni culturali ecclesiastici). In aumento il fondo per la catechesi e l’educazione cristiana con 60 milioni (contro i 40 dello scorso anno). Ai Tribunali ecclesiastici regionali vanno 13 milioni, mentre 47.323.000 euro sono per le esigenze di rilievo nazionale.

Il secondo grande capitolo della ripartizione riguarda gli “Interventi caritativi” a cui complessivamente sono attribuiti 280 milioni di euro. Tre le voci previste: alle diocesi per la carità andranno 150 milioni di euro (come lo scorso anno); allo sviluppo dei popoli sono stati assegnati 80 milioni di euro (come lo scorso anno), mentre alle esigenze di rilievo nazionale sono stati assegnati 50 milioni di euro (cinque in più rispetto alla ripartizione del 2024).

Ultimo grande capitolo è quello relativo al “Sostentamento del clero”, che nella ripartizione votata ieri dall’Assemblea generale dei vescovi italiani ha ottenuto l’assegnazione di 384 milioni di euro (cinque in meno rispetto allo scorso anno).






Martedì, 17 Giugno 2025

A 1705 metri di altezza lo sguardo si perde tra le Isole Eolie e Capri dalla parte del mare, dall’altra si è immersi nel verde della macchia mediterranea. Siamo sul Sacro Monte di Novi Velia (Salerno), dove un santuario richiama da secoli pellegrini da tre regioni.

Dalla Basilicata, Calabria e provincia di Salerno arrivano in estate, da soli o in compagnia, famiglie e parrocchie sulla cima del Gelbison.«Abbiamo scelto che il Sacro Monte fosse chiesa giubilare della diocesi di Vallo della Lucania e che, accompagnati della presenza di Maria, sia possibile riconciliarsi vivendo un’esperienza di silenzio e preghiera». Portando un mazzo di fiori il vescovo di Vallo della Lucania, Vincenzo Calvosa, ha accolto i fedeli nei giorni scorsi, quando il santuario si è riaperto dopo la chiusura annuale. In inverno, quando la neve imbianca la vetta del monte, le porte della chiesa sono chiuse, riaprono l’ultima domenica di maggio sino alla seconda domenica di ottobre, i mesi di Maria.

E quassù, per pregare e trovare aria fresca e leggera, arrivava con la mamma Carlo Acutis. Il ragazzo in vacanza nel Cilento, partiva da Centola, paesino originario dei nonni materni non lontano dal mare cristallino di Palinuro. Grazie agli anziani del paese aveva scoperto questo rifugio come di nido d’aquila che custodiva la chiesetta dedica a Maria, un’occasione unica per passeggiare tra castagni e faggi.

La storia del luogo di culto richiama avvenimenti di un passato incerto e di fede antica. La prima notizia sicura è del 1323, quando Tommaso Marzano, barone di Novi, acquista dal vescovo di Capaccio, Filippo Santomagno, il Santuario per donarlo ai celestini, monaci benedettini che aveva chiamato a Novi Velia all’inizio del secolo. Non è sbagliato pensare che già in precedenza, grazie al monachesimo italo greco, una cappella fosse frequentata dai pastori. Monaci eremiti, amante dei luoghi semplici e nascosti, i monaci avrebbero diffuso già dal Mille il culto mariano. Dai Celestini nel 1800 il santuario passa alla Chiesa diocesana che ne ha fatto il principale luogo di preghiera.

Alla riapertura di quest’anno i fedeli hanno avuto la sorpresa di vedere il restauro della statua. Il lavoro ha ripulito il simulacro in legno della Madonna con il Bambino tra le braccia, riportando i colori originari, scoperti sotto gli strati sovrapposti delle tempere. Adesso don Aniello Panzariello, don Walter Santomauro e don Antonio De Marco aspettano i pellegrini saliti anche a piedi, per accompagnarli nel cammino di speranza del Giubileo sulla vetta del Gelbison, tra la pace della natura e le canzoni dei pellegrini.






Martedì, 17 Giugno 2025

Unità, scelte coraggiose, laici protagonisti. E ancora: priorità all’annuncio del Vangelo, alla pace, al dialogo e alla dignità umana che gli algoritmi digitali rischiano di calpestare. Sono le coordinate che Leone XIV affida alla Chiesa italiana nell’udienza di questa mattina ai vescovi della Penisola. Primo incontro fra il nuovo Papa e la Conferenza episcopale italiana nell’Aula delle Benedizioni del Palazzo Apostolico in occasione dell’Assemblea generale straordinaria della Cei.

È un «particolare», «peculiare» e «privilegiato» legame quello fra il Papa e la Chiesa italiana, sottolinea Prevost. E «anch’io avverto la rilevanza di questo rapporto “comune e particolare”, come lo definì san Paolo VI», dice Leone XIV tornando a richiamare il Pontefice di Concesio, il più citato dall’inizio del pontificato. Papa Leone ricorda il «principio di comunione» e chiede che si rifletta «anche in una sana cooperazione con le autorità civili». Perché, avverte, la Cei è «luogo di confronto e di sintesi del pensiero dei vescovi circa le tematiche più rilevanti per il bene comune. Essa, all’occorrenza, orienta e coordina i rapporti dei singoli vescovi e delle Conferenze episcopali regionali con tali autorità a livello locale». È anche il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, che nel suo saluto iniziale pone l'accento sulla «speciale sintonia che unisce la Chiesa in Italia al successore di Pietro, Vescovo di Roma e primate d’Italia».

Nel suo discorso il Papa affida alla Chiesa italiana numerosi spunti. Come nei suoi primi interventi, unisce collegialità episcopale e sinodalità riconsegnando questo binomio alla comunità ecclesiale della Penisola. «Nell’esercitare il mio ministero insieme con voi, cari fratelli, vorrei ispirarmi ai principi della collegialità, che sono stati elaborati dal Concilio Vaticano II», dice ai vescovi. E aggiunge che «è in questo modo che siete chiamati a vivere il vostro ministero: collegialità tra voi e collegialità con il successore di Pietro». Poi il riferimento alla sinodalità che il Pontefice lega all’unità. «Andate avanti nell’unità, specialmente pensando al Cammino sinodale», afferma. E ribadisce: «Restate uniti e non difendetevi dalle provocazioni dello Spirito. La sinodalità diventi mentalità, nel cuore, nei processi decisionali e nei modi di agire». Di «collegialità e sinodalità» parla il cardinale Zuppi. Racconta a Leone XIV di «comunità, preti, consacrati, laici, tanti compagni di strada» coinvolti «in questi anni» nel «Cammino sinodale per realizzare» l’«invito che papa Francesco ci rivolse proprio dieci anni fa a Firenze» di puntare «all’essenziale».


A tutte le realtà ecclesiali del Paese, il Papa ripete di non avere «timore». «Guardate al domani con serenità. Nessuno potrà impedirvi di stare vicino alla gente, di condividere la vita, di camminare con gli ultimi, di servire i poveri. Nessuno potrà impedirvi di annunciare il Vangelo». Poi suggerisce di avere «cura che i fedeli laici, nutriti della Parola di Dio e formati nella Dottrina sociale della Chiesa, siano protagonisti dell’evangelizzazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, negli ambienti sociali e culturali, nell’economia, nella politica». Papa Leone ricorda Benedetto XVI per dire che la Chiesa in Italia è «una realtà molto viva» e con una «presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione». Ma si trova anche da tempo «a dover affrontare nuove sfide, legate al secolarismo, a una certa disaffezione nei confronti della fede e alla crisi demografica».

L’annuncio del Vangelo è una delle urgenze per l’Italia, secondo papa Leone. Il Pontefice esorta a farlo sulla «strada indicata da Evangelii gaudium», citando l’esortazione apostolica di Francesco. E sollecita a «discernere i modi in cui far giungere a tutti la Buona Notizia, con azioni pastorali capaci di intercettare chi è più lontano e con strumenti idonei al rinnovamento della catechesi e dei linguaggi dell’annuncio». Rinnovamento della catechesi che è al centro di numerosi percorsi o esperimenti nelle diocesi e nelle parrocchie della Penisola. Poi il grande tema della pace. «Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono», è ciò che chiede Leone XIV. Una sfida che lancia pensando anche «alle periferie urbane ed esistenziali» dove «le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile» e dove «deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione». Da qui la richiesta molto concreta a «ogni diocesi» perché promuova «percorsi di educazione alla nonviolenza, iniziative di mediazione nei conflitti locali, progetti di accoglienza che trasformino la paura dell’altro in opportunità di incontro». E riferendosi alla pace richiama papa Francesco e «il suo ultimo Messaggio pasquale Urbi et Orbi che è stato il suo estremo, intenso appello alla pace per tutti i popoli».

Altra scommessa è quella di prestare attenzione all’«intelligenza artificiale», alle «biotecnologie», all’«economia dei dati» e ai «social media» che stanno trasformando «la nostra percezione e la nostra esperienza della vita», afferma il Pontefice. Uno scenario in cui «la dignità dell’umano rischia di venire appiattita o dimenticata, sostituita da funzioni, automatismi, simulazioni». Allora l’«auspicio» di papa Leone è che «il cammino delle Chiese in Italia includa, in coerente simbiosi con la centralità di Gesù, la visione antropologica come strumento essenziale del discernimento pastorale». Infine la raccomandazione a «coltivare la cultura del dialogo» in modo che «tutte le realtà ecclesiali – parrocchie, associazioni e movimenti – siano spazi di ascolto intergenerazionale, di confronto con mondi diversi, di cura delle parole e delle relazioni».

Un lungo applauso accoglie il Papa al suo ingresso nell’Aula. E poi al termine dell’incontro, prima che Leone XIV saluti a uno a uno i vescovi: sia titolari e ausiliari delle diocesi, sia i numerosi emeriti. Il cardinale presidente racconta l’impegno della Chiesa italiana a essere «una Chiesa accogliente, vicina alle attese di tanti, di tutti, particolarmente dei poveri» ma anche «inquieta» e «lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza» in cui «tutti si sentano a casa». Inoltre Zuppi assicura la «vicinanza» dell’episcopato italiano all’impegno personale del Papa a favore della pace a «80 anni dalla fine della seconda guerra mondiale».





Martedì, 17 Giugno 2025

«Concordo con papa Leone quando afferma che il mondo dovrebbe essere liberato da ogni minaccia nucleare e che il modo migliore per prevenirla è il dialogo». L’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Yaron Sideman, segue passo dopo passo il nuovo Pontefice. Compresi i suoi appelli a fermare le armi in Medio Oriente. Più volte Leone XIV ha fatto riferimento a Gaza. Ora l’invito alla «responsabilità» e all’«incontro» rivolto a Tel Aviv e Teheran per evitare l’escalation. «In effetti - spiega il diplomatico ad Avvenire - negli ultimi trent’anni il dialogo è stato il principale strumento attraverso cui la comunità internazionale si è sforzata di coinvolgere l’Iran affinché abbandonasse il suo progetto nucleare militare. Ma il risultato è stato l’esatto opposto. L’Iran ha ingannato la comunità internazionale e continua a premere sull’acceleratore, al punto che la scorsa settimana l’Aiea, l’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, ha dichiarato Teheran inadempiente ai suoi obblighi».

Israele parla di guerra preventiva. Ma Leone XIV ha riaffermato che le guerre «non risolvono i problemi, ma li aggravano».

«Israele non ha intrapreso una guerra con l'Iran, ma un'operazione militare volta a eliminare un'imminente minaccia esistenziale portata avanti dal regime iraniano. In linea di principio, la guerra dovrebbe sempre essere considerata l’ultima opzione, ma ciò non significa che non sia affatto valida, qualora tutte le altre fallissero. Questo è il punto a cui siamo arrivati ora. Tutte le altre opzioni attuate finora per decenni non sono riuscite a rimuovere o addirittura ridurre la minaccia iraniana. Al contrario i negoziati con l’Iran sono andati avanti per decenni, più recentemente con gli Stati Uniti, e hanno sempre portato l'Iran ad accelerare ulteriormente il suo programma nucleare anziché abbandonarlo. Il regime dei mullah iraniani è recentemente passato alla fase di attuazione del suo piano sistematico per annientare Israele. Eravamo all’ultimo minuto in questo senso e non avevamo altra scelta che agire prima che fosse troppo tardi».

Papa Leone ha detto che «nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza di un altro». Come legge questo monito?

«Un regime, come quello iraniano, dotato di capacità nucleari militari rappresenta una chiara minaccia per Israele ma anche per l’intero Medio Oriente. La storia ci insegna che, quando un regime minaccia la nostra esistenza, dobbiamo prenderlo sul serio. Inoltre l’Iran ha investito enormi risorse per creare un piano sistematico e ben orchestrato con cui attuare la sua minaccia, che include un robusto programma nucleare militare, un piano di missili balistici in grado di raggiungere non solo Israele ma qualsiasi capitale europea e la fornitura di armi ai terroristi tra cui Hamas, Hezbollah e gli Houthi per stringere Israele in un cerchio di fuoco. L’Iran è l’unico membro Onu che chiede apertamente lo sterminio di un altro membro delle Nazioni Unite».

Israele contro la bomba atomica in Iran, ma possiede ma l’atomica…

«Israele sarà l’ultimo a introdurre tali armi in Medio Oriente. Siamo un Paese che sostiene i valori della vita e della libertà. Però ci troviamo di fronte a regimi che santificano e glorificano la morte e diffondono terrore e distruzione nel mondo. Questa è la giusta prospettiva. Basta guardare la carneficina che l’Iran sta compiendo ora colpendo deliberatamente i civili israeliani con missili balistici convenzionali. Immaginate se quei missili fossero dotati di testate nucleari...»

Israele ripete che i civili non sono un obiettivo. Però l’Iran denuncia oltre 200 morti.

«Mentre l’Iran sta prendendo di mira le aree densamente popolate, Israele colpisce le infrastrutture militari e gruppi terroristi».

Khamenei è un obiettivo per il governo Netanyahu come lo è Hamas a Gaza. Ma non si rischia una spirale d’odio verso Israele?

«L’unico obiettivo di Israele in Iran è agire contro le armi nucleari e l’arsenale di missili balistici. Iran e Hamas sono in perfetta sintonia. Entrambi invocano apertamente la distruzione di Israele e fanno parte di una mortale asse del male, guidata dall’Iran, che include anche Hezbollah e gli Houthi nello Yemen. Entrambi lavorano per raggiungere il loro comune intento, come dimostrano la carneficina di Hamas del 7 ottobre 2023 o gli attacchi di Teheran contro Israele nei vari anni, inclusi quelli missilistici non provocati proprio l’anno scorso. Iran e Hamas sono anche solidali finanziariamente, poiché l'Iran è un importante sostenitore finanziario di Hamas e le fornisce i mezzi per portare avanti le sue attività terroristiche contro Israele».

Israele può accettare la mediazione di Stati Uniti e Russia sulla crisi iraniana?

«Non posso parlare di alcuna iniziativa in particolare. Qualsiasi sforzo compiuto ora o in futuro sarà valutato in base alla sua capacità di rimuovere efficacemente la minaccia in corso».

Il Papa ha messo a disposizione la Santa Sede come spazio di incontro fra i nemici.

«Israele aspira sempre alla pace. L’ha raggiunta con vicini che prima erano tra i suoi nemici più acerrimi. Naturalmente apprezziamo qualsiasi misura costruttiva che possa facilitarla».

C’è chi dice che Israele abbia attaccato l’Iran perché è in difficoltà a Gaza.

«Stiamo operando in Iran perché il regime iraniano è impegnato nella distruzione del nostro Stato».

La Chiesa ha più volte denunciato la drammatica situazione umanitaria a Gaza.

«Israele consente l’ingresso di cibo, medicine, carburante e acqua. L’operazione guidata dagli Stati Uniti consente che gli alimenti raggiungano la popolazione civile e non Hamas, come in passato. Finora sono stati distribuiti 23 milioni di pasti, con una media di due milioni al giorno negli ultimi giorni. Se questa tendenza dovesse continuare, la situazione dei civili migliorerebbe. Hamas è l'unica responsabile delle difficoltà che la gente sta vivendo. Israele è determinato a riportare a casa tutti gli ostaggi rimasti nella Striscia e a cancellare Hamas come entità militare e di governo a Gaza».

C’è bisogno che la Chiesa rafforzi il dialogo con il mondo ebraico?

«Apprezzo molto l’impegno di papa Leone per il dialogo con il popolo ebraico, secondo i principi di Nostra Aetate. Ed è di fondamentale importanza. Comunque, affinché il dialogo abbia successo, va ampliato nella portata e nella partecipazione. Quasi metà della popolazione ebraica mondiale vive oggi in Israele e tutti gli ebrei hanno un forte legame con lo Stato di Israele. Ciò dovrebbe riflettersi anche sul modo con cui strutturare il dialogo che è bene sia condotto su un’unica piattaforma con la partecipazione ebraica in tutto il mondo, incluso Israele».





Martedì, 17 Giugno 2025

Riemersi dal suggestivo giro fra i labirinti delle catacombe, nel quarto episodio di Roma Felix, Stefania Falasca e Giuseppe Matarazzo ci riportano tra le strade di Roma, per entrare nelle sue possenti basiliche che custodiscono i segni del passaggio di Gesù nella Terra Santa e fanno della Città Eterna una Gerusalemme d’Occidente.

Chi oggi arriva qui difficilmente proverà l’emozione di quei primi pellegrini che salendo le pendici dell’Esquilino, il più alto dei colli romani, la vedevano svettare lassù in cima, nel cuore di Roma: eccola Santa Maria Maggiore, il più antico santuario mariano di tutto l’Occidente, la Betlemme di Roma. Betlemme, sì, perché a Roma non poteva mancare il luogo della memoria della nascita e dell’infanzia di Gesù così come non poteva mancare quello della sua passione e morte, la basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Dalla culla al Santo Sepolcro, dalla gloria di Gerusalemme a quella di Roma, con i “tesori” della Chiesa che ritroviamo a San Lorenzo fuori le mura.

In questo episodio incontreremo Eamonn Mc Laughlin, Canonico del Capitolo di Santa Maria Maggiore, e ascolteremo la voce di Papa Francesco proprio nella Basilica mariana (4 maggio 2013, Vatican Media) a cui era fortemente legato: lì andava a pregare davanti all'icona della Salus Populi Romani, lì ha voluto poi essere sepolto. Fra i documenti, un estratto del Cinegiornale sul bombardamento di Roma del 1943 (Istituto Luce) e una dichiarazione di Pio XII sulla basilica di San Lorenzo "ferita" (con la voce di Francesco Riccardi). Buon ascolto!


ROMA FELIX è un podcast originale prodotto da Avvenire con il sostegno di Italo
Di Stefania Falasca con Giuseppe Matarazzo
Testi tratti dall’omonima serie scritta da Stefania Falasca e pubblicata su Avvenire
Cura editoriale Alessandro Saccomandi e Chiara Vitali
Sound design: Daniele Bertinelli
Grafiche: Massimo Dezzani





Lunedì, 16 Giugno 2025

Le grida e i ritmi africani si impossessano della Basilica di San Paolo fuori le Mura. Insieme con i colori sgargianti degli abiti, i foulard sventolati sopra le teste, i battimani che accompagnano le musiche dei bonghi, le danze che irrompono nelle navate. È una grande festa dell’Africa intorno alla tomba dell’Apostolo delle genti quella di domenica pomeriggio. Nel nome del giovane congolese della Comunità di Sant’Egidio, Floribert Bwana Chui, martire della corruzione, che viene proclamato beato nella grande basilica papale a Roma durante la Messa presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi. Quando il porporato finisce di leggere la lettera di Leone XIV che iscrive il 26enne della diocesi di Goma nel numero dei beati («Uno dei primi decreti firmati dal nuovo Pontefice», ricorda il cardinale) e mentre viene scoperto il ritratto del giovane vicino all’altare, l’entusiasmo di un intero continente esplode nella chiesa. C’è il volto del beato sugli abiti delle donne o nelle bandierine che alzano anche i sacerdoti. E soprattutto accanto al logo di Sant’Egidio che si raduna per un suo “figlio” salito all’onore degli altari dopo essere stato torturato e ucciso nel luglio 2007 in odio alla fede.

Semeraro ricorda quando al giovane «con le minacce e le lusinghe della corruzione fu chiesto di far passare alla dogana del cibo avariato che avrebbe avvelenato le tavole della gente di Goma. Egli, nutrito dalla Parola di Dio e dall’Eucaristia, si chiese: “Se faccio questo, sto vivendo in Cristo? Sto vivendo per Cristo?”. “Come cristiano – così si rispose – non posso accettare di sacrificare la vita delle persone. È meglio morire che accettare questi soldi”. La scelta era decisiva: in quel momento drammatico, era tra il vivere per sé stessi e il vivere per Cristo. E questo ha un prezzo; è, anzi, un caro prezzo». Il cardinale incensa una reliquia di Floribert che viene portata in processione nella celebrazione: la giacca lisa che indossava quando venne rapito. «Un maestro di speranza», lo definisce Semeraro, per «i giovani di tutto il mondo» perché «nel suo umile esempio possono trovare la forza del bene e di fare il bene, resistendo alle lusinghe di una vita dominata dalla paura e dal denaro».

La Basilica è affollata. In molti sono arrivati dal Congo. Compresa la famiglia del nuovo beato che «l’ha educato alla fede e oggi rappresenta un modello di vita cristiana», spiega a conclusione della celebrazione il cardinale Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo. E indica Floribert come un segno di «speranza di una pace duratura per il Paese» e uno sprone a «impegnarci nella lotta alla corruzione, piaga della nostra società». In prima fila il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, e il fondatore della Comunità, Andrea Riccardi, che nel saluto finale sottolinea come il nuovo beato «con la sua testimonianza ci faccia scoprire una forza di pace, di bene, di cambiamento, di fiducia in Dio».

Semeraro cita una frase del giovane: «Tutti hanno diritto alla pace nel cuore». Parole che «ci colpiscono più che mai. Se, infatti, celebriamo qui in Roma la sua beatificazione, è perché purtroppo a Goma mancano le condizioni di sicurezza e tranquillità». E, guardando alla positio, sottolinea: «Tra le testimonianze raccolte si legge che non voleva la guerra e che proprio con il suo impegno intendeva riunire i giovani di Goma come in una famiglia. Scelse perciò di condividere l’impegno di Sant’Egidio per la pace; perché – diceva – “mette tutti i popoli alla stessa tavola”. Sognava di essere un uomo di pace e di potere così contribuire alla pace della sua terra che amava tanto. Dunque, facciamo nostra la sua aspirazione a un Congo in pace». Papa Leone aveva ricordato Floribert Bwana Chui al mattino durante l’Angelus. «Si opponeva all’ingiustizia e difendeva i piccoli e i poveri», aveva detto. E poi l’auspicio: «La sua testimonianza dia coraggio e speranza ai giovani della Repubblica Democratica del Congo e di tutta l’Africa».





Sabato, 14 Giugno 2025

La più grande piaga dell’Africa è la corruzione. E il giovane congolese Floribert Bwana Chui, funzionario doganale alla frontiera con il Ruanda, ucciso per aver detto no a una bustarella di 3.000 dollari per non rovinare le vite dei poveri, domenica sera sarà proclamato beato. Floribert, martire dalle “mani pulite” a 26 anni, era attivo da quando era universitario nella Scuola della Pace della Comunità di Sant’Egidio di Goma. A causa della guerra nel Kivu la celebrazione si terrà alle 17.30 nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero per le cause dei santi e concelebrata dal cardinale di Kinshasa Fridolin Ambongo e dal vescovo di Goma Willy Ngumbi, assieme ad altri rappresentanti della Chiesa congolese. Parteciperanno centinaia di rappresentanti delle Comunità di Sant’Egidio dal Congo e da altri paesi africani con delegazioni provenienti da Asia e America, oltre che dall’Italia e dall’Europa.

Nato in una famiglia benestante il 13 giugno 1981, primo di 11 tra fratelli e fratellastri, Floribert si iscrive a Giurisprudenza perché crede, col proprio impegno, di poter aiutare la gente. «Non sopportava l’ingiustizia. E questo lo portava a schierarsi per i più deboli», ha sottolineato il fratello Trésor.

Quando nella regione dei Grandi Laghi esplode il conflitto etnico che porterà nel 1994 al genocidio in Ruanda, nel Kivu inizia una lunga guerra civile per il controllo e lo sfruttamento delle ricche aree minerarie. Nei primi anni 2000 nella regione si affacciaSant’Egidio che Floribert aveva conosciuto in Ruanda. A Goma inizia a vivere la preghiera della Comunità in parrocchia, aiuta la popolazione colpita dall’eruzione nel 2002 del vulcano Nyiragongo e si impegna nelle Scuole della Pace. Nel 2004 decide di aiutare i maibobo, i ragazzi di strada. Uno di loro, Jonathan, compare nelle testimonianze raccolte dal postulatore don Francesco Tedeschi. «Quando l’ho visto per la prima volta ho avuto paura. Era vestito bene, una persona così di solito non si avvicina ai ragazzi di strada e non gli rivolge la parola. E invece veniva verso di me, quasi mi stesse cercando. Ho pensato che avesse intenzione di farmi del male. Invece si mette a parlare e mi invita alla Scuola della Pace. Non mi fidavo, non ci volevo andare, gliel’ho detto. Ma mi ha colpito la sua insistenza. Non ero della sua famiglia, ma lui veniva a cercarmi, si preoccupava di me». Quando Jonathan gli chiede perché lo aiutasse, Floribert risponde: «Perché per Dio tutti sono uguali». Tanti altri bambini e ragazzi di strada diventano suoi amici.

Laureatosi nel 2006, trova lavoro nell’agenzia delle frontiere a Kinshasa. Torna nell’aprile 2007 a Goma come commissario “alle Avarie”, con l’incarico di intervenire nel caso le derrate alimentari dal Ruanda non abbiano i requisiti per la commercializzazione e il consumo. Ma deve affrontare chi vuole far passare merci avariate e tenta di corromperlo. Come spiegherà Trésor, «gli avevano offerto i soldi, lui aveva rifiutato, lo avevano minacciato. Non avrebbe mai accettato denaro in cambio della vita di qualcuno».

Chiama anche un’amica, suor Jeanne-Cécile Nyamungu, medico chirurgo all’Ospedale di Goma: «Era urgente, diceva, riguardava il suo lavoro. Mi ha chiesto se fosse pericoloso per la vita della gente autorizzare la commercializzazione di generi alimentari già scaduti. Gli ho risposto di sì, il deterioramento mette in moto processi chimici che possono nuocere all’organismo. A quel punto mi ha detto che avevano cercato di corromperlo perché non distruggesse il cibo avariato, gli avevano offerto prima 1.000 dollari fino ad arrivare a 3.000. Ma lui aveva rifiutato, in quanto cristiano non poteva accettare di mettere in pericolo la vita di tanta gente. Ed era stato minacciato».

Sabato 7 luglio 2007 Floribert viene rapito mentre esce da un negozio e costretto a salire su una vettura. Le ricerche sono vane, due giorni dopo viene ritrovato senza vita. Il suo corpo porta i segni delle percosse e di terribili torture. L’autopsia dirà che è morto l’8 luglio, diventato la sua festa nel calendario della Chiesa. Papa Francesco, il 2 febbraio 2023, allo stadio dei martiri di Kinshasa durante la sua visita nella Repubblica Democratica del Congo lo ha ricordato così:

«Floribert Bwana Chui a soli 26 anni venne ucciso a Goma per aver bloccato il passaggio di generi alimentari deteriorati che avrebbero danneggiato la salute della gente. Poteva lasciare andare, non lo avrebbero scoperto e ci avrebbe pure guadagnato. Ma, in quanto cristiano, pregò, pensò agli altri e scelse di essere onesto, dicendo no alla sporcizia della corruzione. Questo è mantenere le mani pulite, mentre le mani che trafficano soldi si sporcano di sangue. Essere onesti è brillare di giorno, è diffondere la luce di Dio, è vivere la beatitudine della giustizia: vinci il male con il bene».

Il suo martirio “in odio alla fede”, legato alla corruzione e al culto del denaro a ogni costo che inquina il futuro del continente, è stato riconosciuto nel novembre 2024 da papa Francesco aprendo la strada alla beatificazione. Un segno di speranza e per la martoriata regione del Kivu e per tutti i giovani africani.





Sabato, 14 Giugno 2025

«In questi giorni giungono notizie che destano molta preoccupazione. Si è gravemente deteriorata la situazione in Iran e Israele. In un momento così delicato, desidero rinnovare un appello alla responsabilità e alla ragione». Così Leone XIV, al termine dell’udienza giubilare di stamani, ha dato voce all’ansia e alle attese di pace del mondo di fronte all’ultima, grave crisi scoppiata nello scenario internazionale. «L’impegno per costruire un mondo più sicuro e libero dalla minaccia nucleare va perseguito attraverso un incontro rispettoso e un dialogo sincero per edificare una pace duratura, fondata sulla giustizia, sulla fraternità e sul bene comune», ha affermato papa Prevost dalla Basilica di San Pietro. «Nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza dell'altro. È dovere di tutti i Paesi sostenere la causa della pace, avviando cammini di riconciliazione e favorendo soluzioni che garantiscano sicurezza e dignità per tutti!». Parole pronunciate dopo la catechesi che ha visto il Papa spiegare, alla scuola di Ireneo di Lione, che «sperare è collegare», per chiedere infine: «Torniamo a costruire ponti dove oggi ci sono muri. Apriamo porte, colleghiamo mondi e ci sarà speranza».

«Sperare è collegare»: la lezione di Ireneo di Lione

Alle 10 di questa mattina - 14 giugno - la Basilica Vaticana ha accolto l’udienza giubilare nel corso della quale Leone XIV ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli. Il Pontefice ha incentrato la catechesi sul tema “Sperare è collegare. Ireneo di Lione (Lettura 1Gv 2,24-25)”. L’udienza si è conclusa con la recita del “Pater Noster” e la benedizione apostolica.

«Continuiamo il cammino avviato, come pellegrini di speranza!», ha esordito Leone XIV riprendendo le speciali udienze giubilari che papa Francesco aveva iniziato nello scorso mese di gennaio e proponendo, ogni volta, un aspetto peculiare della virtù teologale della speranza e una figura spirituale che ne ha dato testimonianza. «Ci raduna la speranza trasmessa dagli Apostoli fin dal principio. Gli Apostoli hanno visto in Gesù la terra legarsi al cielo: con gli occhi, gli orecchi, le mani hanno accolto il Verbo della vita. Il Giubileo è una porta aperta su questo mistero. L’anno giubilare collega più radicalmente il mondo di Dio al nostro. Ci invita a prendere sul serio ciò che preghiamo ogni giorno: “Come in cielo, così in terra”. Questa è la nostra speranza. Ecco l’aspetto che oggi vorremmo approfondire: sperare è collegare».

Il vescovo Ireneo di Lione, uno dei più grandi teologi cristiani, «ci aiuterà a riconoscere come è bella e attuale questa speranza». Nato in Asia Minore, si formò tra quanti avevano conosciuto direttamente gli Apostoli. Venne poi in Europa, «perché a Lione già si era formata una comunità di cristiani provenienti dalla sua stessa terra. Come ci fa bene ricordarlo qui, a Roma, in Europa! Il Vangelo – scandisce il Papa – ci è stato portato in questo continente da fuori. E anche oggi le comunità di migranti sono presenze che ravvivano la fede nei Paesi che le accolgono. Il Vangelo viene da fuori. Ireneo collega Oriente e Occidente. Già questo è un segno di speranza, perché ci ricorda come i popoli si continuano ad arricchire a vicenda».

«Pellegrini di speranza se creiamo ponti fra i popoli»

Ireneo, però, ha un tesoro ancora più grande da donare, sottolinea il Pontefice. Le divisioni dottrinali che incontrò in seno alla comunità cristiana, i conflitti interni e le persecuzioni esterne «non lo scoraggiarono. Al contrario, in un mondo a pezzi imparò a pensare meglio, portando sempre più profondamente l’attenzione a Gesù. Diventò un cantore della sua persona, anzi della sua carne. Riconobbe, infatti, che in Lui ciò che a noi sembra opposto si ricompone in unità». Ecco il punto: «Gesù non è un muro che separa, ma una porta che ci unisce. Occorre rimanere in lui e distinguere la realtà dalle ideologie».

Ebbene: «Anche oggi le idee possono impazzire e le parole possono uccidere. La carne, invece, è ciò di cui tutti siamo fatti; è ciò che ci lega alla terra e alle altre creature. La carne di Gesù – è l’invito del Papa – va accolta e contemplata in ogni fratello e sorella, in ogni creatura. Ascoltiamo il grido della carne, sentiamoci chiamare per nome dal dolore altrui. Il comandamento che abbiamo ricevuto fin da principio è quello di un amore vicendevole. Esso è scritto nella nostra carne, prima che in qualsiasi legge».

Ireneo, dunque, anche al tormentato mondo di oggi si offre quale «maestro di unità» e «ci insegna a non contrapporre, ma a collegare. C’è intelligenza non dove si separa, ma dove si collega. Distinguere è utile, ma dividere mai. Gesù è la vita eterna in mezzo a noi: lui raduna gli opposti e rende possibile la comunione. Siamo pellegrini di speranza, perché fra le persone, i popoli e le creature occorre qualcuno che decida di muoversi verso la comunione. Altri ci seguiranno. Come Ireneo a Lione nel secondo secolo – ha affermato infine Leone XIV – così in ognuna delle nostre città torniamo a costruire ponti dove oggi ci sono muri. Apriamo porte, colleghiamo mondi e ci sarà speranza».





Sabato, 14 Giugno 2025

«Il nostro tempo ha bisogno più che mai di speranza. E i santi sono donne e uomini di speranza: perché l’hanno vissuta nel concreto; perché la speranza ha plasmato la loro esistenza; e perché, incarnando questa virtù, hanno contribuito a costruire un mondo nuovo». Il cardinale Marcello Semeraro guarda all’Anno Santo per raccontare le canonizzazioni che sono state ufficializzate ieri. «La scelta di fare del Giubileo un tempo favorevole per proclamare santi laici, religiose o vescovi era prevista. Eppure resta una felice coincidenza che questi mesi nel segno della speranza parlino di santità con figure che possono aiutare tutti a declinarla nel quotidiano. Cito due esempi: Pier Giorgio Frassati, il giovane torinese di inizio Novecento che ha tradotto il Vangelo nei rapporti di amicizia, nella vicinanza al povero, nell’attenzione alla dimensione politica; e Bartolo Longo che, partendo dall’accoglienza degli orfani di guerra, ci chiama oggi a vedere e a incontrare Cristo negli ultimi e negli orfani di speranza».

Il cronoprogramma delle canonizzazioni targate Giubileo è slittato per la morte di Francesco e l’elezione del suo successore. «Il nuovo calendario tiene conto dei tempi ristretti che abbiamo di fronte. Ed è stato deciso da Leone XIV», chiarisce Semeraro. Due date erano già state indicate e sono state modificate. La prima è quella per Carlo Acutis, l’adolescente milanese morto nel 2006 a quindici anni per una leucemia fulminante. «Il suo nome - spiega il cardinale prefetto - non era nell’elenco dei candidati al centro di questo Concistoro. Perché su di lui si era già espresso il Concistoro convocato a luglio 2024. La sua canonizzazione era prevista per il 27 aprile durante il Giubileo degli adolescenti, ma è stata rinviata a causa della scomparsa di papa Francesco. Poiché è una figura vicina ai ragazzi che, con numeri significativi, erano venuti a Roma ad aprile sui suoi passi, viene ora offerta alle famiglie la possibilità di organizzarsi di nuovo per prendere parte al rito». L’altra è quella per Pier Giorgio Frassati morto esattamente cento anni fa a 24 anni per una poliomielite fulminante. «Papa Francesco - sottolinea Semeraro - l’aveva preannunciata per il Giubileo dei giovani che si tiene fra fine luglio e l’inizio di agosto». Ed era stato reso noto il giorno del rito: il 3 agosto. Comunque non c’era stato ancora il voto concistoriale che infatti è avvenuto ieri.


I due saranno canonizzati insieme: domenica 7 settembre. Una coincidenza che vuole essere anche un messaggio per i giovani di oggi. «Entrambi hanno vissuto la sequela di Cristo in modo discreto - spiega Semeraro -. Acutis è caro al mondo degli adolescenti: c’è chi lo vorrebbe patrono di Internet ma non è una decisione in capo al dicastero che guido. Frassati era un giovane che già si apriva all’età adulta. Era, sì, amante delle escursioni in montagna, ma ciò che colpisce del suo modello di vita cristiana è una fede alimentata dall’Eucaristia e dall’adorazione che si è fatta gioia quotidiana, solidarietà verso gli emarginati, progettualità civica». Il pellegrinaggio delle sue reliquie fra le parrocchie italiane ha accompagnato il percorso verso la canonizzazione. «E il cardinale arcivescovo di Torino mi ha già fatto sapere che la sua città d’origine celebrerà Frassati con una serie di iniziative di ringraziamento», anticipa il prefetto delle cause dei santi.

Le altre canonizzazioni si terranno il 19 ottobre. «In occasione della Giornata missionaria mondiale, una data ormai diventata di prassi», ricorda Semeraro. Due dei prossimi santi giungono alla canonizzazione senza aver avuto bisogno di un nuovo miracolo. «Ma per la loro vasta fama di santità diffusa nel mondo», sottolinea il cardinale. Anche se un miracolo attribuito alla loro intercessione è già stato “sancito” per la beatificazione. Sono il “medico dei poveri” venezuelano José Gregorio Hernández Cisneros e l’italiano Bartolo Longo che lega il suo nome al santuario mariano di Pompei.

«C’è una venerazione molto estesa di Cisneros, a cominciare dal suo Paese. Come mi ha ribadito anche il nuovo arcivescovo di Caracas. Per questo papa Francesco aveva deliberato di procedere alla canonizzazione esonerando dal miracolo. Tutto ciò vale anche per Bartolo Longo. La sua positio molto voluminosa attesta una devozione senza confini: in particolare dovuta alla Beata Vergine del Rosario che Longo con il suo apostolato ha contribuito a far conoscere non solo all’Italia ma nei cinque continenti». Un santo d’origine pugliese e “vicino” a Semeraro che è stato vescovo della sua diocesi d’origine, Oria. «La canonizzazione - conclude il prefetto delle cause dei santi - avrà notevole risonanza nella pietà popolare, ma anche nelle opere di carità. Perché se Longo si è speso per i più piccoli e gli indifesi, adesso le sue intuizioni si sono tradotte in assistenza e cura dei bambini in difficoltà. Lo testimoniano le case-famiglie o i poli d’accoglienza voluti intorno al santuario di Pompei».





Venerdì, 13 Giugno 2025

Diventeranno santi insieme Carlo Acutis e Pier Giorgio Frassati. La loro canonizzazione si terrà domenica 7 settembre. Una data attesa considerando la devozione che i due giovani italiani raccolgono nei cinque continenti, ma anche le modifiche al calendario dovute alla morte di papa Francesco. Il luogo non è stato ufficializzato; tuttavia viene dato per implicito che la celebrazione si svolgerà in piazza San Pietro e sarà presieduta dal Pontefice. L’annuncio è arrivato da papa Prevost nel suo primo Concistoro convocato questa mattina 13 giugno nel Palazzo Apostolico per il voto di otto cause di canonizzazione. Nell’elenco dei nomi non era presente quello di Carlo Acutis su cui si era già espresso il Concistoro del luglio 2024. La canonizzazione dell’adolescente morto nel 2006 a 15 anni per una leucemia fulminante, che in molti vorrebbero patrono di Internet, era prevista per il 27 aprile nel corso del Giubileo degli adolescenti, ma è stata sospesa all’indomani della scomparsa di papa Bergoglio. Quella di Pier Giorgio Frassati era stata annunciata da Francesco e inserita nel calendario del Giubileo dei giovani: la cerimonia doveva tenersi il 3 agosto a Tor Vergata, la spianata alla periferia di Roma che aveva ospitato la Gmg del Giubileo del 2000, dove è in programma la Messa conclusiva dell’incontro dei giovani con il Pontefice.


Su Frassati non si era pronunciato alcun Concistoro fino a oggi. Adesso giunge la decisione di papa Leone che unifica le canonizzazioni dei due ragazzi: stessa data e identico luogo. Uno accanto all’altro: il liceale timido devoto alla Vergine e all’Eucaristia, conquistato da Francesco d’Assisi, che è stato un pioniere dell’evangelizzazione nel pianeta digitale, forte della sua esperienza di volontariato fra i dimenticati o nelle mense dei poveri; e l’universitario di Torino morto esattamente un secolo fa a 24 anni per una poliomielite fulminante, appassionato della montagna, legato all’Azione Cattolica e alla Fuci, schierato contro il fascismo, che da innamorato della Parola «restituiva» la Comunione ricevuta ogni mattina, come lui stesso raccontava, visitando i poveri, le famiglie bisognose, i malati e traduceva la fede in un apostolato sociale anche dentro le fabbriche o in impegno politico fra le fila del Partito popolare. Dietro la scelta di posticipare il rito di Frassati ci sarebbe la volontà sia di avere come cornice solenne San Pietro, sia di favorire la partecipazione di “popolo” che l’eccessivo caldo di agosto avrebbe potuto ostacolare.


È stato il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle cause dei santi, a presentare al Papa i profili degli otto nuovi santi all’inizio del Concistoro. Sette - escluso Frassati, quindi - verranno canonizzati in un’unica data, domenica 19 ottobre, in occasione della Giornata missionaria mondiale. Fra i nuovi santi al centro del rito di ottobre ci sono tre italiani: il salentino Bartolo Longo (1841-1926), fondatore del santuario mariano di Pompei che lega il suo nome alla Vergine del Rosario ma anche all’assistenza degli orfani di guerra e dei figli dei carcerati; la veronese Vincenza Maria Poloni (1802-1855), fondatrice dell’Istituto delle Sorelle della Misericordia ispirato al carisma di Vincenzo de’ Paoli, che ha messo al centro della sua azione gli anziani, i malati e i più piccoli; la bresciana Maria Troncatti (1883-1969), religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice che è stata missionaria in Ecuador e nella foresta amazzonica dove veniva chiamata Madrecita e dove il suo ospedale era stato incendiato dai coloni perché ritenuto “scomodo”.


Nella stessa data saranno iscritti nell’albo dei santi l’arcivescovo armeno Ignazio Choukrallah Maloyan (1869-1915), martire nel genocidio compiuto dai turchi; il catechista Peter To Rot (1912-1945), primo santo della Papua Nuova Guinea, arrestato per la sua lotta alla poligamia e ucciso con un’iniezione letale; la religiosa venezuelana Maria del Monte Carmelo Rendiles Martínez (1903-1977), fondatrice delle Serve di Gesù; e il “medico dei poveri” Gregorio Hernández Cisneros (1864-1919), anche lui venezuelano, appartenente al Terz’ordine francescano, che aveva incentrato la sua professione sui bisognosi: è stato lo stesso Semeraro a raccontare al Papa che offriva denaro per acquistare medicine a chi non se le poteva permettere e che è morto in un incidente stradale mentre portava i farmaci a un indigente. Anche in questo caso la celebrazione dovrebbe essere presieduta dal Papa in piazza San Pietro.





Venerdì, 13 Giugno 2025

Antonia Salzano l’ha scoperto solo qualche minuto prima che la notizia rimbalzasse su tutti i media. Le ha telefonato, mentre si trovava in casa ad Assisi, il postulatore della causa di suo figlio Carlo Acutis, morto nel 2006 all’età di quindici anni per una leucemia fulminante: «Abbiamo una nuova data, sarà proclamato santo il prossimo 7 settembre a Roma insieme a Pier Giorgio Frassati». Questo è il giorno deciso da papa Leone XIV, nel suo primo Concistoro. La canonizzazione del ragazzo milanese era già stata fissata per lo scorso 27 aprile ma era stata rimandata per la morte di papa Francesco. Al telefono con Avvenire, Antonia Salzano non trattiene la gioia: «Sono contentissima per questa notizia – esclama – e ancor più perché faranno santo mio figlio insieme a Frassati».

Signora Salzano, che somiglianze trova tra suo figlio e Frassati?

«Sono due giovani che parlano ai giovani. Unire le due canonizzazioni non toglie niente a nessuno dei due. Credo che abbiano molto in comune: anche Frassati, come mio figlio, amava l’Eucaristia. Trovare una nuova data per entrambi, che non coincida con nessun altro evento dell’Anno giubilare, è stata una bella soluzione. Lo trovo un bel connubio».

Papa Leone XIV non ha perso tempo per fissare la canonizzazione di Carlo. Ha sentito un’attenzione speciale?

«So per certo che il Papa ha a cuore Carlo e lo conosce, perché al santuario di Eten, nel Perù dove Robert Francis Prevost ha vissuto a lungo, si trova una reliquia di Carlo. In quel luogo si era verificato un famoso miracolo eucaristico che Carlo aveva inserito nella sua mostra digitale. Così, là è stata portata anche una reliquia di Carlo. C’è molta devozione per lui in quei luoghi e sono sicura che anche papa Leone XIV ha una forte devozione eucaristica. Le due storie si intrecciano».

Come avete vissuto la notizia in famiglia?

«Eravamo già pronti per il 27 aprile (ride, ndr). Ma ora siamo contenti perché finalmente abbiamo una data certa. Sicuramente è il coronamento di un percorso che è stato molto veloce. A volte i santi devono attendere secoli per essere riconosciuti, ma Carlo ci ha viziati: pochissimi genitori hanno avuto l’occasione di assistere alla canonizzazione del figlio. Da parte nostra siamo felici e festeggeremo, ma siamo ancora più contenti per i tanti devoti di Carlo che attendono questo momento».

Ha un messaggio per loro?

«Spero che per loro, come per noi, la sospensione della canonizzazione di Carlo sia stata un’occasione di riflessione personale. Per pensare: "Hanno fatto santo Carlo, va bene, ma io a che punto del mio percorso mi trovo?". Noi, in famiglia ci siamo dati la nostra risposta».

Ovvero?

«Ovvero che questo tempo, voluto dal Signore, ci ha aiutati a pensare molto al nostro percorso nella santità. A fare la nostra parte, per dirla diversamente. Credo che anche questi mesi che ci separano dalla canonizzazione saranno importanti. In tanti la aspettano, ma è un buon periodo per interrogarci: "Seguiamo, anche tramite Carlo, le orme di Dio?". Poi, finalmente, arriverà anche il momento di festeggiare insieme».





Venerdì, 13 Giugno 2025

Il Santuario di Nostra Signora delle Grazie a Nizza Monferrato (Asti) è il Luogo del cuore più votato nella XII edizione del censimento promosso dal Fai in collaborazione con Intesa Sanpaolo. Grazie ai 72.050 voti, il Santuario, patrimonio Unesco dal 2014 e chiesa giubilare 2025, ha diritto a 70mila euro per progetti di restauro e valorizzazione. «Il Santuario – afferma suor Paola Cuccioli, responsabile del centro estivo e dell’oratorio associati alla chiesa – è il cuore pulsante della Casa e per questo è stato scelto per rappresentare il nostro Istituto. Siamo molto grati al Fai e a Intesa San Paolo, ma, soprattutto, alle 72mila persone che ci hanno sostenuto. Il Santuario è un bene comune ed è aperto a tutti e, grazie alla vittoria, la conoscenza di questo luogo può essere diffusa ancora di più e possiamo iniziare a restaurare le cose più urgenti».

Il Santuario, eretto nel XIII secolo, ha sempre mantenuto la sua originaria vocazione mariana tanto da essere chiamato familiarmente “La Madonna” dagli abitanti di Nizza Monferrato. «Nel XV secolo – racconta suor Paola – la soppressione delle congregazioni religiose fece espropriare la struttura. Nel 1877, però, don Giovanni Bosco l'acquistò salvandola dall’abbandono e vi trasferì le Figlie di Maria Ausiliatrice». Con l’arrivo, nel febbraio 1879, di Madre Maria Domenica Mazzarello, co-fondatrice dell’Istituto creato da don Bosco nel 1862, il complesso diventò la Casa Madre della congregazione e, fino al 1929, fu anche Casa generalizia.

Poco dopo il trasferimento delle Figlie di Maria Ausiliatrice da Mornese (Alessandria) a Nizza Monferrato (Asti), la nuova Casa divenne un istituto educativo, conosciuto soprattutto per la Scuola Normale Femminile, che formava maestre e insegnanti. L’inclinazione educativa ha da sempre contraddistinto il sito piemontese, diventato negli anni un’ampia struttura scolastica che ora comprende il micronido per i bimbi da 1 a 3 anni, la scuola dell’infanzia, la primaria, la secondaria di I grado e il Liceo delle Scienze Umane. «La nostra – precisa la religiosa – non è una struttura solamente scolastica perché abbiamo un fiorente centro estivo, proponiamo diverse attività sportive nella nostra palestra e nei campi da gioco, ospitiamo i corsi di alfabetizzazione per gli adulti. È un luogo di educazione e formazione». A ratificare quanto affermato da suor Paola sono le parole del presidente del Fai Marco Magnifico, pronunciate durante la proclamazione dei vincitori del censimento 2024: «Sul podio quest'anno sale un bene immateriale, vince l'educazione e il sostegno al disagio giovanile grazie alla figura straordinaria di don Giovanni Bosco al quale noi dedichiamo l'evento di quest'anno».





Giovedì, 12 Giugno 2025

«Io vorrei aiutarvi, camminare con voi». Leone XIV si rivolge al suo clero come un padre. È il clero della diocesi di Roma di cui il Papa è vescovo e che riceve in udienza questa mattina nell’Aula Paolo VI. Si tratta del primo incontro con il suo presbiterio dopo aver preso possesso domenica 25 maggio della cattedra della Basilica di San Giovanni in Laterano, la Cattedrale della città. Ai sacerdoti chiede anzitutto «unità»: dimensione ricordata più volte dal Pontefice quando parla della Chiesa. E poi li invita ad «abbracciare» le sfide di oggi con uno sguardo «profetico». «Non scappiamo di fronte ad esse», sprona. E cita «l’esempio di santi sacerdoti» che in tempi recenti «hanno saputo coniugare la passione per la storia con l’annuncio del Vangelo, come don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani, profeti di pace e di giustizia» e a Roma don Luigi Di Liegro, il fondatore della Caritas diocesana di Roma, «che, davanti a tante povertà, ha dato la vita per cercare vie di giustizia e di promozione umana».

Il Papa viene salutato dal cardinale vicario Baldassare Reina che descrive il clero romano come una «presenza ricca e variegata»: 809 preti; 500 di altre diocesi attivi nelle parrocchie per motivi di studio; 2347 nei collegi universitari; 3914 religiosi. L’effetto è una vita ecclesiale segnata dall’«universalità e dalla reciproca accoglienza che essa comporta», dice il Papa. Leone XIV inizia l’incontro con il sorriso. «Voglio chiedere un grande applauso per voi sacerdoti», dice a braccio. Un piccolo ma concreto gesto di incoraggiamento di fronte alle «fatiche quotidiane» e a «tutto ciò che vivete nel silenzio e che, a volte, è accompagnato da sofferenza o da incomprensione», aggiunge il Papa.


Il Pontefice sa bene come il ministero sacerdotale non sia privo di problemi o tentazioni. «Nessuno di noi è esente dalle suggestioni del mondo e la città, con le sue mille proposte, potrebbe anche allontanarci dal desiderio di una vita santa, inducendo un livellamento verso il basso dove si perdono i valori profondi dell’essere presbiteri». Da qui il richiamo all’esemplarità. «Ve lo chiedo con il cuore di padre e di pastore: impegniamoci tutti ad essere sacerdoti credibili ed esemplari». E aggiunge: «Al servo è chiesta la fedeltà». Per riprende slancio il Papa suggerisce di lasciarsi «ancora attrarre dalla chiamata del Maestro, per sentire e vivere l’amore della prima ora, quello che vi ha spinto a fare scelte forti e rinunce coraggiose. Se insieme proveremo ad essere esemplari dentro una vita umile, allora potremo esprimere la forza rinnovatrice del Vangelo per ogni uomo e per ogni donna».

L’impegno alla «comunione» è l’altra urgenza che Leone XIV indica. Anche in una Chiesa come quella di Roma dove «le difficoltà non mancano» e dove «sono molteplici le provenienze, le culture e le sensibilità, diversi i modelli formativi con il conseguente lavoro pastorale che qualche volta fa fatica a comporre e a trasmettere una visione unitaria», sottolinea il cardinale Reina. «Camminare insieme è sempre garanzia di fedeltà al Vangelo; insieme e in armonia, cercando di arricchire la Chiesa con il proprio carisma ma avendo a cuore l’essere l’unico corpo di cui Cristo è il capo», avverte il Papa. Ed è lui stesso a dire che oggi la «comunione è ostacolata da un clima culturale che favorisce l’isolamento o l’autoreferenzialità». Ma, oltre al contesto culturale, ci sono anche «alcuni ostacoli per così dire “interni”, che riguardano la vita ecclesiale della diocesi, le relazioni interpersonali, e anche ciò che abita nel cuore, specialmente quel sentimento di stanchezza che sopraggiunge perché abbiamo vissuto delle fatiche particolari, perché non ci siamo sentiti compresi e ascoltati, o per altri motivi». Ecco perché serve far crescere la «fraternità presbiterale che affonda le sue radici in una solida vita spirituale, nell’incontro con il Signore e nell’ascolto della sua Parola».

Il prete è chiamato a calarsi nella realtà e nel quotidiano. Nella sua riflessione Leone XIV denuncia il volto di una società in cui si intrecciano «le violenze che generano morte», «le disuguaglianze», «le povertà», le «tante forme di emarginazione sociale, la sofferenza diffusa che assume i tratti di un disagio che ormai non risparmia più nessuno». Tutto ciò non accade «solo altrove, lontano da noi», ma «anche la nostra città di Roma, segnata da molteplici forme di povertà e da gravi emergenze come quella abitativa». Per questo, citando Francesco, papa Leone esorta: «Una città più vivibile per i suoi cittadini è anche più accogliente per tutti». E conclude richiamando l’«accorato appello» di sant’Agostino, di cui è figlio: «Amate questa Chiesa, restate in questa Chiesa, siate questa Chiesa. Amate il buon Pastore, lo Sposo bellissimo, che non inganna nessuno e non vuole che alcuno perisca».






Mercoledì, 11 Giugno 2025

Sono 2.900 le persone senza dimora e in condizione di povertà che in dieci anni hanno trovato un pasto caldo, cibo di qualità, un sorriso e un’occasione di convivialità e amicizia al Refettorio Ambrosiano del quartiere di Greco, alla periferia nord di Milano. Persone affiancate dalla rete dei servizi di Caritas Ambrosiana. Dunque: non massa indistinta, non meri “utenti”, ma persone ciascuna con un volto, un nome, una storia. Una fame di dignità e di futuro alla quale l’arcidiocesi di Milano ha cercato di dare una risposta con questa realtà avviata nel giugno 2015 grazie all’intuizione dell’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola, che volle il Refettorio quale opera segno della diocesi in occasione dell’Expo di Milano dedicata al tema Nutrire il pianeta, energia per la vita.

Un’opera che coniuga carità, bellezza e giustizia

Questo servizio, gestito da Caritas Ambrosiana, esprime in modo esemplare quella «capillarità del bene» che caratterizza Milano, ha detto l’arcivescovo Mario Delpini intervenendo all’evento organizzato per il “compleanno” del Refettorio. Che è stato concepito come realtà che coniuga carità e bellezza, solidarietà e arte. Al servizio della giustizia. E così ha agito in questi dieci anni, ha ricordato il direttore di Caritas Ambrosiana, Luciano Gualzetti. «Un luogo solidale, dove accogliere gli ultimi offrendo un’alimentazione di qualità. Un luogo dove combattere la fame e la povertà alimentare, e dove lottare – attraverso il recupero delle eccedenze – contro lo spreco del cibo. Un luogo dove accogliere anche anziani soli e altre persone fragili, aperti alle povertà urbane, e per scongiurare inaccettabili guerre fra poveri. Un luogo di bellezza, grazie agli artisti e ai designer che hanno reso bello il Refettorio, e un luogo di cultura grazie ai molteplici eventi qui ospitati», ha ricordato infine Gualzetti. Ecco i numeri che testimoniano questa storia.

Tutti i numeri di una storia di solidarietà

In dieci anni sono stati oltre 260.000 i pasti preparati alla mensa solidale di Greco: di questi, 220.000 erano pasti “ordinari” offerti ai 2.900 commensali “fragili” e oltre diecimila quelli serviti in occasione di 200 eventi benefici. Tutto questo grazie al servizio di uno staff professionale permanente (oggi composto da undici persone e quattro tirocinanti) e di quasi 90 volontari in media all’anno. L’organizzazione dei pasti “straordinari”, offerti a persone senza dimora in occasione delle festività, ha coinvolto inoltre come volontari 260 giovani.

Nei mesi d’agosto di questi anni più di 14.000 pasti gratuiti sono stati serviti grazie al progetto “Il pranzo è servito”, che ha coinvolto 550 anziani rimasti soli in estate a Milano. Altri 9.500 pasti sono stati cucinati con cadenza settimanale per i circa 80 anziani del quartiere di Greco, beneficiari del progetto di socializzazione “Le Querce”, con laboratori e momenti conviviali. Più di 8.200 i partecipanti, in gran parte ragazzi e giovani, ai 213 incontri formativi (sui temi del volontariato, della solidarietà internazionale, della lotta allo spreco e degli stili di vita) dedicati a scuole (155), parrocchie (43) e altre realtà. Più di duemila i lavoratori di 52 aziende coinvolti in 85 giornate di volontariato aziendale.

Così trova energia (rinnovabile) la lotta allo spreco

Circa quaranta, inoltre, le tonnellate di eccedenze alimentari cucinate dopo essere state recuperate dal Mercato ortofrutticolo di Milano e da punti vendita della grande distribuzione. Tutto questo ha fatto da volano alla promozione di un sistema di recupero delle eccedenze che ha permesso di recuperare 1.400 tonnellate di cibo, erogate poi in altre realtà della rete Caritas. Non solo lotta allo spreco alimentare: da giugno 2024, con la fondazione della comunità energetica “SolEdarietà”, sono stati prodotti più di 15 kilowatt di energia rinnovabile grazie ai trenta pannelli fotovoltaici collocati su tetto del Refettorio. Quasi tutti destinati all’autoconsumo.

Ma questo è anche un luogo di cultura e di bellezza. Sono tredici i “tavoli d’autore” per la mensa, ideati da altrettanti designer (e prodotti dall’azienda Riva1920), e sei le opere di artisti contemporanei, ospitate sin dagli inizi nel Refettorio o aggiuntesi successivamente. Su quei tavoli e tra quelle opere, sono state serviti inoltre i piatti di 65 grandi chef, nazionali e internazionali, coinvolti in una serie di eventi durante Expo 2015. E in questi dieci anni sono stati più di 300 gli eventi culturali (spettacoli teatrali, letture dal vivo, “menù della poesia”, “cene monastiche”, conferenze, presentazioni di libri, partecipazioni a festival e rassegne) promossi dall’Associazione per il Refettorio, anche a fini di raccolta fondi per la struttura. Ed è iniziativa coerente con questo stile l’edizione aggiornata, fresca di stampa, di Butta in tavola (Ipl, Milano 2025, 168 pagine, 19 euro), il libro delle ricette del Refettorio, che raccoglie 76 “suggerimenti” dei grandi chef che nel tempo hanno collaborato con la struttura Caritas, ma anche di cuochi, volontari e avventori che la frequentano ogni giorno. Il ricavato della vendita del libro serve a sostenere le attività del Refettorio.

«L’accoglienza si fa pane, la cultura siede a tavola con l’umanità»

All’evento per il decennale, con Gualzetti, altre persone coinvolte nella ideazione e nella nascita del Refettorio. Come monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura e la carità dell’arcodiocesi di Milano. Come don Giuliano Savina, oggi direttore dell’Ufficio nazionale Cei per l’Ecumenismo e il dialogo ma dieci anni fa parroco di San Martino in Greco – il Refettorio è stato realizzato nel cineteatro parrocchiale, che da tempo era inutilizzato. E come Massimo Bottura: «Il Refettorio sin dagli inizi non è un ristorante, non è una mensa – ha affermato lo chef modenese – ma un luogo speciale, dove il recupero delle eccedenze, autentica sfida del nostro tempo, si fa inclusione sociale, l’accoglienza si trasforma in pane, e dove la cultura si siede a tavola con l’umanità».

Un’idea «semplice ma rivoluzionaria». Che ha fatto da apripista ad altri refettori, fondati in altre città del mondo grazie all’organizzazione non profit Food for Soul, alla quale ha dato voce la presidente Lara Gilmore. «Questo luogo in origine era un teatro e in qualche modo lo è rimasto – ha annotato il direttore artistico Davide Rampello –. Qui avviene infatti una rappresentazione di ciò che chiamiamo bellezza: non un mero fatto estetico, ma una sintesi della ricerca che l’uomo fa del vero, del buono e del giusto».

Delpini: tempo di servizi profetici, che costruiscono relazioni

«Lo scandalo dello spreco e, contemporaneamente, lo scandalo di gente che aveva fame, anche a Milano»: è per rispondere a queste sfide che è nato il Refettorio Ambrosiano, ha sottolineato Delpini a conclusione dell’evento. Il Refettorio è il punto d’arrivo di una storia di solidarietà che parte con la soluzione del pacco viveri («che può aiutare, ma in un certo senso è anche un po’ una mortificazione della dignità delle persone») e che ha un’evoluzione nella rete degli Empori solidali di Caritas Ambrosiana (che responsabilizza il beneficiato, permettendogli di scegliere i beni di cui ha bisogno o che preferisce per sé e la sua famiglia) e nelle mense per i poveri (che sono anche luoghi di condivisione e incontro).

E ora? «C’è una nuova parola, oltre pacco, emporio, mensa, refettorio, per combattere quello scandalo? Mi viene in mente un’evoluzione un po’ utopica, ma necessaria: la sala da pranzo, il luogo più bello di una casa, ma soprattutto quello in cui si siede a tavola gente che si conosce. Dobbiamo sempre più puntare – ha suggerito l’arcivescovo – su servizi non solo utili per sfamare bisogni, ma profetici nel costruire relazioni, nello stabilire un senso di appartenenza che condivide una responsabilità. Che spinge a essere grati per il bene che si riceve, e fare a propria volta il bene».

Milano è «sempre più attraente» ma «sempre meno accessibile». E «questa è una tensione difficile da sciogliere», e «c’è da farsi problemi su questa evoluzione della città», aveva detto poco prima Delpini, dialogando con i cronisti a margine dell’evento per il decennale del Refettorio. Tuttavia, aveva aggiunto, «a impressionare è la capillarità del bene che si fa: nelle parrocchie, negli oratori, negli centri d’ascolto, in tante iniziative legate alla Chiesa di Milano e in tante iniziative legate alla gente di Milano, anche laiche. C’è da essere contenti di questa capillarità della solidarietà, della qualità culturale e dell’intraprendenza di Milano». Una «capillarità del bene» che ha nella mensa solidale di Greco un’espressione eloquente e feconda.






Giovedì, 12 Giugno 2025

«Ucraina». Non c’è stato neppure bisogno che i ragazzi di Kharkiv si presentassero. Quando Leone XIV li ha visti ieri mattina sul sagrato della Basilica Vaticana al termine dell’udienza generale del mercoledì con la loro bandiera tenuta fra le mani e sventolata per i pellegrini in piazza San Pietro, li ha chiamati lui stesso. «E ha unito le mani. Volevamo chiedergli che pregasse per noi e per la nostra gente. Ma con quel gesto ci ha subito fatto capire che già lo faceva», spiega padre Andriy Nasinnyk. È il direttore della Caritas greco-cattolica della seconda città dell’Ucraina che ha portato in Italia i bambini della guerra. Trentadue ragazzi, dai 10 ai 17 anni, della regione al confine con la Russia che nelle ultime settimane è sotto costanti bombardamenti di Mosca. Un mese di vacanza, organizzato dai volontari di “Frontiere di pace” della parrocchia di Maccio nella diocesi di Como e dagli “Amici in cordata nel mondo” di Ponte di Legno, che ha avuto inizio davanti al Pontefice. Leone XIV li ha salutati, ha scambiato qualche battuta, li ha ascoltati. E quando gli è stato chiesto di non dimenticare l'Ucraina, lui ha risposto: mai.

«Siamo grati al Papa per il suo sostegno e per averci augurato la pace. Abbiamo bisogno di pace. E al più presto», sospira Tania Bielianinova. Ha 17 anni e viene da Zolochiv, cittadina fantasma dell’oblast di Kharkiv a ridosso della Russia su cui il Cremlino si sta accanendo. Attaccata a tappeto; ridotta in macerie; quasi deserta. E con i soldati russi a pochi chilometri. «Cercano di entrare. Anche ieri hanno bombardato, mi hanno raccontato i genitori. È un inferno». Una situazione che non cambia nell’ex capitale. «La notte prima di partire, sono stati lanciati cinquantacinque droni, quattro bombe radiocomandate e un missile. Una notte di terrore con altri morti e altra distruzione», dice Tania.

A papa Leone i ragazzi hanno portato la loro sofferenza. Come quella di Vitalij Tabaka di 15 anni. Suo padre è un sacerdote e cappellano militare. «Vivo per miracolo – tiene a far sapere –. I russi hanno colpito le linee difensive dove si trovava. Una scheggia gli è finita accanto al cuore. Il soldato al suo fianco è stato ucciso. Lui è salvo per una questione di centimetri e per l’intervento dei medici». «Abbiamo raccontato al Papa l’orrore che viviamo», aggiunge padre Andriy. E indica la grande foto con i volti di Maria Myronenko, 12 anni, e della madre Iryna che hanno mostrato a Leone XIV. «Era la più giovane volontaria dell’équipe che distribuisce gli aiuti umanitari nella Cattedrale greco-cattolica di Kharkiv – riferisce suor Oleksia Pohranychna, religiosa di San Giuseppe, che accompagna il gruppo di giovanissimi –. È morta un anno fa fra le macerie e le fiamme in un centro commerciale centrato da un missile. Una delle diciotto vittime del raid. Desiderava una vacanza in Italia. L’avevamo organizzata anche per lei. Era una ragazzina piena di vita. La follia della guerra ce l’ha portata via».

L’Ucraina guarda con fiducia agli sforzi di papa Leone per far tacere le armi. «Gli siamo sentitamente riconoscenti – sottolinea il direttore della Caritas –. Sta compiendo un passo dopo l’altro. Il mondo è attento alle sue azioni e alle sue parole. Ha persino parlato con Putin. Tutti siamo convinti che con la sua autorità potrà contribuire a fermare i combattimenti e a scrivere una pace giusta, ossia che dia un avvenire sicuro ai nostri giovani». Ad accogliere a Roma il gruppo ucraino sono le famiglie della parrocchia di San Giuseppe da Copertino. «In passato – dice il parroco don Paolo Pizzuti – avevamo ospitato i bimbi di Chernobyl. Oggi il Signore ci chiede di aprire le porte a quanti viene rubata la gioia di vivere dalle bombe». Dopo il soggiorno a Roma i giovani saranno ospitati nella diocesi di Como grazie ai volontari di “Frontiere di pace” fino al 27 giugno. Là vivranno momenti di gioco e anche di incontro con varie parrocchie e comunità. Poi fino al 5 luglio saranno a Ponte di Legno, in provincia di Brescia, e verranno accolti dall'associazione “Amici in cordata nel mondo”.





Mercoledì, 11 Giugno 2025

Nel panorama dei documenti sociali del magistero della Chiesa, «Il fermo proposito», a centoventi anni dalla sua pubblicazione, continua a dimostrare una sorprendente vitalità. Vale la pena chiedersi perché il testo emanato da Pio X l’11 giugno 1905 – seconda Pentecoste del suo pontificato – resti ancora una miniera per chi voglia capire lo snodo decisivo fra il cattolicesimo “in trincea” post-unitario e la stagione dell’impegno laicale maturo. Il Papa, allora appena insediato, prendeva le redini di un Paese in cui vigeva il «non expedit»: ai cattolici era sconsigliato entrare direttamente nella vita parlamentare. Ciò non impedì a Giuseppe Sarto di immaginare una partecipazione più capillare e responsabile, ma senza scorciatoie: «instaurare omnia in Christo» era l’orizzonte, non uno slogan, e la fiducia che lo sosteneva «nella potente grazia di Dio» anticipava l’idea – divenuta corrente solo un secolo più tardi – che la spiritualità viene prima della strategia. Per coglierne la portata bisogna ricordare che, appena un anno prima, l’Opera dei Congressi – l’ombrello sotto cui si erano mossi i cattolici italiani fin dal 1874 – era stata sciolta per logoramento interno e contrasti ideologici. «Il fermo proposito» non si limita a chiudere una fase; apre un laboratorio affidando la “ricostruzione” del Paese a quattro grandi organismi laicali, tra loro autonomi ma vigilati dall’episcopato: Unione Popolare, Unione Economico-Sociale, Unione Elettorale e Società della Gioventù Cattolica. Nel giro di pochi mesi quegli statuti, approvati nel 1906, traghettarono migliaia di militanti verso forme di apostolato che mescolavano catechesi, alfabetizzazione, microcredito agrario e – ironia della storia – un’educazione alla politica capace di preparare il terreno al Patto Gentiloni del 1913.

Il punto meno scontato, e forse più attuale, è nel capitolo centrale dell’enciclica, là dove Pio X definisce l’Azione Cattolica «laica sì, ma dipendente dall’autorità ecclesiastica». L’espressione è stata letta per decenni come il timbro di un controllo verticale; e invece rivela un’idea di corresponsabilità sorprendentemente elastica per l’epoca. La “dipendenza” non è mero obbedienzialismo: significa riconoscere che l’identità ecclesiale precede l’appartenenza di parte, evitando che i circoli parrocchiali si riducano a comitati elettorali o, all’opposto, a salotti spiritualisti. Ne scaturisce quella che oggi chiameremmo “sinodalità di base”, in cui i laici sono protagonisti non perché sciolti da vincoli, ma perché radicati in una casa comune. Di questa intuizione il Mezzogiorno fu banco di prova inatteso. Nel dopoterremoto dello Stretto (1908) i giovani formati nei nuovi gruppi si improvvisarono infermieri, logisti, braccianti solidali: un volontariato ante litteram che dimostrò come la scelta di fede potesse tradursi in “protezione civile”, ben prima che lo Stato elaborasse piani di emergenza. Il filo rosso arriva fino ad oggi, quando, per esempio, i gruppi parrocchiali organizzano corridoi umanitari o doposcuola per migranti: la grammatica è cambiata, la sintassi – servizio gratuito e radicamento ecclesiale – resta quella di Pio X.

Un secondo risvolto poco esplorato riguarda la “politica indiretta”. Mentre proibiva la militanza partitica nazionale, Pio X incoraggiò la partecipazione alle amministrazioni locali, convinto che la democrazia si difende meglio dal basso che dal vertice. Nacquero così le prime liste civiche a trazione cattolica nei consigli comunali; il lessico impiegato dal Pontefice – «promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della patria» – suona ancora come un vaccino contro la tentazione di brandire il Vangelo come clava identitaria.

L’enciclica ebbe anche un contro-canto: due mesi dopo, in agosto, Pio X dovette chiarire con una lettera privata ai vescovi che non si stava abbandonando «le tradizioni gloriose del passato». Segno che il timore di un cedimento al “modernismo politico” era vivo. Oggi quel timore si ripresenta con altri nomi – populismo, tribalismo digitale – e proprio lì «Il fermo proposito» può suggerire un metodo: non l’arrocco, ma il discernimento comunitario prima di ogni endorsement. Per questo, a pochi giorni dall’anniversario, la rievocazione sarebbe sterile nostalgia se non provocasse un esame di coscienza: quanta parte del nostro associazionismo rischia di immobilizzarsi in un’enclave autoreferenziale? Quanto dell’impegno cattolico in politica si riduce a ricerca di visibilità? Pio X non forniva ricette ma un asse portante: «invocare la grazia, organizzare le energie, evitare la dispersione». «Il fermo proposito» non è una reliquia di carta, ma un continuo promemoria: per un cattolico, la fede diventa cultura solo se attraversa i gangli della città…mercati del lavoro, scuole, quartieri periferici, consigli comunali. Il Papa veneto lo scriveva quando il suffragio universale era ancora incompleto e il mondo ecclesiastico rischiava di essere desertificato dal modernismo. Noi lo rileggiamo in un’Italia secolarizzata, con un laicato numericamente ridotto ma non per questo condannato all’irrilevanza. Quel che farà la differenza, allora come adesso, non è la grandezza delle strutture – il clima napoleonico di certe ambizioni ecclesiali è tramontato – bensì la saldatura fra contemplazione e progetto, fra liturgia e cantiere.

L’11 giugno di centoventi anni dopo, dunque, può diventare un appuntamento fertile se il laicato – associazionista o meno – saprà riappropriarsi di quel “proposito” senza deformarlo in mera tattica. Pio X, che non amava i compromessi di maniera, ci ricorderebbe che la restaurazione di «ogni cosa in Cristo» non procede per decreti-legge, ma per conversione personale che diventa tessuto comunitario. E forse proprio questa è la consegna più urgente per la Chiesa italiana alla vigilia di nuove sfide politiche: ritrovare la forza mite di un impegno che non cerca bandiere da issare, bensì ferite da curare. Se accadrà, l’enciclica del 1905 avrà compiuto ancora una volta il suo piccolo miracolo: trasformare la memoria in futuro.





Mercoledì, 11 Giugno 2025

«Il valore sociale della libertà religiosa: un approccio integrale allo sviluppo umano» è il titolo della tavola rotonda che si tiene oggi 11 giugno a Roma, alle 18, presso la sede del Sovrano militare ordine di Malta, in piazza dei Cavalieri di Malta.

Al centro del confronto fra studiosi è il nuovo rapporto dell'Atlantic Council, basato su una conferenza organizzata dall'Atlantic Council stesso, dall'Ambasciata del Sovrano Militare Ordine di Malta presso la Santa Sede, dalla Pontificia Università Urbaniana, dall'Università del Sussex, dall'Università di Notre Dame e dalla John Cabot University, che si è tenuta il 5 giugno 2024 sempre presso la Villa Magistrale dell'Ordine di Malta a Roma.

Il dato di partenza per la discussione è quello emerso nei lavori dello scorso anno: 4,9 miliardi di persone al mondo, 7 su 10, sono impedite nell'esercizio della libertà religiosa e di coscienza.

«La libertà religiosa, come sottolinea il rapporto dell'Atlantic Council - ha commentato Riccardo Paternò di Montecupo, Gran Cancelliere dell'Ordine di Malta - è un potente strumento di motivazione per il progresso umano e per la coesione sociale. In una parola, è una forza motrice dello sviluppo umano integrale. Un concetto che l'Ordine di Malta mette in pratica ogni giorno, sul campo, in modo concreto. Ispirati dai nostri valori religiosi cristiani portiamo infatti servizi umanitari in tutto il mondo, a tutti coloro che ne hanno bisogno, indipendentemente dalla loro identità nazionale, culturale o religiosa».

Alla tavola rotonda a Roma, dopo le osservazioni iniziali di Paternò di Montecupo e di Joseph Lemoine, direttore del Centro per la Libertà e la Prosperità dell'Atlantic Council, intervengono tra gli altri monsignor Daniel Pacho, sotto-segretario per il Settore multilaterale della Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali della Segreteria di Stato, e Rita Moussalem, direttrice del Centro per il dialogo interreligioso del Movimento dei Focolari.

Osservazioni conclusive di Scott Appleby, fondatore della Keough School of Global Affairs della Notre Dame University.






Mercoledì, 11 Giugno 2025

«Un ulteriore frutto del dialogo tra la Santa Sede e le Autorità cinesi». Così la Santa Sede – come ha dichiarato il direttore della Sala Stampa vaticana – ha appreso «con soddisfazione che oggi, in occasione della presa di possesso dell’Ufficio di vescovo ausiliare di Fuzhou da parte di monsignor Giuseppe Lin Yuntuan, il suo Ministero episcopale viene riconosciuto anche agli effetti dell’ordinamento civile». Tale riconoscimento da parte delle autorità civili s’inserisce nel quadro del dialogo relativo all’applicazione dell’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese che è ormai al suo terzo rinnovo per altri quattro anni fino al 22 ottobre 2028, dopo i precedenti bienni del 2020 e 2022.

Papa Leone XIV, proprio «nel quadro del dialogo relativo all’applicazione dell’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese», lo scorso 5 giugno aveva nominato il vescovo Lin Yuntuan come vescovo ausiliare di Fuzhou nella Provincia del Fujian nel sud della Cina, è dunque questa anche la prima nomina riguardante un vescovo cinese che sia stata disposta dall’attuale Pontefice, a meno di un mese dall’inizio del suo pontificato. La cerimonia di ufficializzazione è stata presieduta da vincenzo Zhan Silu, vescovo di Mindong, che lo scorso ottobre aveva partecipato a Roma all’Assemblea del Sinodo dei vescovi. L’Agenzia Fides informa che «durante la cerimonia, il vescovo Lin ha dichiarato la sua adesione alla Costituzione e il suo intento di aiutare tutti a amare la Patria e la Chiesa, per diffondere il Vangelo e favorire l’unità del Paese nell’armonia, seguendo i criteri della “sinizzazione”». Alla cerimonia hanno preso parte anche i rappresentanti della Conferenza episcopale, dell’Associazione patriottica e del Comitato degli Affari religiosi della Provincia ed è stata celebrata poi la Messa, presieduta dal vescovo di Fuzhou, Giuseppe Cai Bingrui, concelebrata da diversi vescovi delle diocesi della provincia di Fujian insieme a circa ottanta sacerdoti e più di duecento religiosi e laici.

Si tratta di un frutto dell’Accordo che, viene sottolineato, costituisce «un passo rilevante nel cammino comunionale della Diocesi». Come spiega il direttore dell’Agenzia Fides, Gianni Valente, «l’ufficializzazione del vescovo Giuseppe Lin Yuntuan quale vescovo ausiliare della diocesi di Fuzhou era un evento atteso nella comunità locale. Finora, le autorità e gli apparati, che fanno capo al governo cinese, non avevano riconosciuto l’ufficio episcopale del vescovo Lin». Giuseppe Lin Yuntuan – riferisce il bollettino della Sala Stampa della Santa Sede – è nato a Fuqing, nel Fujian, il 12 marzo 1952. Dal 1979 al 1983 ha frequentato il seminario diocesano di Fuzhou ed è stato ordinato sacerdote nel 1984. Parroco in diverse parrocchie della diocesi dal 1984 al 2002, ha anche assunto l’incarico di insegnante presso il Seminario diocesano fino a divenire Delegato episcopale, poi Amministratore diocesano, in seguito Amministratore Apostolico ad nutum Sanctae Sedis, ha ricevuto l’ordinazione episcopale nel 2017. Il vescovo Giuseppe Lin Yuntuan era finora un vescovo cosiddetto “clandestino”, cioè non riconosciuto come vescovo dal governo cinese. «Il cammino della comunità ecclesiale di Fuzhou, una delle diocesi più vive e tenaci, è stato segnato negli ultimi decenni da sofferenze e condizionamenti che hanno alimentato anche divisioni» afferma il direttore dell’Agenzia Fides.

«Il precedente vescovo della diocesi morto nel 2020 – scrive Fides – aveva inviato a sacerdoti e consacrate una lettera in cui riferiva di aver accettato il riconoscimento degli organismi che rispondono al governo perché il suo intento era quello di “cercare l’unità” nella diocesi, e dopo l’Accordo Cina-Santa Sede del 2018 e gli “orientamenti pastorali” pubblicati dai Dicasteri vaticani nel 2019 esistevano le “condizioni" per procedere sul cammino della riconciliazione. Il vescovo assicurava che l’atto di ufficializzazione pubblica del suo ministero episcopale era pienamente conforme alla fede confessata dalla Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” e aveva chiesto anche a tutti i battezzati di «vivere in spirito di unità e comunione, percorrendo la via della riconciliazione attraverso l’accettazione e la sopportazione vicendevole, evitando attacchi e giudizi che alimentano la discordia, per essere uno in Gesù Cristo». Oggi, con il riconoscimento da parte delle autorità governative dell’ufficio di vescovo ausiliare Giuseppe Lin Yuntuan, la riconciliazione per la custodia della comunione sacramentale è confermata.





Mercoledì, 11 Giugno 2025

Gesù non ha solo camminato sulle acque, ma sulle acque ha soprattutto predicato. Dal lago di Tiberiade «insegnava alle folle dalla barca» (Luca 5,3). Nella città sull’acqua per eccellenza, Venezia, tre parrocchie del centro storico cercano oggi di imitare il Maestro e trasmettere il messaggio evangelico tra canali, calli e fondamenta.

Ciascuna ha un nome ufficiale: San Pantaleone, San Nicola da Tolentino, Santa Maria Gloriosa. Sono però note ai veneziani con dei diminutivi: San Pantalon, i Tolentini e i Frari. Le tre comunità hanno in comune un unico parroco, il frate minore conventuale padre Giuseppe Magrino, e condividono le stesse sfide pastorali.

La Serenissima vive un cambiamento continuo dovuto all’innalzamento del livello del mare, all’intervento umano sulla laguna, ma soprattutto al mutamento del tessuto sociale.

«Lo spopolamento è la preoccupazione principale, ed è in atto da decenni» dice il parroco. Le isole principali e la Giudecca sono scese sotto la soglia dei cinquantamila abitanti, ed «è sempre più raro trovare giovani famiglie con bambini. Venezia sembra essere una città di studenti universitari e anziani. Oltre che di turisti».

Non tutto il male viene per nuocere: i giovani ci sono, e sono una ricchezza. Ne è convinto don Gilberto Sabbadin, per anni amministratore parrocchiale dei Tolentini e ora responsabile della Pastorale universitaria diocesana. «La realtà universitaria –dice don Sabbadin – qualifica la città. I tanti fuorisede contribuiscono a formare il volto autentico di Venezia». Dal 2021 il mondo degli studenti ruota intorno al Centro scalzi. Immerso nel caratteristico “giardino mistico” dei carmelitani, accanto alla stazione ferroviaria Santa Lucia, dispone di aule studio a disposizione degli universitari e di spazi in cui prendono vita diverse attività. Don Sabbadin ne parla come di «un luogo familiare e di incontro, che promuove le relazioni e il confronto fuori dalle dinamiche e dai ruoli di ateneo, tenendo al centro la persona e la ricerca del vero».

I parrocchiani, soprattutto anziani, osservano l’andirivieni dei giovani dal Centro, e sono affascinati - quasi contagiati - dal clima di condivisione che vivono. Si sentono incoraggiati a non isolarsi, ma ad avere un ruolo nella vita fraterna, che non si vive unicamente nella sede della Pastorale universitaria, ma anche nelle tre Case studentesche che ospitano quasi 250 giovani. «Le strutture diocesane di Casa Catecumeni, Santa Fosca e San Michele – prosegue il responsabile della pastorale universitaria diocesana – offrono la possibilità di evitare l’individualismo e di percepirsi in relazione ad altri. I ragazzi si incamminano verso la vita adulta a partire dal registro comunitario e fraterno».

La Pastorale universitaria ha portato in laguna un vento di novità, vivacizzando la fede dei credenti. Quel vento continua a soffiare e porta le parrocchie del centro a vivere una fase di ridefinizione, territoriale e pastorale.

«Le comunità di San Pantalon, dei Tolentini e dei Frari stanno cambiando volto – spiega il “triparroco” padre Magrino – a partire dalla programmazione delle celebrazioni». É impensabile che ogni parrocchia abbia un identico calendario di attività. La diminuzione dei sacerdoti in attività e il calo della partecipazione dei fedeli richiede una nuova visione, che guardi il mondo con gli occhi di una fede matura. Così «pur in un cammino unitario, ciascuna delle tre comunità acquisisce una fisionomia specifica». I fedeli lo hanno sperimentato nella Quaresima appena trascorsa. Le liturgie penitenziali e l’Unzione degli infermi si sono tenute a San Pantalòn, e hanno richiamato anche i parrocchiani dei Frari e dei Tolentini. Padre Giuseppe assicura che «l’identità delle singole parrocchie non viene appiattita, ma è anzi rivitalizzata nell’ottica dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco». Gli orizzonti di ciascuna delle tre comunità si sono ampliati e i confini si sono dilatati. Questo ha portato a una «condivisione delle responsabilità, non esente da sforzi». La Chiesa universale è pellegrina nel mondo, e lo sono anche le tre parrocchie veneziane. Il sacerdote francescano non va tanto per il sottile e riconosce che «peregrinare costa fatica, richiede determinazione e impone sacrifici, anche fisici: per una persona anziana raggiungere una chiesa più distante rispetto alla propria può non essere immediato». La parrocchia però «non è la chiesa dove si assiste alla Messa. Né tantomeno un club. É una famiglia nata per essere significativa per il territorio». Se questo cambia, deve mutare anche l’approccio di tutti coloro che ne fanno parte.

Ricco della sua esperienza parrocchiale nel centro storico e ora di quella della Pastorale universitaria, don Gilberto Sabbadin fa eco al confratello e riconosce l’importanza del ridisegno della geografia parrocchiale veneziana. «C’è parrocchia se c’è vita comunitaria. Questa o quella parrocchia – si interroga don Sabbadin – riesce a offrire una vita di comunità? Ha lo sguardo attento a chi vive il territorio?. Se questo è il criterio, i nuclei parrocchiali devono essere pronti a un ripensamento, che non è soppressione, ma rilancio e attualizzazione».





Giovedì, 12 Giugno 2025

C’ero anch’io tra le decine di migliaia di persone che sabato hanno animato la veglia di Pentecoste in occasione del Giubileo dei movimenti, delle associazioni e delle nuove comunità. Il ricordo più vivo che conservo nel cuore è quello di Piazza San Pietro come un grande giardino fiorito: il giardino dei carismi, dove ogni gruppo portava la sua sensibilità, la sua storia, le sue canzoni. Modalità originali con cui esprimere la medesima fede e rendere testimonianza dei doni elargiti dalla Spirito Santo. È stata una festa di popolo, il popolo della Chiesa. Ricco nella sua diversità, stretto attorno a Leone XIV visibilmente a suo agio nel bagno di folla in cui si è immerso prima di prendere la parola.

Come aveva fatto il giorno prima incontrando i responsabili delle aggregazioni ecclesiali, il Papa ha indicato nell’unità e nella missione due parole-chiave per cominciare a leggere il suo pontificato: «Non molte missioni, ma un’unica missione. Non introversi e litigiosi, ma estroversi e luminosi. Questa piazza San Pietro, che è come un abbraccio aperto e accogliente, esprime magnificamente la comunione della Chiesa, sperimentata da ognuno di voi nelle diverse esperienze associative e comunitarie».
Unità e missione: due termini che potrebbero essere ridotti al vocabolario stantio e (sempre più) ininfluente dell’ecclesialese, e che invece portano dentro di sé una ricchezza e un carico di novità da offrire a tutti, specialmente in un’epoca confusa e fluida come quella che stiamo attraversando. Abitiamo un mondo frammentato e diviso, popolato da guerre e devastazioni, siamo alle prese con una società che fa i conti con la crisi più lancinante, quella del significato dell’esistenza.

In un contesto dove l’umanità sembra avviata a un declino che appare inarrestabile, qual è il contributo originale che i cristiani possono portare? È la testimonianza – personale e comunitaria – del tesoro che hanno incontrato e che ha cambiato la loro esistenza. Di quel tesoro è custode la Chiesa con il suo magistero, che per raggiungere uomini e donne a ogni latitudine e in ogni contesto necessita di uomini e donne che vivendo immersi nella contemporaneità la fecondino con i semi del Vangelo. Per questo, ha ricordato il Papa sulla scia dei suoi predecessori, istituzione e carisma sono coessenziali alla vita della Chiesa: la certezza di camminare sulla strada tracciata da Pietro deve andare insieme all’ardimento di chi si tuffa nel mondo portandovi l’energia di una fede che non teme il confronto con la modernità.

Missionari per vocazione, non perché titolari di particolari capacità. In questi anni, grazie al dinamismo dei movimenti e delle nuove aggregazioni, tante persone (tra cui non a caso molti giovani) hanno incontrato una speranza che non delude – quella che dà il titolo al Giubileo che stiamo vivendo –, riconoscendo nel volto di Cristo la risposta alle loro attese più profonde. In un’epoca che propone surrogati di felicità e ricette fallaci, incapaci di vincere la crisi di senso che l’attanaglia, cosa abbiamo di veramente originale da offrire ai nostri fratelli uomini se non l’attrattiva che ha suscitato in noi l’incontro con quel volto? Nel giardino dei carismi crescono piante che hanno portato buoni frutti. È saggio continuare a coltivarlo, per il bene della Chiesa e del mondo.





Mercoledì, 11 Giugno 2025

Con un lessico da spaghetti western si direbbe che Carlo Acutis, il beato milanese morto nel 2006 all’età di quindici anni per una leucemia fulminante, abbia conquistato l’America. Nell’ultimo anno, decine di migliaia di statunitensi, in oltre mille proiezioni in tutto il Paese, hanno ripercorso la sua vita nel film “Carlo Acutis: la via al reale”, diretto da Tim Moriarty e ora disponibile in tutto il mondo sulla nuova piattaforma Credo. Per 90 minuti la pellicola si muove lungo due binari narrativi: quello del beato, dipinto dalle testimonianze dei suoi amici, e quello di un gruppo di studenti statunitensi in viaggio verso Assisi, dove si trovano a pregare sulla tomba di Carlo Acutis. Il fil rouge tra i due piani, secondo il regista, sarebbe nelle domande che milioni di adolescenti ancora rivolgono al beato: «I giovani soffrono di dipendenza dalla tecnologia – racconta Moriarty ad Avvenire – spesso sono isolati, appiccicati ai loro schermi, da cui traggono un profondo disagio. Ma Carlo, il santo di internet, ci insegna a rimanere connessi alla realtà anche in un ambiente digitale che ci vuole intrappolare. Il film ha tentato di raccontare anche questo».

Tim Moriarty, non siamo abituati a vedere oltreoceano un’attenzione così diffusa per un adolescente italiano, che ancora deve essere proclamato santo. Lei si ricorda quando ha sentito parlare di Carlo Acutis per la prima volta?

Certo. Era il 2020 e lo stavano beatificando, ma ancora non sapevo molto di lui. Ne avevo sentito parlare su qualche notiziario cattolico: ho pensato che fosse una bella storia ma non mi sono soffermato sui dettagli. Le cose sono cambiate l’estate scorsa.

Cosa è successo?

Che ho incontrato la madre di Carlo. La signora Salzano stava facendo un vero e proprio tour negli Stati Uniti, quando si è fermata a Beaumont, in Texas, dove il vescovo David Leon Toups aveva intitolato una cappella ad Acutis. Fu la prima volta che la incontrai ma, più di quel che disse lei, mi stupì la platea: era piena di giovani che dicevano che Carlo fosse il loro santo preferito. Lo conoscevano tutti.

Quando è nata l’idea del film?

A dire il vero, non è mia. Un benefattore ce lo chiese in Texas, sempre l’estate scorsa, dopo aver visto un documentario che avevamo girato sull’Eucarestia. Anche quello ebbe un successo straordinario: il terzo documentario per incassi negli Stati Uniti. Fu una sorpresa, ma ci fece capire l’attenzione che c’è per questi temi. Insomma, questa persona, la stessa che costruì il campo estivo dove si trova la cappella intitolata a Carlo, ci chiese il film. E la madre di Acutis ci diede lo spunto per il tema.

Ovvero?

Quando le parlai, fu molto chiara sul fatto che Carlo fosse esperto di tecnologia e digitale, come è noto. Ma ci descrisse anche la sua moderazione nell’uso dei media digitali e la convinzione che potessero essere strumenti potenti, ma anche in grado di nascondere pericoli. È stata una prospettiva interessante per noi: ci siamo chiesti non tanto come girare una biografia, ma cosa avesse da dire la vita di Carlo ai giovani di oggi, che continuano a raccontarci di come soffrono per la dipendenza dalla tecnologia. C’è una frase di Gilbert Keith Chesterton che spiega bene la nostra sensazione: “Ogni generazione è convertita dal santo che più la contraddice”.

Presentando il film, ha parlato di “ferita collettiva” dei giovani. A cosa si riferisce?

Negli Usa uno studio ha dimostrato che circa il 42% dei giovani riferisce di provare persistenti sentimenti di depressione e disperazione. Questo significa che quasi la metà dei giovani sotto i 18 anni sta lottando con se stessa. Perciò, credo che la storia di Carlo abbia una eco che va oltre il pubblico cattolico: riusciva a resistere a molte delle pressioni del mondo esterno, che possono distorcere il nostro senso di realtà e finire per lasciarci in uno stato di tristezza o depressione. Molti hanno portato al cinema amici non cattolici, che hanno detto di essere stati toccati profondamente da questa storia che parla del nostro rapporto con la tecnologia. Non è un caso che il nuovo papa Leone XIV, americano anche lui, abbia subito iniziato a parlarne. Speriamo che riveli già a giugno la nuova data della canonizzazione.

Trova un legame tra i due?

Oggi, come ha detto il Pontefice, viviamo nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Che può essere una risorsa, ma anche una minaccia alla dignità umana. Carlo Acutis non l’ha vista nascere, ma aveva capito che la tecnologia, pur pericolosa, si può redimere tentando di sovvertire il modo con cui gioca con la nostra attenzione e ci distrae dalla realtà.





Martedì, 10 Giugno 2025

Pastore mite e capace di dialogo con tutti. È il ritratto che emerge della figura del vescovo emerito di Lanusei Antioco Piseddu scomparso l’8 giugno a 88 anni a Cagliari. Avrebbe compiuto 89 anni il prossimo 17 settembre.

«Con dolore e nella preghiera comunico che oggi, solennità di Pentecoste, monsignor Antioco Piseddu, nostro vescovo emerito, ha concluso la sua vita terrena dopo alcuni giorni di particolare sofferenza – ha scritto la sera di Pentecoste monsignor Antonello Mura, successore di Piseddu a Lanusei, che è anche vescovo di Nuoro e presidente dell’episcopato sardo –. Ognuno di noi, oltre al suo servizio episcopale nella diocesi, ha un ricordo personale, un gesto o una scelta che può ricordare ora come benedizione, come volontà di Dio che si è manifestata attraverso il suo ministero. Prego con voi perché ora l’amore di Dio e la sua misericordia lo consegnino alla vita piena e senza fine».
Classe 1936, è stato ordinato presbitero nel 1960 dall’arcivescovo Paolo Botto, ha iniziato il suo ministero come viceparroco a Monserrato e insegnante di religione al liceo Siotto Pintor di Cagliari. Negli anni successivi ha ricoperto incarichi significativi, tra cui quello di segretario del cardinale Sebastiano Baggio e, successivamente, di parroco della Collegiata di Sant’Anna nel quartiere Stampace.
Eletto vescovo della diocesi dell’Ogliastra il 29 settembre 1981, ha ricevuto l’ordinazione episcopale l’8 novembre dello stesso anno. Ha guidato la Chiesa ogliastrina per oltre trent’anni (1981-2014), promuovendo numerose iniziative pastorali e culturali, tra cui la fondazione del Museo diocesano, aperto al pubblico il 1º maggio 1992. Studioso appassionato delle radici cristiane della Sardegna, Piseddu ha dedicato ricerche e pubblicazioni alla figura di san Giorgio di Suelli, primo vescovo dell’antica diocesi, ottenendo nel 2016 la cittadinanza onoraria del Comune di Suelli. Toccante il ricordo dell’arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei Giuseppe Baturi: «È stato un pastore mite, profondamente radicato nella storia e nella spiritualità della nostra terra. La sua vita è stata segnata da un amore profondo per la Chiesa, da una cultura solida e da una passione autentica per l’annuncio del Vangelo».
Due i momenti dedicati all’ultimo saluto per il vescovo Piseddu. Mercoledì 11 giugno alle 11 nella chiesa parrocchiale di Sant’Anna a Senorbì, il paese della diocesi di Cagliari dov’era nato, le esequie celebrate da monsignor Baturi. Domenica 15 poi monsignor Mura ricorderà il suo predecessore celebrando la Messa diocesana di suffragio alle 19 nel santuario diocesano di Lanusei.






Martedì, 10 Giugno 2025

L'Anno giubilare sia occasione per una "conversione" degli imprenditori agricoli che sfruttano i lavoratori anche attraverso il sistema del caporalato: l'appello è arrivato oggi con il Messaggio inviato dai vescovi italiani in vista della 75ª Giornata nazionale del ringraziamento, che si celebrerà il prossimo 9 novembre. Una ricorrenza che da sempre mette al centro in particolare il mondo agricolo con le sue ricchezze e le sue criticità.

“Giubileo, rigenerazione della terra e speranza per l’umanità” è il tema scelto per il 2025. Ed è proprio il riferimento all'Anno Santo ad aprire la riflessione della Commissione episcopale Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace, che firma il messaggio. Il significato dell'Anno Santo, le cui radici affondano nell'Antico Testamento, come nota il messaggio citando l'enciclica Laudato si' di Francesco, sta nell'invito a riscoprire e rispettare i ritmi «inscritti nella natura dalla mano del Creatore». A partire dal senso del sabato, da sempre tempo di riposo che scandisce il flusso del lavoro come attività chiamata a collaborare con l'opera creatrice di Dio. Riposo che riguarda non solo i lavoratori ma anche la terra stessa. «La celebrazione del Giubileo ci insegna ad essere grati per i doni che riceviamo e a non dimenticare mai che la terra è di tutti», notano i vescovi.

L'Anno Santo, d'altra parte, fa emergere alcune istanze che interpellano le responsabilità di tutti, a partire proprio dal senso del riposo: «Recuperare il senso del Giorno del Signore, che ci vede riuniti per celebrare l’Eucarestia, e del riposo da ogni tipo di lavoro, anche quello agricolo, permette ai cristiani di vivere e di far vivere nelle proprie aziende un tempo nel quale possono costantemente guardare i beni della terra con gratitudine e coltivare meglio le relazioni familiari e con le proprie comunità».

E poi l'attenzione dei vescovi si concentra proprio sui lavoratori vittime del caporalato e a chi li sfrutta: «Dona speranza la restituzione di dignità che scaturisce dall’anno sabbatico, perché ci fa volgere lo sguardo a tanti fratelli, soprattutto immigrati, che vengono sfruttati nel lavoro dei campi, che non sempre si vedono riconosciuto il giusto salario nel triste fenomeno del caporalato, forme di previdenza, tempi di riposo».

L’Anno Giubilare, aggiunge la Cei, »viene anche perché gli imprenditori agricoli che trattano in questo modo gli operai abbiano un sussulto di coscienza e donino speranza a tanti uomini e donne continuamente sfruttati».

Infine, due appelli particolare al rispetto di «quei viventi che sono coinvolti nelle varie attività», ovvero gli animali: anche per essi, sottolinea il messaggio, «siamo richiamati a una giusta attenzione al benessere, evitando di farne meri strumenti al nostro servizio». Parole cui si aggiunge in chiusura l'invito a mettere a frutto «un nuovo paradigma di coltivazione», che metta insieme l'attività agricola con la cura della casa comune, il creato: «Questa nuova visione dell’agricoltura - chiedono i vescovi - deve basarsi su pratiche agro-ecologiche che valorizzino la terra senza sfruttarla oltre misura, rigenerando la fertilità e salvaguardando l’ambiente e la salubrità dei prodotti alimentari».





Martedì, 03 Giugno 2025

Da Pietro a Paolo. Nel secondo episodio di Roma Felix, Stefania Falasca e Giuseppe Matarazzo ci conducono sulle tracce dell’altro principe di Roma, l'apostolo Paolo, sin dal suo arrivo, in catene, nella primavera dell’anno 61.

Fino a quel momento la missione di Paolo era stata un vero ciclone per tutto il Mediterraneo. Dopo tre lunghi viaggi verso la Grecia e l’Asia Minore, peripezie e fughe rocambolesche, giungeva ora prigioniero nella Capitale per essere processato davanti al tribunale di Cesare, al quale egli stesso, come cittadino romano, si era appellato, dopo che alcuni giudei a Gerusalemme lo avevano accusato di oltraggiare la legge di Mosè. Dalla via Appia, in compagnia del discepolo Luca, e sotto custodia del centurione Giulio, Paolo entra nella Città eterna.

A Roma regna il caos. Ci sono cantieri aperti e traffico di bighe e carri ovunque. Un milione di persone di tutte le razze e lingue: è la Roma di Nerone, che sta facendo costruire la sua prima enorme reggia, la Domus transitoria, tra il Palatino e l’Esquilino. È una Capitale magnifica nei suoi monumenti e nelle sue fastose dimore, ma misera nei densissimi quartieri popolari fatti di case in affitto separate da stretti vicoli. È qui che l’apostolo arriva in catene. E come Pietro, anche Paolo ha lasciato l’impronta del suo passaggio.

Ed ecco la casa in riva al Tevere dove risiedeva in “custodia militaris” e i luoghi delle sue predicazioni (lì dove si trova oggi la chiesa di San Paolo alla Regola) e del martirio fino alla tomba sulla via Ostiense, nella Basilica papale di San Paolo fuori le mura.

È intervenuto: Fra Calogero Favata, rettore della Chiesa di San Paolo alla Regola, Roma. Le parole di Benedetto XVI per la chiusura dell’Anno Paolino, 28 giugno 2009 (Vatican Media).

Di Stefania Falasca con Giuseppe Matarazzo, il progetto "Roma Felix" è stato realizzato da Avvenire con il supporto di Italo. Testi tratti dall'omonima serie, scritta da Stefania Falasca e pubblicata su Avvenire. Disponibile ogni martedì su Avvenire.it, tutte le piattaforme audio e Italo, ha visto la collaborazione di Alessandro Saccomandi e Chiara Vitali (per la cura editoriale) e Massimo Dezzani (grafiche), insieme a Daniele Bertinelli (sound design).






Martedì, 10 Giugno 2025

Padre Antonio Spadaro ha avviato alcuni mesi fa un’interessante riflessione sulla necessità di un cambio di passo della teologia. La tempesta sedata è l’allegoria scelta per descrivere l’approccio proposto: viviamo nella condizione in cui «ciò che prima valeva a spiegare il mondo, le relazioni, il bene e il male, adesso sembra divenuto inservibile. Pare probabile che quanto ci pareva normale della famiglia, della Chiesa, della società e del mondo non tornerà più come prima». Occorre accettare il rischio di cavalcare le onde, «le trasformazioni culturali e sociali che oggi si sono acuite, ma anche le nostre paure [...] La teologia, dunque, deve farsi carico di pensare le onde, oltre che le rive di approdo, di gettarsi nelle rapide e di pensare rapidamente».

Le indagini sullo stato di salute della Chiesa e dei credenti, da Marco Marzano nel 2012, a Franco Garelli nel 2020 fino a Luca Diotallevi nel 2024, denunciano il ritardo della teologia dal tempo attuale e richiamano all’urgenza di un cambiamento di rotta. Se fossimo in politica, quella di Antonio Spadaro si potrebbe definire una posizione movimentista e, di conseguenza, sarebbe bilanciata dal richiamo di Bruno Forte e Giuseppe Lorizio alla scientificità della teologia e alla necessità naturale di luoghi adatti («L’accademia, la biblioteca, l’aula, la cattedra») in cui svilupparla. La discussione sembra avviarsi verso un vicolo cieco, un’aporia invincibile.

La difficoltà, a mio avviso, risiede nell’aver focalizzato l’attenzione sulla capacità della barca e del suo capitano nell’affrontare le onde, cioè nella preoccupazione esclusiva di costruire una teologia solida e coerente, ma inutilizzabile da chi ne dovrebbe beneficiare. Questo, a ben guardare, è l’invito alla sapidità richiesta da Giuseppe Marco Salvati o, riprendendo il riferimento culinario di Lorizio, chiedersi se questa teologia sia un cibo che sfama quanti soffrono per la mancanza di una parola di speranza che dia senso e significato alla loro esistenza. La parabola del samaritano misericordioso mi aiuta a fare maggiore chiarezza.

Il viandante mezzo morto costituisce un problema morale per il levita e il sacerdote, figure apicali del Tempio, che non vogliono correre il rischio di diventare impuri per l’eventuale contatto con un cadavere. Il samaritano, prontamente e rapidamente, assiste il moribondo accettando il pericolo dell’impurità. Un caso ancor più significativo è rappresentato dall’emorroissa: essa, alla notizia del passaggio di Gesù, infrange rapidamente la legge di niddah, che prevedeva l’isolamento della donna mestruata a causa della trasmissibilità della sua impurità a chiunque l’avesse toccata o fosse stato toccato da lei o dalle cose da lei usate. La donna, invece, si fa largo nella folla e addirittura tocca Gesù! La Torah, come per noi in qualche modo la teologia, insegna ad amare Dio e a non peccare ma, talvolta, impedisce di fare il bene. Il samaritano accetta il rischio del peccato pur di compiere il bene e l’emorroissa, dopo aver assolto la Legge come previsto, finalmente guarisce disubbidendo proprio a quella stessa Legge che aveva scrupolosamente osservato.

La teologia lenta prende le mosse dalla convinzione di poter valutare la qualità della vita morale osservando quante volte le regole sono state seguite o infrante. Al contrario, come dice Timothy Radcliffe, la Chiesa dovrebbe essere con i peccatori, senza rimproverarli di stare dove non dovrebbero essere. Dovunque essi siano, in qualsiasi situazione, quello è il punto di partenza del viaggio verso Dio. Cominciare da dove ci si trova. In qualsiasi situazione caotica, è possibile raccontare una storia che le dia un senso, una storia che conduca al Regno. La teologia dovrebbe aiutare questo lavoro di dialogo e incontro.

Non auspico l’abolizione della teologia lenta né incito alla ribellione, ma invito anch’io, come altri prima di me, alla lettura del giornale. Karl Barth affermava che «è necessario che tra la Bibbia e il giornale, come tra i due poli di un arco elettrico, comincino ad accendersi lampi di luce per rischiarare la terra». Se è pur vero che si condanna il peccato e non il peccatore, è altrettanto vero che per troppo tempo ci si è preoccupati di valutare il peccato ignorando le condizioni del peccatore, di additare il peccato dimenticando di denunciare lo stato di povertà ed emarginazione in cui vive il peccatore.

Voglio affermare che gran parte dell’attuale teologia nasce in un’epoca che si sta eclissando per l’apparire della società digitale. La teologia rapida, sapida, è una teologia che sa dialogare con l’altro abbandonando le posizioni fondamentaliste, dove esiste un solo linguaggio per dare qualsiasi risposta, e quelle apologetiche, dove ogni «problema è riportato alla sua radice di peccato, all’accusare le persone di stare in una condizione dove non dovrebbero stare e che l’unica soluzione possibile è abbandonare quella condizione per entrare in una nuova dimensione di continua purificazione per giungere nella virtuosità desiderata», come scrive Radcliffe.

Oggi abbiamo bisogno sia di capitani coraggiosi che sappiano affrontare la violenza del mare, sia di salvatori che si gettino «nelle acque agitate, nell’enorme rapida che travolge il mondo, per nuotare controcorrente. Nuotare non da soli, ma insieme alle donne e agli uomini di buona volontà, laici o ministri di qualsiasi culto, con lo scopo di raggiungere, costruire, luoghi dove regna la giustizia e la fratellanza», come ha ben scritto Salvatore Nata.

Per dare concretezza a quelle che possono essere facili teorie, porto il caso dell’Intelligenza Artificiale. Giustamente la Chiesa ne parla perché è coinvolta la dignità della persona e la Chiesa ha visioni e argomenti da portare. Eppure il suo focus è sulla morale, sostiene l’etica degli algoritmi e pretende dalla computazione il comportamento virtuoso che non riesce ad avere dalle persone. Se tutto è connesso, dovremmo preoccuparci anche dell’impatto ecologico dell’IA, delle nuove condizioni sociali che crea, della digitalizzazione forzata di società tecnologicamente non avanzate, delle condizioni di lavoro e di non lavoro che determinano, dei germi della nuova società che sta nascendo.

La teologia rapida deve saper guardare avanti e offrire orientamenti per il mondo che verrà.

Docente di Teoria dei media digitali Issr Mater Ecclesiae - Angelicum






Martedì, 10 Giugno 2025

Un amico monsignore mi stringe la mano e dice: «Coraggio! È la prima volta che una religiosa tiene la meditazione davanti al Santo Padre e a tutta la Curia Romana». Così mi trovo improvvisamente in cima alla gradinata dell’Aula Paolo VI, ieri mattina al Giubileo della Santa Sede, proprio sotto il grande Cristo di Pericle Fazzini che ascende al Cielo dal giardino degli Ulivi, portandosi dietro a sé tutta la creazione. Immaginavo di vedere il Santo Padre dietro di me, invece eccolo lì, già seduto ai piedi degli scalini con quella sua attitudine piena di solenne modestia. Due cose normalmente opposte ma che in papa Leone XIV – eletto proprio un mese fa, l’8 maggio – trovano una sintesi incredibile. Vedo questa porzione di Chiesa che mi abbraccia con lo sguardo e ne percepisco tutta la grandiosità e la fragilità insieme.

Inizio a parlare: «Come possiamo noi oggi, in questa nostra Chiesa, tenere viva questa tensione fra passato e futuro? L’equilibrio fra passato e futuro è la grande radice della Speranza. Rischiamo oggi di vivere nella nostalgia di un passato che non è più, e che sfocia in un tradizionalismo spesso scollegato dal presente, oppure di correre verso un futuro che ancora non c’è, cadendo in un futurismo illusorio, incapace di offrire reali soluzioni alle sfide del presente. Il passato, in verità, con i suoi dolori e le sue glorie, può rappresentare un grande trampolino di lancio per vivere nella giusta tensione il presente» Cito il figlio prodigo ritratto da De Chirico. L’artista si identifica nel figlio-manichino. L’uomo self-made che si lascia alle spalle il paesaggio mediterraneo per correre verso la rossa Ferrara, rossa nei monumenti e nelle avanguardie. Qui accade l’inusitato: il padre, ritratto come in una statua greca, lascia il suo piedistallo e gli corre incontro.

«Sì – continuo –, il passato ci viene incontro con le sue interrogazioni, non per farci soccombere ma per rilanciarci nel presente, guardando al futuro con speranza. Anche noi, molto più del giovane de Chirico, viviamo in un mondo in corsa dove il progresso può essere una grande risorsa, ma anche un grande pericolo. Un mondo dove le opportunità derivanti dai mezzi di comunicazione sociale stanno plasmando nuove forme di vita socio-culturali. Attenzione però: i mezzi vanno visti come tali e richiedono, pertanto, che il fruitore non rinunci alle sue radici, che non si getti in una corsa verso un non-si-sa-dove ma sappia ben orientarsi poiché, come scrisse sant’Agostino, “non si corre come si deve se s’ignora dove si deve correre” (cfr La perfezione della giustizia dell’uomo 8.19)».

L’applauso mi sorprende. Devo controllare le lacrime di emozione per riprendere a parlare. « La nostra fondatrice, la beata Maria Maddalena dell’Incarnazione – proseguo –, scrisse che le ultime parole di un uomo santo sono quelle più importanti da ricordare; quelle che fondano la speranza di chi resta. Così le ultime parole di Cristo furono quelle dell’Ultima Cena. Egli collegò la fede nel Padre e la speranza della vita eterna alla carità fra noi. La speranza dunque è intimamente connessa al grande anelito di Gesù: che tutti siano Uno». Prima di giungere a Roma ho fatto sosta ad Assisi, davanti al crocifisso di San Damiano ho consegnato questo momento. Sono risuonate in me le stesse parole dette a san Francesco, ma con un altro timbro: “la Bellezza riparerà la mia Chiesa!”. Davvero la bellezza della croce, la bellezza ferita dall’esperienza, ci salverà. Così ho ricordato il Principe Myskin di Dostoevskij che di fronte al Cristo morto di Holbein, già in necrosi, si domanda: quale bellezza salverà il mondo? Una frase spesso citata malamente. Quello di Dostoevskij infatti è un drammatico interrogativo: «Quale bellezza ci salverà? La bellezza della croce salverà il mondo? La bellezza della sconfitta? Sì, la croce ancora ci può salvare, una croce accolta e offerta. Questa grande bellezza perdente ci salverà».

Il mio tempo giunge alla scadenza, desidero porre tutti nel cuore di Maria, madre della Chiesa di cui ricorre la memoria. Evoco così la Madonna di Port Lligat di Salvador Dalì. Una Madonna che sotto un arco in rovina ostende il Figlio Infante. Madre e figlio hanno il ventre a forma di porta: sono loro il grande giubileo della salvezza. Sì, Maria, Madre della Consolazione e della Speranza prega per noi. Un grande applauso chiude la meditazione, anche papa Leone applaude, il suo volto disteso mi incoraggia: sì, davvero la Bellezza ferita di questa Chiesa di Cristo ci salverà.





Lunedì, 09 Giugno 2025

Il sito di informazione Vatican News ha rimosso i disegni e le opere attribuite al mosaicista e sacerdote Marko Rupnik, l'ex gesuita accusato di abusi.

Le immagini digitali dell'arte sacra del sacerdote sloveno, spesso utilizzate dal sito di informazione vaticana per illustrare gli articoli sulle feste liturgiche della Chiesa erano già state eliminate gradualmente e ora sono state sostituite anche le ultime rimanenti. Dopo avere eliminato le immagini dei mosaici o dei dipinti che accompagnavano la sezione liturgica, infatti, questo pomeriggio Vatican News ha sostituito anche l'immagine che introduce alle catechesi di don Fabio Rosini, finora accompagnate dai disegni di Rupnik ripresi dalla cappella del Seminario in Laterano.

Padre Rupnik, espulso dalla Compagnia di Gesù nel giugno 2023 per il suo «ostinato rifiuto di osservare il voto di obbedienza», è accusato da circa due dozzine di donne, per lo più ex suore, di abusi spirituali, psicologici e sessuali che, a loro dire, si sono verificati negli ultimi tre decenni.

Proprio in seguito a questa vicenda il 31 marzo scorso il Santuario di Nostra Signora di Lourdes in Francia ha annunciato la decisione di coprire i mosaici di Rupnik che si trovano all'ingresso della Basilica di Nostra Signora del Rosario.

L’invito a non usare le immagini delle opere di Rupnik era stato lanciato l’anno scorso dal presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, il cardinale Sean O’Malley, che proprio nei giorni scorsi è stato ricevuto, assieme ai membri della Commissione in udienza da Leone XIV. L'invito del porporato ha portato via via all'eliminazione delle immagini delle opere d'arte di Rupnik da tutte le sezioni del sito vaticano.

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Lunedì, 09 Giugno 2025

C’è un indagato nel fascicolo aperto dalla Procura di Perugia per la vendita online delle reliquie di Carlo Acutis, il beato milanese morto a quindici anni nel 2006 per una leucemia fulminante. A segnalarlo è il Corriere dell’Umbria, che parla di un uomo residente in Emilia-Romagna accusato ora di ricettazione. La polizia sarebbe entrata in casa sua nelle settimane scorse, con un decreto di perquisizione, per cercare la presunta reliquia: alcuni capelli del ragazzo, di cui a breve dovrebbe essere annunciata la data della canonizzazione, messi all’asta (e presumibilmente venduti) su internet.

A dare avvio alle indagini, a marzo, era stata la denuncia del vescovo della diocesi di Assisi-Nocera Umbra-Gualdo Tadino, Domenico Sorrentino, che aveva chiesto l’immediato sequestro degli annunci trovati online. Sul traffico di reliquie, all’indomani della denuncia, il presule aveva dichiarato ad Avvenire che, «se anche si trattasse di un’invenzione, saremmo in presenza, oltre che di una truffa, anche di una ingiuria al sentimento religioso». Da quel giorno, la Procura guidata da Raffaele Cantone, con un fascicolo assegnato al sostituto Gennaro Iannarone, si è mossa su due binari: prima, ha tentato di interrompere il traffico delle reliquie sul web; poi, ha rintracciato l’indirizzo digitale di chi aveva pubblicato l’annuncio – terminato con l’aggiudicazione dei capelli di Acutis per 2.110 euro dopo 17 offerte – e lo ha associato alla persona residente in Emilia-Romagna.

Al momento, la Procura di Perugia non ha dichiarato di aver compreso se la reliquia sia mai esistita o meno. Se, cioè, l’annuncio fosse reale o fosse una truffa: in casa dell’indagato non sarebbe stato trovato niente. Il vescovo Sorrentino, al momento della denuncia, aveva precisato ad Avvenire che «le reliquie vengono date attraverso i vescovi gratuitamente». Ma la Procura – si intuisce dall’accusa di ricettazione – ammette ora anche l’ipotesi di un furto, nonostante nessuno abbia sporto denuncia. Per sondare anche questa strada, i magistrati hanno acquisito i contenuti dei dispositivi digitali dell’indagato, alla ricerca di nuove informazioni. Dal punto di vista penale, però, poiché il commercio di reliquie è un illecito solo secondo il diritto canonico (canone 1190), senza nuovi elementi difficilmente i magistrati potranno chiedere un rinvio a giudizio.

Quello dell’indagato non era il solo annuncio online al momento della denuncia di Sorrentino, ma molti altri sono stati tempestivamente rimossi e, per ora, la Procura non ha ritenuto di iscrivere altre persone al registro degli indagati.





Martedì, 10 Giugno 2025

Un giorno d’aprile del 1870 due ragazzi appena diciottenni, Mariano Armellini e Orazio Marucchi, stavano camminando lungo la via Nomentana quando incontrarono Pio IX di ritorno in città con un piccolo seguito. Il Papa, vedendo quei due ragazzi con libri e carte, si fermò e domandò loro da dove venissero. Sorpresi e imbarazzati i due risposero che erano studenti e venivano dalle catacombe di Sant’Agnese dove erano stati mandati dal loro professore, l’archeologo Giovanni Battista De Rossi. Allora Pio IX li benedì e disse: "Cari figlioli, studiatele con amore sotto la guida del vostro bravo maestro, e pregate presso i santi martiri nelle catacombe come solevano fare gli antichi cristiani, perché del loro sangue noi siamo la stirpe".

Dopo aver seguito le tracce lasciate dagli apostoli Pietro e Paolo, Stefania Falasca e Giuseppe Matarazzo, nel terzo episodio di Roma Felix, scendono nella città sotterranea, quella più nascosta, fra chilometri e chilometri di labirinti delle catacombe. Il viaggio riparte con la curiosa storia di un Papa, Pio IX, di due studenti e un archeologo, Giovanni Battista De Rossi, a cui si devono le prime, sensazionali scoperte. Durante il percorso, l’incontro con il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, e l’archeologa dell’Università Tor Vergata, Lucrezia Spera, che ci guidano nella lettura di questi luoghi così misteriosi e affascinanti. Fra i documenti, le memorie di Giovanni Battista De Rossi (con la voce di Riccardo Maccioni).


ROMA FELIX è un podcast originale prodotto da Avvenire con il sostegno di Italo
di Stefania Falasca con Giuseppe Matarazzo
Testi tratti dall'omonima serie scritta da Stefania Falasca e pubblicata su Avvenire.
Cura editoriale Alessandro Saccomandi e Chiara Vitali
Sound design: Daniele Bertinelli
Grafiche: Massimo Dezzani





Sabato, 07 Giugno 2025

L'argentino Carlos Alberto Trovarelli è stato confermato per i prossimi sei anni come 120° ministro generale dell’Ordine dei frati minori conventuali. L’elezione è avvenuta questa mattina al Sacro Convento di San Francesco in Assisi, dove i frati elettori si sono riuniti dopo dieci giorni di Capitolo generale. Fra' Carlos è stato eletto al primo scrutinio.

L’elezione - su indicazione dello stesso san Francesco - avviene sempre in prossimità della solennità liturgica della Pentecoste, nella quale si celebra il dono dello Spirito santo alla Chiesa 50 giorni dopo la risurrezione di Cristo, perché Egli è riconosciuto dai fedeli come sorgente di discernimento e sapienza di fronte a scelte così importanti.

«Ho accettato l’incarico nel nome del Signore - ha dichiarato fra' Carlos - per obbedienza e per amore della comunità dei frati. A tutti i seguaci, gli amici e i devoti di san Francesco e a tutti coloro che ci amano, chiedo soprattutto di pregare per noi frati, perché possiamo mantenerci fedeli a quello che abbiamo professato pubblicamente di vivere: il Vangelo. E Francesco ci comunica e insegna che è possibile, che il Vangelo è un modo possibile e bello di vivere. Chiedo infine anche la vicinanza, l’affetto e la disponibilità a lavorare accanto a noi frati, alla pari, perché questa è la missione francescana: tutti ne siamo partecipi e corresponsabili».

Dopo la professione di fede, il giuramento di fedeltà alla Chiesa e l’abbraccio di obbedienza di oltre 250 frati, provenienti dai cinque continenti nella cripta dove riposano le spoglie mortali di san Francesco, uomo di pace e fratello universale, fra Carlos ha augurato la pace al mondo intero. Rivolgendo il saluto che san Francesco stesso amava offrire ai suoi interlocutori: “Il Signore ti dia pace!”. Ha presentato poi un appello ai leader mondiali e a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, affinché cessino le guerre, tacciano le armi, si plachi la violenza, tra le nazioni e nei cuori delle persone.
Trovarelli, classe 1962, dal 2019 è ministro generale dell'Ordine dei frati minori conventuali. Suo predecessore in questo prestigioso incarico per 12 anni (2007-2019) è stato l'italiano Marco Tasca, attuale arcivescovo di Genova.


Ingegnere e teologo e successore di Marco Tasca



Padre Trovarelli ha completato il terzo anno di Ingegneria industriale con specializzazione in Chimica, all’Università Nazionale di Comahue Neuquén – Argentina (1981-1983). Compie la propria formazione religiosa fino al Noviziato in Uruguay, che conclude con la professione temporanea dei voti il 15 febbraio 1986. Conferma la scelta di vita nella professione dei voti solenni il giorno di San Francesco, il 4 ottobre 1990. Ha studiato Filosofia e Teologia nel Centro di Studi di Filosofia e Teologia (CEFyT) Villa Claret di Córdoba – Argentina (1986-1990) nella Facoltà di Teologia di San Miguel (San Miguel, Buenos Aires – Argentina) e nel Seminario Diocesano di Morón (Hurlingham, Buenos Aires – Argentina) 1991. Si è laureato in Teologia con una specializzazione in Liturgia Pastorale presso l’Istituto di Liturgia Pastorale (Padova – Italia), affiliato al Pontificio Ateneo S. Anselmo di Roma (Roma – Italia) nel 1992-1994. I frati minori conventuali sono circa 3mila sparsi in tutto il mondo. I conventuali sono uno dei tre rami storici della Famiglia francescana a cui fanno riferimento gli altri due Ordini: i frati minori e i cappuccini. Alla Famiglia francescana appartengono anche i religiosi del Terzo ordine regolare (Tor).








Sabato, 07 Giugno 2025





Sabato, 07 Giugno 2025

«La speranza non delude» (cfr Rm 5, 5). È questo il tema scelto per la 47esima Convocazione nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo (ieri e oggi, 6 e 7 giugno) che, quest'anno, eccezionalmente si colloca nel più ampio orizzonte giubilare che la Chiesa tutta sta celebrando. Al fine di favorire la più ampia partecipazione dei nostri aderenti al Giubileo dei Movimenti, delle Associazioni e delle Nuove Comunità, infatti, per il nostro annuale appuntamento che raduna tutti i Gruppi, Comunità e Cenacoli del Movimento è stata scelta l’Aula Paolo VI, in Vaticano.

Un evento straordinario per fare memoria di un’altra ricorrenza più che significativa per il Rinnovamento Carismatico: il 19 maggio del 1975, infatti, nel Lunedì di Pentecoste san Paolo VI incontrava il Rinnovamento mondiale affermando che «questo Rinnovamento davvero costituisce “una chance” per la Chiesa». Osservando il tempo che stiamo attraversando, veniamo sopraffatti da un clima di violenza e da un sentimento di paura, in una crisi globale che tocca il cuore dell'uomo fin nel profondo. Siamo spiritualmente sfidati, eppure il lume della speranza è custodito in questo anno di grazia indetto da papa Francesco e che ora viviamo in cammino con papa Leone XIV. Una speranza che, come virtù teologale, in questi mesi nel RnS stiamo approfondendo: è un'opportunità d’oro poterla condividerla insieme alle altre realtà, oggi e domani in piazza san Pietro, con il ricordo che inevitabilmente corre alla storica Pentecoste del 1998.

Allora papa Giovanni Paolo II volle incontrare per la prima volta tutti i Movimenti, Associazioni e Comunità, sottolineando come «nella Chiesa non ci sia contrasto o contrapposizione tra la dimensione istituzionale e la dimensione carismatica, di cui i Movimenti sono un’espressione significativa». Oggi il mondo ecclesiale sta affrontando una stagione di grande dinamismo e impegno. In un quadro storico e sociale certamente complesso, il percorso sinodale e il Giubileo ci offrono la possibilità di un profondo rinnovamento, coltivando in particolare la sinodalità, il discernimento e la profezia. Si susseguono eventi ecclesiali di rilevanza epocale, quanto mai utili per intercettare le istanze di quel «cambiamento d’epoca» ben delineato da papa Bergoglio.

Abbiamo contezza che vi è un cammino di trasformazione, di maturazione interiore, di santificazione, che si realizza quando viviamo la vita nuova in Cristo, non lasciandoci dominare dal peccato ricadendo nella situazione precedente, bensì lasciandoci guidare dallo Spirito (cfr Rm 8): si tratta di una certezza fondata sull’amore di Dio, effuso nei cuori dallo Spirito Santo. Il valore della speranza appartiene a un nuovo modo di stare al mondo basato sulla consapevolezza dell’amore di Dio, già presente nella vita del credente e sempre da alimentare affinché si sviluppi pienamente. La speranza, così configurata, non si limita allora a guardare al futuro ma opera nel presente. Spinge le persone a non cedere di fronte alle difficoltà, ma a interpretarle come tappe costruttive: quando una persona spera non si limita soltanto a desiderare un cambiamento ma si dispone ad agire per renderlo possibile.

Di conseguenza, la speranza non è un atteggiamento passivo. Al contrario, sollecita l’impegno, la partecipazione consapevole ai processi di trasformazione. Una persona che spera è anche una persona che agisce e traduce i suoi desideri in progettualità. Sperare in un mondo più giusto significa contribuire a costruirlo. Ora, con sguardo speranzoso sui passi della fede, attraverso le iniziative e le proposte che da qui a dicembre intendiamo promuovere a livello nazionale e locale, ci sentiamo dunque chiamati a un fare sempre più comunionale guidati dalle parole che ci ha consegnato papa Prevost nella sua prima benedizione Urbi et orbi: «Vogliamo essere una Chiesa sinodale, una Chiesa che cammina, una Chiesa che cerca sempre la pace, che cerca sempre la carità, che cerca sempre di essere vicino specialmente a coloro che soffrono».

*Presidente nazionale del RnS - Rinnovamento nello Spirito Santo





Sabato, 07 Giugno 2025

C’è un filo rosso che unisce il respiro largo dell’Anno Santo con la freschezza di un nuovo inizio nel pontificato di papa Leone XIV. È il filo dell’amore e dell’unità, che il nuovo Vescovo di Roma ha scelto come chiave per leggere il tempo presente e per rilanciare la missione della Chiesa nel cuore del mondo. Una Chiesa che non si ripiega su sé stessa, ma si apre con fiducia e passione alle domande dell’umanità, ai gemiti e alle speranze di questo nostro tempo.

Proprio nei giorni in cui migliaia di fedeli provenienti da realtà associative, movimenti e comunità ecclesiali partecipano al Giubileo delle aggregazioni laicali, l’omelia di inizio pontificato di papa Leone – pronunciata lo scorso 18 maggio in una piazza San Pietro gremita e festante – risuona con forza particolare. È un appello a ritrovare la sostanza della nostra fede, a non lasciarci rinchiudere nelle logiche dell’appartenenza ristretta, del noi contrapposto agli altri, a non chiuderci nel nostro piccolo gruppo e a non sentirci superiori: « La carità di Dio che ci rende fratelli tra di noi è il cuore del Vangelo e, con il mio predecessore Leone XIII, oggi possiamo chiederci: se questo criterio “prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?” (enciclica Rerum novarum, 21)». Ciò che il Papa ci dice è che la vera appartenenza ecclesiale si misura nella capacità di amare, di costruire ponti, di mettersi a servizio.

Così Leone XIV raccoglie il testimone lasciato da papa Francesco, che in oltre un decennio ha richiamato con forza la Chiesa a uscire dalle proprie sicurezze, a “sporcarsi le mani” nei solchi della storia, a essere “ospedale da campo” e “madre dal cuore aperto”. Ora, nel solco di quel magistero, papa Leone ci invita a una nuova tappa del cammino sinodale: una Chiesa che cresce nella comunione, che si lascia formare dallo Spirito, che fa dell’unità dei credenti la sua testimonianza più luminosa. Non si tratta di uniformità, né tantomeno di appiattimento. L’unità cui il Papa ci richiama è quella che nasce dalla consapevolezza di essere parte di un solo corpo, di una sola missione, al servizio del Regno di Dio. È un’unità che respira della varietà dei carismi, della ricchezza delle vocazioni, della creatività dello Spirito che suscita forme sempre nuove di sequela e di servizio. Ed è proprio qui che il ruolo dei laici, e in particolare delle loro aggregazioni, assume un significato decisivo.

In questo Giubileo che li vede protagonisti, le donne e gli uomini delle realtà laicali portano davanti al Papa, e al mondo, il frutto di una fede vissuta nella concretezza della storia: nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, nei quartieri, nelle periferie vicine e lontane. Portano la fatica e la bellezza del vivere cristiano quotidiano. Portano l’audacia di chi tenta nuove vie di solidarietà, di impegno educativo, di giustizia e pace. Portano soprattutto la consapevolezza che essere Chiesa non significa solo “stare” dentro le strutture, ma animare il mondo con il Vangelo, dal basso, da dentro, dal cuore della vita sociale. È questa la grande intuizione che il Concilio Vaticano II – oggi più attuale che mai – ha consegnato al popolo di Dio: il laico non è un mero “collaboratore” alla missione né può essere ridotto a un operatore pastorale, ma in virtù del battesimo diventa un soggetto pienamente protagonista della evangelizzazione. E le aggregazioni laicali, in tutte le loro forme – associazioni storiche, movimenti ecclesiali, nuove comunità –, sono chiamate oggi a mostrare in modo concreto tale corresponsabilità.

Diventa importante per le aggregazioni ritrovare la forma e la visione conciliare dell’apostolato, e in particolare di quello associato, chiamato oggi a rigenerare nell’amicizia quotidiana e nella condivisione della vita le nostre comunità ecclesiali nella prospettiva autenticamente sinodale e in un atteggiamento di ascolto permanente e accoglienza sincera delle domande degli uomini e delle donne del nostro tempo. Il Giubileo di questi giorni è dunque molto più di un evento celebrativo. È un atto di fede e di riconoscimento ecclesiale: fede nel protagonismo del laicato come motore di rinnovamento e fermento di Vangelo; riconoscimento del cammino compiuto e delle sfide aperte, a partire da quella dell’unità nella pluralità. Non c’è missione senza comunione. Ecco perché l’appello all’unità non è solo una premura interna alla Chiesa, ma è già annuncio evangelico. In un mondo segnato da polarizzazioni e conflitti, una comunità cristiana che sa camminare insieme – pur nelle sue differenze – diventa segno profetico, anticipazione di quel Regno che annuncia.

L’unità non si costruisce a colpi di decreti, ma si coltiva ogni giorno, con pazienza e apertura, con la capacità di ascoltare, di chiedere perdono, di collaborare in modo fraterno. Si costruisce con uno stile di alleanza che si alimenta nella stima reciproca prima che nella cooperazione a progetti e percorsi. L’unità tra le diverse vocazioni – vescovi, presbiteri, religiosi, laici – è il volto della Chiesa sinodale che Leone XIV ha indicato come orizzonte del suo pontificato. Un volto che, in questi giorni di Giubileo, trova nei laici e nelle loro aggregazioni un segno tangibile di speranza e di futuro. « È l’ora dell’amore» ha detto il Papa. Ed è anche, per ciascuno, l’ora della responsabilità. Non possiamo attendere che siano sempre altri a prendere l’iniziativa. Il cambiamento nella Chiesa passa da ciascuno di noi: dal modo in cui viviamo la fede, ci relazioniamo, serviamo la comunità, abitiamo la città. È l’ora di superare le divisioni, le gelosie ecclesiali, i sospetti reciproci.

È il tempo di testimoniare che l’amore di Cristo ci spinge ad andare oltre, a credere nella fraternità come stile di vita, a costruire una società più giusta a partire dalla radice del Vangelo. Papa Leone XIV indica una strada che interpella tutti. Una strada di ascolto, di dialogo, di presenza attiva. È il cammino della Chiesa che non ha paura del mondo, ma che desidera abitarlo con l’umiltà del servizio e la forza della Parola. Il Giubileo delle aggregazioni laicali, in questo senso, è una tappa fondamentale: non un punto di arrivo, ma un nuovo inizio. Perché l’ora dell’amore è adesso. E ci chiama, uno per uno, a costruire unità nella verità, nella libertà e nella carità.

*Presidente nazionale Azione Cattolica Italiana





Sabato, 07 Giugno 2025

Siamo molto grati a papa Francesco per aver indetto, all’interno del Giubileo, un momento dedicato ai movimenti, alle associazioni e alle nuove comunità in occasione della Pentecoste, come fece nel 1998 san Giovanni Paolo II quando volle incontrare per la prima volta in piazza San Pietro i movimenti ecclesiali. In quella circostanza, don Giussani intervenne dicendo che «il Mistero come misericordia resta l’ultima parola anche su tutte le brutte possibilità della storia». Un’affermazione che risulta drammaticamente valida oggi, nel momento in cui la guerra ha assunto dimensioni mondiali e le divisioni sembrano rendere impossibile il dialogo e l’incontro fra popoli e culture, anche all’interno della nostra società.

Proprio per questo, riconosciamo il valore profetico dei primi interventi di papa Leone XIV, che si è rivolto al popolo con le prime parole pronunciate dal Risorto: «La pace sia con tutti voi!», e non ha fatto mistero del sacrificio che implica il dono di una «pace disarmata e disarmante». Un richiamo, quest’ultimo, che riprende e sviluppa le posizioni espresse dalla Chiesa negli ultimi decenni, rispetto al quale intendiamo porci attentamente in ascolto per poterlo accogliere e fare nostro nelle sue ragioni profonde. L’elezione di papa Leone XIV ci fa assaporare la bellezza della continuità dell’esperienza cristiana nella guida della Chiesa pur dentro sensibilità che possono essere diverse. Nei suoi primi interventi dal soglio di Pietro, ma già nella sua biografia, paiono coniugarsi infatti la fedeltà alla dottrina tradizionale con lo slancio profetico sulle nuove sfide della modernità, ma anche l’impeto missionario e l’apertura umana verso chi è più lontano e debole.

Questo segnala l’azione dello Spirito Santo, che attraverso voci diverse comunica un unico annuncio, come del resto abbiamo potuto vedere in occasione del Conclave, nel quale una maggioranza molto ampia si è imposta in un tempo davvero molto breve, a dispetto di quanto non pochi commentatori avevano presupposto. Comunione e Liberazione è parte integrante di questa Chiesa in cammino e siamo entusiasti dell’invito di papa Leone a fare nostro quello che è il suo «primo grande desiderio: una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato» (omelia del 18 maggio in occasione dell’inizio del ministero petrino). Negli interventi pronunciati fino a ora, il Santo Padre ha infatti ripreso e sviluppato quanto già contenuto nel suo motto agostiniano ( in Illo uno unum), invitandoci incessantemente a essere uniti, in quanto Chiesa di Cristo, per essere «segno di pace per tutti, nella società e nel mondo» (Giubileo per le famiglie, 1° giugno).

In questo richiamo all’unità e alla pace riconosciamo una profonda continuità con papa Francesco, che nel corso dell’udienza concessa a Comunione e Liberazione nel 2022 ci aveva invitato appunto ad accompagnarlo nella «profezia per la pace», e successivamente ci aveva più volte richiamato all’importanza dell’unità. Emerge in maniera sempre più chiara che questo invito ha una rilevanza cruciale nel frangente storico attuale, dove proprio l’unità della Chiesa costituisce una profezia di pace in quanto segno della presenza carnale di Dio nel mondo liquido di oggi, anticipo del compimento della gloria di Cristo. Per questa ragione, ci sentiamo parte integrante di una Chiesa chiamata ad affrontare sfide nuove e complesse, che oggi ci invita a continuare a dedicarci all’educazione dei giovani, a cui don Giussani ha dedicato la sua intera esistenza, anche attraverso forme nuove. In particolare, credo sia necessario individuare percorsi educativi in grado di interagire intelligentemente con le nuove tecnologie, così che queste possano favorire lo sviluppo della dimensione relazionale della persona e non, al contrario, accentuare quella riduzione individualistica oggi in atto.

Mi sembra una condizione imprescindibile per l’edificazione di una società realmente libera. Attendiamo di poter ascoltare le parole che papa Leone XIV vorrà rivolgerci per poterlo seguire e camminare con lui. Fin da ora, siamo certi che la sua elezione costituisce un dono per noi cristiani ma anche per il resto del mondo, che attende – spesso senza saperlo – una certezza, un annuncio di speranza. Il nostro augurio è che questo Giubileo, dedicato appunto alla speranza, sia un’occasione per tutti coloro che, dentro e fuori la Chiesa, si metteranno in ascolto. Proprio su questo mi permetto un ultimo accenno. Parlare oggi di speranza sembra un’ingenua illusione, e sarebbe così se essa dipendesse dalle nostre capacità o performance.

Non a caso, don Giussani concludeva il suo intervento nel 1998 con queste parole: «L’esistenza si esprime, come ultimo ideale, nella mendicanza. Il vero protagonista della storia è il mendicante: Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo». Solo la certezza di un destino buono può fondare la speranza. È dunque una “povertà di spirito” il dono che desideriamo chiedere anzitutto per noi stessi, ed è questo l’atteggiamento con il quale, assieme a tutti gli altri movimenti, vogliamo partecipare alla Veglia di Pentecoste con il Santo Padre.

*Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione

oggi . Camminiamo nella Chiesa, segni di unità davanti al mondo Davide Prosperi Papa Leone XIV saluta i pellegrini domenica scorsa per il Giubileo delle Famiglie





Sabato, 07 Giugno 2025

Se guardiamo agli insegnamenti degli ultimi Papi riguardo i Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità emergono due grandi linee: missionarietà ed ecclesialità. Alla vigilia di Pentecoste 1998, san Giovanni Paolo II ha incontrato i Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità in piazza San Pietro per la prima volta nella storia. Li ha invitati a portare «frutti “maturi” di comunione e di impegno» (discorso di Giovanni Paolo II ai Movimenti ecclesiali e alle Nuove Comunità, Piazza San Pietro, 30 maggio1998). Poi, Papa Benedetto XVI li ha sollecitati a «essere scuole di libertà» e li ha incoraggiati a «dimostrare agli altri [...] quanto è bello essere veramente liberi, nella vera libertà dei figli di Dio», ma sempre « nell'unione [...] con i successori degli apostoli e con il successore di san Pietro» (omelia di Benedetto XVI nella Celebrazione dei primi vespri nella vigilia di Pentecoste con i Movimenti ecclesiali e le Nuove Comunità, piazza San Pietro, sabato, 3 giugno 2006). E papa Francesco ha delineato una Chiesa formata dai «diversi carismi» ai quali lo Spirito Santo «dà l’armonia e dà unità alla diversità», e così ci rende «artigiani di concordia, seminatori di bene, apostoli di speranza» (Santa Messa nella Solennità di Pentecoste, omelia del Santo Padre Francesco, piazza San Pietro, domenica, 9 giugno 2019).

Mi sembra di poter dire che in questi 27 anni i movimenti si siano impegnati a generare “frutti maturi” nella Chiesa con percorsi di evangelizzazione in campi dove la pastorale non arriva facilmente; con le numerose testimonianze di conversioni; con lo sbocciare di vocazioni alla vita familiare, consacrata e sacerdotale; con l’impegno sociale e con sviluppi di dialogo in tanti campi. Questi frutti sono spesso maturati anche sullo sfondo di forti prove, come il passaggio dalla fase fondativa a quella postfondativa, oppure le purificazioni vissute a causa degli scandali per gli abusi sessuali e spirituali. Questo cammino però è stato anche caratterizzato da una sempre crescente comunione tra gli stessi movimenti. Si tratta di una comunione basata, innanzitutto, sull’amore fraterno: sul reciproco ascolto, sull’accoglienza, sul conforto e sul dono di sé agli altri.

E sorprendentemente in questo processo ogni movimento ha riscoperto e approfondito la propria identità specifica, uscendo ogni volta di più da sé stesso. Credo di poter testimoniare che grazie all’amicizia cresciuta tra movimenti e il loro inserimento nella Chiesa sperimentiamo sempre di più quell’unità della quale papa Leone XIV ha parlato pochi giorni fa al Giubileo delle famiglie, dei nonni e degli anziani: « Il Signore non vuole che noi, per unirci, ci sommiamo in una massa indistinta, come un blocco anonimo, ma desidera che siamo uno: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,21)» (Giubileo delle Famiglie, dei nonni e degli anziani; omelia di Leone XIV; piazza San Pietro; domenica 1° giugno 2025). Penso che in questa visione trinitaria dell’unità di papa Leone stia il dono che i Movimenti ecclesiali e le Nuove comunità possono offrire oggi alla Chiesa e al mondo: una vita a modello della Santissima Trinità.

Una vita che nella Chiesa assume diverse caratteristiche: di comunione fraterna tra le singole parti, tradizioni e culture, che vengono sempre più in luce e sono messe in grado di contribuire con la propria particolarità alla bellezza e al bene del tutto; di stupore e stima reciproca, con l’unica ambizione di «amarsi con affetto fraterno e di gareggiare nello stimarsi a vicenda» (cfr Rm 12,10); di profonda uguaglianza e co-essenzialità tra il profilo petrino e quello carismatico; di sensibilità all’azione dello Spirito Santo, che «soffia dove vuole» (Gv 3,8) e non si limita nel suo agire ai confini della propria Chiesa o comunità ecclesiale, ma si apre alla dimensione ecumenica e a quella tra religioni non cristiane e opinioni non religiose. Sarebbe una Chiesa, come l’ha definita papa Francesco, «contrassegnata da unità e armonia nella pluriformità» (“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione”. Documento finale della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, 24 novembre 2024), e dunque necessaria a questo mondo caratterizzato da frammentazione e divergenze. L’esperienza di questo tipo di rapporti trinitari tra i nostri Movimenti è piccola e all’inizio, ma vera e autentica. E vogliamo portarla in dono alla Chiesa perché possa, nella sua straordinaria ricchezza spirituale, realizzare la sua missione nel mondo.

* Presidente del Movimento dei Focolari





Sabato, 07 Giugno 2025

«La pace sia con tutti voi!». La pace «del Cristo Risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante», che «proviene da Dio», quel Dio «che ci ama tutti incondizionatamente». È «il primo saluto del Cristo Risorto», quello che Leone XIV, appena eletto, ha offerto e condiviso nella sua prima benedizione Urbi et Orbi dalla Loggia centrale della Basilica Vaticana.

È trascorso un mese da quel giovedì 8 maggio, che ha visto il Conclave eleggere in poco più di ventiquattr’ore il successore di papa Francesco. Indimenticabili la commozione e la trepidazione con cui Robert Francis Prevost – il primo Pontefice nato negli Stati Uniti d’America e il primo appartenente all’Ordine di Sant’Agostino – si rivolge ai fedeli che affollano piazza San Pietro e, tramite i mass media, ai popoli di tutto il mondo. E indimenticabili le parole pronunciate in quel primo intervento, quasi un discorso programmatico, col neo eletto Pontefice che invita tutti i «discepoli di Cristo» a portare al mondo la luce del Risorto, perché l’umanità possa essere «raggiunta da Dio e dal suo amore. Aiutateci anche voi, poi gli uni gli altri – è la sua richiesta – a costruire ponti, con il dialogo, con l’incontro, unendoci tutti per essere un solo popolo sempre in pace».

In questo primo mese sono accadute molte cose. Celebrazioni, udienze, messaggi, discorsi: l’agenda di Leone XIV si è fatta immediatamente fittissima, in questo 2025 reso ancora più intenso dalle iniziative legate al Giubileo. E in questo mese già si fanno incontro le linee portanti di un magistero che, nella continuità con i predecessori, lascia intravedere sviluppi originali. Come anticipa la scelta del nome, fatta guardando a Leone XIII, il quale, «con la storica enciclica Rerum novarum, affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale. E oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di Dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale, che comportano nuove sfide per la difesa della dignità umana, della giustizia e del lavoro», spiegò Prevost al Collegio cardinalizio, lo scorso 10 maggio.

In quella stessa occasione chiamò a rinnovare la piena adesione alla via aperta dal Vaticano II, e additando l’Evangelii gaudium di Francesco ne sottolineò alcune «istanze fondamentali»: «il ritorno al primato di Cristo nell’annuncio; la conversione missionaria di tutta la comunità cristiana; la crescita nella collegialità e nella sinodalità; l’attenzione al sensus fidei, specialmente nelle sue forme più proprie e inclusive, come la pietà popolare; la cura amorevole degli ultimi, degli scartati; il dialogo coraggioso e fiducioso con il mondo contemporaneo nelle sue varie componenti e realtà».

Ma se c’è, fra gli altri, un filo conduttore che percorre e lega, resistente, disarmato e disarmante, questo primo mese di pontificato, è quello della pace. Ed è un filo che tiene assieme parole, gesti, iniziative di questo Pontefice – persona mite e determinata, capace di ascolto e dialogo, forgiata da vent’anni di vita missionaria in Perù e dall’esperienza di priore generale degli Agostiniani, oltre che dal servizio di prefetto del Dicastero per i vescovi. Ed è così fin dal primo Regina Caeli, domenica 11 maggio, con papa Prevost a ricordare gli 80 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, con i suoi 60 milioni di vittime, e a rilanciare l’appello di Paolo VI alle Nazioni Unite: «Mai più la guerra!». Ecco, quindi, l’invito a fare tutto il possibile perché il popolo ucraino possa avere «una pace autentica, giusta e duratura». Ed ecco le parole dedicate a Gaza, e la triplice richiesta: cessare il fuoco, liberare tutti gli ostaggi, prestare soccorso umanitario alla popolazione stremata. Appelli che Leone XIV ha poi rinnovato.

«Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace», dirà il 30 maggio parlando ai movimenti e alle associazioni che hanno dato vita all’“Arena di Pace”. «Ci rendiamo sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni – educative, economiche, sociali – ad essere chiamato in causa». E tutti possono fare qualcosa per la pace: a partire dagli operatori della comunicazione, ricevuti il 12 maggio e invitati a «dire “no” alla guerra delle parole e delle immagini». Chiaro e forte il messaggio: «Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra».

Tanti parlano di pace. E tanti si appropriano di questa parola. Strumentalmente. Fin dall’inizio Leone XIV ha spazzato via ogni equivoco parlando della pace di Cristo, dono di Dio e responsabilità dell’uomo. «La pace di Cristo non è il silenzio tombale dopo il conflitto, non è il risultato della sopraffazione, ma è un dono che guarda alle persone e ne riattiva la vita. Preghiamo per questa pace, che è riconciliazione, perdono, coraggio di voltare pagina e ricominciare», disse papa Prevost mercoledì 14 maggio ricevendo i partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali. «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo. La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace». Ed è per testimoniare e promuovere questa pace che Leone XIV chiama i cristiani a desiderare e costruire «una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato», come disse domenica 18 maggio, nell’omelia della Messa per l’inizio del ministero petrino.

Parole affidate alla memoria del cuore di ciascuno, perché ciascuno possa diventare operatore di pace. Ma con le parole, nella memoria, mettono radici anche i gesti. Gli incontri. Come quello con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, il primo capo di Stato ricevuto in udienza dal nuovo Papa. O come il recente colloquio telefonico col presidente Vladimir Putin, con la richiesta alla Russia di compiere, finalmente, «un gesto che favorisca la pace». Venerdì 7 giugno Leone XIV ha ricevuto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La prima visita ufficiale del capo dello Stato italiano ha preso il volto di un incontro fra due “artigiani di pace”, che nel loro dialogo si sono soffermati sulle sfide dello scenario internazionale, in particolare i conflitti in corso in Ucraina e nel Medio Oriente.

Leone Magno, nel 452, incontrò Attila e fermò l’avanzata degli Unni verso Roma. Di fronte agli Attila del nostro tempo, di fronte ai loro disegni di potenza e alle loro azioni di morte, Leone XIV rilancia l’azione missionaria della Chiesa e l’opera diplomatica della Santa Sede, che hanno i loro pilastri – come ha detto il Pontefice al Corpo diplomatico, il 16 maggio – nella pace, nella giustizia e nella verità. Perché sia aperta a tutti la via della «pace disarmata e disarmante». Nella certezza che Dio «ama tutti e il male non prevarrà».






Sabato, 07 Giugno 2025

«Guida i governanti a intraprendere vie di dialogo, perché promuovano una pace duratura e la civiltà dell’amore». Ma anche «soccorri i popoli oppressi dalla violenza, perché confidino nel tuo amore provvidente e non temano le armi del nemico». E in tutto questo «ispira papa Leone XIV e tutti i pastori della Chiesa, perché, con la parola e con la vita, siano sempre segno del tuo amore». E infine la richiesta di accompagnare «tutti noi perché possiamo costruire insieme un futuro di giustizia e di pace». Sono alcune delle intenzioni di preghiera che questa sera saranno pronunciate durante le Veglie di Pentecoste che si svolgeranno in tantissime diocesi italiane. In alcuni casi qualche Chiesa locale ha anticipato l’evento nei giorni scorsi, come l’arcidiocesi di Campobasso-Bojano che ha celebrato la Veglia mercoledì alla presenza di rappresentanti di altre Chiese cristiane. Veglia ecumenica svoltasi giovedì sera nella Cattedrale di Ugento.

Le intenzioni citate sopra sono contenute nel libretto della Veglia predisposto dall’Ufficio Liturgico nazionale della Conferenza episcopale, preparato per l’occasione su indicazione del Consiglio permanente straordinario, riunitosi lo scorso 27 maggio. Proprio in quella occasione, i vescovi italiani, ribadendo la condivisione dell’appello di papa Leone XIV durante l’udienza generale del 21 maggio, a «consentire l’ingresso di dignitosi aiuti umanitari e a porre fine alle ostilità nella Striscia di Gaza», avevano lanciato la proposta «di momenti di penitenza e di preghiera comunitari. Il giorno di Pentecoste, gli Apostoli ricevettero il dono dello Spirito Santo e “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (Atti 2,4). Il dono delle lingue del Cenacolo è un incoraggiamento a superare il dramma delle divisioni e a adoperarsi per la comunione», hanno scritto i vescovi nel comunicato finale della sessione straordinaria del Consiglio permanente della Cei.

Ed ecco allora il «suggerimento a celebrare la Veglia di Pentecoste, per implorare da Dio il dono di una pace piena e a ricucire i vincoli di fraternità tra le nazioni». Lo schema dell’Ufficio Liturgico nasce proprio per questo motivo.

Il libretto prevede anche cinque letture. La prima è un brano dalla Genesi sull’episodio della Torre di Babele, mentre la seconda lettura è dall’Esodo in cui si parla della discesa del Signore sul monte Sinai davanti a tutto il popolo. Nella terza lettura dal libro del profeta Ezechiele è tratto il brano in cui il Signore promette di ridare vitalità alle «ossa inaridite del suo popolo». Dal profeta Gioele è tratta la quarta lettura in cui il Signore annuncia che effonderò il suo spirito. Ultimo brano la Lettera di san Paolo apostolo ai Romani nella quale si parla dello «Spirito che intercede». A chiudere la liturgia della Parola di questa Veglia ci sarà il Vangelo di Giovanni.

Dopo l’omelia, ci sarà la Professione di fede e la memoria del Battesimo, nella quale sono inserite le intenzioni di preghiera per la pace di cui abbiamo scritto.

Diverse Chiese locali hanno deciso di pregare per la pace assieme ai rappresentanti delle Chiese cristiane sorelle. Accadrà così a Venezia dove la comunità è inviata presso la chiesa di Campalto alle 21. Allo stesso orario si riuniranno insieme le Chiese di Tivoli e Palestrina - unite nella persona del vescovo - presso il Santuario di San Vittorino Romano. Anche Asti ha scelto un Santuario per pregare per la pace nella Veglia di Pentecoste: alle 21 l’appuntamento è al Santuario della Beata Vergine del Portone in città. Nella parrocchia Maria Regina Mundi a Bologna si riunirà a pregare la comunità felsinea. Scelta invece la Cattedrale come luogo di preghiera nelle Chiesa di Cagliari e in quella di Crema, mentre ad Arezzo dopo la Veglia, che inizierà alle 21.15, sarà amministrata la Cresima ad alcuni adulti. A Milano è stata scelta la chiesa del Monastero di Santa Chiara alle 21. La comunità di Palermo si dà appuntamento stasera in Cattedrale, mentre a Torino ci si troverà nella chiesa del Santo Volto. Nella Chiesa madre di Alcamo saranno presenti alcuni dei vicariati della diocesi di Trapani, che per le altre zone ha indicato la Cattedrale di San Lorenzo. I fedeli di Roma sono invece invitati a partecipare stasera alla Veglia che si terrà in piazza San Pietro alla presenza di Leone XIV.





Venerdì, 06 Giugno 2025

Che nell’arcidiocesi di Sydney spirasse da qualche tempo un vento particolarmente fresco, frizzante, lo avevamo segnalato lo scorso anno in un paio di occasioni, per la precisione qui e qui. Stavolta però non si tratta solo di impressioni di osservatori più o meno esterni: a certificare la situazione è l’arcivescovo di Sydney in persona, Anthony Fisher, il quale si è chiesto se una «seconda primavera» della fede sia in corso nella più grande città d’Australia nonché capitale del Galles del Sud. Una domanda che non è usuale sentire riguardo alla salute delle diocesi delle metropoli euro-americane, alla prese con una secolarizzazione aggressiva.
L’occasione per queste considerazioni è stata l’incontro del Sydney Catholic Business Network, lo scorso 30 maggio. A una platea di imprenditori, Fisher ha rivolto un discorso sul tema “Segni di speranza in questo Anno Giubilare” di cui il settimanale dell’arcidiocesi australiana, il Catholic Weekly, ha riportato diversi stralci.

Il presule, che porta l’abito bianco del suo ordine religioso di provenienza, i domenicani, ha indicato la cerimonia del Rito dell'elezione di quest'anno (il rito che marca il passaggio dal tempo del catecumenato a quello della preparazione immediata ai sacramenti dell'iniziazione cristiana) come prova concreta di questa rinascita, con un aumento del 26 per cento dei convertiti adulti rispetto allo scorso anno, aumento che si ripete grosso modo con queste percentuali da cinque anni. Si tratta di persone «provenienti da contesti diversi che incontrano la fede per la prima volta e trovano qualcosa di profondamente coinvolgente», ha spiegato Fisher.

Mentre l'arcidiocesi si prepara ad accogliere un numero record di 20.000 fedeli alla processione del Corpus Domini del 22 giugno, chiamata “Walk with Christ”, e si prepara a ospitare il Congresso eucaristico internazionale nel 2028, anche l'istruzione cattolica sta vivendo un molto positivo: «Le iscrizioni alle nostre scuole sono le più alte di sempre e continuano a crescere», ha affermato l’arcivescovo, «e i sondaggi hanno rilevato un aumento significativo della religiosità complessiva dei nostri studenti nelle scuole cattoliche».

Altri indicatori positivi sono l’aumento dei seminaristi e la ritrovata vitalità di molte parrocchie. «Il numero di fedeli alle Messe domenicali e festive continua a crescere. Presto potrei dover costruire una cattedrale più grande» ha scherzato Fisher. Che ha aggiunto: «Nell'ultimo mese abbiamo ordinato un vescovo, due diaconi e domani un sacerdote, che sarà il 36° dal 2015».
Del resto è stato l’Australian Burerau of Statistics a rilevare che circa 800.000 cittadini australiani che nel 2016 si erano dichiarati «senza religione», nel 2021 si sono detti invece «cristiani».

Fisher ha così concluso: «Forse è troppo presto per dichiarare l'inverno ormai finito, ma nella nostra terra sono spuntati dei fiori. Ci sono segni di speranza». E ha citato le parole di G.K. Chesterton: «Il cristianesimo è morto e risorto molte volte, perché aveva un Dio che conosceva la via d'uscita dalla tomba».





Venerdì, 06 Giugno 2025

A un mese dall'inizio del pontificato, Papa Leone XIV riceve la prima visita ufficiale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. L'arrivo del capo dello Stato, come da programma, poco prima delle 9 del 6 giugno 2025. Il capo dello Stato è arrivato in Vaticano accompagnato dalla figlia Laura. Nella delegazione italiana, il ministro degli Affari esteri e vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, l'ambasciatore presso la Santa Sede Francesco Di Nitto e il segretario generale del Quirinale, Ugo Zampetti. Mattarella era accompagnato anche dagli altri due figli, Bernardo e Francesco, dal genero, dalle due nuore e dai cinque nipoti.?

Mattarella: ho portato a Leone XIV l'affetto dell'Italia

Il colloquio riservato, conclusosi poco dopo le 10 e durato circa 40 minuti, si annunciava denso di temi cruciali: l'agenda internazionale, innanzitutto, e i rapporti Stato-Chiesa. A seguire, papa Leone, con mozzetta rossa e stola papale, ha proseguito con le udienze programmate, tra le quali quella con mons. Visvaldas Kulbokas, nunzio apostolico in Ucraina, e quella con il presidente del Consiglio Europeo, il portoghese Costa. Mentre la giornata di Mattarella è proseguita con la visita ad Arezzo, presso Rondine Cittadella della pace. E proprio appena giunto ad Arezzo, il capo dello Stato ha parlato dell'incontro con Prevost: "Ho portato l'affetto dell'Italia", le parole di Mattarella.

L'impegno per la pace del Santo Padre e del presidente

Certamente si tratta di uno scambio di opinioni rilevante tra due artigiani di pace, entrambi impegnati per il dialogo tra le parti in conflitto. Papa Leone XIV ha sin dai primi passi del pontificato impressionato il mondo dichiarando l'aperta disponibilità, sua personale e della Santa Sede, a favorire incontri tra le parti ucraine e russe. Forti e ripetuti anche i suoi appelli per la situazione umanitaria a Gaza. Inoltre, è del 4 giugno la telefonata tra papa Prevost e il presidente russo Putin. Mattarella, lo scorso primo giugno, alla vigilia della Festa della Repubblica, ha ribadito la "vocazione alla pace" dell'Italia, confermato le ragioni del sostegno all'Ucraina e condannato le violazioni dell'esercito israeliano nella striscia di Gaza.

Il colloquio con Parolin: Ucraina, Medioriente e contributo della Chiesa al Paese

All'arrivo in Vaticano, il capo dello Stato è stato accolto dal reggente della prefettura della casa pontificia, monsignor Leonardo Sapienza. A catturare l'occhio, una composizione di fiori con il tricolore nel Cortile di San Damaso. Dopo l’udienza con il Papa, e prima di lasciare il Vaticano, Mattarella ha incontrato anche il Segretario di Stato Pietro Parolin. Come informa il bollettino della Santa Sede, all'incontro tra Mattarella e Parolin ha partecipato anche mons. Miroslaw Wachowski, sottosegretario per i Rapporti con gli Stati. "Durante i cordiali colloqui in Segreteria di Stato - spiega la sala stampa - è stato espresso compiacimento per le buone relazioni bilaterali esistenti. Ci si è soffermati su temi di carattere internazionale, con particolare attenzione ai conflitti in corso in Ucraina e in Medio Oriente. Nel prosieguo della conversazione sono state affrontate alcune tematiche di carattere sociale, con speciale riferimento al contributo della Chiesa nella vita del Paese". Il Quirinale si limita ad informare circa le tappe della visita ufficiale. Dopo l'esecuzione degli inni nazionali nel cortile di San Damaso, Mattarella è stato ricevuto da Papa Leone XIV nella Sala del Tronetto, mentre il colloquio si è svolto nella Biblioteca privata. A seguire il capo dello Stato ha presentato a papa Prevost la delegazione ufficiale. Al colloquio con il cardinale Parolin, informa inoltre il Colle, ha partecipato anche il titolare della Farnesina Antonio Tajani. Il saluto finale tra le delegazioni si è tenuto nella Sala dei Trattati.

I doni

Significativi i doni che si sono scambiati Mattarella e Leone XIV. Il presidente ha regalato un volume del '500, con rilegatura settecentesca, di scritti di Sant'Agostino, mentre il Papa ha offerto al capo di Stato un medaglione in bronzo e due libri, uno con la riproduzione di opere d'arte conservate nel Palazzo Apostolico, l'altro con i messaggi di Papa Francesco per la Giornata della Pace. In risposta, Mattarella ha ricordato il suo affetto per il Papa scomparso e ha evocato la visita alla tomba di Francesco in Santa Maria Maggiore, "il giorno prima del Conclave", ha detto.

Il precedente incontro in Basilica

Quello tra Mattarella e papa Leone XIV è in realtà il secondo incontro. Il Santo Padre e il presidente della Repubblica si erano già visti nella Basilica vaticana al termine della Messa di inizio pontificato. Il giorno stesso dell’elezione di Prevost, l’8 maggio, il capo di Stato aveva espresso i suoi “fervidi auguri”, sottolineando il valore della pace “disarmata” e “disarmante” evocato dal Santo Padre dalla Loggia della Basilica. “In questo momento storico, in cui tanta parte del mondo è sconvolta da conflitti inumani dove sono soprattutto gli innocenti a soffrire le conseguenze più dure di tanta barbarie, desidero assicurarle - scriveva Mattarella nel suo messaggio - l'impegno della Repubblica Italiana a perseguire sempre più solidi rapporti con la Santa Sede per continuare a promuovere una visione del mondo e della convivenza tra i popoli fondata sulla pace, sulla garanzia dei diritti inviolabili e della dignità e la libertà per tutte le persone”.

I colloqui tra Mattarella e Francesco

Con la visita ufficiale in Vaticano del 6 giugno, Mattarella riprende la tradizione dei rapporti certamente speciali tra il Quirinale e i pontefici. Molti in particolare gli incontri tra il capo dello Stato e papa Francesco. La prima visita ufficiale è del 18 aprile 2015. Il 10 giugno 2017, fu Bergoglio a restituire la cortesia recandosi al Quirinale. Nel febbraio 2020 un nuovo incontro a Bari, nell'ambito di un importante convegno della Cei su Mediterraneo e pace. Lo stesso anno, al Campidoglio, i due si erano ritrovati per l’appuntamento internazionale di preghiera per la pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. Il 16 dicembre 2021 invece si svolse la 'visita di congedo' di Mattarella: in realtà, di lì a qualche settimana il capo dello Stato sarebbe stato rieletto dal Parlamento. E dunque, gli incontri tra Mattarella e Francesco sono proseguiti, in particolare il 29 maggio 2023 il capo di Stato è stato ricevuto in Sala Clementina per essere insignito dal Papa del Premio Paolo VI.





Venerdì, 06 Giugno 2025

Migliaia di famiglie vulnerabili nel dipartimento di Lambayeque, sulla costa settentrionale del Perù, potranno beneficiare della continuazione di cinque progetti sociali avviati tra il 2014 e il 2023 da monsignor Robert Prevost, allora vescovo di Chiclayo, oggi divenuto Papa Leone XIV. La diocesi peruviana ha deciso di dare nuovo impulso a queste iniziative, che abbracciano ambiti cruciali come educazione, salute, imprenditoria e ambiente. Il rilancio è stato reso possibile grazie a una rete di collaborazione tra la Camera di Commercio e Produzione di Lambayeque, il Comitato per la Responsabilità Sociale, l’associazione Voices of Help e diverse parrocchie locali, con l’obiettivo comune di promuovere lo sviluppo umano nei quartieri più fragili della regione.

Il “Papaleta”: un gelato solidale a forma di Papa

Tra i progetti ha già attirato l’attenzione internazionale il curioso “Papaleta”, di cui Vatican News ha pubblicato anche una fotografia, un ghiacciolo al cioccolato bianco con le sembianze del Pontefice. Il nome è un gioco di parole tra “Papa” e paleta, termine spagnolo che indica il gelato su stecco. Il 20% del ricavato delle vendite sarà destinato alla creazione di uno spazio educativo presso la parrocchia di San Juan Apóstol, nel distretto di José Leonardo Ortiz. L’area offrirà libri, sostegno scolastico, attività ricreative e laboratori per promuovere la lettura tra i bambini della zona. Un altro dei progetti sociali rinnovati, per altro, riguarda l’alimentazione: cinque mense parrocchiali forniranno pasti a circa 800 persone in situazione di povertà. Il sostegno – che include anche medicinali, vestiti e altri beni di prima necessità – sarà garantito da 25 aziende affiliate alla Camera di Commercio locale. Le parrocchie coinvolte sono María Reyna de los Sacerdotes, Divina Misericordia, San Martín de Tours, Santa María del Camino e il centro comunitario “Ustedes denles de comer”.

Ossigeno salvavita e ambiente: le altre iniziative

Altra iniziativa, nata durante la pandemia sotto l’impulso dell’allora vescovo Prevost, è la riapertura dell’impianto di ossigenoterapia a Mochumí. Attraverso una nuova campagna di raccolta fondi, la struttura tornerà a servire pazienti affetti da patologie respiratorie croniche, garantendo accesso continuo all’ossigeno medicale.

Anche lo sviluppo economico e la sostenibilità ambientale fanno parte della visione promossa dalla diocesi. La Cooperazione allo Sviluppo tedesca (GIZ), tramite il programma “Si Frontera”, istituirà un centro per l’innovazione imprenditoriale, volto a supportare piccole e medie imprese locali con strumenti pratici e formazione. Infine, è previsto un progetto di riforestazione urbana e gestione dei rifiuti solidi nella città di Chiclayo. Il Rotary Club e l’Università Señor de Sipán guideranno questa iniziativa ambientale, che prevede l’acquisto di alberi, la dotazione di un veicolo per la raccolta differenziata e una serie di campagne educative rivolte alla cittadinanza.







Venerdì, 06 Giugno 2025

È stato presentato lo scorso 2 giugno il primo rapporto del neonato Osservatorio Francese del Cattolicesimo, centro di ricerca indipendente creato per monitorare in modo più accurato l’evoluzione della Chiesa d’Oltralpe. Ombre e luci, si può dire in sintesi del suo contenuto. Le prime sono note e prevedibili: per esempio solo il 44% dei francesi dice di credere in Dio, mentre continua a calare la frequenza ai sacramenti, con il 66% dei battezzati che non va mai a Messa e solo il 2% che vi partecipa ogni domenica. Le seconde, le luci, sono in parte sorprese degli ultimi anni e di esse si è molto parlato recentemente: per esempio la Chiesa gode ancora del favore della larga maggioranza dei francesi – i quali più hanno cattolici praticanti fra i loro contatti e più pensano bene della loro “casa madre”– e soprattutto crescono i catecumeni, adulti che cercano il Battesimo, che quest’anno sono stati oltre 17mila, un record. «Una società francese sempre più secolarizzata, ma segnata sia da un’ampia ricerca spirituale sia dall’affermarsi di un cattolicesimo vivo e più assertivo» scrive il quotidiano La Croix. Ovvero un cattolicesimo che è sempre più minoranza, ma una minoranza sempre più consapevole e convinta.

Una manifestazione tra le più scenografiche e in crescita di questa tendenza è il pellegrinaggio di Pentecoste Parigi-Chartres, che inizia domani sabato 7 giugno e termina lunedì 9, e vede protagonista il popolo legato alla Messa in rito romano tradizionale, ossia secondo il Messale del 1962. Si tratta di 100 chilometri di cammino, seguendo in modo piuttosto preciso la strada che fece un illustre pellegrino più di 100 anni fa, nel 1912, Charles Péguy, che partì a piedi dalla capitale diretto alla Cattedrale di Chartres, splendore del gotico medievale, per affidare alla Vergine il figlio gravemente malato. Questo tracciato sacro è stato ripreso nel 1983 dall’associazione laicale Notre Dame de Chretienté, che lo ripropone ogni anno, quindi non è una novità. Negli ultimi anni ha visto però un’impennata di iscrizioni che lo hanno reso un “caso”. «L’anno scorso le iscrizioni sono state 18mila – ci dice Hervé Rolland, una dei portavoce del pellegrinaggio –. Quest’anno abbiamo dovuto fissare il tetto a 19mila, scontentando molti, ma non era possibile fare altrimenti. Il corteo unico sarebbe lungo 7 chilometri, e attraversare Parigi e altre città sarebbe molto problematico, motivo per cui quest’anno sarà anche diviso in tre tronconi. Il pellegrinaggio è organizzato in 450 capitoli, ossia gruppi, ognuno dei quali conta di circa 45 pellegrini. Per quelli che sono rimasti esclusi, più di duemila, abbiamo creato un capitolo chiamato “Santa Pazienza”, scherzosamente, promettendo che il prossimo saranno loro i primi a essere iscritti alla Parigi-Chartres».

La partenza è prevista domattina da Parigi, dopo la Messa nella chiesa di Saint-Sulpice celebrata dal gesuita Jean-François Thomas. Le tappe del primo e secondo giorno sono di 40 chilometri, la terza di 20. «Un cammino inframmezzato da canti e rosari – spiega sempre Rolland –; le meditazioni sono tenute generalmente da seminaristi, perché i 450 sacerdoti partecipanti, uno per ogni capitolo, si concentrano sulle confessioni. Due anni fa a Parigi, in Rue Saint Jacques, un senzatetto ha fermato un sacerdote del pellegrinaggio dicendogli che voleva confessarsi, erano 40 anni che non lo faceva. Si è inginocchiato e il sacerdote l’ha confessato, in mezzo alla strada. È stata una scena toccante. Ma sono molti che restano colpiti dal fiume di persone che vedono passare, per questo ci sono pellegrini, coppie di sposi, che come servizio si dedicano a rispondere alle domande dei curiosi». Riguardo all’identikit del partecipante, Hervé Rolland fa notare che «l’età media è di 23 anni», inoltre «il 60% va alla Messa in rito antico, il 25% va alla Messa in novus ordo, mentre il restante è composto da persone in ricerca, oppure da evangelici. E ci sono anche alcuni musulmani. Sono amici o parenti di musulmani che si sono convertiti al cattolicesimo e che li hanno invitati. Una volta uno di loro mi ha detto: noi preghiamo in ginocchio e vedere ventimila giovani che pregano inginocchiati per un’ora ci colpisce profondamente».

L’esperienza è di quelle fisicamente impegnative, oltre ai 100 chilometri c’è il pernottamento in tenda, la sveglia alle 5 del mattino e la possibilità di lavarsi e andare in bagno in luoghi prestabiliti, funzionali ma che non sono proprio stanze di hotel. «Ci chiedono perché la Parigi-Chartres è così popolare – chiosa Rolland – e io rispondo: anche perché è difficile».

Ad accogliere a Chartres i pellegrini sarà il pastore della diocesi, il vescovo Philippe Christory, che abbiamo interpellato. «Li incontro la domenica – spiega il presule – camminando con loro per tre ore e poi trascorrendo la serata con un capitolo. Desiderano che io li istruisca su temi religiosi e spirituali. Hanno il desiderio di formarsi bene nella conoscenza della fede». Chiediamo a monsignor Christory che cambiamenti ha visto in questi anni. « Ho notato una crescente partecipazione dei pellegrini – ci risponde – in un clima sereno per la maggior parte di loro, tanto più che molti vengono per lo sforzo fisico compiuto in onore di Dio, per vivere un momento di fratellanza, per essere segno che la Chiesa cattolica è viva. Per gran parte dei pellegrini non ci sono rivendicazioni tradizionali, ma piuttosto il desiderio di esprimere la propria fede in una società secolarizzata dove la laicità tende ad escludere il fatto religioso dallo spazio pubblico».





Venerdì, 06 Giugno 2025

«Aprire varchi alla speranza nella società e nella Chiesa del nostro tempo, dentro le loro fatiche e contraddizioni. Imparare a leggere i segni di speranza e condividere esperienze concrete di speranza. Con un’attenzione particolare al mondo dei giovani, “profezia e futuro” per la società e la Chiesa, a sfide urgenti come la cura del creato, ad ambiti decisivi come la pace, la politica, le migrazioni. E a temi cruciali per il cammino della comunità cristiana, com’è la formazione di una più profonda coscienza ministeriale delle laiche e dei laici». Così il vescovo Domenico Sigalini, presidente del Centro di orientamento pastorale (Cop), presenta la 74ª Settimana nazionale di aggiornamento pastorale che si terrà da lunedì 16 a mercoledì 18 giugno al Th Carpegna Palace Hotel di Roma sul tema “Aprire un varco alla speranza” (e i cui lavori potranno essere seguiti anche da remoto: programma e informazioni su http://www.centroorientamentopastorale.it).

«La speranza è il tema che il Giubileo 2025 ci chiama a rilanciare e approfondire. Lo vogliamo fare portando riflessioni, provocazioni e proposte nel concreto della vita delle nostre comunità, nell’ascolto delle domande e delle attese di chi “abita” quotidianamente la parrocchia, ma anche di chi se n’è allontanato, ha preso altre vie ma ha ancora “nostalgia” della Chiesa e vorrebbe tornare in una Chiesa diversa, rinnovata, dove il Vangelo – e questa è un’esigenza di tutti – è vissuto nelle relazioni, non sulla carta», riprende Sigalini, che concluderà come tradizione i lavori con una “Lettera alla parrocchia” e l’offerta di alcune prospettive pastorali.

Ad aprire il programma, nel pomeriggio di lunedì 16 giugno, dopo l’introduzione tenuta da Antonio Mastantuono – pastoralista e direttore della rivista Orientamenti pastorali”, chiamato a moderare i lavori della Settimana – saranno Luca Diotallevi, ordinario di sociologia all’Università Roma Tre, e Paola Bignardi, pedagogista, già coordinatrice dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo. “La speranza fuori dal recinto?”, il tema loro affidato.

Martedì 17 si apre con la relazione “Leggere i segni di speranza oggi”, affidata a Carmelo Dotolo, docente di Teologia delle religioni all’Urbaniana. «Segni che provengono, ad esempio, dal dialogo tra le Chiese e le religioni», annota Sigalini. Quindi spazio a tre focus: Giovani, profezia e futuro con padre Francesco Occhetta, segretario generale della Fondazione “Fratelli tutti”; Cura e custodia del creato con Si-mone Morandini, vicepreside dell’Istituto di studi ecumenici San Bernardino di Venezia; La coscienza ministeriale delle laiche e dei laici con Simona Ruta Segoloni, presidente del Coordinamento teologhe italiane.

«Non è vero che i giovani pensano solo a divertirsi: quanti fra loro sono impegnati nella cura del creato, e quanti nel servizio al prossimo, nel quale si esprime concretamente l’amore di Dio. La sfida – scandisce il presidente del Cop – è aiutarli a comprendere che cosa – e Chi – sta alla radice della loro apertura al prossimo. Molti giovani portano domande sulla fede, ma la Chiesa fatica a coinvolgerli nell’esperienza cristiana». Venendo al tema della “coscienza ministeriale dei laici”: «Ci inseriamo in una delle questioni chiave del Cammino sinodale delle Chiese in Italia – sottolinea Sigalini –. Non si tratta di sostituire il prete, ma di essere donne e uomini che sanno vivere e testimoniare il Vangelo in ogni dimensione della vita, nelle relazioni di ogni giorno, assumendo responsabilità e puntando sempre più sulla formazione. Una riflessione particolare merita la presenza femminile nella Chiesa, che abbiamo dato troppe volte per scontata: non è più così».

Chiude il programma di martedì 17 la serata culturale “Testimoni di speranza, onlife” curata da Fortunato Ammendolia (esperto di pastorale digitale, intelligenza artificiale ed etica), con il missionario digitale don Marco Ferrari (diocesi di Milano) e alcune “voci” dal Servizio per l’Apostolato digitale della diocesi di Brescia coordinato da don Roberto Manenti. Il presidente WeCa, Fabio Bolzetta, interverrà con un videomessaggio.

Mercoledì 18, prima dell’intervento conclusivo di Sigalini, ecco la tavola rotonda “Chiesa e società, per un futuro di speranza: politica, pace, immigrazione” con don Mattia Ferrari di Mediterranea, Franco Vaccari, fondatore e presidente di Rondine Cittadella della pace, e Fabio Pizzul, giornalista, già consigliere regionale in Lombardia. «Anche in questi ambiti abbiamo bisogno di segni di speranza, che offre chi sa guardare al bene di tutti, oltre gli interessi di parte – conclude il presidente del Cop – . Segni come la “Rete di Trieste” nata con la 50ª Settimana sociale dei cattolici in Italia».






Giovedì, 05 Giugno 2025

Potrebbero essere presentate entro la fine dell’anno le Linee guida universale per la tutela dei minori nella Chiesa. Ad annunciarlo, ieri, è stata la Pontificia Commissione che dal 2014 si occupa del delicato tema della protezione dei più piccoli e dei fragili nell’ambito della comunità ecclesiale. La notizia è arrivata al termine dell’udienza della Commissione, guidata dal cardinale Sean Patrick O’Malley, con Leone XIV, svoltasi questa mattina.

Negli ultimi due anni, spiega la nota, la Commissione si è impegnata nello sviluppo delle Linee guida universali per la tutale (Ugf), redatte in stretta collaborazione con «le guide della Chiesa, i professionisti della tutela, i sopravvissuti agli abusi e gli operatori pastorali di tutto il mondo». Un vero e proprio «sforzo sinodale», che ha portato a una bozza di quadro, poi stata testata e perfezionata attraverso programmi pilota a Tonga, Polonia, Zimbabwe e Costa Rica. «Questi progetti pilota regionali – spiega il comunicato – hanno fornito alla Commissione preziose informazioni sulle dimensioni pratiche, culturali e teologiche della tutela dei minori e dei fragili».

Si tratta di linee guida, che «non sono solo descrittive, ma profondamente teologiche, radicate nelle Scritture, nella Dottrina sociale della Chiesa e nel magistero dei Pontefici», in particolare di Benedetto XVI, Francesco e, da ultimo, anche di Leone XIV. L’obiettivo di queste indicazioni è quello di «ispirare una vera conversione del cuore in ogni responsabile e in ogni operatore pastorale, facendo in modo che la tutela dei minori diventi non solo un requisito, ma un riflesso della chiamata del Vangelo a proteggere gli ultimi tra noi».

L’udienza di ieri è servita soprattutto per fare un resoconto al Papa dell’attività della Commissione. «L’incontro – riporta la nota –, è durato un’ora ed è stato un momento significativo di riflessione, dialogo e rinnovo del deciso impegno della Chiesa per la tutela dei più piccoli e delle persone vulnerabili». Il dialogo è partito dal mandato affidato da Francesco alla Commissione: fornire consiglio e consulenza al Papa nel sviluppo e nella promozione di standard di tutela universali, oltre che accompagnare la Chiesa nella costruzione di una cultura di responsabilità (nello stile pastorale), giustizia (nella gestione dei casi) e compassione (nell’accompagnamento delle vittime).

La Commissione, si legge ancora nel comunicato, ha anche aggiornato il Papa sui progressi dell’iniziativa “Memorare”, il programma progettato per sostenere le Chiese locali, in particolare nel Sud del mondo, nei loro sforzi per proteggere i minori e prendersi cura delle vittime di abusi. L’iniziativa prende il nome dall’antica preghiera alla Beata Vergine Maria di san Bernardo di Chiaravalle, che, rivolgendosi alla madre di Dio, ricorda che nessuno è lasciato senza aiuto.

Quattro i pilastri del programma: l’istituzione di strutture dedicate alla tutela, con uffici locali che offrano supporto alle vittime, garantiscano meccanismi di denuncia e forniscano l’accesso ai servizi legali, psicologici e pastorali; la prevenzione attraverso l’educazione, in particolare attraverso la formazione e la creazione di protocolli che promuovano ambienti sicuri e la cultura del rispetto; la collaborazione globale con la costruzione di reti intercontinentali per la condivisione delle pressi e delle risorse secondo un principio di comunione ecclesiale; la promozione di una cultura della comunicazione che responsabilizzi le Chiese locali e favorisca la trasparenza.

Il Rapporto, inoltre, include diversi miglioramenti metodologici, tra cui un gruppo di riflessione più ampio sulle vittime e i sopravvissuti, con contributi diretti da parte loro. Maggiore attenzione anche ai dati esterni sull'attività della Chiesa, che tengono conto di quelli forniti dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia.

E poi è sempre l'ultimo Rapporto a fornire revisioni e osservazioni per 22 Paesi e due congregazioni religiose; include, inoltre, una revisione istituzionale da parte del Dicastero per l’evangelizzazione. Il documento contiene anche la descrizione del lavoro della Commissione per la revisione dei movimenti laicali, messa in atto in collaborazione con il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, con i primi risultati della sua revisione del Movimento dei Focolari.

Auspicando, quindi, una continuità nel proprio lavoro nel principio dell'indipendenza e del supporto al Papa, la Commissione ha voluto anche esprimere gratitudine ai Dicasteri della Curia Romana «per la loro crescente collaborazione».

Un percorso, in definitiva, caratterizzato dall'impegno «ad ascoltare, a camminare con le vittime e i sopravvissuti e a sostenere ogni comunità ecclesiale nei suoi sforzi per tutelare tutto il popolo di Dio con compassione».





Giovedì, 05 Giugno 2025

Sedici schede per conoscere l’ebraismo. Contro ogni forma di discriminazione e antisemitismo. È stato presentato ieri, a Roma, al Ministero dell’Istruzione e del Merito, il lavoro realizzato dagli Uffici della Conferenza episcopale italiana (l’Ufficio nazionale per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso, l’Ufficio nazionale per l’Educazione, la scuola e l’università; il Servizio nazionale per l’insegnamento della religione cattolica) e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei). Si tratta di un approfondimento dei temi più rilevanti della tradizione ebraica, destinato alla redazione dei libri di testo per l’insegnamento della religione cattolica (Irc) nelle scuole.

L’incontro si è tenuto a porte chiuse e ha visto la partecipazione del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, del cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Cei e arcivescovo di Bologna, e di Noemi Di Segni, presidente dell’Ucei. Tra gli altri, presenti anche il vescovo Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dell’Azione Cattolica italiana, e Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma. Tutti hanno ribadito la volontà di continuare a collaborare, così come «la reciproca stima, fondata su un dialogo schietto e onesto, nel rispetto delle differenze». A fondamento del progetto, la promozione della cultura e della conoscenza «come vero antidoto ad ogni forma di antisemitismo, per la crescita delle nostre comunità e della società intera», si legge nella presentazione delle schede firmata da Noemi Di Segni e da Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei e arcivescovo di Cagliari.

L’obiettivo, ha spiegato il cardinale Zuppi a margine dell’evento, «è lavorare insieme con la cultura e con i responsabili della comunità ebraica per diffondere insieme con chiarezza la conoscenza dell’ebraismo e della sua tradizione, che evidentemente fa parte anche della nostra». Per l’arcivescovo di Bologna, è un impegno «che ci fa bene come metodo di lavoro e come contenuto». Le schede, ha aggiunto, «non sono importanti solo per la scuola, ma per tutti, perché ci aiutano a combattere tanta ignoranza, e a imparare la semantica e anche molte parti delle nostre feste». Secondo il presidente della Cei, «non si può capire la Pasqua senza conoscere la Pasqua ebraica», così come non si possono comprendere molti altri aspetti della nostra tradizione cristiana «senza conoscere quella di Gesù, che era ebreo».

Anche Noemi Di Segni ha sottolineato l’importanza di «un lavoro congiunto», che ha permesso di «ragionare insieme sulle criticità di conoscenza presenti nell’editoria scolastica». Un progetto, ha spiegato la presidente dell’Ucei, che ha consentito quindi di «colmare vuoti e chiarire determinati concetti per arginare l’antisemitismo». Tra gli argomenti trattati, Dio, la Bibbia, le feste ebraiche, il superamento del tema del deicidio e la collocazione di Gesù rispetto al suo vissuto ebraico. Contenuti che «sono universali – ha continuato Di Segni –, ma che spesso vengono affrontati in maniera molto generica, se non addirittura distorta». La presidente ha quindi concluso definendo il lavoro come «un punto di partenza» e, per la metodologia di scrittura, come «un esempio importante» da tenere presente anche per eventuali approfondimenti di altre religioni.

Le ha fatto eco il ministro Valditara, che ha posto l’accento sull’istruzione dei giovani. «Dobbiamo impegnarci tutti perché, a prescindere da qualsiasi contesto, il demone dell’antisemitismo non ritorni mai più – ha sottolineato –. A ottant’anni da Auschwitz non possiamo permetterci il risorgere di rigurgiti terribili che hanno segnato la storia dell’Europa». In questo senso, ha elogiato l’iniziativa della Cei e dell’Ucei e ha evidenziato la necessità di far conoscere sempre di più la cultura ebraica nelle scuole. «Sedersi tutti insieme intorno a un tavolo – ha aggiunto Valditara – è un segnale forte di costruzione di un messaggio di verità, di rispetto e di dialogo, soprattutto per le nuove generazioni». Proprio riferendosi a loro, ha concluso: «Bisogna partire dagli studenti per fare in modo che non si affermino pregiudizi e narrazioni sbagliate sulla cultura ebraica e sul ruolo che ha avuto nella nostra storia». Per una società sempre più incentrata sulla costruzione di ponti e sulla pace.





Mercoledì, 04 Giugno 2025

Saranno ben otto i beati di cui venerdì 13 giugno Leone XIV, insieme al collegio de cardinali, deciderà le date della canonizzazione. Il Concistoro ordinario pubblico, che è stato annunciato oggi 4 giugno, inizierà alle ore 9 nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico Vaticano con la recita dell’Ora media.

Questi sono i prossimi santi di cui si occuperanno nell'occasione il Papa e i porporati:

- Ignazio Choukrallah Maloyan (1869-1915), arcivescovo armeno cattolico di Mardin, martire

- Peter To Rot (1912-1945), catechista della Papua Nuova Guinea, martire

- Vincenza Maria Poloni (1802-1855), religiosa veronese, fondatrice dell’Istituto delle Sorelle della Misericordia

- Carmen Rendíles Martínez (1903-1977), religiosa venezuelana, fondatrice della Congregazione delle Serve di Gesù

- Maria Troncatti (1883-1969), religiosa delle Figlie di Maria Ausiliatrice, missionaria in Ecuador

- José Gregorio Hernández Cisneros (1864-1919), medico venezuelano

- Pier Giorgio Frassati (1901-1925), torinese, membro del Terz’Ordine di San Domenico

- Bartolo Longo, (1841-1926), originario della provincia di Brindisi, fondatore del Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei

Non compare nella lista il beato Carlo Acutis, la cui canonizzazione, già programmata per lo scorso 27 aprile, non aveva potuto tenersi in seguito alla morte di papa Francesco avvenuta sei giorni prima.





Mercoledì, 04 Giugno 2025

Salutare bene, anche con un semplice ciao, è importante. Significa prestare attenzione a chi abbiamo davanti, riconoscerlo come presenza nella nostra vita. Una presa di coscienza che assume ancora più valore alla luce della Scrittura e in particolare delle parole che Gesù rivolge ai discepoli quando appare loro dopo la Risurrezione: “pace a voi”, richiamo anche allo “Shalom” che troviamo spesso nell’Antico Testamento. E non a caso, al contrario, il segno più evidente della frattura tra due persone è togliersi il saluto. Il tema è al centro del nuovo episodio del podcast Taccuino celeste, l’ultimo della stagione, che dedica ampio spazio all’affascinante spiritualità della partenza, tipica dello scautismo. Molto significativa sul tema dei saluti la Cartolina da Camaldoli, curata come sempre dai monaci benedettini della comunità toscana.

Taccuino celeste è un podcast sui temi della fede, della religione, pensato per approfondire in cosa crede chi crede. Oltre che del Conclave, cui è stato dedicato lo speciale in quattro episodi Extra Omnes, nelle ultime settimane si è occupato, tra l’altro, della santità bambina (cioè a che età i piccoli possano essere canonizzati), dell’esistenza dell’inferno, della storia dell’Ave Maria, del perché i cristiani celebrino la Pasqua in date diverse, delle piante nella Bibbia, del dovere cristiano di fare l’elemosina, del rapporto tra cristianesimo e di chirurgia estetica, di cremazione sì o no?, della figura di san Giuseppe, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti.

Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Lo si può ascoltare sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube.





Martedì, 03 Giugno 2025

Il tono è deciso e fermo, a ribadire una forte convinzione: «Come Cei siamo delusi dalla decisione del Governo di modificare in modo unilaterale le finalità e le modalità di attribuzione dell’8xmille di pertinenza dello Stato. Una decisione che va contro la logica pattizia dell’accordo, creando una disparità che danneggia sia la Chiesa cattolica sia le altre confessioni religiose firmatarie di intese con lo Stato». Ha tenuto a ribadirlo, il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, a Bologna in apertura del Convegno nazionale “1985-2025 – Quarant’anni di sostentamento del clero: ieri, oggi e domani”, promosso dall’Istituto centrale per il Sostentamento del clero a quarant’anni dalla legge n. 222/1985 che ha riformato i rapporti tra Stato e Chiesa, superando il sistema della congrua e dei benefici ecclesiastici. Un segno dei problemi che, assieme ai tanti aspetti positivi, ancora affliggono questo sistema che - tutti i relatori lo hanno sottolineato - ha segnato una svolta epocale sia per la Chiesa sia per lo Stato e la società ecclesiale e civile.

Nella tavola rotonda moderata da Vincenzo Morgante, direttore di Tv2000 e InBlu2000 si è parlato anzitutto della storia dell’Accordo e successiva legge. Importante è stato il contributo di Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale, che ha ricordato «il grande lavoro che fece in soli 6 mesi la Commissione paritetica, guidata dalla Cei e animata dall’allora monsignor Attilio Nicora, che creò il criterio della deduzione delle offerte liberali, cosa non consueta allora in Italia e la soluzione parallela dell’8xmille, che dà libertà ai cittadini anche al di là dell’appartenenza religiosa, non dà nessun aggravio per contribuenti e rende sovrana la comunità, che decide la ripartizione con la propria scelta». E l’arcivescovo Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei ha ricordato che «l’avvento della democrazia e gli insegnamenti del Concilio hanno portato a un sistema che funziona, tanto che è stato adottato anche in altri Stati. Un sistema che garantisce ciò che la Chiesa voleva e lo stesso Giovanni Paolo II sollecitò: un rapporto di mutua indipendenza e insieme di collaborazione con lo Stato». Un sistema, ha sottolineato ancora, che ha anche «corretto le disuguaglianze create dai benefici, che erano distribuiti in modo diseguale, e permise la nascita degli Istituti diocesani per il Sostentamento del clero».

Istituti il cui ruolo è stato sottolineato e ribadito da Luigi Testore, vescovo di Acqui e presidente dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero, che ha però anche sottolineato: «Il patrimonio di beni gestito dagli Istituti diocesani purtroppo è molto parcellizzato, e questo costituisce un limite, perché la gestione diventa complessa e difficile». «Oggi ci vuole più efficienza – ha affermato – occorre fare una revisione e un piano complessivo per trasformare il patrimonio in reddito. E questo può anche implicare, in alcuni casi, l’unificazione di diversi Istituti in un uno più grande». Un tema che aveva trattato anche Zuppi nella sua introduzione: «Occorre guadagnare in efficacia, guardare al futuro – aveva detto – e se è necessario per questo unire due o più Istituti, dobbiamo pensare che non ci perdiamo, anzi ci guadagniamo». E aveva anche insistito sulla trasparenza: «La Chiesa è una – ha ricordato –, veniamo giudicati insieme, ed è necessario amministrare bene anche perché ne va della nostra immagine».

Al vescovo Testore è stato affidato anche il compito di ricordare la figura del cardinale Attilio Nicora, presidente della Commissione paritetica che elaborò la struttura della legge del 1985, «che concepì come ponte fra tradizione ed esigenze dell’oggi. Sosteneva infatti che il sistema della “congrua” era ingiusto e inopportuno, e che d’altra parte era necessario togliere il controllo dello Stato sui beni ecclesiastici. E aveva chiaro anche quali sarebbero stati i nuovi impegni richiesti: corresponsabilità tra diocesi, trasparenza, raccolta costante dei dati». «Oggi alcune preoccupazioni rimangono – ha concluso – come il fatto che non tutti gli Istituti diocesani hanno ben gestito i loro patrimoni. Ma la legge dell’85 è un pilastro essenziale di nuovi rapporti tra Chiesa e istituzioni». Interessante il contributo di Giulio Tremonti, economista e presidente della Commissione Esteri della Camera, che ha presentato una sua proposta di legge: «Oggi c’è una massa crescente di ricchezza che è alla ricerca di un erede: propongo che siano esenti da tasse presenti e future i beni dati a enti benefici e il loro utilizzo».

La precisazione di Palazzo Chigi: il governo Meloni ha introdotto solo una mini-modifica

Sulla delusione della Cei sono intervenute a sera anche fonti di Palazzo Chigi: dalla Presidenza del Consiglio si è voluto ricordare che la modifica alla legge del 1985 «fu introdotta dalla maggioranza parlamentare che sosteneva il governo Conte 2», quindi quella fra M5s e Pd. Fu allora che s’introdusse, per chi destina allo Stato l’8xmille, la facoltà di scegliere fra 5 tipologie diverse d’intervento. «Nel 2023 il Governo Meloni - riprendono ancora le fonti di Palazzo Chigi - ha semplicemente inserito una sesta finalità», legata alle comunità di recupero dalle tossicodipendenze. In precedenza erano intervenuti a favore della linea Cei il leader di Iv, Matteo Renzi, ed esponenti del Pd come Stefano Lepri e Graziano Delrio. «Solidarietà a tutti i vescovi - aveva detto Renzi -. Togliere alla Chiesa quello che le spetta per il Concordato e farlo perché magari non si condivide la posizione della Cei sui migranti è l’ennesimo colpo di testa del duo Meloni-Mantovano». E per Lepri «non va bene» che il Governo «modifichi unilateralmente i campi d’attività dell’8xmille», specie dopo «aver tagliato i fondi al sociale».





Martedì, 03 Giugno 2025

Monsignor Bruno Fasani è il nuovo direttore della testata giornalistica di Telepace. La nomina è stata ufficializzata oggi durante una riunione del Consiglio di amministrazione dell’emittente, alla presenza dei direttori entrante e uscente – Fasani e don Luca Passarini – e del personale delle sedi di Verona e Roma. Sacerdote della diocesi di Verona dal 1974, Fasani ha alle spalle una lunga collaborazione con Telepace, per cui cura la trasmissione “Il Fatto”. Giornalista professionista, è stato direttore e collaboratore di numerose testate, tra queste "Verona Fedele", opinionista televisivo, autore di saggi e romanzi. Dal 2010 è prefetto della Biblioteca Capitolare di Verona, la più antica al mondo, e dal 2019 presidente della Fondazione ad essa dedicata. Durante l’incontro, Fasani ha richiamato le parole della storica guida e fondatore di Telepace, recentemente scomparso, monsignor Guido Todeschini (1936-2024) per descrivere l’emittente come uno strumento nelle mani di Dio, indicando le sfide e le prospettive per il futuro della comunicazione.





Lunedì, 02 Giugno 2025

Una folla imponente si sta radunando da giorni a Namugongo, Uganda, a una decina di chilometri dalla capitale Kampala, nei pressi del Santuario che costituisce il cuore cristiano del Paese. Tre milioni di persone sono attese in totale, scrive New Vision, il principale quotidiano ugandese, mentre le stime del ministero del turismo parlano di 2,5 milioni.

Il 3 giugno è infatti la memoria liturgica di santi Carlo Lwanga e compagni martiri, il gruppo di giovani maschi – ricorda il martirologio romano – «di età compresa tra i quattordici e i trent’anni, appartenenti alla regia corte dei giovani nobili o alla guardia del corpo del re Mwanga, neofiti o fervidi seguaci della fede cattolica» i quali «essendosi rifiutati di accondiscendere alle turpi richieste del re [che voleva giacere con loro ndr] sul colle di Namugongo in Uganda furono alcuni trafitti con la spada, altri arsi vivi nel fuoco». Ventidue furono i cattolici assassinati a Namugongo tra il 1885 e il 1888, 23 quelli appartenenti alla Chiesa anglicana.

I pellegrini arrivano in gran parte a piedi, anche da Paesi vicini come Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Kenya e Tanzania, percorendo a volte centinaia di chilometri e dando vita a una delle più scenografiche manifestazioni di fede popolare dell’Africa centrale.

«Ho iniziato a venire a piedi a Namugongo 18 anni fa e non ho mai saltato un anno, tranne che durante la pandemia di COVID-19» ha raccontato al quotidiano ugandese Monitor un keniota di nome Makokha, che fa notare di aver chiamato l’ultimo figlio Charles Lwanga. «Ci sono pellegrini – ha aggiunto – che hanno iniziato a camminare all'inizio di questo mese partendo da Machakos e Nakuru [in Kenya ndr] e che percorreranno quasi 700 km prima di arrivare a Namugongo».

«Perché qualcuno dovrebbe camminare così a lungo? Cosa c'è nei martiri dell'Uganda che ispira tanta devozione? E perché la fede è ancora così profonda tra gli africani di oggi?» si chiede il quotidiano Nile Post, che così risponde: « Per molti fedeli andare a Namugongo non è solo una tradizione, ma è come rivivere quel sacrificio. È un'occasione per sopportare, anche se per poco, il dolore e la sofferenza in onore di chi ha sopportato molto di più. Alcuni si chiedono: se loro hanno potuto dare la vita per Cristo, cosa sono 300 chilometri a piedi?». E aggiunge: «In un'epoca di crescente secolarismo in molte parti del mondo, il cuore spirituale dell'Africa rimane forte».

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Venerdì, 02 Maggio 2025

«Un agostiniano conosce l’inquietudine. E l’Italia è un Paese inquieto, ma non rassegnato». Domenico Battaglia è uno dei cardinali della Penisola che hanno partecipato al Conclave. Arcivescovo di Napoli, 62 anni, ha ricevuto la berretta lo scorso dicembre. L’ultima porpora creata da Francesco che è entrata nel Collegio cardinalizio. Ventiquattro ore, quattro votazioni: ed è stato eletto papa Robert Prevost, primo statunitense sul soglio di Pietro e Pontefice “migrante” che unisce il nord del mondo, dove è nato, con il sud del pianeta, dove è stato missionario (in Perù). Ma anche l’est e l’ovest, visto che le radici familiari affondano in Europa e perché ha trascorso un segmento significativo della sua vita in Italia: prima da studente a Roma; poi per dodici anni come priore generale dell’Ordine di Sant’Agostino nella casa generalizia a due passi da piazza San Pietro; e negli ultimi due anni in Vaticano da prefetto del Dicastero per i vescovi. «Il Papa – spiega Battaglia ad Avvenire – sa quali siano i limiti del nostro Paese, ma anche la sua bellezza. Conosce l’anima del nostro popolo: la sua generosità, la sua voglia di riscatto, la sua fede popolare». Leone XIV riceverà in udienza i vescovi italiani il 17 giugno nell’Aula Paolo VI. Lui che è vescovo di Roma e primate d’Italia. Sarà la prima Conferenza episcopale nazionale che incontrerà. «Mi aspetto che ci aiuti a riscoprire l’Italia profonda, quella che non fa rumore, ma costruisce ponti, accoglie, educa, sogna – sottolinea l’arcivescovo di Napoli –. E ci aiuti anche a ritrovare il coraggio della verità, nelle stanze della politica come nei confessionali».

Ci sono due “segni” consegnati da papa Leone nelle sue prime settimane di pontificato che hanno colpito Battaglia: l’invito a “disarmare il linguaggio” e la decisione di non volere selfie. Al massimo qualche foto insieme, ma non auto-scatti. «Il Papa – afferma il cardinale – ci ha ricordato che le parole non sono neutre. Possono ferire, possono guarire. Disarmare il linguaggio significa rifiutare la violenza che si nasconde nella semplificazione, nel sarcasmo, nel giudizio facile. E il rifiuto del selfie, che credo abbia a che fare anche con il carattere di Leone XIV, lo leggo come un invito a riscoprire l’incontro vero, non l’immagine. Non siamo qui per collezionare momenti, ma per costruire legami. Il Vangelo non è un post da condividere, è una vita da vivere».

Eminenza, il Conclave è stato breve. Un messaggio di unità che il Collegio cardinalizio ha voluto mandare?

«La rapidità con cui si è svolto il Conclave non è stata fretta, ma sintonia. Un sentire comune che andava oltre le parole: il desiderio di una Chiesa che continui il cammino iniziato da Francesco, una Chiesa sinodale, povera e libera, capace di abitare le ferite del mondo con misericordia e di annunciare a tutti, con gioia, il Vangelo».

Il Papa ha spiegato che la scelta del nome è legata a Leone XIII, il Papa della Rerum novarum. Nel 2025 quali sono le “questioni sociali” che anche in Italia interrogano la Chiesa?

«Oggi le “questioni sociali” non sono meno gravi, anzi sono altrettanto gravi ma più complesse. Le disuguaglianze crescono, i poveri diventano sempre più numerosi e invisibili, il lavoro precario diventa norma, i giovani non vedono futuro. In certe periferie d’Italia – e non parlo solo geograficamente – si muore di solitudine, si muore di sfruttamento, si muore di abbandono. Il grido della terra e il grido dei poveri sono lo stesso grido. La voce del Papa serve a ricordarci che non possiamo essere cristiani a metà: o scegliamo il Vangelo, o scegliamo la comodità e l’indifferenza».

Leone XIV si è presentato come il “Papa della pace”. Come declinare il suo richiamo nelle città italiane dove non mancano segni di conflitto sociale?

«La pace inizia nel modo in cui ci guardiamo, ci parliamo, ci ascoltiamo. Non è solo assenza di guerra, ma presenza di giustizia. E parte quindi dal cuore. È frutto di un lavoro che si fa anzitutto nel cuore. Nelle nostre città, la pace si costruisce quando un ragazzo viene sottratto alla criminalità e accompagnato a trovare un senso. Quando un anziano non è lasciato solo. Quando la politica torna a servire, non a servirsi. Il Papa ci ha ricordato che la pace è una scelta quotidiana, non uno slogan da gridare. E comincia da noi».

Che cosa aspettarsi dal pontificato di Leone XIV?

«Mi aspetto da lui quello che si aspetta da Pietro: l’essere confermati sulla via del Vangelo, leggendo i segni dei tempi con gli occhi della fede e camminando per le strade del mondo con i piedi ben piantati nella storia. Leone XIV ha già mostrato di andare in questo senso: la sua insistenza sulla pace come dono del Risorto, le sue parole aperte al dialogo con tutti, la necessità di custodire l’amore e l’unità, in un mondo lacerato da discordie e conflitti, sono tutte conseguenze della fede nel Crocifisso Risorto, e rappresentano il cuore pulsante del Vangelo».

Papa Francesco lascia molti processi avviati per avere una Chiesa sinodale. Quali, secondo lei, i processi che papa Leone dovrebbe concludere in maniera prioritaria?

«Il primo processo è quello della prossimità: una Chiesa che non aspetta, ma va. Poi quello della corresponsabilità: laici, donne, giovani devono trovare spazio vero. Non come ornamento, ma come forza viva. Infine, la riforma dello sguardo: imparare a vedere il mondo non con l’occhio del potere, ma con quello della compassione. Papa Leone ha il compito di custodire questi processi come semi che portano frutto. Però sono anche certo che se ne avvieranno altri perché le rivoluzioni – come quella dell’intelligenza artificiale – richiedono anche ripensamenti, verifiche, processi nuovi».

Il Papa ha invitato a crescere nella sinodalità e nella collegialità. Quale indicazione per il Cammino sinodale delle Chiese in Italia?

«L’indicazione è chiara: ascoltare davvero. Non fare soltanto incontri o documenti. Ma lasciare che lo Spirito ci sorprenda. Che i poveri parlino. Che le ferite parlino. Che i margini diventino centro. Il Cammino sinodale non è una strategia pastorale: è una conversione. E se non ci cambia il cuore, non cambia nulla. Dobbiamo abbandonare la nostalgia del potere e riscoprire la bellezza del servizio».

Il Papa ha chiesto ai giovani di non avere paura. Ci sarà il Giubileo dei giovani a cavallo fra luglio e agosto. Come immagina il rapporto che si instaurerà?

«Lo immagino fatto di ascolto e di libertà. Non credo che il Papa voglia dei giovani devoti ma muti, obbedienti ma spenti. Li vuole vivi, veri, inquieti. Il Giubileo dei giovani sarà l’occasione per incontrarli e dire loro tutto l’amore incondizionato di Dio e della sua Chiesa. E sono certo che il Papa aiuterà anche noi adulti a fare loro spazio, magari anche coltivando il coraggio necessario a fare un passo indietro. Anzi, a camminare accanto».





Sabato, 31 Maggio 2025

Il treno? Il cinema? Le invenzioni forse più rappresentative della modernità tecnologica otto-novecentesca. Che la Chiesa, all’inizio, guardò con diffidenza, se non addirittura con ostilità: negli anni ’40 del XIX secolo Gregorio XVI definì «opera diabolica» la ferrovia. E non andò meglio al cinema: qualche decennio dopo, in ambito ecclesiale, non mancò chi giunse a bollarlo come «invenzione diabolica». Con conseguente ostracismo.

Ebbene: la storia degli ultimi due secoli mostra come quelle «opere diaboliche» – assieme ad altre innovazioni della contemporaneità, nell’ambito dei sistemi di trasporto come dei mass media – siano state messe progressivamente al servizio della fede, dell’annuncio evangelico, della missione della Chiesa. Una storia che ha la sua cartina di tornasole nei Giubilei. E che manifesta un duplice dinamismo: se fino al pontificato di Pio XII la ferrovia e i media servono principalmente a convocare e portare le masse dei fedeli dal mondo a Roma, incontro al Papa – nello scenario di quella «modernizzazione senza modernità» che fa da paradigma al processo di apertura selettiva della Chiesa alle espressioni della civiltà moderna, com’è con Pio XI e il suo successore, papa Pacelli – con Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II quegli stessi strumenti serviranno sempre più anche a portare Roma – e il Vescovo di Roma, e la sua missione evangelizzatrice – in mezzo ai fedeli, incontro al mondo. Incontro ai popoli.

Non senza mutamenti sorprendenti. Come quello accaduto proprio col Giubileo del 1950, regnante Pio XII: «La sempre più marcata trasformazione dell’evento cattolico in pratica secolare quale “fatto sociale totale”». In quel contesto «il profilo del pellegrino trascolorò sempre più verso quello del turista religioso che, come tale, veniva sottoposto a una serie di sollecitazioni in cui gli elementi spirituali si mischiavano con quelli sociali, culturali, artistici e pubblicitari». Così si legge nel volume “Pellegrini e spettatori. I Giubilei, il treno, i media” (Giunti), curato da due docenti dell’Università Telematica Internazionale Uninettuno, Gianluca della Maggiore (direttore del Centro di ricerca Catholicism and Audiovisual Studies) e Dario Edoardo Viganò (presidente della Fondazione Memorie Audiovisive del Cattolicesimo e del Centro di ricerca Catholicism and Audiovisual Studies).

Il libro, presentato nei giorni scorsi al Ministero delle Imprese e del Made in Italy, è il frutto di un progetto promosso da Fondazione Mac e Fondazione Fs, nasce in «collaborazione con la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università Uninettuno» e «scaturisce da un censimento che ha coinvolto in particolare tre grandi archivi – l’Archivio Fondazione Fs Italiane, l’Archivio Storico Luce, l’Archivio Apostolico Vaticano, istituzioni che hanno fornito la gran parte delle fotografie presenti nel libro – ma che si è poi esteso ad altri archivi e cineteche italiane ed estere», ha ricordato Viganò presentando questa pubblicazione ricca di fotografie e immagini, molte delle quali inedite, e nel quale sono raccolti i saggi firmati dai due curatori e da altri studiosi di diverse discipline (Gabriele Ragonesi, Gabriele Romani, Danilo Boriati, Andrea Pepe, David Gargani, Luca Adriani e Anna Villari, mentre l’introduzione è firmata da Luigi Cantamessa, direttore generale di Fondazione Fs).

Giubilei, treno, mass media: «Una triade di soggetti non immediatamente associabili», ammette Viganò. Ma capace di illuminare il rapporto fra Chiesa cattolica e modernità. Con i treni a portare il mondo a Roma, e il Vescovo di Roma al mondo. E le molteplici espressioni del sistema e dell’industria della comunicazione – dalla fotografia al cinegiornale al documentario, e altre ancora – a offrirsi non solo come fonti documentarie, ma come “agenti di storia”, in grado di orientare il modo di interpretare e vivere gli eventi ecclesiali – a partire dagli Anni Santi. Alcuni passaggi chiave?

Il Giubileo straordinario del 1933, voluto da Pio XI per celebrare i 1.900 anni della morte e resurrezione di Cristo. Per la prima volta il treno e il cinema entrano in Vaticano. In quell’anno, infatti, viene completata la Stazione ferroviaria vaticana, raccordata alla rete italiana tramite la linea internazionale più breve al mondo: 1.270 metri. Ma il suo valore simbolico è fortissimo: grazie alla breccia aperta nelle Mura Leonine, il Vaticano si apre al mondo e con il Giubileo proietta sul mondo la sua leadership spirituale, in una fase storica segnata dalla crisi dei sistemi liberali e dall’affermazione dei totalitarismi (bolscevismo, fascismo, nazismo) e, in Italia, dalla Conciliazione. In quello stesso 1933 papa Ratti mette il cinema al servizio del Giubileo istituendo un Centro di studi e produzioni cinematografiche. Nuovi mass media e nuovi sistemi di trasporto vengono mobilitati nel contesto di un «piano di modernizzazione della Chiesa» che, nella prospettiva di Pio XI, «avrebbe dovuto mettere i nuovi strumenti del progresso a disposizione di un più generale e urgente piano di ricristianizzazione della società, mostrando la conciliabilità tra scienze moderne e rivelazione divina», scrive Andrea Pepe.

Nel ’900 il Giubileo diventa a pieno titolo un evento mediatico. E questo trova conferma nell’Anno Santo 1950, che Pio XII concepisce come «occasione preziosa di rigenerazione non solo dello spirito del pellegrino ma anche dei cardini dell’intera società», scrive Luca Adriani. Ad un’umanità che si sta risollevando dalle devastazioni materiali e morali della Seconda guerra mondiale – e che già vive nuovi conflitti e tensioni globali, nello scenario della Guerra fredda – papa Pacelli offre il Giubileo come occasione di ritorno a Roma, alla Chiesa, a Cristo. E, per questa via, alla pace. «Voi, che già per lunghi anni lasciaste il focolare domestico e vi tempraste alle asperità dei lunghi viaggi con gli eserciti in guerra, con le torme dei profughi, degli emigranti, degli sfollati, riprendete la via, ma questa volta in letizia, quasi legioni pacifiche di oranti e di penitenti verso la patria comune dei cristiani», afferma Pio XII nel radiomessaggio del Natale 1949. Mass media e moderni mezzi di trasporto appaiono funzionali a un «progetto di riconquista cattolica», scrivono della Maggiore e Viganò. Simbolo del Giubileo del 1950, la Stazione Termini, con la sua “ardita pensilina”, modernissima porta di Roma – e della risorgente Italia degasperiana – aperta al mondo.

Il treno, intanto, cambia il modo di vivere l’evento giubilare – e ogni evento ecclesiale. Non solo rende più agevole alle masse lo «spostamento fisico», ma «può essere considerato anche come un’opportunità di raccoglimento e preghiera collettiva, in grado di far aumentare il senso di appartenenza religiosa tra persone provenienti da paesi e culture differenti», annota Danilo Boriati.

Con i Papi del Concilio e del post Concilio, il treno diventa strumento di una Chiesa e di un pontificato in uscita. Ecco, così, Giovanni XXIII recarsi in treno a Loreto e Assisi il 4 ottobre 1962, alla vigilia del Vaticano II – primo viaggio compiuto da un pontefice fuori dal Vaticano dopo la “presa di Roma” da parte del Regno d’Italia. Ecco Paolo VI portare gli incontri con i ferrovieri, in precedenza in luoghi ecclesiali, nei loro ambienti di lavoro – e celebrare la Messa nella Notte di Natale del 1972 con gli operai nel cantiere della galleria del monte Soratte, lungo la costruenda direttissima Roma-Firenze. Ed ecco Giovanni Paolo II raggiungere in treno Roma Smistamento – il viaggio più breve di un Papa globetrotter – per celebrarvi la Giornata del Ferroviere l’8 settembre 1979. E recarsi in treno ad Assisi per la Giornata di preghiera per la pace nel mondo del 24 gennaio 2002 – risposta orante e pacifica agli attentati dell’11 settembre 2001 e alle azioni militari avviate in Afghanistan.

Sono passati duecento anni da quando il primo treno commerciale – il 27 settembre 1825 – portò passeggeri e merci fra Stockton-on-Tees e Darlington. E da allora sono cambiate mille cose, oltre ogni immaginazione. Ma il rapporto fra l’annuncio del Vangelo, le nuove espressioni della mobilità umana, le nuove culture e tecnologie della comunicazione resta una sfida feconda e ineludibile per una Chiesa missionaria e in uscita.





Sabato, 31 Maggio 2025

Papa Prevost indica i tre santi francesi come tre maestri da ascoltare


Papa Leone XIV invoca l’intercessione dei «tre maestri da ascoltare»: santa Teresa di Lisieux (1873-1897), san Giovanni Maria Vianney (1786-1859) e san Giovanni Eudes (1601-1680), in occasione del centenario della loro canonizzazione che cade nel mese di maggio, e «sotto i venti contrari e talvolta ostili dell'indifferentismo, del materialismo e dell'individualismo».

È quanto si legge in un messaggio, datato 28 maggio, e indirizzato alla Conferenza episcopale di Francia. «Hanno amato senza riserve Gesù in modo semplice, forte e autentico». Così papa Leone XIV definisce san Giovanni Eudes, san Giovanni Maria Vianney e santa Teresa di Gesù Bambino nel messaggio inviato alla Conferenza episcopale di Francia, in occasione del 100° anniversario della loro canonizzazione. «Hanno fatto esperienza della sua bontà e della sua tenerezza in una particolare prossimità quotidiana, e ne hanno testimoniato in un ammirabile slancio missionario», afferma il Pontefice, sottolineando il desiderio di Pio XI di offrirli al popolo di Dio «come maestri da ascoltare, come modelli da imitare, e come potenti intercessori da pregare e invocare». «Celebrarne il centenario di canonizzazione – scrive Leone XIV – è prima di tutto un invito a rendere grazie al Signore per le meraviglie che ha compiuto in questa terra di Francia durante lunghi secoli di evangelizzazione e di vita cristiana».

Il Papa esorta a non limitarsi «a evocare con nostalgia un passato che potrebbe sembrare superato», ma a risvegliare «la speranza e suscitare un nuovo slancio missionario». Leone XIV conclude il messaggio con una parola di gratitudine «a tutti i sacerdoti di Francia per il loro impegno coraggioso e perseverante».





Venerdì, 30 Maggio 2025

La preghiera con la Parola di Dio è il filo rosso che unisce la vocazione degli 11 nuovi sacerdoti per la diocesi di Roma che Papa Leone XIV ordina a San Pietro oggi, festa della Visitazione della Beata Vergine Maria. Sette hanno studiato al Pontificio Seminario Romano Maggiore: Pietro Hong Hieu Nguyen, Francesco Melone, Marco Petrolo, Giuseppe Terranova, Enrico Maria Trusiani, Federico Pelosio, Andrea Alessi, il più grande di età, 49 anni a settembre. Quattro si sono formati nel Redemptoris Mater: Cody Merfalen, Gabriele Di Menno Di Bucchianico, Simone Troilo, Matteo Renzi, il più giovane, 28 anni compiuti ad aprile.

«Nella Chiesa saranno un segno di speranza, il loro ministero renderà presente Gesù – afferma il vescovo ausiliare Michele Di Tolve, rettore del Pontificio Seminario Romano Maggiore –. La speranza è che il Vangelo di Gesù, la sua grazia, la vita della Chiesa, ancora suscitino uomini che si donino totalmente per la crescita della fede dei fratelli. Il frutto più bello di ogni battezzato è scoprire e vivere la propria vocazione. Quella al presbiterato è lasciarsi conformare da Cristo». Oggi per un formatore la sfida è «far comprendere ai giovani che in qualsiasi condizione si trovino, la fedeltà di Dio non verrà mai meno».

La vocazione di Matteo Renzi è «nata e maturata con la Scrittura. A 16 anni durante un ritiro lessi la vocazione di Geremia – dice –, una notte di due anni dopo il dialogo tra Gesù e Pietro. Parole determinanti per la scelta del Seminario». È stato in missione in Cile e Brasile. Farà servizio nella parrocchia di Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca. «Un uomo di fede – dichiara – mi disse che al ritorno di Gesù vorrebbe farsi trovare “ai piedi dei poveri”. Forse il Signore mi chiama a servirlo nei fragili».

Francesco Melone faceva attività in Seminario con il gruppo giovani. Gli venne spiegata la preghiera quotidiana con il Vangelo del giorno. «Facevo tante cose – ricorda –. La novità del silenzio nella preghiera ha aperto un’altra strada. All’inizio pochi minuti, poi è diventata una presenza sempre più profonda». Per la società, consacrarsi al Signore è una scelta controcorrente. Dice ai giovani «di fidarsi di Dio. Io ho seguito ciò che mi rendeva veramente felice».

La Scrittura ha illuminato anche il cammino di Gabriele Di Menno Di Bucchianico. Al termine della Gmg di Cracovia, nel 2016, avvertiva «tristezza e vuoto interiore – racconta –. “Io vengo e non trovo risposta” e “Sii zelante e convertiti” le parole che mi hanno fatto riflettere. Quella tristezza veniva dal non seguire la chiamata che sentivo nel cuore». Lasciata la facoltà di Ingegneria biomedica è entrato in Seminario. «Non era la mia strada – commenta ancora Gabriele –. La vocazione è diversa per ognuno, basta essere disponibili a seguire il Signore».

A 14 anni Simone Troilo aveva iniziato un percorso di fede nel Cammino neocatecumenale. L’ultimo anno di Ingegneria dell’edilizia ha iniziato ad interrogarsi sul futuro. Pensava di creare una famiglia ma dopo la laurea è nato il desiderio di mettersi «al servizio del Padre». L’11 maggio scorso ha avuto «una conferma» della vocazione quando Papa Leone, con le parole di san Giovanni Paolo II, ha detto ai giovani di non avere paura di seguire il Signore. «Non temere di lasciarsi sconvolgere la vita da Dio e dallo Spirito Santo – dichiara – è il messaggio che vorrei trasmettere ai giovani: lasciatelo entrare nei vostri progetti».

Enrico Maria Trusiani era amministratore d’azienda, è entrato in Seminario a 36 anni per discernere se il desiderio che aveva nel cuore «era sincero – afferma –. Agli occhi del mondo ho perso tanto ma, pur avendo tutto, il cuore era inquieto, non amavo come Dio mi aveva pensato. Non tornerei indietro, la bellezza sta nel donarsi».

Andrea Alessi, ex ufficiale militare, ha maturato la vocazione intorno ai quarant’anni, durante un periodo di volontariato su una spiaggia attrezzata per persone con disabilità, a Focene. «Tra preghiera, servizio e condivisione, ho sentito la chiamata forte e chiara al sacerdozio – dice –, suggellata dal canto “Vieni e seguimi”. Voglio essere un sacerdote strumento nelle mani di Dio, “scomparire in Cristo” come Papa Leone ha detto nella Messa con i cardinali».?

(da Roma Sette)





Venerdì, 30 Maggio 2025

«Il cammino verso la pace richiede cuori e menti allenati e formati all’attenzione verso l’altro e capaci di riconoscere il bene comune nel contesto odierno. La strada che porta alla pace è comunitaria, passa per la cura di relazioni di giustizia tra tutti gli esseri viventi». Papa Leone XIV torna a parlare di pace, facendo riferimento anche alla nonviolenza, perché «troppa violenza nel mondo, c’è troppa violenza nelle nostre società». Al contrario « i ragazzi e i giovani hanno bisogno di esperienze che educano alla cultura della vita, del dialogo, del rispetto reciproco. E prima di tutto hanno bisogno di testimoni di uno stile di vita diverso, nonviolento. Pertanto, dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, quando coloro che hanno subito ingiustizia e le vittime della violenza sanno resistere alla tentazione della vendetta, diventano i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. La nonviolenza come metodo e come stile deve contraddistinguere le nostre decisioni, le nostre relazioni, le nostre azioni». Parole che papa Leone XIV pronuncia ricevendo i movimenti e le associazioni che hanno dato vita un anno fa all’iniziativa “Arena di pace” a Verona, a cui partecipò anche papa Francesco. E le parole di Leone XIV trovano nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico proprio due diquei testimoni invocati dal Pontefice. Sono l’israeliano Maoz Inon, al quale sono stati uccisi i genitori da Hamas, e il palestinese Aziz Sarah, al quale l’esercito israeliano ha ucciso il fratello. Erano presenti un anno fa a Verona e l’abbraccio tra loro e con il Papa resta un’immagine di grande testimonianza. «Ora sono amici e collaboratori: quel gesto rimane come testimonianza e segno di speranza. E li ringraziamo di aver voluto essere presenti anche oggi» ha aggiunto il Papa. Un gesto che ha reso evidente anche il fatto che «la pace è un bene indivisibile, o è di tutti o non è di nessuno».

Ma in un’epoca come la nostra nella quale la velocità e l’immediatezza sembrano essere dei valori, «dobbiamo ritrovare quei tempi lunghi necessari perché questi processi possano avere luogo – avverte il Papa –. La storia, l’esperienza, le tante buone pratiche che conosciamo ci hanno fatto comprendere che la pace autentica è quella che prende forma a partire dalla realtà (territori, comunità, istituzioni locali e così via) e in ascolto di essa». Proprio per questo iniziative come quella di Arena di pace, che ha visto un movimento dal basso, partito da movimenti e associazioni, rappresenta «un contributo prezioso».

Se la non violenza, il non replicare all’offesa, il non cedere alla voglia di vendetta, devono diventare stili di vita, e non solo del cristiano, occorre anche se «se si vuole la pace, si preparino Istituzioni di pace», sottolinea il Pontefice, che ricorda come ci si renda «sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni – educative, economiche, sociali – ad essere chiamato in causa. Per questo vi incoraggio all’impegno e ad essere presenti: presenti dentro la pasta della storia come lievito di unità, di comunione, di fraternità. La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata, nella fiduciosa speranza che essa è possibile grazie all’amore di Dio, riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo». Dunque dalle parole di Leone XIV non soltanto l’invito a far cessare il suono delle armi portatrici di morte e distruzione, ma anche il forte richiamo a scegliere uno stile di vita nelle relazioni con gli altri proprio per creare un clima che sia favorevole alla pace, alla pacifica convivenza, affinché non sia soltanto assenza di guerra. Riecheggia ancora una volta quell’invito a «una pace disarmata e disarmante» che Leone XIV ha auspicato nel suo primo discorso.





Venerdì, 30 Maggio 2025

Henrique Aparecido de Lima, 60 anni, è il vescovo di Dourados, nello Stato del Mato Grosso do Sul, in Brasile. È stato nominato pastore di questa diocesi confinante con il Paraguay, che conta 420mila cattolici su 630mila abitanti, il 21 ottobre 2015 ed è stato consacrato vescovo il 30 gennaio 2016. Si avvicina quindi ai 10 anni di ministero episcopale, un traguardo significativo. Ma anche sua madre, Sebastiana Onofre de Lima, festeggia quest’anno un traguardo importante: 20 anni di vita religiosa, trascorsi nella congregazione delle Irmãs da Copiosa Redenção, le Suore della Copiosa Redenzione, un istituto fondato nel 1989 dal redentorista brasiliano Wilton Moraes Lopes.

Irmãs da Copiosa Redenção che, tra l’altro, hanno vissuto un momento di grande popolarità nei giorni scorsi per una performance di beatboxing (ossia riproduzione con la bocca di suoni elettronici al ritmo di musica simil rap) di una di loro su una tv brasiliana, video diventato virale.


Ma come fa il vescovo di Dourados ad avere una madre suora da ben due decadi?

La storia è stata riportata nei giorni scorsi su Aci Digital, l’agenzia in lingua portoghese del gruppo multimediale Ewtn, da Nathália Queiroz, che ha raccolto la testimonianza di madre e figlio.

«La mia vocazione è una grande cosa che viene da Dio», ha detto suor Sebastiana, che oggi si dedica ad aiutare donne che vogliono liberarsi dalla dipendenza di droga e alcol, uno degli apostolati che caratterizza la sua congregazione.

Nata in una zona rurale dello Stato del Paraná, fin da piccola sentì la chiamata alla vita religiosa, ma le difficoltà economiche della famiglia le impedirono di seguire questa strada. Fu poi spinta dal padre a dire sì a un matrimonio combinato.

«Dal giorni in cui mi sono sposata», ha aggiunto suor Sebastiana, «ho chiesto a Dio di operare nella mia vita e in quella dei miei figli. Ha avuto pietà di me e mi ha onorata con la grazia della vocazione di mio figlio e poi mia».

Il vescovo Henrique ha condiviso i suoi ricordi d’infanzia della fede della madre. «La vedevo sempre pregare, le chiedevo cosa facesse e lei me lo spiegava» ha raccontato, «a casa ogni sera pregava il rosario e ci leggeva la Bibbia. Poi tutti andavano a letto e lei continuava a pregare». Un esempio che segnò Henrique e all’età di 14 anni lo portò a entrare nel seminario dei Redentoristi a Ponta Grossa, sempre nello Stato del Paraná. Ad un certo punto dovette abbandonarlo per lavorare, aiutare la famiglia e raccogliere il denaro necessario per continuare gli studi. Quattro anni e mezzo dopo rientrò, divenne religioso redentorista e fu ordinato sacerdote nel 1999.

Sei mesi dopo, suo padre morì. Cinque anni dopo, sua madre bussò alle porte delle Irmãs da Copiosa Redenção, avendo saputo che accettavano anche a vedove che volevano consacrarsi. Il figlio Henrique la mise in contatto con il fondatore redentorista. Iniziò una nuova vita.

«La famiglia è la culla di Dio» spiega oggi suor Sebastiana, «da essa escono le persone che servono per lavorare sulle strade di Dio».

«Fin da bambina la sentivo dire: non volevo sposarmi, volevo farmi suora – ha confidato dom Henrique – persino mio padre poco prima di morire mi disse: “Aiuta tua madre ad andare in convento, che è il suo sogno, perché non ha mai voluto sposarsi”. Mia madre ha convertito mio padre, è morto serenamente, pregando il rosario e cantando».

«Sono felice come suora! – ha chiosato suor Sebastiana – amo la preghiera, amo il mio lavoro, perché il mio desiderio è sempre stato quello di recuperare vite, di aiutare queste persone a uscire dal deserto in cui sono finite e a riportarle a una vita dignitosa. Non siamo padroni della nostra vita dopo che ci siamo consegnati a Dio. È Lui che sa dove metterci».





Venerdì, 30 Maggio 2025

Una festa della famiglia? No, meglio una festa delle generazioni. Una festa capace di coinvolgere in un solo abbraccio coppie, genitori, figli, nonni, parenti, persone anziane. Ancora meglio: una festa delle buone relazioni che fanno vivere e danno speranza alla Chiesa e al mondo. Perché tra comunità ecclesiale e comunità civile non c’è mai opposizione quando al centro ci sono famiglie attive e consapevoli, disposte a mettersi in gioco per costruire una società più giusta e più vivibile.

Ecco il senso dei tre giorni che, da oggi a domenica, quando si concluderà con la Messa di papa Leone XIV, il cammino giubilare dedica a tutto ciò che fa famiglia, dai bambini ai nonni. Un programma intenso (https://www.iubilaeum2025. va/it), che mescola riflessione e festa, aspetti pastorali e socio-politici, santità familiare e spazi ludici. Perché la vita della famiglia è questo, un prisma con tante sfaccettature, in cui non c’è un aspetto che prevale sull’altro. Dentro – e fuori – le pareti di casa, tutto è importante e tutto dev’essere tenuto in equilibrio: relazioni, preghiera, lavoro, educazione, lavoro di cura, scelte di sobrietà, impegno sociale ed ecclesiale, riposo, svago e tanto altro.

Nella “tre giorni” familiare che da oggi animerà e umanizzerà piazze e parchi di Roma il filo conduttore sarà naturalmente quello dell’anno giubilare, la speranza. Una virtù che sembra ritagliata a misura per tutto quanto vive e rappresenta la famiglia, a livello simbolico ma, soprattutto, a livello concreto.

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«Non esiste al mondo nessun altro sistema di relazioni umane così potente da costruire, come riesce a fare la famiglia, fiducia, perdono, riconciliazione, comprensione e tanti altri valori umani, spirituali e civili», ha osservato il sottosegretario del Dicastero laici, famiglia e vita, Gabriella Gambino, nell’intervista che abbiamo pubblicato su queste pagine domenica scorsa. D’altra parte, la speranza, in modo diretto o indiretto, prende corpo in tutto ciò che intercetta la vita familiare.

Non c’è esperienza di perdono senza speranza, non c’è impegno educativo che non sia alimentato dalla speranza di regalare a un figlio radici e ali per costruire un futuro migliore per sé e per gli altri, non c’è progetto familiare che possa prendere corpo e decollare senza essere alimentato dai grandi orizzonti della speranza. Sul piano della spiritualità familiare poi il significato della speranza diventa ancora più determinante. Spiega padre Marco Vianelli, direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della famiglia: «Lasciarsi guidare dalla speranza significa vivere la nostra quotidianità adottando il punto di vista dell’eternità. Significa impegnarsi a non trascurare il bene che il Risorto sparge nell’oggi di ogni uomo. Significa che ogni famiglia ha nel suo “qui ed ora” la possibilità di sperimentare e costruire la speranza». Quindi declinare la speranza in chiave familiare dovrebbe riguardare la storia di ogni famiglia, la quotidianità di ogni famiglia.

«Proprio così – continua padre Vianelli (domani ospiteremo una sua riflessione sulle pagine speciali dedicate al Giubileo della famiglia) – la speranza è davvero il filo conduttore della vota familiare, dalla prima colazione al rientro dopo una giornata lavorativa, dalla relazione con i figli al “noi” di coppia, dalla presenza degli anziani all’ancora degli amici». Ma la speranza coniugata in chiave familiare investe, con rilievo altrettanto significativo, anche l’impegno sociale. Se ne parlerà sabato mattina durante il convegno dedicato al Family Global compact, il grande progetto formativo promosso dal Dicastero laici, famiglia e vita che mette a fuoco quei temi familiari che necessitano di un urgente approfondimento all’interno delle università cattoliche e dei centri di ricerca e di studi sulla realtà familiari, con l’obiettivo di sviluppare un’azione educativa e pastorale per ricostruire un progetto culturale forte sulla famiglia. Ma non solo. L’occasione sarà anche propizia per rilanciare una nuova presenza dell’associazionismo familiare cattolico in ambito internazionale.

«Oggi su questo punto c’è un vuoto preoccupante – osserva Vincenzo Bassi, presidente Fafce (Federazione delle associazioni familiari cattoliche europee) – ma non più pensabile ipotizzare progetti a favore delle famiglie senza che le famiglie stesse, attraverso le associazioni, possano far sentire la propria voce. Quando per esempio parliamo di progetti per contrastare la violenza sulle donne, come è possibile evitare di coinvolgere le rappresentanze di quelle realtà dove le donne vivono, cioè l’associazionismo familiare? Da qui la nostra volontà come Fafce – conclude l’avvocato Bassi – di promuovere un nuovo grande progetto associativo di respiro mondiale, capace di fare voce ai desideri e alle speranze dei popoli, mettendo da parte l’ideologia».

Sulla stessa linea Adriano Bordignon, presidente del Forum delle associazioni familiari: «Le associazioni e le reti familiari sono innanzitutto reti di prossimità e di cura reciproca, con al centro l'attenzione alle relazioni personali e comunitarie: a partire dall'attenzione alla reciprocità nella coppia». Non si tratta soltanto di fare lobby o di sostenere rivendicazioni, anche giuste, ma di leggere nell’associazionismo familiare un’alternativa culturale a un modello di società che mette al centro l’individuo e non le famiglie.

«Queste reti – continua Bordignon – costituiscono naturalmente laboratori di vita democratica e partecipazione civica, diventando anche interlocutrici delle autorità politiche nazionali, in grado di orientare l'azione dello Stato».





Mercoledì, 28 Maggio 2025

La rete costruita dalla Chiesa italiana per arginare la piaga degli abusi sui minori è sempre più solida ed affidabile. Aumentano consapevolezza, capacità di intervento, qualità della formazione. E, allo stesso modo, cresce la fiducia nei confronti dei servizi diocesani e regionali che operano sul territorio in modo ormai capillare. Tanto che aumenta il numero di persone che si rivolgono alla rete ecclesiale per segnalazioni, consigli, informazioni. Complessivamente nel 2024 si sono registrati 373 contatti, con un incremento significativo rispetto ai 38 del 2020. I casi di presunto abuso nel biennio 2023-2024 sono stati 69, di cui 27 quelli che sarebbero stati commessi in parrocchia (erano 32 quelli del biennio precedente). I presunti abusi spirituali e di coscienza sono invece stati 17, rispetto ai 4 del biennio 2020-2021. Ma chi sono vittime, per ora presunte? Su 115 casi registrati, ci sono 64 maschi e 51 femmine, hanno tra i 10 e 14 anni. Mentre i presunti abusatori sono per la maggior parte preti (44 su 67) e, in misura minore catechisti/educatori (4), volontari (3), insegnanti di religione, seminaristi, sagrestani. Quasi tutti maschi (65 su 67).

Sono alcuni dei dati che emergono dalla Terza rilevazione sulla rete territoriale per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. Un documento intitolato Proteggere, prevenire, formare, che racconta un cammino ormai sicuro, presente in tutte le 16 regioni ecclesiastiche del Paese e con un coinvolgimento importante delle varie realtà ecclesiali. Tanto che il numero dei partecipanti alle diverse attività formative è passato dai 914 del 2020 ai 1.178 del 2024. Ma si può e si deve migliorare, tanto che gli stessi referenti dei servizi regionali suggeriscono di aumentare la frequenza degli incontri formativi, chiedono un supporto più adeguato per la gestione dei casi complessi e la messa a punto di protocolli comuni per una gestione più uniforme delle segnalazioni.

La presenza sempre più capillare dei servizi di tutela dei minori e delle persone vulnerabili è dimostrata anche dalla partecipazione delle diocesi alla Rilevazione 2023-2024. Hanno risposto 184 diocesi (94,2% del totale) con un incremento significativo delle diocesi del Sud, passate dalle 65 del biennio 2020-2021 alle 80 del 2023-2024.

Tra gli aspetti più interessanti del dossier l’aumento dei laici e delle donne, che rappresentano la maggioranza degli esperti coinvolti. All’interno delle equipe i laici sono il 73%, mentre i sacerdoti (20%) e i religiosi (6,3) sono in minoranza. Ma il dato forse più confortante è che le donne sono complessivamente il 52 per cento. Un aspetto che diventa ancora più rilevante quando si va ad esaminare la situazione dei 103 centri d’ascolto arrivi in 130 diocesi (in alcuni casi si tratta di strutture interdiocesane). Qui gli operatori laici rappresentato l’81,8% del totale e le donne arrivano addirittura al 70,6 per cento. Le competenze più frequenti riguardano la psicologia (29,7%) e l’ambito educativo (23,8).

Trend crescente per quanto riguarda i servizi diocesani anche sul fronte degli incontri formativi. Quelli rivolti agli operatori pastorali, ai sacerdoti, ai religiosi e alle associazioni sono stati 781 (l’87,2% delle attività), con la partecipazione di 22.755 persone. I temi trattati più frequentemente il rispetto della dignità dei minori (40,2%) e le buone prassi in parrocchia (30,5%). Nel 2024 il 65% dei servizi diocesani ha proposto attività formative per i propri membri.

Un altro indicatore che sembra confermare il consolidamento della rete dei servizi e la diffusione di una cultura della tutela dei minori arriva anche dalla partecipazione alla Giornata nazionale di preghiera per le vittime e i sopravvissuti degli abusi del 18 novembre. Nel 2024 hanno risposto positivamente l’85,6% delle realtà regionali e diocesane.

In un quadro sostanzialmente positivo per quanto riguarda la crescita della sensibilità degli educatori e dei catechisti rimangono alcuni punti di debolezza, soprattutto in relazione alle scarse relazioni con gli enti locali e le associazioni non ecclesiali. «La Chiesa continua a fare la sua parte - ha osservato monsignor Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei - anche se la collaborazione con le istituzioni è fondamentale. Esistono esempi interessanti, come a Cagliari o a Piacenza, ma certamente è un aspetto che va incrementato». E ha aggiunto: «L’obiettivo è quello di inserire la tutela dei minori nella pastorale ordinaria di tutte le comunità».

I membri dei servizi diocesani e regionali valutano negativamente anche le comunicazioni sui media locali. «Ora – ha osservato ieri Chiara Griffini – presidente del Servizio nazionale Cei per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili – si tratta di definire i prossimi passi orientando la bussola del cammino su quattro poli: responsabilizzazione ecclesiale comunitaria; ascolto e cura verso chi è ferito e ricerca verità e giustizia; collaborazione con la società civile perché la tutela sia “linguaggio universale”; comunicare un rinnovata salvaguardia e imparare a gestire la crisi con trasparenza».

Il dossier presenta anche una serie di domande aperte che evidenziano, tra l’altro, tre necessità emerse dalle osservazioni degli operatori pastorali: formazione continua, collaborazione e trasparenza nella tutela. Fondamentale anche l’accoglienza e il supporto delle vittime che, come è stato sottolineato, va gestito con un approccio empatico e non giudicante, offrendo spazi di ascolto sicuri e riservati e comunicando con chiarezza i protocolli di ascolto per garantire riservatezza. Ma esiste un modello vincente per organizzare un sistema di tutela dei minori nella Chiesa? «No - ha risposto Louis Manuel Ali Herrera, segretario della Pontificia Commissione per la tutela dei minori - non esiste un modello unico, occorre sempre rispettare le radici culturali dei diversi Paesi. Ci sono quindi strade molteplici a patto che si abbia sempre a cuore il bene dei piccoli che ci sono stati affidati e la verità del Vangelo, che rimane il primo antidoto culturale. Il Signore ci ha insegnato ad amare le persone. Prediamo sul serio il Vangelo».

Alla presentazione della Terza rilevazione delle attività dei centri regionali e diocesani per la tutela dei minori della Cei, è arrivato anche il messaggio dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Marina Terragni, che ha messo l’accento sull’importanza dell’ascolto dei piccoli. «Una precondizione essenziale per poter dare avvio a percorsi di presa in carico e di accompagnamento volti alla protezione e poi al superamento di un trauma che colpisce la persona nella sua totalità. Decisivo da questo punto di vista - ha aggiunto la garante - creare luoghi di prossimità accessibili, dove sentirsi al sicuro ricevere ascolto da parte di operatori qualificati».

Anche Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro ha commentato positivamente lo sforzo messo in campo dalla Chiesa italiana: «Il Terzo report della Cei sugli abusi ad opera di religiosi presenta la dimensione del fenomeno - nota Caffo -. Questo è un fatto positivo e un passo in avanti. Ritengo che ci sia bisogno di un rapporto e di un dialogo più stretto tra la Chiesa, le comunità educative e le Istituzioni per poter fornire strumenti universalmente condivisi e che siano un aiuto concreto per le vittime, che troppo spesso vengono dimenticate».





Mercoledì, 28 Maggio 2025

La prossima canonizzazione del giovanissimo Carlo Acutis morto 15enne nel 1991 è il punto di partenza per una domanda: a che età si può diventare santi? O, meglio, i bambini possono in pochi anni raggiungere una maturità tale da scegliere di vivere il Vangelo fino in fondo? Il tema è al centro del nuovo episodio di Taccuino celeste che evidenzia come per trovare i primi piccoli canonizzati senza essere martire si sia dovuto attendere il 2017 con i pastorelli di Fatima, Francisco e Giacinta Marto. Se il calendario infatti propone la memoria liturgici dei santi innocenti, cioè i bambini fatti uccidere da Erode per liberarsi anche di Gesù, teologi e canonisti s’interrogano su quando l’incoscienza dei piccoli lasci il posto alla razionalità e alla capacità di discernimento. E in proposito nell’episodio si ricorda la vicenda di Nennolina morta per malattia a 6 anni e mezzo. Sulla santità giovane si concentra anche la Cartolina da Camaldoli curata dai monaci benedettini della comunità toscana.

Taccuino celeste è un podcast sui temi della fede, della religione, pensato per approfondire in cosa crede chi crede. Oltre che del Conclave, cui è stato dedicato lo speciale in quattro episodi Extra Omnes, nelle ultime settimane si è occupato, tra l’altro, dell’inferno (se possa essere vuoto) di papa Leone XIV come figlio spirituale di sant’Agostino, di storia dell’Ave Maria, del perché i cristiani celebrino la Pasqua in date diverse, delle piante nella Bibbia, del dovere cristiano di fare l’elemosina, del rapporto tra cristianesimo e di chirurgia estetica, di cremazione sì o no?, della figura di san Giuseppe, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, dell’abbigliamento dei preti nella vita di tutti i giorni, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti.

Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it





Martedì, 27 Maggio 2025

«Le tematiche della bioetica globale, il dialogo con le discipline scientifiche secondo l’approccio transdisciplinare indicato da papa Francesco, l’intelligenza artificiale e le biotecnologie, la promozione del rispetto e della dignità della vita umana in tutte le sue fasi». Ecco le questioni e le sfide che la Pontificia Accademia per la Vita (Pav) è chiamata ad affrontare, nelle parole del suo nuovo presidente, monsignor Renzo Pegoraro, nominato oggi da Leone XIV. Pegoraro – sacerdote della diocesi di Padova, una laurea in Medicina e Chirurgia e una licenza in Teologia morale con diploma di perfezionamento in Bioetica, dal 1° settembre 2011 cancelliere dell’istituzione fondata da san Giovanni Paolo II nel 1994 – succede così all’arcivescovo Vincenzo Paglia, alla guida della Pav dal 2016, il quale ha compiuto 80 anni il 21 aprile scorso.

Gratitudine e prospettive. «Ringrazio papa Leone XIV per la nomina a presidente della Pontificia Accademia per la Vita. Il lavoro svolto in questi anni a fianco di monsignor Vincenzo Paglia e prima ancora a fianco di monsignor Ignacio Carrasco de Paula», suoi predecessori alla presidenza della Pav, «è stato affascinante e stimolante, in linea con le indicazioni operative e tematiche del compianto papa Francesco», ha dichiarato Pegoraro. Il cammino futuro? L’intenzione è di «lavorare in continuità con i temi e la metodologia di questi anni, valorizzando le competenze specifiche del nostro ampio e qualificato gruppo internazionale e interreligioso di accademici», ha spiegato il nuovo presidente, additando «in particolare» tematiche cruciali come la bioetica globale, l’intelligenza artificiale e le biotecnologie, sempre nell’orizzonte «della promozione del rispetto e della dignità della vita umana in tutte le sue fasi. Sarà importante – ha aggiunto – anche una sempre maggiore valorizzazione dell’opera di tutto lo staff della sede centrale, ora nel complesso vaticano di San Calisto».

Prete, studioso, docente. Ha quasi 66 anni, il nuovo presidente della Pav. Renzo Pegoraro è nato, infatti, a Padova il 4 giugno 1959. E l’11 giugno 1989 è stato ordinato sacerdote per la diocesi patavina. Ha conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia il 12 novembre 1985 presso l’Università di Padova. E ha ottenuto la licenza in Teologia morale nel 1990 presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma, conseguendo il diploma di perfezionamento in Bioetica presso l’Università Cattolica. Nel 1993 è diventato professore di Bioetica presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e segretario generale della Fondazione Lanza (Centro di studi avanzati in Etica, bioetica ed etica ambientale). Dal 1998 – ricorda la nota biografica diffusa dalla Pav – è membro della Società europea di Filosofia della medicina e della sanità, della quale è stato presidente dal 2005 al 2007. Dal 2000 è professore di Etica infermieristica all’Ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma. Fa parte dell’Associazione europea dei centri di etica medica (Eacme), che ha presieduto nel periodo 2010-2013. È membro dell’International Association for Education in Ethics. E nel 2011 è stato nominato cancelliere della Pav. Che ora Leone XIV ha affidato alla sua presidenza. Pegoraro, fra l’altro, è autorevole collaboratore di Avvenire, per il quale fra 2021 e 2023 ha firmato, nelle pagine di “è vita”, la rubrica BioLingua (le cui puntate sono tuttora reperibili online).

Il grazie del Papa a Paglia. «L’avvicendamento è la prassi ordinaria nella Curia romana al compimento degli ottant’anni», ricorda una nota della Pav. Per l’occasione il presidente emerito, l’arcivescovo Paglia, ha ricevuto dal cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, una lettera nella quale «a conclusione del servizio affidatole quale presidente della Pontificia Accademia per la Vita e Gran Cancelliere del Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia», papa Leone XIV rivolge al presule «i sensi della propria gratitudine per aver condiviso con lui la sollecitudine per tutta la Chiesa. Pertanto, mosso da viva riconoscenza», papa Prevost manifesta a Paglia «il più fervido ringraziamento» per il servizio svolto.

La missione della Pav. «Specifico compito» della Pontificia Accademia per la Vita è «studiare, informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale cristiana e le direttive del Magistero della Chiesa». Così si legge nel motu proprio Vitae Mysterium dell’11 febbraio 1994, con il quale Giovanni Paolo II istituì la Pav. Primo presidente nominato da papa Wojtyla fu Jérôme Lejeune, il grande genetista francese, scopritore della Trisomia 21 come causa della Sindrome di Down, scienziato libero e paladino della dignità umana. Una presidenza brevissima, la sua: un cancro fulminante lo portò alla morte il 3 aprile dello stesso anno. Lejeune è stato dichiarato venerabile da papa Francesco nel 2021. Riguardo alla missione dell’Accademia: la Pav, afferma lo Statuto, «ha un compito di natura prevalentemente scientifica, per la promozione e difesa della vita umana». Ed è chiamata «in particolare» a studiare «i vari aspetti che riguardano la cura della dignità della persona umana nelle diverse età dell’esistenza, il rispetto reciproco fra generi e generazioni, la difesa della dignità di ogni singolo essere umano, la promozione di una qualità della vita umana che integri il valore materiale e spirituale, nella prospettiva di un’autentica “ecologia umana”, che aiuti a ritrovare l’equilibrio originario della Creazione tra la persona umana e l’intero universo». Una missione chiamata a rinnovarsi, nel confronto con le grandi sfide etiche e scientifiche del nostro tempo.






Martedì, 27 Maggio 2025

Il grazie e il ricordo di papa Francesco, l’apprezzamento per le prime parole di Leone XIV. Il tutto con uno sguardo alla vita della Chiesa italiana, con il Cammino sinodale e l’impegno contro gli abusi sui minori, e al mondo, con un particolare appello a costruire percorsi di pace e potenziare “corridoi umanitari” in particolare a Gaza. L’introduzione del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, con la quale ha aperto i lavori della sessione straordinaria del Consiglio permanente della Cei, che si svolge nella giornata di oggi, non ha dimenticato alcuni dei temi caldi che stanno interrogando la società italiana come le leggi sulla difesa della vita e quelle sul lavoro.
Il cardinale Zuppi ha voluto iniziare ricordando la figura di papa Francesco, «verso il quale la Chiesa italiana ha un forte debito». «Papa Francesco ha veramente saputo avvicinare la Chiesa alla gente» e le manifestazioni di cordoglio e di affetto nei giorni della sua morte sono «la rivelazione dell’attrazione che questo uomo di Dio ha esercitato». Spetta ora «a noi la responsabilità di cogliere le strade che ha aperto, le domande esplicite e implicite che oggi si manifestano».
E se il periodo della Sede Vacante e del successivo Conclave hanno fatto sperimentare «l’universalità reale della Chiesa», ricorda il presidente della Cei, «la molteplicità di sensibilità e preoccupazioni, comprensibilmente diverse, emerse nelle Congregazioni generali sono state motivo di ricchezza nella comunione, perché questa non omologa, non cancella le differenza, ma le valorizza e le armonizza nell’esercizio di vera collegialità». Da questo esercizio è nata l’elezione di Leone XIV. «Abbiamo trovano nelle parole del nuovo Vescovo di Roma un grande incoraggiamento a una rinnovata attenzione pastorale, fin dalla scelta stessa del nome che rivela la sensibilità alle sfide del mondo e della rivoluzione digitale nella quale siamo immersi». Inoltre dalle prime parole di Leone XIV nasce anche l’impegno a essere impegnati nella missione, a vivere la comunione. Gratitudine è stata espressa dal cardinale Zuppi anche per l’udienza che papa Leone XIV concederà alla Conferenza episcopale italiana il prossimo 17 giugno.
E proprio riprendendo le parole pronunciate pochi giorni fa da Leone XIV nella sua prima udienza generale sul tema della pace a Gaza, anche il presidente della Cei fa proprio l’appello a chiedere «il rispetto del diritto internazionale umanitario, l’ingresso di aiuti senza restrizione, l’apertura di corridoi umanitari e soprattutto la promozione di un dialogo che possa realizzare la soluzione “due popoli, due Stati “». Una pace giusta viene invocata anche per l’Ucraina, senza dimenticare «i tantissimi conflitti che insanguinano il pianeta». Per il cardinale Zuppi servono percorsi di pace, che potrebbero essere ripresi dall’esempio dei padri fondatori dell’Europa unità che aprirono «una architettura di pace, frutto di quei valori e della dolorosa consapevolezza che sono a fondamento dell’Europa». Percorsi di pace , progetti di pace che la Chiesa italiana è pronta a sostenere anche i fondi dell’8xmille, che già oggi sono utilizzati in tal senso. Nasce anche dalla consapevolezza di quanto siano importanti questi fondi per la costruzione di progetti di pace, l’auspicio del cardinale Zuppo che «si agisca a correzione, secondo gli impegni assunti, sugli interventi apportati unilateralmente dal governo, come anche da diversi altri precedenti, sul sistema dell’8xmille, ripristinandolo così come originariamente stabilito, nel rispetto della realtà pattizia dell’Accordo».
Non è mancato lo sguardo sul Cammino sinodale della Chiesa italiana, ancora in corso, e soprattutto sul senso del rinvio a ottobre delle conclusioni della Seconda Assemblea sinodale, per il cui lavoro il cardinale Zuppi ha ringraziato l’arcivescovo Erio Castellucci, che ne ha coordinato il lavoro. «Sin dall’inizio del percorso abbiamo chiesto partecipazione, è l’abbiamo avuta». E gli interventi assembleari e i lavori di gruppo «ci hanno permesso di scoprire una Chiesa appassionata e desiderosa di non disperdere l’esperienza di quattro anni. Va letta in quest’ottica anche la decisione dei vescovi di spostare l’Assemblea generale ordinaria da maggio a novembre, con il desiderio di non voltarsi di fronte al nuovo che avanza, per valorizzare il più possibile tutte le istanze del Cammino sinodale».
Corposo anche il capitolo dedicato dal presidente della Cei, Matteo Zuppi al tema della vita e della dignità della persona. «Esprimiamo il pressante auspicio che le recenti sentenze con le quali la Corte costituzionale è nuovamente intervenuta sulla vita umana al suo sorgere e nella fase conclusiva non conducano a soluzioni legislative che finiscono col ridimensionare l’infinita dignità della persona dal concepimento alla morte naturale» ha detto Zuppi nella sua Introduzione, sottolineando e ribadendo quanto espresso nella nota della Presidenza Cei lo scorso 19 febbraio che «si giunga, a livello nazionale, a interventi che tutelino nel miglior modo possibile la vita, favoriscano l’accompagnamento e la cura nella malattia, sostengano le famiglie nelle situazioni di sofferenza»; e l’invito accorato a dare «completa attuazione» alla «legge sulle cure palliative» affinché siano «garantite a tutti, in modo efficace e uniforme in ogni Regione, perché rappresentano un modo concreto per alleviare la sofferenza e per assicurare dignità fino alla fine, oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo».
Attenzione alla vita resa fragile dalla malattia, ma anche a quella dei minori e degli adulti vulnerabili, che sono stati vittime di abusi. Il cardinale Zuppi assicura che in questo campo l’attenzione della Chiesa italiana «resta alta», rimandando alla presentazione domani, 28 maggio, della Terza Rilevazione delel attività territoriali promossa dal Servizio nazionale per la tutela dei minori. Dati che «chiedono un impegno crescente e ci spronano a proseguire in questo cammino di responsabilità e trasparenza per lavorare sulle criticità e implementare le buone prassi» dice Zuppi.
Ultimo tema, ma non per importanza, quello del lavoro, che «ha a che fare con il tema della vita e della dignità umana». Preoccupa il presidente della Cei il dato emerso dall’ultimo Rapporto annuale dell’Istat che evidenza come «il lavoro povero sia sempre più diffuso, tanto che oltre il 23% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. In sintesi, lavorare oggi non basta più per dirsi al riparo da una condizione di indigenza» constata amaramente il presidente della Cei, chiedendo «coraggiose politiche del lavoro, che sappiano tenere insieme l’esigenza di salari giusti e di produzioni coerenti con l’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa. Senza lavoro non c’è rispetto della dignità». Ma, avverte Zuppi, «non possiamo non ribadire che la produzione industriale che vuole riconvertire in armi alcune delle aziende in crisi non fa bene né alla nostra economia né al mondo».





Martedì, 27 Maggio 2025

Il viaggio di Roma Felix comincia dai primi passi dell'apostolo Pietro nella Città Eterna. Com’era arrivato, dove viveva, chi frequentava il principe degli apostoli a Roma? Il racconto di Stefania Falasca e Giuseppe Matarazzo comincia da via Urbana, dalla casa dell’influente senatore Pudente, dove l’apostolo Pietro fu ospite per sette anni. Oggi, la strada lastricata di sanpietrini che va giù fino ai Fori Imperiali accoglie una basilica dalla facciata quasi nascosta, color ocra, con un campanile romanico: è Santa Pudenziana, probabilmente la prima chiesa di Roma. Seguendo le orme di Pietro, dal rione Monti ci si sposta all’Aventino nell’antica domus di Aquila e Prisca, passando per San Pietro in Vincoli, prima di svelare il mistero della tomba in Vaticano e il ritrovamento dei suoi resti mortali, ad opera dell’archeologa Margherita Guarducci, nelle indagini condotte dal 1952 al 1965 per volere di Pio XII.

È intervenuto: Mons. Gianfranco Basti, rettore della Basilica di Santa Pudenziana a Roma. Inserti: Pio XII - Radiomessaggio natalizio, 1950 - (Vatican Media); intervento dell'archeologa Margherita Guarducci al Meeting di Rimini, 1994.

ROMA FELIX è un podcast originale prodotto da Avvenire con il sostegno di Italo
Di Stefania Falasca con Giuseppe Matarazzo
Testi tratti dall’omonima serie scritta da Stefania Falasca e pubblicata su Avvenire
Cura editoriale Alessandro Saccomandi e Chiara Vitali
Sound design: Daniele Bertinelli
Grafiche: Massimo Dezzani








Lunedì, 26 Maggio 2025

Lo scorso 6 maggio, due giorni prima che il cardinale Robert Prevost venisse eletto Papa con il nome di Leone XIV, gli alunni della Our Lady of Mount Carmel Academy – storica scuola cattolica di Chicago, a Belmont Avenue – in un mini conclave simulato con sorprendente accuratezza hanno eletto Papa uno di loro, il quale ha preso il nome di Agostino. Un piccolo Papa di Chicago e pure “agostiniano”: quasi una profezia più che una semplice coincidenza.

La rappresentazione, diventata virale negli Usa, ha visto protagonisti venti alunni di classi tra la prima e la quarta elementare, vestiti con costumi cardinalizi, a partire dai cappelli rosso porpora fatti di cartoncino, che hanno inscenato tutte le le fasi conclave, fumata bianca inclusa, mentre i loro compagni assistevano come spettatori.

Le immagini sono diventate subito virali negli Usa, riprese da media locali e nazionali. Il Chicago Catholic, bisettimanale dell’arcidiocesi di Chicago, è tornato in questi giorni sull’episodio parlando con Dominic Moretti, l’insegnante che ha ideato il tutto alcuni anni fa.

«Siamo tutti molto orgogliosi di questi ragazzi», ha detto l’insegnante, «tutti coloro che hanno un legame con questa scuola o parrocchia si sono fatti sentire», sottolineando la visibilità che l’iniziativa ha dato all’Academy, per altro già insignita di numerosi riconoscimenti per i suoi standard educativi, «non so se alla loro età se ne rendano ancora conto, ma hanno portato a tutti tanta gioia».

I giovanissimi studenti hanno dovuto presentare domanda per diventare uno dei 20 cardinali partecipanti al conclave in miniatura; cinque di loro che frequentano quella che da noi è la prima media hanno interpretato i porporati ultraottantenni che non potevano votare.

Dominic Moretti e altri insegnanti hanno lavorato durante il fine settimana precedente per preparare i costumi, comprese le mozzette rosse, con un risultato che ha lasciato a bocca aperta molti.





Lunedì, 26 Maggio 2025

«A tutti voi dico grazie per il Vangelo che siete e che mi donate. So che dentro e fuori di noi c’è anche qualcosa che si oppone al Vangelo: ci sono paure e chiusure antievangeliche. Ma il Vangelo, la Buona Notizia che è Gesù, è più forte di ogni “anti-Vangelo”. Così monsignor Riccardo Battocchio, 63 anni, si è presentato ai fedeli della diocesi di Vittorio Veneto, dopo l’ordinazione episcopale in Cattedrale, col patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, il cardinale Beniamino Stella, Claudio Cipolla vescovo della sua diocesi, Padova, alla presenza di altri 25 vescovi, di 180 sacerdoti, di oltre mille fedeli. Tra i presenti anche le delegazioni della diocesi di Roma, dell’Almo Collegio Capranica (di cui Battocchio è rettore), dell’Associazione teologica Italiana.

«Ho incontrato il Vangelo e lo incontro nei vostri volti, nelle vostre storie – ha detto ancora Battocchio -. Lo incontro in chi soffre, in chi è messo ai margini, in chi vede non riconosciuta la dignità che gli è propria in quanto essere umano. In chi non si stanca di sperare e di donare speranza. Lo incontro – spero di incontrarlo – anche nelle persone che hanno responsabilità nella vita sociale, nel governo e nell’amministrazione della cosa pubblica: le saluto e le ringrazio di essere qui». Ed ha aggiunto: «Incontro il Vangelo anche nella perplessità di qualcuno che, conoscendomi, si starà chiedendo: “Sarà in grado, Riccardo, di rispondere con i fatti, non solo a parole, alle nove domande che gli sono state fatte prima dell’imposizione delle mani?”».

Da parte sua il patriarca Moraglia ha delineato il servizio di un vescovo: «Con la sua Chiesa è essenzialmente chiamato a dire una cosa: il nome di Dio. È un compito non facile in una società che ha messo Dio da parte o lo considera questione privata se non, addirittura, ostacolo ad una moderna emancipazione. Il nome di Dio, in sé, è “indicibile” e lo si rende presente solo annunciando Gesù; chi vede Lui vede il Padre». Moraglia ha anche tenuto a sottolineare che la Chiesa «trasmette ciò che ha ricevuto e, in essa, è strutturalmente contraddittoria una fede fai da te». Vescovo e Chiesa: l’uno non esiste senza l’altra e viceversa, ha evidenziato ancora il patriarca, perché Vescovo e Chiesa costituiscono un’unione sponsale. Richiamando Agostino, Moraglia ha sottolineato «l’importanza del ministero del Vescovo per l’unità della Chiesa e come questa non possa limitarsi a proporre un generico camminare insieme ma richieda un vero cammino a partire da Gesù, verso Gesù e con Gesù Cristo». Rivolto, poi, a Battocchio, ha aggiunto: «La tua ordinazione episcopale cade nel XVII centenario del Concilio di Nicea, durante il Cammino sinodale della Chiesa italiana e universale, mentre si sta celebrando l’Anno giubilare; sono indicazioni chiare che il Signore ti dà».

Il vescovo Battocchio ha ringraziato l’amministratore diocesano monsignor Martino Zagonel e insieme hanno rivolto un pensiero di riconoscenza al vescovo emerito Corrado Pizziolo. «Un ricordo particolare, di stima e ammirazione – aveva detto anche il patriarca Moraglia - va al vescovo Corrado che, terminato il suo servizio episcopale, ha intrapreso con grande coraggio un’esperienza missionaria in Brasile per sostenere il progetto diocesano che prevede uno scambio reciproco di presbiteri tra Chiese».





Lunedì, 26 Maggio 2025

È l’altra guerra. Ancora in corso. Come già ricordato da Leone XIV, l’enciclica Laudato si’ sulla cura della Casa comune, pubblicata il 24 maggio 2015, nel giorno di Pentecoste e firmata dal primo Papa nella storia a chiamarsi Francesco, ha fatto aprire gli occhi, con realismo lungimirante e profetico, sugli effetti di una guerra letale al Creato. E considerato quanto accaduto in questi anni sul fronte planetario per effetto accelerato della morsa della crisi climatica, ambientale, sociale, bellica, sotto l’egida di san Francesco d’Assisi, il Successore di Pietro Francesco non aveva esitato anche ad aggiornarla nel 2023, in occasione dell’anniversario degli ottocento anni del Cantico delle creature, da cui prende titolo, dichiarando: «Uniamoci ai nostri fratelli e sorelle cristiani nell’impegno di custodire il Creato come dono sacro del Creatore. È necessario schierarsi al fianco delle vittime delle ingiustizie ambientali e climatiche, sforzandoci di porre fine all’insensata guerra alla nostra Casa comune, che è una guerra mondiale terribile».

Nelle pagine del testo papa Francesco aveva dispiegato il suo pensiero su un tema centrale per il presente e futuro dell’uomo, nel quale è spiegato che l’urgenza della questione ambientale è epilogo di una complessa crisi socio-ambientale. Uomini e ambiente, creazione e società sono tra loro collegati e dunque richiedono un approccio integrale per prendersi cura della natura e combattere la povertà, l’esclusione. «Ecologia umana ed ecologia ambientale camminano insieme» ha affermato più volte nel corso del suo pontificato, parlando di «ecologia integrale», tornando a discutere della necessità di «non considerare più il Creato come oggetto da sfruttare, ma realtà da custodire come dono sacro del Creatore» e del legame fra ecologia ed economia, così come di quello fra inquinamento ambientale e povertà, sistemi economici-finanziari perversi e cultura dello scarto.

Il primo merito dell’enciclica è l’aver fatto comprendere che tutto è interconnesso. Non esiste una questione ambientale separata da quella sociale: i cambiamenti climatici, le migrazioni, le guerre, la povertà e il sottosviluppo sono manifestazioni di un’unica crisi che, prima ancora che essere ecologica, è alla sua radice una crisi etica, culturale e spirituale. La Laudato si’ non è nata da nostalgie per riportare la società umana a forme di vita ormai impraticabili, ma individua e descrive i processi di un’auto-distruzione innescati dalla ricerca del profitto immediato e del mercato divinizzato. Un’analisi diretta che mette in luce la radice del problema ecologico: il modo di comprendere la vita e l’azione umana deviato, che contraddice la realtà fino al punto di distruggerla. E mostra con lucidità che la causa profonda della crisi è strettamente collegata al modello dominante di sviluppo adottato, quello che nell’enciclica viene indicato come «globalizzazione del paradigma tecnocratico». Un modello che induce a considerare la terra alla stregua di una merce e uno sviluppo ossessionato dagli idoli del denaro e del potere, idoli che impongono «nuovi feroci colonialismi ideologici mascherati dal mito del progresso», che distruggono l’ambiente, le identità culturali proprie dei popoli, la loro convivenza e conducono all’autodistruzione.

Il secondo dei meriti di questo testo papale, che parte dai fondamenti del rapporto tra la creatura e il Creatore, è l’aver mostrato ai cristiani che la cura per l’ambiente è una dimensione della fede, è istanza di fede biblica. Al centro della Laudato si’ troviamo infatti il Vangelo della creazione. Il primo paragrafo è: «La luce che il Vangelo ci offre», non è un’azione aggiuntiva alla vita ecclesiale, ma una sua manifestazione sostanziale. Dunque per rispettare e curare la Casa comune, come credenti, è importante comprendere che l’emergenza ecologica è parte della missione di liberazione integrale a cui è chiamata la Chiesa che vuole essere fedele al Vangelo. È necessario capire che è una questione di fedeltà al Creatore, Dio che ha creato il mondo per tutti. Guardare questa realtà ci offre la possibilità di riscoprire il dono della difesa della vita, affinché non sia soggiogata al lucro e al guadagno.

Il terzo merito è l’averci mostrato l’importanza della responsabilità ecumenica. Il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo, pioniere nel far comprendere che la cura del Creato è un’istanza di fede biblica, citato all’inizio della Laudato si’, afferma che si tratta di un servizio liturgico. Per cui tutte le iniziative della Chiesa in questo senso sono ecclesiologia applicata. L’enciclica, in questi anni, è stata accolta positivamente negli ambienti ecclesiali, seppure con diverse sfumature. Sono sorti anche movimenti come il Movimento Laudato si’ che ha la missione di promuovere nella Chiesa la conversione ecologica, l’adozione dell’ecologia integrale come strumento di lettura della realtà e la riconciliazione con il creato come via per la pace.

Se la Laudato si’ ha risvegliato la consapevolezza della Chiesa per la cura della casa comune, per la salvaguardia di tutta la creazione a partire dalla fede, e se ha il dovere di occuparsi dell’ambiente, «come una madre il suo bambino», la Chiesa è dunque chiamata a unirsi in questa responsabilità ancora più con tutti i cristiani. «Come cristiani vogliamo offrire il nostro contributo al superamento della crisi ecologica che l’umanità sta vivendo», scriveva Francesco istituendo la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato nel 2015. È per questa via che continua a passare oggi il nostro presente e il nostro futuro.





Lunedì, 26 Maggio 2025

«Turismo e trasformazione sostenibile» è il binomio scelto dall’Organizzazione Mondiale del Turismo per la prossima Giornata mondiale del turismo, che ricorrerà il 27 settembre 2025.

«Il legame così espresso è lungimirante e trova significativo riscontro nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, che afferma: “La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”». Una attenzione che viene chiesta anche al turista, perché «la preoccupazione e la cura per il Creato richiedono la responsabilità personale e collettiva, perché nulla vada perduto di quanto abbiamo ricevuto» si legge nel messaggio diffuso dal Dicastero vaticano per l’evangelizzazione.

Se da una parte il testo invita a una maggior attenzione alla sostenibilità del turismo praticato, il messaggio evidenzia anche l’attenzione ai lavoratori del settore, per i quali si auspica «un giusto salario frutto legittimo del lavoro svolto». Non viene dimenticato che quest’anno il turismo ha anche un risvolto legato al Giubileo per molti pellegrini.

«È bene che, come i Santuari, così anche le comunità parrocchiali, soprattutto quelle che per tradizione sono luoghi di turismo, si aprano alle istanze di uno stile sostenibile, contribuendo a preparare un avvenire promettente per le giovani generazioni» auspica ancora il messaggio che porta la firma del pro-prefetto del Dicastero l’arcivescovo Rino Fisichella.

«È dovere dei responsabili dei Santuari – dice il messaggio – vigilare attentamente affinché questi luoghi rimangano sacri spazi di autentica spiritualità, dove il cuore trova conforto ed è favorita la riflessione sulle domande umane di fondo, attraverso il silenzio, la preghiera e il dialogo con uomini e donne di Dio».





Lunedì, 26 Maggio 2025

Pubblichiamo il messaggio del cardinale arcivescovo di Napoli, don Mimmo Battaglia, alla SSC Napoli e a tutti i tifosi azzurri.

Carissimo presidente, carissimo allenatore, squadra tutta del Napoli e carissimi tifosi azzurri,

oggi Napoli è in festa. Lo scudetto numero quattro è realtà. E non è solo un trofeo, è un canto collettivo, una danza popolare, il cuore della città che batte all’unisono. È la dimostrazione di cosa può nascere quando si gioca insieme, quando ognuno dà il meglio di sé per qualcosa che è più grande del singolo: la squadra, il sogno, la città.

Grazie. Grazie perché ci avete ricordato che le partite più belle non si vincono da soli. Che il talento è dono, ma il gioco è condivisione. Che per raggiungere un traguardo bisogna camminare insieme, rispettarsi, aiutarsi, crederci fino alla fine. Questo Napoli ha saputo unire ancora una volta i mondi divisi della nostra città: le piazze e i vicoli, i centri e le periferie, gli anziani e i bambini. Avete fatto tutto questo correndo, sudando, abbracciandovi in campo e fuori. Lo avete fatto anche per chi non c’è più, ma sognava questi giorni. E oggi che il mare del Golfo si tingerà ancora d’azzurro, che il lungomare Caracciolo sarà un fiume di gioia, vorrei solo chiedervi una cosa: non dimenticate. Non dimenticate, mentre festeggiate, che il Mediterraneo non è solo la nostra cornice di bellezza. Perché per molti il suo azzurro è sbiadito, svanito, sporcato dalle bombe e dal sangue.

Amici e concittadini miei, facciamo festa per questo scudetto ma non dimentichiamo che c’è un altro campionato che dobbiamo continuare a giocare: quello della pace, della giustizia, della solidarietà. E non è un campionato solo per campioni di Serie A, ma per uomini e donne di cuore, di coraggio, che sfidano l’indifferenza dei potenti. Per tifosi che sanno impugnare, oltre alla bandiera della propria squadra, la bandiera di chi soffre: una bandiera non di vendetta ma di fraternità e di pace. Guardando il nostro mare, non possiamo infatti dimenticare Gaza. Non possiamo dimenticare i suoi bambini, le sue vittime, gli ostaggi. Non possiamo festeggiare solo noi, se altri piangono e temono ogni giorno il cielo sopra le loro teste. Domandiamo pace per Gaza, domandiamo pace per Gerusalemme. Che Napoli sia campione anche in questa richiesta collettiva, di popolo!

Per questo vi invito, nel giorno della festa, a ricordare anche chi non può festeggiare. A portare tra le mani una bandiera del Napoli… e magari anche una bandiera della pace. A far sentire, accanto al grido “Forza Napoli!”, anche la voce pacifica e non violenta del cuore: “Pace per Gaza. Giustizia per i popoli. Dignità per ogni vita umana.” Vi chiedo in anticipo perdono se qualcuno potrà leggere in queste mie parole quasi un involontario tentativo di rovinare una festa. Ma ci ho pensato tutta la notte, dopo le notizie di questi giorni. E la mia coscienza, insieme alla mia fiducia in questa squadra e in questo popolo, mi ha detto che potevo osare. Perché se questo scudetto ci ha resi campioni d’Italia, un gesto pacifico di pace può renderci campioni di umanità e fraternità. Vi benedico tutti e… forza Napoli!





Lunedì, 26 Maggio 2025

Nelle scorse settimane gli occhi di tutto il mondo sono stati rivolti verso Roma. Gli ultimi messaggi di Francesco, la sua scomparsa e le esequie, e poi l’attesa per il conclave, l’elezione del nuovo Papa, Leone XIV, e i suoi primi passi. Momenti che hanno segnato i cuori di milioni di fedeli, appesi al segnale di un comignolo e all’affaccio del Pontefice dalla Loggia di San Pietro. Roma ancora una volta cuore della Cristianità. È così da duemila anni, da quando gli apostoli Pietro e Paolo arrivarono qui.

E allora andiamo alle origini di questa Storia, fra i luoghi dei primi cristiani nella Città Eterna, con Roma Felix, il podcast di Avvenire realizzato con il supporto di Italo. Stefania Falasca e Giuseppe Matarazzo percorrono un viaggio in cinque puntate sulle orme del tempo per raccontare una Roma inedita e sorprendente.

L’itinerario comincia da via Urbana, dalla casa dell’influente senatore Pudente, dove l’apostolo Pietro fu ospite per sette anni. Oggi, la strada lastricata di sanpietrini che va giù fino ai Fori Imperiali accoglie una basilica dalla facciata quasi nascosta, color ocra, con un campanile romanico: è Santa Pudenziana, probabilmente la prima chiesa di Roma. Seguendo le orme di Pietro, dal rione Monti ci si sposta all’Aventino nell’antica domus di Aquila e Prisca, passando per San Pietro in Vincoli, prima di svelare il mistero della tomba in Vaticano e il ritrovamento dei suoi resti mortali, ad opera dell’archeologa Margherita Guarducci, nelle indagini condotte dal 1952 al 1965 per volere di Pio XII.

Nel secondo episodio si andrà sulle tracce dell’altro principe di Roma, Paolo, sin dal suo arrivo in catene, nella primavera dell’anno 61: la casa in riva al Tevere dove risiedeva in “custodia militaris” e i luoghi delle sue predicazioni (lì dove si trova oggi la chiesa di San Paolo alla Regola), il martirio fino alla tomba sulla via Ostiense, nella Basilica papale di San Paolo fuori le mura. Il viaggio continua nella Roma sotterranea, quella più nascosta, nei labirinti delle catacombe, a cominciare da quelle di San Callisto, con la storia di un Papa, Pio IX, di due studenti e un archeologo, Giovanni Battista De Rossi, a cui si devono le prime, sensazionali scoperte. Durante il percorso l’incontro con il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, e l’archeologa dell’Università Tor Vergata, Lucrezia Spera.

Riemersi dalle catacombe, nel quarto episodio, si torna tra le strade di Roma, per entrare nelle sue possenti basiliche che custodiscono i segni del passaggio di Gesù nella Terra Santa e fanno di Roma una Gerusalemme d’Occidente: da Santa Maria Maggiore che ospita la Sacra Culla (oltre all’icona della Salus populi romani e oggi la tomba di Franciscus) a Santa Croce, con le reliquie del Santo Sepolcro. Per finire a San Lorenzo con le più grandi ricchezze della Chiesa: il dono della fede e i poveri.

Nell’ultimo episodio ci si addentra fra le viuzze e le piazzette dei rioni popolari – da Monti a Campitelli, da Trastevere a Trevi, da Sant’Eustachio a Campo Marzio – per incontrare gli occhi delle Madonnelle, centinaia di edicole e icone che sbucano agli angoli, sui muri degli antichi palazzi, in un continuo omaggio dei romani a Maria.

Un viaggio inusuale, nell’anno del Giubileo, in una Roma fuori dalle rotte più battute, in un dialogo fra la storia e le testimonianze di chi vive oggi questi luoghi.

Roma Felix si può ascoltare sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming. Rappresenta l'ultima produzione targata Avvenire di una lunga serie che negli ultimi mesi ha visto, tra gli altri, il lancio di Carlo. Sui passi di Acutis, Extra Omnes (il Conclave in tre puntate) e Semitaliani, miniserie - in corso di pubblicazione - curata dalla Redazione di Popotus e dedicata alle storie di giovani in attesa di cittadinanza.





Lunedì, 26 Maggio 2025

A volte ci mancano le parole, vorremmo dire tante cose ma non riusciamo a imbastire neanche una frase. E non è detto che sia un male, a patto che parlino gli occhi, che gli sguardi sappiano incontrarsi in profondità. Nella vita dello spirito vale lo stesso. Anzi, i mistici sottolineano come la vera preghiera sia quella “cuore a cuore”, consista semplicemente nello stare al cospetto dell’Eterno. Ma si tratta di un vertice difficilissimo da raggiungere, che implica, passo dopo passo, la rinuncia alle proprie certezze e la disponibilità a frequentara la scuola dell'umiltà. Scopo della preghiera, del resto, è imparare a ragionare come Dio, cercare di vedere il mondo, e la nostra vita, come Lui. Ognuno per provarci segue una propria strada. Noi non sappiamo come ti pregano gli animali, le piante, le stelle, osserva in questa poesia religiosa la teologa Adriana Zarri (1919-2010), a dire il vero non capiamo bene neanche come preghiamo noi, se in maniera efficace o superficiale. Forse, per cambiarci dentro, basterebbe sapersi mettere in ascolto.

«Io non so come ti prega mio padre, né mio fratello, né mio zio;
non so nemmeno come ti pregava la tua madre, Maria.
Non so come ti pregano le stelle e i rami di corallo in fondo al mare,
né quei cuscini di muschio che fioriscono in alto, sulle rocce.
Non so come ti prega il gatto e il topo, e la pulce nel pelo del topo.
In fondo, Signore, non so nemmeno come prego io.
So come preghi tu: come mormori piano, in fondo al cuore;
ed io sto appena ad ascoltare».

Ps: con l’odierna riflessione si conclude questo spazio spirituale da me curato. Spero vi sia stato utile. Grazie davvero per l’attenzione che gli avete dedicato. (Ricc.Macc.)






Domenica, 25 Maggio 2025

Dentro a questo libro non c’è solo il racconto di un pontificato, ma anche un rapporto di amicizia nato tra l’autore, il giornalista Andrea Tornielli, attuale direttore editoriale del Dicastero vaticano per la comunicazione, e papa Francesco. Il loro primo incontro risale al Conclave del 2005, quello in cui venne eletto Benedetto XVI, ma si è consolidato a tal punto che Tornielli è entrato nel mondo della comunicazione vaticana. Ora in questo libro, intitolato «Francesco. Il Papa della misericordia», pubblicato da Piemme (pagine 208, euro 18), l’autore racconta il Papa visto da vicino. «Ha testimoniato vicinanza, prossimità, accoglienza verso tutti. Ha suscitato grande attenzione e simpatia, anche nei lontani dalla fede. È stato al centro di polemiche e critiche, senza che questo lo fermasse nella sua missione di evangelizzazione, giunta fino agli angoli più remoti del mondo». Nell'intervista che anticipiamo, Francesco parla dei suoi viaggi internazionali. E racconta come li ha vissuti.

Avevo potuto seguire le sue trasferte internazionali da vicino, partecipando ai voli papali: era un osservatorio privilegiato anche se – per esigenze redazionali – sempre piuttosto sbilanciato sul Papa stesso più che sulla realtà che veniva visitata. Nasce così, come introduzione, l’intervista nella quale Francesco racconta come vive l’esperienza dei suoi spostamenti intorno al pianeta. Incontro il Papa in un afoso giorno di luglio 2016. Ci riceve a Santa Marta, la sua casa.

Santità, lei ama viaggiare?

Sinceramente no. Non mi è mai piaciuto molto viaggiare. Quando ero vescovo nell’altra diocesi, a Buenos Aires, venivo a Roma soltanto se necessario e, se potevo non venire, non venivo. Mi è sempre pesato stare lontano dalla mia diocesi, che per noi vescovi è la nostra “sposa”. E poi io sono piuttosto abitudinario, per me fare vacanza è avere qualche tempo in più per pregare e per leggere, ma per riposarmi non ho mai avuto bisogno di cambiare aria o di cambiare ambiente. Anche se questo talvolta è necessario: ad esempio quando facciamo gli esercizi della Curia Romana, in Quaresima, e ci spostiamo tutti per una settimana ad Ariccia.

Si aspettava, all’inizio del pontificato, che avrebbe viaggiato così tanto?

No, no, davvero! Come ho detto, non mi piace molto viaggiare. E mai avrei immaginato di fare così tanti viaggi...

Come ha cominciato? Che cosa le ha fatto cambiare idea?

Il primissimo viaggio è stato quello a Lampedusa. Un viaggio italiano. Non era programmato, non c’erano inviti ufficiali. Ho sentito che dovevo andare, mi avevano toccato e commosso le notizie sui migranti morti in mare, inabissati. Bambini, donne, giovani uomini... Una tragedia straziante. Ho visto le immagini del salvataggio dei superstiti, ho ricevuto testimonianze sulla generosità e l’accoglienza degli abitanti di Lampedusa. Per questo, grazie ai miei collaboratori, è stata organizzata una visita lampo. Era importante andare là. Poi c’è stato il viaggio a Rio de Janeiro, per la Giornata mondiale della gioventù. Il viaggio a Rio de Janeiro non è mai stato in discussione, bisognava andare, e per me è stato il primo ritorno nel continente latinoamericano.

Quanto le pesano le trasferte internazionali, dal punto di vista fisico?

Sono pesanti, ma diciamo che per il momento me la cavo. Forse mi pesano dal punto di vista psicologico più ancora che dal punto di vista fisico. Avrei bisogno di più tempo per leggere, per prepararmi. Un viaggio non impegna soltanto per i giorni durante i quali si sta fuori, nel Paese o nei Paesi visitati, c’è anche la preparazione, che solitamente avviene in periodi nei quali c’è tutto il lavoro ordinario da svolgere.

Ha cambiato qualcosa nell’agenda già consolidata dei viaggi papali?

Non molto. Ho cercato, ad esempio, di eliminare del tutto i pranzi di rappresentanza. Ma se l’agenda del viaggio, come accade quasi sempre, è già pienissima di appuntamenti, preferisco mangiare in modo semplice e in poco tempo. Mi basta poco, un po’ di riso e un po’ di verdura. Di solito consumo il pasto con il corteo più ristretto, più intimo: c’è il nunzio apostolico del Paese visitato e c’è l’incaricato dell’organizzazione dei viaggi... C’è il comandante della gendarmeria con altri due gendarmi, due guardie svizzere, e infine i miei due aiutanti di camera, che sono bravissimi: sono padri di famiglia, sanno fare le cose bene.

Quali sono le esperienze più belle?

Sicuramente il contatto con la gente. Se mi domandassero qual è il ricordo più bello del viaggio in Armenia del giugno 2016, ad esempio, racconterei che cosa è accaduto alla fine della Messa in quella città, Gyumri, della quale faccio qualche fatica a pronunciare bene il nome. Vedo lì, in un angolo, una donna anziana, una vecchietta che aveva la pelle come pergamena, seccata dal sole. Stava lì, salutava e sorrideva, mostrando due denti d’oro, come si impiantavano una volta. Stava lì umile, salutando. Io, dopo essere sceso dalla papamobile, mi sono diretto verso di lei per salutarla e abbracciarla. C’era l’interprete vicino a me. Lei mi aveva detto: “Io sono venuta dalla Georgia”. Il giorno dopo, l’ultimo del viaggio, mentre mi trovavo a Yerevan, sono andato dalle suore. Stavo salutando la gente, ce n’era tanta. Hanno detto che non si era mai vista tanta gente per strada. E di colpo mi ritrovo davanti quella vecchietta così umile: la stessa che il giorno prima avevo abbracciato a Gyumri! Aveva prima fatto otto ore di bus per arrivare a Gyumri, e poi ha fatto altri centotrenta chilometri per andare a Yerevan e poter rivedere il Papa. Ed era lì, tutta umile... Ecco, per me questo è più gratificante. Questa è, in fondo, la ragione dei viaggi.

Quali sentimenti prova di fronte all’entusiasmo della gente che l’aspetta per ore per vederla passare sulle strade?

Il primo sentimento è quello di chi sa che ci sono gli “Osanna!” ma, come leggiamo nel Vangelo, possono arrivare anche i “Crucifige!”. Un secondo sentimento lo traggo da un episodio che ho letto da qualche parte. Si tratta di una frase detta dall’allora cardinale Albino Luciani a proposito degli applausi che un gruppo di chierichetti accogliendolo gli aveva tributato. Disse più o meno così: “Ma voi potete immaginare che l’asinello su cui sedeva Gesù nel momento dell’ingresso trionfale a Gerusalemme potesse pensare che quegli applausi fossero per lui?” Ecco, il Papa deve aver coscienza del fatto che lui “porta” Gesù, testimonia Gesù e la sua vicinanza, prossimità e tenerezza a tutte le creature, in modo speciale quelle che soffrono. Ci sono poi espressioni bellissime a proposito della paternità in uno dei dialoghi di Paolo VI con Jean Guitton. Papa Montini confidava al filosofo francese: “Credo che, di tutte le dignità di un Papa, la più invidiabile sia la paternità. La paternità è un sentimento che invade lo spirito e il cuore, che ci accompagna a ogni ora del giorno, che non può diminuire, ma che si accresce, perché cresce il numero dei figli. È un sentimento che non affatica, che non stanca, che riposa da ogni stanchezza.

Altri ricordi dei viaggi che le sono rimasti indelebili nella memoria?

L’entusiasmo dei giovani a Rio de Janeiro, che mi tiravano di tutto nella papamobile. E poi, sempre a Rio, quel bambino che, riuscendo a intrufolarsi, ha salito le scale di corsa e mi ha abbracciato. Ricordo la gente accorsa al santuario di Madhu, nel Nord dello Sri Lanka, dove ad accogliermi ho trovato, oltre ai cristiani, anche i musulmani e gli indù, in un luogo dove i pellegrini arrivano come membri di un’unica famiglia. O l’accoglienza nelle Filippine. Ho ancora davanti agli occhi il gesto di quei papà che alzavano i loro bambini perché li benedicessi, e mi sembrava che volessero dire: questo è il mio tesoro, il mio futuro, il mio amore, per lui vale la pena di lavorare e di fare sacrifici. E c’erano anche tanti bambini disabili, e i loro genitori non nascondevano il loro figlio, me lo porgevano perché lo benedicessi affermando con i loro gesti: questo è il mio bambino, è così, ma è mio figlio. Gesti nati dal cuore. Ancora ricordo le tante persone che mi hanno accolto a Tacloban, sempre nelle Filippine. Pioveva tanto quel giorno. Dovevo celebrare la Messa per ricordare le migliaia di morti provocate dal tifone Haiyan, e il maltempo per poco non faceva saltare il viaggio. Ma non potevo non andare: mi avevano tanto colpito le notizie su quel tifone che aveva devastato quella zona nel novembre 2013. Pioveva e io indossavo un impermeabile giallo sopra le vesti per la Messa che abbiamo celebrato lì, come si poteva, in un piccolo palco frustato dal vento. Dopo la Messa un cerimoniere mi ha confidato che era rimasto colpito e anche edificato, perché i ministranti, nonostante la pioggia, mai avevano perso il sorriso. C’era il sorriso anche sul volto dei giovani, dei papà e delle mamme. Una gioia vera, nonostante i dolori e la sofferenza di chi ha perso la casa e qualcuno dei suoi cari.

Quell’omelia rimane una delle più toccanti. Perché tante volte decide di improvvisare?

A Tacloban ho parlato da cuore a cuore. Ci sono incontri e situazioni che non possono lasciare indifferenti, ti toccano. È stato un momento davvero molto forte. Mi sono sentito come annientato, quasi non mi veniva la voce. Anche se il discorso preparato prima del viaggio per quell’occasione è ben fatto, non riesco a non parlare a braccio, guardando negli occhi le persone che ho di fronte. Tanta gente rimasta senza niente, tante famiglie colpite. Le parole a braccio mi vengono al momento, avendo visto e ascoltato la gente. Questo posso farlo quando parlo lo spagnolo o l’italiano, adesso me la cavo un po’ meglio, anche se il mio vocabolario italiano è molto limitato. Un altro incontro davvero toccante a Manila è stato all’università Santo Tomás, quando una ragazzina, piangendo, mi ha domandato perché i bambini soffrono così tanto: povertà, violenza, sopraffazione, sfruttamento. Lei aveva visto tutto questo. Ci sono momenti in cui non riesci a rispondere, puoi solo abbracciare e piangere anche tu. La cultura dello scarto nella quale siamo immersi, le bolle di indifferenza nelle quali viviamo, ci hanno fatto fare l’abitudine all’ingiustizia, e abbiamo perso la capacità di piangere. Dobbiamo chiedere la grazia delle lacrime, e piangere sulle ingiustizie e sui peccati. Perché il pianto ti apre a comprendere nuove dimensioni della realtà. Ci sono poi momenti nei quali preferisco il silenzio e la preghiera: davanti al muro di separazione a Betlemme, davanti al muro che ricorda tutte le vittime del terrorismo a Gerusalemme, al memoriale del “Grande male” che commemora le vittime armene.

Dopo un viaggio, che cosa accade? Come ricorda le persone incontrate?

Le porto nel mio cuore, prego per loro, prego per le situazioni dolorose e difficili con le quali sono venuto in contatto. Prego perché si riducano le disuguaglianze che ho visto.

Non ne abbiamo ancora parlato, ma tra le novità dei viaggi papali c’è, immagino, un protocollo diverso riguardante la sicurezza. È così?

Io sono grato ai gendarmi e alle guardie svizzere per essersi adattati al mio stile. Non riesco a muovermi nelle macchine blindate o nella papamobile con i vetri anti-proiettile chiusi. Comprendo benissimo le esigenze di sicurezza e sono grato a quanti, con dedizione e molta, davvero molta fatica, durante i viaggi, mi sono vicini e vigilano. Però un vescovo è un pastore, un padre, non ci possono essere troppe barriere tra lui e la gente. Per questo motivo ho detto fin dall’inizio che avrei viaggiato soltanto se mi fosse stato sempre possibile il contatto con le persone. C’era apprensione durante il primo viaggio a Rio de Janeiro, ma ho percorso tante volte il lungomare di Copacabana con la papamobile aperta, salutando i giovani, fermandomi con loro, abbracciandoli. Non c’è stato un incidente in tutta Rio de Janeiro, in quei giorni. Bisogna fidarsi e affidarsi. Sono consapevole dei rischi che si possono correre. Devo dire che, forse sarò incosciente, non ho timori per la mia persona. Ma sono invece sempre preoccupato per l’incolumità di chi viaggia con me e soprattutto della gente che incontro nei vari Paesi.

Decine sono ormai le visite alla basilica di Santa Maria Maggiore, prima e dopo ogni viaggio, perché?

Perché, rimanendo in tema di sicurezza, la vera sicurezza bisogna chiederla alla Mamma. Bisogna affidarsi a Maria, mettersi al riparo sotto il suo manto. A Santa Maria Maggiore si custodisce l’antica icona della Salus Populi Romani, un’immagine della Vergine alla quale sono devoti i romani. Sono il vescovo di Roma e quindi ogni volta che mi devo mettere in viaggio vado a chiedere aiuto alla Madonna tanto cara ai romani. Al ritorno da ogni viaggio, prima di rientrare in Vaticano, vado a ringraziare per l’aiuto che mi ha dato e mi piace lasciare sempre ai suoi piedi dei fiori o un oggetto legato al viaggio. Si cammina più sicuri e ogni paura svanisce se la Mamma ti tiene per mano.






Sabato, 24 Maggio 2025

L’elezione di Leone XIV e i suoi primi giorni di pontificato hanno acceso la fantasia del web, scatenando un’ondata virale di meme e ironie che hanno invaso i social network, le chat private e persino le vignette sui quotidiani. Il Papa è stato subito ritratto con aureola a Led e sandali Birkenstock, accompagnato dallo slogan: “Finalmente un Papa sinodale, ma comodo”. Essendo nato a Chicago, Robert Francis Prevost ha ispirato immagini in cui appare con la maglia dei Bulls e la tonaca svolazzante mentre schiaccia a canestro come Michael Jordan. In un altro meme posa al fianco dei Blues Brothers, “in missione per conto di Dio”, con l’inevitabile hashtag #HabemusPapam. L’ironia ha investito anche la politica. Crozza ha definito il Pontefice americano un vero e proprio «impacchettatore di politici», e i meme si sono moltiplicati: dalla tiara papale con la scritta “Make Vatican Great Again” in stile anti-Trump, fino a una parodia del Ponte sullo Stretto: Leone XIV auspica sì che si costruiscano ponti di dialogo fra popoli e nazioni, ma tutt’altra cosa è il collegamento tra Reggio Calabria e Messina. Il sogno vagheggiato dal ministro italiano delle Infrastrutture Salvini in un meme è demolito dal nuovo Pontefice ricorrendo a complicatissimi calcoli algoritmici, nonché adducendo prove che si appoggiano su normative antisismiche e questioni di statica per l’ancoraggio dei pilastri. Il tutto, naturalmente, in riferimento alla laurea in matematica del Papa, altro tema gettonatissimo. Alla classica domanda “A cosa può mai servire una laurea in matematica?”, un meme risponde mostrando la figura del Pontefice affacciato alla Loggia. In un’altra vignetta molto raffinata, Leone XIV annuncia solennemente la formula y = ax² + bx + c , spiegando con aplomb agostiniano che si tratta di una parabola.
Non mancano i meme più scontati: dalla somiglianza fisica con l’allenatore Claudio Ranieri o addirittura il presidente Sergio Mattarella, fino a chi associa il nome Leone al figlio di Fedez e Chiara Ferragni (Leone, appunto), scadendo in trovate già viste e poco brillanti.

Dietro l’esplosione di creatività c’è forse un bisogno più profondo. La rete sembra cercare leggerezza, evasione, una risata liberatoria di fronte al bombardamento quotidiano di notizie su guerre, femminicidi, crisi politiche e disillusioni sociali, che creano nell’opinione pubblica reazioni di ripulsa, disagio e financo di disinteresse per la politica e di chiusura in un individualismo esasperato. Forse ridere – anche del sacro – non è irriverente, ma umano. Un piccolo gesto di resistenza e di speranza, un modo per affrontare la complessità del presente con lo spirito di chi non ha smesso di cercare senso, anche tra un meme e l’altro.

Attenzione alle fake news

C'è un'avvertenza, però. Non è infatti terminata la moltiplicazione di testi falsamente attribuiti al Pontefice, che avevano punteggiato il pontificato di papa Francesco. A essi si sono aggiunti i video realizzati con l’intelligenza artificiale: un’ulteriore sfida per i mezzi di comunicazione vaticani, chiamati a una nuova modalità di risposta rispetto a questi contenuti. Dal 10 maggio, su molte pagine e in varie lingue, è comparso un testo, che ha le tipiche caratteristiche di questi falsi pronunciamenti papali: punta all’emotività, fa vaghi riferimenti a Dio, si ammanta di autorevolezza facendo collegamenti con l’esperienza missionaria da vescovo di papa Prevost. I commenti a questo appello che in italiano inizia con «Fratelli, sorelle… Parlo a voi, soprattutto a coloro che non credono più, non sperano più, non pregano più, perché pensano che Dio se ne sia andato» sono generalmente di persone commosse, sia credenti sia che non si dichiarano tali, o di utenti che rendono grazie a Dio per un papa che parla al cuore della gente, per non parlare dei classici “Amen” da tastiera.

Un’altra di queste fake news rientra nel filone dei racconti motivazionali: riguarda un incontro che Leone XIV avrebbe avuto nella Sala Clementina con le Guardie Svizzere alla fine della giornata di sabato 10, quindi due giorni dopo l’elezione. In questo appuntamento avrebbe raccomandato alle Guardie di recitare la preghiera a san Michele arcangelo (quella voluta da papa Leone XIII) e di non aver paura di annunciare il Vangelo. Neanche di questo il Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, al pari di nessun altro mezzo di comunicazione vaticano, ha fatto alcuna menzione. Il sito specializzato snopes.com presenta poi un intero filone dedicato a Leone XIV: dalle notizie palesemente inventate per far ridere, come quella secondo cui il Papa ha trascorsi da jazzista oltre che da tennista (con tanto di nome d’arte, Bobby Prev), a quelle più marcatamente politicizzate, come del resto il video che ha suscitato la risposta di Vatican Media.

In esso, le immagini filmate dell’incontro con i rappresentanti dei media, svolto in Aula Paolo VI il 12 maggio, sono state ritoccate tramite la tecnica del morphing, per far pronunciare al Papa un discorso a sostegno di Ibrahim Traoré, militare e attuale presidente del Burkina Faso: lungo circa 36 minuti, è stato caricato su YouTube dall’account “Pan African dreams”. Si sta però creando un vero e proprio filone di pseudo-racconti vaticani, con protagonisti i Papi e i cardinali, spesso mediante animazioni realizzate con l’AI. La replica vaticana si è resa necessaria: «Vale la pena di ricordare, vista la circolazione su diversi social media di testi attribuiti al nuovo Papa senza l’indicazione della fonte, che tutti i discorsi, gli interventi, i testi di Leone XIV sono consultabili integralmente sul sito Vatican.va. Mentre le notizie sulla sua attività e i suoi videomessaggi sono consultabili in tempo reale sul sito del portale Vatican News, vaticannews.va, disponibili nelle diverse lingue, come pure sul sito del quotidiano vaticano L’Osservatore Romano, osservatoreromano.va». Di fronte a una disinformazione tale, è decisivo il «mandato di educare al senso critico» di cui il Papa faceva riferimento nel discorso – questo invece autentico – pronunciato nell’udienza del 17 maggio ai Membri della Fondazione «Centesimus Annus Pro Pontifice».





Sabato, 24 Maggio 2025

«Qual è la vostra religione attuale, se ne avete una? E con quale siete cresciuti nella vostra infanzia?». Due semplici domande, per un sondaggio che ha coinvolto circa 80mila persone adulte, la metà negli Stati Uniti, il resto in altri 35 Paesi alle più diverse latitudini. I risultati dell’indagine, pubblicati poche settimane fa dal Pew Research Center di Washington, rivelano che nella maggior parte dei Paesi considerati, almeno un quinto degli intervistati ha abbandonato il gruppo religioso in cui è cresciuto. Cristianesimo e Buddismo hanno registrato le perdite più significative, non tanto per conversioni ad altre fedi, ma per una progressiva tendenza a non avere più alcuna affiliazione religiosa.

Ci sono popoli per cui è scelta rara quella di convertirsi o di abbandonare la propria religione senza adottarne una alternativa. È così in India, Israele, Nigeria e Thailandia, dove il 95% o più degli adulti del campione afferma di appartenere ancora al gruppo religioso in cui è nato. La maggior parte delle persone cresciute come ebree in Israele e negli Stati Uniti si definisce tale ancora oggi, con alti tassi di permanenza in quella comunità in entrambi i Paesi. Anche fra i musulmani si rintracciano fuoriuscite limitate: a livello globale, percentuali molto ridotte di popolazione hanno abbandonato l’Islam (e, ugualmente in bassa misura, vi si rilevano nuove adesioni). Emerge invece tutt’altra tendenza in Europa occidentale, Asia orientale, Nord e Sud America. Così, il 50% degli intervistati in Corea del Sud, il 40% in Spagna, il 38% in Canada – solo per citare i tre Paesi con le percentuali più alte - non si identificano più con la religione della loro infanzia. In Europa si vedono tassi abbondantemente sopra il 30% in Svezia, Paesi Bassi, Regno Unito, Francia e Germania. In Italia riferisce di non appartenere più alla confessione religiosa d’origine circa un intervistato su quattro, cioè il 24% delle persone coinvolte. Di queste, quasi la totalità (il 21%) ora si definisce ateo, agnostico o non si sente affiliato a “nulla di particolare”. E infatti la stragrande maggioranza degli italiani intervistati, il 94%, afferma di essere stata educata secondo il cristianesimo, ma un numero molto inferiore, solo il 73%, si descrive ancora oggi come cristiano. Nella nostra penisola per ogni nuovo fedele che si è avvicinato da adulto al cristianesimo, si contano 28,4 fedeli che se ne sono allontanati, malgrado fossero cristiani da bambini.

A livello globale, Italia, Colombia e Grecia presentano i tassi più elevati di cittadini che un tempo erano fedeli a qualche confessione e che ora fanno parte della categoria dei non affiliati ad alcuna religione.

E tuttavia, là dove da atei si sceglie di avvicinarsi alla fede, come in Argentina, a venire scelto più di frequente è il cristianesimo. In una manciata di Paesi, il cristianesimo cresce proprio a seguito dei cambi di religione. Singapore e Corea del Sud presentano tassi elevati di “adesione”, con oltre quattro adulti cristiani su dieci che hanno raccontato ai sondaggisti di essere nati con un’altra religione o in famiglie senza alcuna affiliazione. Si tratta di luoghi però in cui i cristiani rimangono una minoranza (il 18% degli abitanti di Singapore e il 33% di quelli della Corea del Sud si definiscono tali). E si tratta di due nazioni dove l’indagine – insieme al Giappone – registra gravi perdite per la comunità buddista. Interessante osservare da questa angolazione quanti, fra gli intervistati di ciascun Paese, oggi si dichiarano cristiani, ma sono invece nati in un’altra comunità confessionale o completamente estranei a qualsiasi pratica religiosa. Quanti, dunque, si sono avvicinati al cristianesimo solo di recente: in Spagna è il 5% del totale dei cristiani, in Olanda il 7% e in Svezia il 9%. Cioè nel Paese scandinavo quasi un cristiano su dieci non lo era da piccolo (in Italia è solo uno su cento).

Globalmente, i tassi di cambiamento (o di perdita) della propria religione originaria non variano molto tra persone con diversi livelli di istruzione. Tuttavia, in alcuni dei Paesi esaminati, i cittadini che hanno avuto percorsi scolastici più lunghi tendono a mostrare tassi più alti. È il caso dell’Italia, dove il 33% degli intervistati con gradi di istruzione elevati (diploma superiore o post-secondario) ha cambiato o ha perduto la propria fede, rispetto al 21% di chi ha un livello di istruzione più basso. Tendenza simile se si utilizza le lente del genere: se a livello mondiale si registrano percentuali pressoché uguali di donne e uomini che hanno abbandonato la loro religione della loro infanzia, in sei Paesi tra cui Italia, Giappone e Usa, si riscontrano differenze davvero significative, con gli uomini più propensi delle donne al cambiamento. Nella nostra penisola, la percentuale di uomini che si è allontanato dalla propria fede per seguirne un’altra o per diventare atei è del 28%, mentre si ferma al 19% il tasso delle donne che ha scelto di intraprendere questa strada.





Venerdì, 23 Maggio 2025





Venerdì, 23 Maggio 2025

Quella italiana sarà la prima Conferenza episcopale a incontrare papa Leone XIV: il 17 giugno, infatti, Prevost riceverà in udienza tutti i vescovi italiani in Aula Paolo VI alle 10.

«Siamo grati al Santo Padre per questo gesto di benevolenza e di attenzione all’episcopato italiano che vive una peculiare e affettuosa sintonia con il Successore di Pietro, Vescovo di Roma e Primate d’Italia», sottolinea l'arcivescovo di Cagliari, Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei.

Secondo quanto fa sapere la stessa Cei, all’incontro seguirà l’80ª Assemblea generale straordinaria per alcuni adempimenti statutari.

Questo appuntamento sarà preceduto dalla riunione del Consiglio episcopale permanente, che si riunirà in sessione straordinaria martedì 27 maggio, dalle 10.30 alle 16.30, a Roma, presso la sede della Conferenza episcopale italiana, in Circonvallazione Aurelia 50.

L'appuntamento prevede, dopo l’Introduzione del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, la presentazione delle prossime tappe del Cammino sinodale, in preparazione alla Terza Assemblea Sinodale. Durante i lavori, inoltre sarà approvato il Messaggio per la 75ª Giornata Nazionale del Ringraziamento che si celebrerà il 9 novembre. Il Comunicato finale sarà diffuso mercoledì 28 maggio.

L'Assemblea generale ordinaria, solitamente prevista nella seconda metà di maggio, era stata rinviata a novembre al termine della seconda Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, che si è tenuta all'inizio di aprile. In quell'occasione, infatti, era stato deciso di dare più tempo al Comitato nazionale per il cammino sinodale al fine di elaborare un testo in grado di raccogliere tutta la ricchezza del cammino fatto in tre anni di confronto nelle diocesi italiane. Questo stesso testo verrà sottoposto all'Assemblea generale della Cei che si terrà, appunto, a novembre.





Venerdì, 23 Maggio 2025

Erano in 85mila in piazza Cibeles a Madrid sabato 26 aprile per la Festa della Risurrezione. Sul selciato giovani e giovanissimi, sul palco musicisti e influencer come DJ Pulpo, Kike Pavón, Cali & El Dandee, Beret e la più popolare rock band di ispirazione cristiana del Paese, Hakuna Group Music. La manifestazione promossa dall’Associazione Cattolica dei Propagandisti (ACdP) è alla terza edizione ma si è già consolidata come il più grande happening giovanile cattolico della Spagna e continua a crescere. Un’anomalia visti i numeri della secolarizzazione in terra iberica, dove, per citarne solo uno, la percentuale di coloro che si definiscono cattolici è passata dall’88% del 1985 al 52% di quest’anno. O forse no.

Il quotidiano El Confidencial analizzando i dati forniti dal Cis (Centro de Investigaciones Sociológicas) nel suo “barometro” mensile sulle tendenze della società spagnola, ha fatto una scoperta che conferma qualcosa che è stato colto da diversi osservatori negli ultimi anni, ma soltanto a livello impressionistico. Ne ha dato conto in un articolo firmato da Marta Nevot e Marta Ley, «Il ritorno del figliol prodigo: la Chiesa cattolica guadagna seguaci tra i giovani in Spagna».

Considerando la fascia di età 18-24 anni, nel 2021 il 33,9% si definiva cattolico, il dato più basso di sempre. Nel giro di soli 4 anni però il dato è salito al 38,5%. Un’inversione di tendenza e non lieve.

L’interpretazione di questo “rimbalzo” non è semplice, ma è intrigante.

Secondo Rafael Ruiz, del dipartimento di sociologia applicata dell'Università Complutense di Madrid, «i giovani hanno molto meno timore di mostrarsi cattolici rispetto a qualche anno fa» e sottolinea un loro nuovo protagonismo sui social network, dove «si muovono come pesci nell'acqua ed è il modo migliore per raggiungere un pubblico adolescente». Cita il caso del gruppo Hakuna, che è riuscito a portare nella top 50 di Spotify diversi suoi brani e a riempire nel gennaio 2024 la Movistar Arena di Madrid. Jorge Alberto Benedicto, sociologo dell’università telematica Uned, sottolinea l’importanza di eventi come la Festa della Risurrezione che intercettano «giovani [credenti] che sono sempre stati lì, ma non erano così visibili» e «riescono a rafforzare l'identità del gruppo», facendo inoltre leva su una sensibilità che cerca esperienze di fede meno istituzionalizzate ma non meno impegnate. Vedasi un altro caso che ha attirato l’attenzione di molti, il successo di Effetá, ritiri spirituali giovanili con un taglio vocazionale che hanno a loro volta una ricaduta molto visibile sui social network.

Rubén Arriazu, sociologo dell'Università dell'Estremadura, rileva un ritorno del sacro multiforme legato anche al trauma della pandemia, la quale «ha scatenato una crisi identitaria ed esistenziale in molte persone che nel corso del tempo hanno perso riti cattolici come i funerali o l'Eucaristia. Quelli che erano cattolici convinti hanno rafforzato la loro posizione con il Covid, ma hanno anche preso piede forme neopagane come la meditazione o lo yoga». In ogni caso, sintetizza El Confidencial, i sociologi intervistati convergono su un giudizio: i giovani oggi sono i più “spirituali” tra gli spagnoli delle diverse fasce di età analizzate, o comunque è a loro che si deve maggiormente il freno al processo di secolarizzazione degli ultimi anni.

Il che, aggiungiamo noi, trova una certa corrispondenza con quanto emerso recentemente da rilevamenti in altri Paesi europei quali Francia e Inghilterra, di cui abbiamo dato conto negli ultimi mesi.





Giovedì, 22 Maggio 2025

È un’infinita processione di rose rosse quella che scorre nel santuario sulla vetta di Cascia. Il fiore di santa Rita, che domina nel giorno della sua memoria liturgica e dell’invasione pacifica che ogni 22 maggio porta nella cittadina umbra migliaia di pellegrini sui passi della piccola grande donna del Quattrocento. «Lasciate pure le rose fra le grate», ripetono i volontari all’ingresso della cappella dove è custodito il corpo. I volti possono essere quelli di un bambino, di una madre che spinge il passeggino, di un padre di famiglia che tiene in braccio il figlio, di un’anziana con le stampelle, di un disabile in carrozzina. E le loro mani si allungano verso l’inferriata dietro cui lasciare lo stesso identico dono floreale destinato a una delle figure più care alla pietà popolare che lega il suo nome a grazie e guarigioni spirituali.

Eppure le rose riempiono anche un altro angolo della Basilica: quello dove compare il manifesto con l’immagine sorridente di Leone XIV. Agostiniano come Rita. E di casa a Cascia dove nei dodici anni da priore generale dell’Ordine è venuto per ogni festa della santa e dove nel 2024 era giunto da cardinale per presiedere la Messa solenne della giornata. «I devoti di Rita insieme a tutta la Chiesa e all’Ordine di Sant’Agostino si rallegrano per l’elezione di Leone XIV invocando su di lui e sul suo ministero petrino la particolare protezione di santa Rita», si legge nel poster che compare non solo nel santuario ma anche lungo le strade, fra i portici del viale davanti alla chiesa, accanto alle vetrine dei negozi. I fiori sono come un sigillo con cui il popolo della santa della sofferenza e della dolcezza rende omaggio al Papa e ne fa l’altro protagonista della festa. Anche alla vigilia di una seconda giornata speciale per il paese nell’arcidiocesi di Spoleto-Norcia: quella di sabato quando verranno celebrati i 125 anni della canonizzazione di Rita. A volerla santa Leone XIII, il Pontefice amico della famiglia agostiniana che ha ispirato il nome a Prevost.

?C’è chi si aspettava una visita a sorpresa del nuovo Papa proprio oggi 22 maggio. Un po’ come l’uscita improvvisa a Genazzano nel santuario della Madre del Buon Consiglio a quaranta chilometri da Roma. Solo che Cascia dista centoquaranta chilometri dalla Città del Vaticano. Ma l’affetto di Leone arriva comunque, attraverso il successore di Prevost alla guida degli agostiniani, padre Alejandro Moral Antòn. «Il Santo Padre vi invia il suo saluto e la sua preghiera», dice al termine della Messa. Ed è lui che con l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, Renato Boccardo, firma da Cascia un telegramma inviato al Papa in cui entrambi affidano all’intercessione della santa il pontificato e soprattutto lo invitano ufficialmente qui: «Attendiamo fiduciosi la vostra venuta».

A scandire la festa è anche il grido di pace che unisce Rita a papa Leone. «In un mondo lacerato dai conflitti - sottolinea la badessa del monastero di Santa Rita, suor Maria Grazia Cossu - lei ci ricorda che la pace è una scelta quotidiana, fatta di perdono, ascolto e riconciliazione. Ecco perché, ispirati dal Pontefice, sentiamo il bisogno di rilanciare un appello accorato alla pace, soprattutto per l’Ucraina e la Terra Santa. Per Rita, la pace era responsabilità, un cammino costruito con misericordia, comprensione dell’altro e coraggio. È questa la strada che dobbiamo tornare a percorrere: la cura dell’altro, il dialogo, la compassione che ci rende umani». Quindi il richiamo alla «preghiera per la fine della violenza nella Striscia di Gaza e per l’ingresso di aiuti umanitari».

«Non si è mai visto un male che produca il bene», ammonisce il cardinale Baldassare Reina, vicario del Papa per la diocesi di Roma, che presiede la principale celebrazione eucaristica della giornata. Da qui l’invito a «vincere il male con il bene» come insegna Rita. «Avrebbe potuto vendicare l’assassinio del marito. Ma ha scelto una strada diversa: la via del Vangelo. Ha scelto di perdonare», avverte. Reina cita l’«escalation» dei conflitti che si registra nel pianeta ma anche la «violenza nelle famiglie, nelle piccole comunità, nelle relazioni quotidiane» come «i tragici casi di femminicidio, quasi normalizzati». E denuncia: «Ci siamo talmente abituati alla violenza che abbiamo perso il senso di ribellione e indignazione. Invece no: la vita umana non si tocca. Che sia quella di una donna, di un bambino, di un marito, di un lavoratore».

Il porporato chiede di tradurre la devozione in vita quotidiana. «Ogni volta che celebriamo la festa di un santo, il rischio è di tenerlo a distanza pensando che la sua santità non sia per noi. Ma la santità è per tutti. E l’amore che c’è per Rita non solo qui a Cascia ma nel mondo intero deve spingerci a compiere un passo in avanti». Al cardinale spetta la benedizione delle rose: quelle che la folla getta ai piedi della statua mentre attraversa il centro della cittadina e quelle che la gente alza davanti alla basilica dell’«avvocata degli impossibili», come la definisce padre Moral, con cui si identificano quanti «sono chiamati ad affrontare gravi difficoltà» nella vita.





Giovedì, 22 Maggio 2025

Finito il conclave, eletto il nuovo Papa, il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York, nei giorni scorsi ha interrotto brevemente i suoi impegni romani per prendere un aereo e recarsi in Irlanda, nello specifico a Tullamore, cittadina di 14mila abitanti nella contea di Offaly, nel centro dell’isola. Qui nel locale convento delle Sisters of Mercy, congregazione fondata a Dublino nel 1831 e dedita principalmente all’insegnamento, ha visitato suor Mary Bosco Daly, religiosa che ha compiuto 100 anni lo scorso 4 gennaio, lucida e in buona forma fisica. Fu lei una delle tre suore che le congregazione nel 1957 inviò come insegnanti alla Holy Infant School di Ballwin, cittadina del Missouri, negli Usa. E lì suor Mary Bosco si ritrovò tra gli allievi un vispo bambino di 8 anni di nome Timothy Dolan, nato a poche miglia di distanza, a St. Louis.

Dolan ha sempre descritto suor Mary Bosco Daly come la sua «madre spirituale», una figura che lo ispirò e lo accompagnò nei vari passaggi della sua crescita, in primis i sacramenti, fino alla scelta di entrare in Seminario. Non ha mai dimenticato la religiosa irlandese, soprattutto durante la sua vecchiaia, visitandola prima nel convento di Drogheda e poi di Tullamore.

«Sono a Tullamore, in Irlanda, con la mia amata Suor Mary Bosco!» ha scritto su X il porporato, «ha 100 anni e mi ha insegnato la vita quando ero solo un ragazzino. Scegliere è sempre importante per Dio: Lui sceglie noi! Ringrazio Dio per la vocazione di 0sSuor Bosco, per la chiamata di papa Leone, per san Mattia [il santo festeggiato il giorno della visita] ndr e per i miei genitori, che hanno scelto di sposarsi oggi, nel 1949. Questa è la scelta in atto! Grazie a Dio per averci chiamato».





Giovedì, 22 Maggio 2025

La Curia romana è un po’ più rosa. Soprattutto è ancora più femminile il dicastero per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica. Papa Leone XIV ha infatti nominato segretaria suor Tiziana Merletti già superiora Generale delle Suore Francescane dei Poveri mentre alla guida di questo ufficio è suor Simona Brambilla, che a sua volta è stata, fino allo scorso gennaio, segretaria. Pro-prefetto è invece un uomo, il cardinale Ángel Fernández Artime, già rettor maggiore dei Salesiani.
Abruzzese, suor Merletti è nata il 30 settembre 1959 a Pineto, in provincia di Teramo. Nel 1986 ha emesso la prima professione religiosa presso l’Istituto delle Suore Francescane dei Poveri. Ha conseguito, nel 1984, la Laurea in Giurisprudenza presso l’allora Libera Università Abruzzese degli Studi “Gabriele d’Annunzio” a Teramo e, nel 1992, il Dottorato in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Lateranense a Roma. Dal 2004 al 2013 è stata superiora generale del suo Istituto religioso. Attualmente è docente presso la Facoltà di Diritto Canonico della Pontificia Università Antonianum a Roma e collabora in qualità di canonista con l’Unione Internazionale delle Superiori generali.

Suor Merletti va ad aggiungersi all’elenco non ancora molto numeroso ma significativamente in aumento delle donne in ruoli di primo piano tra i collaboratori del Papa. Un compito che fotografa bene in particolare la religiosa francescana suor Raffaella Petrini dal 1° marzo scorso presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, di cui era già segretaria generale dal 2021. In pratica, con lei, per la prima volta il potere esecutivo all'interno della città-stato viene affidato a una persona non ordinata e in più donna. Suor Petrini è inoltre presidente della Pontificia Commissione per lo Stato Città del Vaticano, organismo che tra gli altri compiti ha quello di approvare le leggi e di approvare i bilanci e deliberare il piano finanziario. Qualche settimana prima dell’inizio di attività di suor Petrini, papa Francesco aveva invece nominato la prima donna prefetto, suor Brambilla appunto la cui nomina è datata 6 gennaio 2025.
Anche se la prima nomina vaticana di una donna va attribuita a Paolo VI, sicuramente è stato Bergoglio ad imprimere un’accelerata alla presenza femminile nella Curia, con ruoli anche di primo piano. L’Osservatore Romano ricorda in particolare che tra il 2013 e il 2023, la percentuale di donne che lavorano per la Santa Sede è passata dal 19,1% al 23,4%. Il percorso era iniziato nel 2014 con la nomina della sociologa britannica Margaret Archer alla guida della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali mentre sono datate 2016 le scelte della giornalista spagnola Paloma García Ovejero come vicedirettrice della sala stampa della Santa Sede e di Barbara Jatta, a direttrice dei Musei Vaticani, il terzo più grande spazio espositivo al mondo. Meno “storiche” invece le nomine di sottosegretarie, incarichi già assegnati a esponenti femminili da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Papa Francesco però è il Pontefice che ne ha nominate di più, tra cui Gabriella Gambino e Linda Ghisoni al dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita e suor Silvana Piro all'Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica (Apsa). Particolarmente significativo poi l’itinerario del Consiglio per l’economia di in cui nel 2020 sono entrate sei donne su un totale di quindici membri mentre nel 2021 l’economista suor Alessandra Smerilli viene nominata sottosegretaria del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale di cui l’anno successivo diventa segretaria. Molto importante anche che del Dicastero per i vescovi, da cui dipende la nomina dei presuli di tutto il mondo, facciano parte tre donne: suor Petrini, madre Yvonne Reungoat, ex superiora generale della Congregazione delle Figlie di Maria Ausiliatrice, e la vergine consacrata argentina María Lía Zervino, ex-presidente dell'Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche.
Andando all’indietro con la storia la prima donna con un incarico in Curia romana, fu nominata da Paolo VI nel 1967. Si trattò della laica australiana Rosemary Goldie cui papa Montini affidò l’incarico di sottosegretaria al Pontificio Consiglio per i laici. Tornando all’oggi tutti gli incarichi di Curia decisi prima della sua elezione sono stati confermati ad interim da Leone XIV. Papa Prevost ha infatti deciso di non procedere immediatamente a nuove nomine o sostituzioni, preferendo un periodo di riflessione e preghiera prima di apportare eventuali cambiamenti.





Giovedì, 22 Maggio 2025

Una donna e due uomini di pace, una religiosa e due vescovi. L’estrema sintesi racchiude le storie dei tre nuovi venerabili per i quali Leone XIV ha approvato oggi i decreti che li riconoscono tali, durante l’udienza concessa al cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi. Lo rende noto la Sala stampa della Santa Sede. Leone XIV, nel dettaglio, ha approvato i decreti riguardanti: l’offerta della vita del servo di Dio Alessandro Labaka Ugarte (in religione: Manuel), dell’Ordine dei frati minori cappuccini, vicario apostolico di Aguarico, nato il 19 aprile 1920 a Beizama (Spagna) e morto il 21 luglio 1987 nella zona di Tigüino (Ecuador); l’offerta della vita della serva di Dio Agnese Arango Velásquez (in religione: Maria Nieves de Medellín), suora professa della Congregazione delle terziarie cappuccine della Sacra Famiglia, nata a Medellín (Colombia) il 6 aprile 1937 e morta il 21 luglio 1987 nella zona di Tigüino (Ecuador); le virtù eroiche del servo di Dio Matteo Makil, vescovo titolare di Tralle, primo vicario apostolico di Kottayam, fondatore della Congregazione delle Suore della Visitazione della Beata Vergine Maria, nato il 27 marzo 1851 a Manjoor (India) e morto il 26 gennaio 1914 a Kottayam (India).
Con questa decisione papa Prevost ha autorizzato il medesimo Dicastero a promulgare i decreti riguardanti tre nuovi venerabili, due dei quali dichiarati tali grazie all’“offerta della vita”, nuova via per la beatificazione introdotta da papa Francesco e che si affianca al martirio, alle virtù eroiche e all’equipollenza.





Giovedì, 22 Maggio 2025

Uno spazio dove poter esprimere in maniera creativa le domande e i desideri dei giovani, attraverso un murale realizzato in un luogo che è insieme di sofferenza e di speranza. Ha preso vita nelle scorse settimane a Nisida, l’isola che si affaccia sull’incantevole scenario del Golfo di Napoli e che ospita il carcere minorile. Un progetto gestito in collaborazione tra la direzione del carcere e la Fondazione Scholas Occurrentes, nata in Argentina sotto gli auspici dell’allora cardinale Bergoglio per promuovere l’educazione dei giovani e da anni presente anche in Italia.

Il 3 agosto 2023, durante la Giornata mondiale della gioventù in Portogallo, papa Francesco percorreva una strada su cui si affacciava un murale lungo quattro chilometri che si concludeva in una sala interamente dipinta dai ragazzi di Scholas di diverse culture e religioni, che il Pontefice aveva battezzato come «la Cappella Sistina dei giovani». Nelle scorse settimane a Nisida si è aperto il cantiere per realizzare un’analoga “Sistina dei Giovani” grazie alla collaborazione tra un gruppo di ospiti del carcere, alcuni educatori di Scholas e tre studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, che lavorano insieme nella progettazione, nel disegno dei bozzetti e nella pittura. Gli ingredienti di questa opera corale sono l’ascolto attivo e l’apertura all’altro come mezzi per creare uno spazio di incontro e riflessione, dove le diverse esperienze rafforzino il senso di comunità. Il tutto sulla scia delle parole che il Papa rivolse ai giovani a Cascais: trasformare un caos in un cosmo. «Questo è il cammino di ognuno. Una vita che rimane nel caotico è una vita fallita, e una vita che non ha mai provato il caos è una vita distillata, dove tutto è perfetto. E le vite distillate non danno vita, muoiono in sé stesse. E se una vita personale e relazionale che ha provato la crisi come caos e lentamente dentro di sé, e nella comunità, si è trasformata in un cosmo… tanto di cappello!».

Il percorso artistico che ha preso forma a Nisida è una delle due declinazioni di un originale progetto promosso da Scholas: si chiama “Zona Luce”, dal nome di un termine tecnico del calcio che indica il cono di luce che si apre tra chi ha la palla e il suo compagno che si trova dietro l’avversario. Lo presenta così l’architetto Mario Del Verme, coordinatore internazionale di Scholas Sport: «Il progetto nasce dal dialogo avuto con alcuni ragazzi che avevamo coinvolto nelle carceri minorili. Evoca qualcosa che accade nella vita quotidiana: per poter ricevere la palla dal mio compagno, devo assumermi il rischio d riceverla e giocare. Questa dinamica aiuta i giovani a mettersi in gioco, a essere autentici. La libertà implica sempre un rischio, chi non rischia rimane nella propria comfort zone, non diventa protagonista dell’esistenza. Attraverso il gioco i ragazzi si raccontano, si dialoga su concetti importanti come resilienza, condivisione, identità, rispetto, comunità. Parole che interpellano tutti, a qualsiasi tradizione culturale e religiosa si appartenga. È un modo per andare al cuore dell’esperienza elementare di ogni persona, proprio come sta accadendo nel percorso artistico che abbiamo inaugurato in questi giorni».

Il percorso sportivo coinvolge trenta ragazzi dell’Istituto penale minorile di Nisida che partecipano a un corso di formatore sportivo sponsorizzato dalla Uefa e della Federazione Gioco Calcio, al termine del quale quattro di loro ricevono una borsa lavoro per un’esperienza lavorativa in un centro sportivo napoletano: un piccolo trampolino di lancio che può favorire il reinserimento nella società attraverso il lavoro dopo il periodo di detenzione.

Il percorso artistico, incentrato sulla realizzazione della “Cappella Sistina dei giovani”, viene realizzato in un grande spazio ricavato da un cantiere in cui lavorano da anni gli ospiti di Nisida all’interno di un progetto finanziato dal Cosvip, un ente di formazione professionale, sotto la guida dell’architetto Felice Iovinella. Nel murale verranno inserite anche delle ceramiche realizzate dagli studenti di alcune scuole di Napoli, dando vita in questo modo a un’opera autenticamente corale, espressione di varie anime. Una Cappella Sistina che in questo modo dà voce alle diverse sensibilità del popolo napoletano.

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Mercoledì, 21 Maggio 2025

Durante l’udienza generale in piazza San Pietro di mercoledì 21 maggio, la prima del suo pontificato, Leone XIV ha proposto una catechesi sulla parabola del seminatore (Mt 13,3) nella quale ha anche meditato sul celebre quadro di Vincent van Gogh “Il seminatore al tramonto”. Con queste parole: «Ho in mente quel bellissimo dipinto di Van Gogh: Il seminatore al tramonto. Quell’immagine del seminatore sotto il sole cocente mi parla anche della fatica del contadino. E mi colpisce che, alle spalle del seminatore, Van Gogh ha rappresentato il grano già maturo. Mi sembra proprio un’immagine di speranza: in un modo o nell’altro, il seme ha portato frutto. Non sappiamo bene come, ma è così. Al centro della scena, però, non c’è il seminatore, che sta di lato, ma tutto il dipinto è dominato dall’immagine del sole, forse per ricordarci che è Dio a muovere la storia, anche se talvolta ci sembra assente o distante. È il sole che scalda le zolle della terra e fa maturare il seme». Sull’opera del pittore fiammingo ecco gli appunti per “Avvenire” del gesuita padre Andrea dall’Asta, direttore del Museo/Galleria San Fedele di Milano.

Sin dagli esordi della sua pittura, Vincent van Gogh prova una sincera simpatia per il lavoro dei contadini, rappresentando le loro fatiche e miserie, e al contempo la loro grande dignità. Van Gogh dipinge nel 1888 il Seminatore al tramonto, nel Sud della Francia, in Provenza, nel mese di giugno, quando il grano è maturo e biondeggia sotto il sole cocente. Il soggetto doveva rivestire per lui una certa importanza se ne realizza alcune versioni e, in una lettera indirizzata al fratello Théo, fa una breve descrizione del soggetto: «Ho avuto una settimana di lavoro intenso e senza fiato nei campi di grano in pieno sole. Ne sono risultati degli studi di grano, dei paesaggi e lo schizzo di un seminatore. Su un campo arato c’è una lunga striscia di zolle di terra viola e sull’orizzonte si staglia un seminatore bianco e azzurro. Nella linea dell’orizzonte del campo, grano maturo corto. Su tutto ciò, cielo giallo con sole giallo».
La tela esercita un forte impatto emotivo, per la pennellata nervosa e per i contrasti cromatici. Alla destra, un contadino, con un vestito azzurro e un cappello di paglia sul capo, con passo deciso e solenne e con lo sguardo proteso in avanti, sta seminando in un campo arato, trattato con venature ocra, azzurre, viola e blu. Con il braccio sinistro tiene a tracolla il sacco della semina, mentre con il destro sparge il frumento con un ampio gesto. Alcuni corvi si stanno nutrendo dei semi che cadono a terra. Sullo sfondo, si staglia il disco circolare del sole, protagonista dell’intera scena. Mentre scende lentamente, con un giallo infuocato, i suoi raggi si diffondono nel cielo, generando forza, energia, movimento. Tra il campo arato e il cielo chiude l’orizzonte una striscia di grano già maturo. Sorge immediatamente una domanda. Dal punto di vista agricolo, prima si miete, poi si ara e infine si semina. In che modo è possibile interpretare questa discrepanza temporale?

Immediatamente, il nostro pensiero va alla parabola del seminatore che sparge il seme in diverse tipologie di terreno, di cui una sola è in grado di accogliere quello che porta frutto. Nella parabola evangelica colpisce la fiducia del seminatore che getta il seme malgrado sia consapevole che molta semente andrà perduta in terreni inadatti. Tuttavia, egli è animato dalla fiducia che il seme caduto nella buona terra porti molto frutto. Nella tela di van Gogh, all’orizzonte il grano è già maturo. È come se il pittore rappresentasse il desiderio del contadino di vedere il frutto del proprio lavoro, quando ancora sta seminando e mentre cala la sera.
Quel grano dorato è una promessa. La fiducia nella fecondità della vita sembra prevalere, anche quando le luci vengono meno e il sole appare spegnersi all’orizzonte. Nella tela di van Gogh, il sacro è calato nel quotidiano: il gesto di un contadino si fa inno alla vita.
*Direttore Museo/Galleria San Fedele, Milano






Mercoledì, 21 Maggio 2025

Il rinnovato appello a disarmare i cuori, l'impegno per la pace, il peso della Parola di Dio. Papa Leone XIV nella sua prima udienza generale ha affrontato in Piazza san Pietro tanti temi di inizio pontificato. Commentando la parabola del seminatore, Papa Prevost ha citato un quadro di Van Gogh. «Ho in mente quel bellissimo dipinto di Van Gogh: il seminatore al tramonto. Quell'immagine del seminatore sotto il sole cocente mi parla anche della fatica del contadino. E mi colpisce che, alle spalle del seminatore, Van Gogh ha rappresentato il grano già maturo. Mi sembra proprio un'immagine di speranza: in un modo o nell'altro, il seme ha portato frutto. Non sappiamo bene come, ma è così» ha affermato. «In un mondo diviso e ferito dall'odio e dalla guerra siamo chiamati a seminare
la speranza e a costruire la pace!» ha poi proseguito il Pontefice, durante i saluti ai fedeli di lingua tedesca.

Leone XIV, che ha ricordato ancora con gratitudine «l'amato Francesco», ha poi detto che «in questo mese mariano, vorrei ribadire l'invito della Vergine di Fatima: pregate il rosario ogni giorno per la pace. Insieme a Maria, chiediamo che gli uomini non si chiudano a questo dono di Dio e disarmino il loro cuore». Infine l'appello per la situazione drammatica in Medioriente. «È sempre più preoccupante e dolorosa la situazione nella Striscia di Gaza. Rinnovo il mio appello accorato a consentire l'ingresso di dignitosi aiuti umanitari e a porre fine alle ostilità, il cui prezzo straziante è pagato dai bambini, dagli anziani, dalle persone malate».





Mercoledì, 21 Maggio 2025

Sarà la meta del viaggio che papa Leone XIV ha già confermato: la cittadina turca di Iznik è infatti l’antica Nicea, che esattamente 1700 anni fa ospitò il primo Concilio ecumenico della storia. Per scoprire l’eredità di quell’evento cruciale per il cristianesimo i giornalisti di “Mondo e Missione” sono volati in Turchia, dove hanno incontrato il patriarca ecumenico Bartolomeo I, riferimento spirituale del mondo ortodosso e tra i principali fautori dell’unità tra cristiani.

Ne è uscita un’intervista che è una puntata speciale – in collaborazione con Avvenire – di “Finis Terrae. Storie oltre i confini”, un programma della rivista dei missionari del Pime, realizzato da Chiara Zappa con la collaborazione di Alice De Luca. Montaggio e grafiche sono di Simona Rivellini.

QUI TUTTA LA SERIE





Mercoledì, 21 Maggio 2025

Alcuni mistici e testimoni della fede sottolineano che il cristiano dev’essere pronto a credere che anche il peggiore degli uomini possa accedere al Paradiso. In proposito i Vangeli della Passione di Gesù hanno tra i protagonisti la figura tragica e contrastata di Giuda iscariota. E portano con sé una domanda: il discepolo traditore che vinto dal rimorso si suicida, è finito all’inferno oppure è stato salvato? Perché se da un lato Cristo in croce chiede di perdonare i suoi assassini («non sanno quello che fanno»), dall’altro usa parole durissime contro chi lo tradisce: «Sarebbe stato meglio se non fosse mai nato». Ma al di là della storia personale, la vicenda di Giuda porta con sé altri interrogativi: la misericordia infinita di Dio come si concilia con la dannazione eterna? Se ne parla nel nuovo episodio del podcast Taccuino celeste, a partire da cosa dicono le Scritture e da una celebre frase attribuita al teologo Hurs von Balthasar (e peraltro da lui smentita) secondo cui l’inferno esisterebbe ma sarebbe vuoto. Si concentra su Giuda anche la Cartolina da Camaldoli, la consueta, preziosa riflessione affidata ai monaci della comunità benedettina toscana.


Taccuino celeste è un podcast dedicato ai temi della fede, della religione, ad approfondire in cosa crede chi crede. Negli ultimi episodi si è occupato, tra l’altro, della Pasqua che divide i cristiani, della lezione del fico sterile, del dovere cristiano di fare l’elemosina, del rapporto tra cristianesimo e di chirurgia estetica, di cremazione sì o no?, della figura di san Giuseppe, del digiuno cristiano, dei nuovi peccati e di quelli veniali, di cosa pensa la Chiesa circa la possibilità che esista una forma di vita intelligente extraterrestre, della differenza tra indulgenza e sacramento della Confessione, del rapporto tra Chiesa e Carnevale, dell’acqua santa, del Credo nato dal Concilio di Nicea, delle domande che accompagnano il Natale cristiano, di come si è arrivati al dogma dell’Immacolata Concezione, della forza delle preghiere (se cioè si può domandare a Dio ogni cosa) dei criteri per riconoscere i miracoli, di Halloweeen in rapporto a Ognissanti.


Si può ascoltare Taccuino celeste sul sito di Avvenire e sulle principali piattaforme di streaming come Spotify, Amazon music, Spreaker, Apple podcast e YouTube. Ogni mercoledì un nuovo episodio. Per domande, suggerimenti, proposte di temi, consigli si può scrivere a: social@avvenire.it









Mercoledì, 21 Maggio 2025

«Resto convinto che, senza un dialogo con la Russia, non si potrà arrivare a una pace autentica e duratura, come l’ha definita Leone XIV». Il cardinale Ladislav Nemet declina nel concreto l’intuizione del nuovo Papa che chiede di impegnarsi perché «i nemici si incontrino e si guardino negli occhi» e che ha già fatto della Santa Sede un crocevia diplomatico e negoziale. È il porporato che guida l’arcidiocesi di Belgrado e che nelle Congregazioni generali e poi nel Conclave ha portato la sensibilità di un “globetrotter” in cui la sua esperienza internazionale maturata nella Società del Verbo Divino si coniuga con lo sguardo attento all’Est Europa. La Serbia, sua terra d’origine, ha uno storico legame con Mosca che ha ripercussioni sulla politica, sulla società, sulla vita ecclesiale. «La Russia - racconta il cardinale ad Avvenire - è un grande Paese e custodisce una straordinaria cultura. Non si può prescindere da tutto questo. Ciò non significa approvare certe condotte dei suoi leader o dire che tutte le azioni compiute siano giuste. Ma siamo chiamati a trovare punti d’incontro. E il più urgente è fermare una guerra fratricida, quella fra Russia e Ucraina, che coinvolge due nazioni cristiane».

Sessantotto anni, Nemet parla sette lingue ed è stato nelle Filippine e in Ungheria, in Italia e in Austria, prima di tornare da vescovo in Serbia. Cardinale dal 2024, condivide con il Papa due tratti: è un religioso ed è stato missionario. «Il Collegio cardinalizio che ha eletto Leone XIV intende essere al suo fianco - spiega -. Quando il Pontefice ha incontrato noi cardinali il giorno dopo la fumata bianca, ha detto che conta sul nostro aiuto, che intende ascoltare i nostri suggerimenti e che è disponibile a incontrarci più spesso. In fondo è compito dei cardinali quello di “collaborare assiduamente” con il Papa. Ciò può avvenire sia con incontri collegiali in presenza a Roma, sia con incontri telematici che possono facilitare il dialogo e che noi abbiamo proposto. Lo stesso papa Leone ha chiarito che vuole avvalersi di un così ampio spettro di vedute come quelle che sono presenti all’interno dell’attuale Collegio cardinalizio, mai così rappresentativo del mondo e della ricchezza della Chiesa».

Eminenza, c’è chi sosteneva che un Collegio tanto multiforme e con berrette che non si conoscevano fosse in difficoltà a fare sintesi. Invece il Papa è stato eletto in ventiquattro ore.

«Sia nelle Congregazioni generali, sia nel Conclave non abbiamo mai detto: “Dobbiamo fare in fretta”. Al contrario, il proposito era di trovare la figura migliore che potesse guidare la Chiesa e far dialogare la comunità ecclesiale con il mondo. Le Congregazioni generali, in tutto dodici, sono state un tempo prezioso per conoscerci. E anche intorno a una tavola, durante le cene, ci siamo scambiati opinioni e idee. Del resto la Chiesa è chiamata a continuare la missione di Cristo, ma deve farlo con parole e gesti che siano comprensibili alla gente di oggi, senza impuntarsi su un vocabolario ormai superato. L’annuncio del Vangelo implica anche la lotta alle fake news e ai populismi che racchiudono la complessità in messaggi brevi ma fuorvianti».

Come sarà il pontificato di Leone XIV?

«Sarà un pontificato che mostrerà l’amore di Dio per l’umanità. Ma anche un pontificato nel segno dell’unità della Chiesa. Unità che non è sinonimo di uniformità, come avevo avuto modo di discutere con l’allora cardinale Prevost durante le due sessioni del Sinodo sulla sinodalità. Inoltre sarà un pontificato capace di incontrare le donne e gli uomini di buona volontà».

Il Papa e lei siete stati missionari. Come l’esperienza missionaria potrà aiutarlo nel ministero petrino?

«Gli anni di missione consentono di toccare con mano la varietà di culture, storie, etnie che sono presenti nel mondo e di capire come il rispetto delle diversità sia imprescindibile. È il Signore ad aver voluto queste differenze e Dio ama ciascuno allo stesso modo. Non possiamo essere noi a fare gerarchie. Anzi, è nostro compito valorizzare le differenze».

Un nuovo Papa appartenente a un ordine religioso. Francesco gesuita; Leone XIV agostiniano.

«Gli agostiniani, come noi verbiti che in questo 2025 celebriamo i 150 anni di fondazione, hanno un respiro internazionale che aiuta ad allargare gli orizzonti. Poi la vita religiosa facilita un approccio condiviso agli incarichi di responsabilità. Ogni superiore ha al suo fianco alcuni consiglieri che hanno un peso di tutto rispetto. Spero che anche papa Leone ricorra a un gruppo di consiglieri. Il C9, il Consiglio dei cardinali voluto da papa Francesco, è stato un progetto interessante, ma va migliorato e deve assumere maggiore rilievo».

Nell’ex Jugoslavia le tensioni possono riaccendersi. Come vede gli appelli alla pace di Leone XIV?

«L’impegno per la pace è una sfida cruciale. Se penso alla Serbia, dico che la pace passa dal dialogo e dalle parole di riconciliazione. Quando leggo i giornali del mio Paese o vedo quanto succede per strada, mi domando: ma perché non parliamo insieme, invece di dividerci? Aggiungo che la pace non si costruisce in un contesto autoritario, dove il potere è in mano a pochi e dove il controllo dei media condiziona l’opinione pubblica».

Il Papa chiede ponti di dialogo. Vale anche con le altre confessioni cristiane. Quali indicazioni per la Serbia dove la Chiesa ortodossa ha un ruolo molto forte?

«La Chiesa cattolica non può rinunciare al dialogo con le Chiese ortodosse, compreso il patriarcato di Mosca. In Serbia la comunità cattolica è una minoranza. E preferisco parlare di dialogo piuttosto che di ecumenismo. Al centro va posta una coesistenza pacifica dove carità e rispetto vadano di pari passo. Bisogna essere sinceri: siamo divisi da mille anni. E la storia ci consegna una cristianità a due polmoni: uno orientale e uno occidentale. Anche se i risultati non si vedono ancora, il percorso di avvicinamento deve andare avanti».

Ma ci sarà una visita del Papa in Serbia?

«La decisione dipende dalle autorità di Belgrado ma anche da un accordo con Mosca e con la Chiesa ortodossa, inclusa quella di Mosca. Comunque il cardinale Prevost era venuto nella capitale a giugno dello scorso anno per l’assemblea plenaria del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa. E, dopo la sua elezione al soglio pontificio, i giornali lo hanno presentato come il Pontefice che aveva già visitato la Serbia. È interessante che la gente chieda di poter avere una visita di papa Leone che sarebbe importante non solo per i cattolici ma per l’intero Paese».

Nell’ex Jugoslavia non si può prescindere dalla presenza musulmana.

«Il cammino compiuto durante il pontificato di Francesco è stato significativo: cito il Documento di Abu Dhabi sulla fratellanza umana e l’enciclica Fratelli tutti. Nell’omelia della Messa di inizio pontificato, Leone XIV ha menzionato l’importanza delle religioni. Sono persuaso che si proseguirà sulla strada tracciata da Francesco, anche se Leone XIV avrà un suo personale stile».

Il Papa ha parlato di collegialità e sinodalità. C’è chi teme una sinodalità “spinta”. Il suo giudizio?

«È una svolta che va continuata. Vedo la sinodalità come un neonato che all’inizio porta un po’ di caos ma che va fatto crescere. Il primato petrino, la collegialità episcopale e la sinodalità sono tre dimensioni che non contrastano. Lo slancio che ha impresso papa Francesco mette al centro il popolo di Dio: esso va ascoltato e non è più soltanto un destinatario ecclesiale. Certo, alcuni aspetti della sinodalità vanno chiariti. Il Sinodo dei vescovi deve restare tale. Però è interessante la proposta di un’Assemblea ecclesiale nel 2028 contenuta nella lettera del 15 marzo della segreteria generale del Sinodo. È una forma nuova e diversa rispetto al Sinodo: c’è stata quella ben riuscita del continente latinoamericano nel 2021. Certi timori sono comprensibili. Tuttavia non penso che l’ascolto del popolo di Dio metta in pericolo la mia dignità di vescovo che è legata all’ordinazione episcopale».

E il ruolo delle donne?

«Papa Leone ha già salutato più volte le donne nei suoi interventi. Segno della consapevolezza che ha del loro ruolo all’interno della Chiesa. Su questo tema penso che occorra procedere a velocità diverse nella Chiesa: in Germania, ad esempio, la velocità può essere più sostenuta; nei Paesi africani o in Paesi a maggioranza ortodossa, come il mio, dove le donne non hanno alcun incarico in ambito ecclesiale, serve agire con maggiore cautela. Invece sono favorevole alla reintroduzione del diaconato femminile che era già una prassi ecclesiale e che esiste in diverse forme nella Chiesa orientale. È un bene per la Chiesa che le donne abbiano spazio anche nella liturgia e non solo».





Martedì, 20 Maggio 2025

Ogni anno migliaia di giovani arrivano a Lourdes e tornano contenti a casa, soprattutto dopo aver dedicato del tempo a persone mai incontrate prima. Sull’esperienza unica che si vive nella località francese si sono confrontati i responsabili della Pastorale giovanile e della Pastorale della salute in un incontro organizzato dai responsabili dei due servizi nazionali della Cei dal tema “Tutto chiede salvezza. Giovani pellegrini di speranza”. «Accorgersi di chi ti sta accanto e imparare a saper rispettare gli altri – ha commentato padre Nicola Ventriglia, che nel Santuario segue i pellegrini italiani – è una grande scuola di vita».

Il direttore del Bureau des Constatations Medicales, Alessandro de Franciscis ha raccontato che il suo servizio ha radici proprio quando lui era uno studente. «Sono partito come volontario in quarta superiore e da quel momento mi sono sentito chiamato a tornare. È iniziato un lungo cammino che prosegue ancora oggi. Nei giovani di oggi vedo che arrivano qui senza sapere tanto su quello che li aspetta, sono molto generosi, ma allo stesso tempo dobbiamo accompagnarli nella formazione». Anche perché il modo di stare accanto al malato negli ultimi anni è cambiato: «Le persone sono tendenzialmente più autonome nei movimenti – ha aggiunto il medico – e il giovane rischia di sentirsi immediatamente meno utile ma in realtà può essere un riferimento in un’altra modalità». Una sfida molto attuale per gli educatori dei giovani è anche quella di proporre opportunità di approfondimento sul tema del dialogo tra la fede e la scienza, superando pregiudizi e superficialità che spesso si sentono. Il Museo del Bureau gestito dal dottor de Franciscis offre spunti importanti su questo tema.

Un luogo per stare accanto ai giovani in modo significativo con momenti di fraternità, di formazione, di volontariato e di preghiera è la Cité Saint Pierre, cittadella a quindici minuti a piedi dal Santuario, organizzata da Caritas Francia (Secours Catholique). Una realtà nella quale ogni anno più di mille persone si alternano per accogliere residenti e visitatori. La Cité è aperta ai gruppi di giovani a partire dai 15 anni, con possibilità di adeguare il servizio. Tutte le informazioni utili si trovano sul sito citesaintpierre.net ed è possibile contattare la struttura via mail infos.csp@secours-catholique.org.

«Ci sono quattro modi di vivere la fraternità – hanno detto ai partecipanti all’incontro i responsabili della Citè –: visitare un luogo ricco di storia e di significato, celebrare in un’oasi di pace, partecipare diventando volontario al servizio dei più fragili e soggiornare nella casa di accoglienza. I volontari possono impegnarsi per un periodo da una a tre settimane in vari servizi pratici, potendo anche contare su numerose attività ludiche e a momenti di riflessione e di spiritualità a loro dedicati».

Don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la Pastorale della salute, ha spiegato il significato dell’iniziativa, nata in particolare «per incrociare proposte, idee e visioni. Non è scontato incontrarsi ed avere il desiderio di imparare reciprocamente». Don Riccardo Pincerato, direttore del Servizio nazionale per la pastorale giovanile, ha evidenziato che «l’aria buona che si respira qui nasce dai due polmoni, spiritualità e carità, che animano questa località. I nostri percorsi hanno bisogno di tenere in considerazione sempre le due vie. Incontrare la sofferenza e il dolore come accade a tantissimi giovani ogni anno a Lourdes è una strada privilegiata per incontrare la profondità e la bellezza dell’annuncio cristiano».

Voce ai giovani: «A Lourdes respiriamo salvezza. E ci sentiamo a casa»

«Questo luogo ci invita a riflettere su tutti dolori del mondo. I giovani qui portano le domande della loro vita, ma, allo stesso tempo, sentono di affidare a Maria tutte quelle situazioni delle quali sentono parlare e che sembra non abbiano soluzione - commenta padre Thomas Jobish, giovane prete della congregazione missionaria del Santissimo Sacramento - comprendono la responsabilità sociale nel dedicarsi agli altri e, aprendo il cuore, intuiscono davvero che il mondo può cambiare anche grazie a loro».

«Fare esperienza di essere utili in questo mondo»: Simona Salvati, della diocesi di Ischia, descrive l’aspetto che la colpisce di più. «Non accade spesso che si doni fiducia, spesso si sentono solo critiche sui giovani. Qui accade. Questo clima ti permette di crescere perché ti prendi a cuore una persona in difficoltà». Noemi Simonetti, della diocesi dell’Aquila, aggiunge che si «respira salvezza, una parola che i ragazzi e le ragazze hanno forse sentito nominare, ma che magari non hanno sperimentato».

«Sei lontano migliaia di chilometri da dove abiti ma a Lourdes ti senti a casa. Hai la percezione di essere al momento giusto nel posto giusto». Daniele Landi, della diocesi di Senigallia, associa al Santuario mariano l’esperienza di familiarità. «Abbiamo tanto bisogno di sentirci accolti per quello che siamo. Qui sei abbracciato da un amore che ti precede, anche senza dover fare niente. L’esigenza è prendersi degli spazi di silenzio, pregare, mettendo da parte i ritmi veloci che affrontiamo solitamente».

«Nutrire la propria vita interiore è quello che mi accompagna in questo Santuario - spiega Nicolò De Nicolo, membro del Coordinamento nazionale dei giovani delle Acli -, ripartire dalle radici per aprirsi agli altri. Non c’è un prima o un dopo rispetto al servizio, ma vedo prezioso mettere al centro la formazione per essere consapevoli della propria persona e, allo stesso tempo, portare conforto agli altri. In questo tempo, sento l’invito a impegnarci insieme per costruire la pace con azioni concrete».

«Mettersi in ginocchio di chi è più fragile non può lasciarti indifferente - afferma Elena Geremia della diocesi di Udine -, ti trovi con le tue paure ma devi metterle da parte per incontrare il volto e le necessità di chi hai davanti. È Gesù a insegnarcelo del resto nel gesto della lavanda dei piedi». Accanto a Elena c’è Martina Maspes, della diocesi di Savona, che aggiunge: «Dare del tempo per il servizio ci fa scoprire il significato profondo della vita. Vedendo la fede di chi aiuti, rafforzi la tua».

«Sono venuto tante volte a Lourdes - racconta Gabriele Cammisa, della diocesi di Catania -, ho sempre visto e ritrovato dei segni di bene. Accompagnando negli ultimi anni i gruppi scout, mi accorgo che tanti adolescenti arrivano qui per curiosità ma poco dopo il luogo li conquista. Vivono un’opportunità preziosa per staccarsi dalla quotidianità. Aiutando i malati, capiscono che il cammino cristiano si vive non solo nell’esperienza straordinaria ma che c’è una chiamata a essere vicini nella quotidianità».






Martedì, 20 Maggio 2025

“Inviato a servire" è l’invito-ordine che il vero, unico, Buon Pastore trasmette a ogni vescovo con la successione apostolica. Don Giuseppe Luigi Spiga l’ha scritto nel suo stemma episcopale - Misit me servire - per riassumere e caratterizzare il significato profondo della nuova missione che gli viene affidata. «Un servizio - ha detto il cardinale Arrigo Miglio nell’omelia dell’ordinazione del nuovo vescovo di Grajaú, nello Stato brasiliano del Maranhão - che manifesta il Servizio donatoci da Gesù: “Io sono in mezzo a voi come colui che serve”; Gesù Figlio di Dio si è abbassato assumendo la condizione di Servo».

Il 18 maggio scorso la missione sacerdotale di don Spiga si è allargata a una nuova dimensione: da parrocchiale è diventata diocesana e universale, perché i vescovi collaborano con Papa al governo della Chiesa. Fino al mese scorso il ministero di don Spiga si era articolato in due archi temporali. Per dieci anni in diversi ambiti della vita diocesana di Cagliari: dalla formazione nei seminaristi minori e maggiori, alla pastorale nelle parrocchie di San Giorgio a Donori e Santa Lucia a Barrali, fino all’impegno sociale come direttore della Pastorale sociale e del lavoro. Ogni esperienza, ogni tappa, ha contribuito a formare un sacerdote dal cuore aperto, attento ai bisogni delle persone e capace di ascolto autentico. Dal 2008 forse la svolta più profonda è arrivata con la partenza per il Brasile, nella diocesi di Viana. Lì don Spiga si è recato come fidei donum, rispondendo a una chiamata missionaria coltivata da tempo.

«Non lasciatemi solo - ha scritto don Spiga in un messaggio rivolto alla diocesi di Cagliari qualche ora prima del rito dell’ordinazione episcopale, che si è svolto domenica a Grajaú - accompagnatemi con la preghiera». Vicino a lui fisicamente i genitori, con la storia e gli affetti della famiglia e di tutta Serramanna (centro agricolo a 30 chilometri da Cagliari dove il nuovo presule è nato 52 anni fa) e alcuni rappresentanti del clero cagliaritano.

Il cardinale Arrigo Miglio, arcivescovo emerito di Cagliari, nella sua lunga omelia, pronunciata in portoghese, ha esordito ringraziando e salutando la diocesi di Grajaù e il «nuovo vescovo - ha detto - che in questo giorno ho la gioia e l’onore, insieme agli altri vescovi presenti, di inserire nella successione apostolica della Chiesa Cattolica attraverso l’ordinazione episcopale. È una grande gioia stare in mezzo a voi».

«Essere discepoli di Gesù - ha continuato Miglio - vuol dire essere missionari, per condividere la luce e la gioia della sua Parola con coloro che non la conoscono o l’hanno dimenticata, ma anche per scoprire sempre di più le ricchezze della Parola di Dio attraverso la fede delle diverse comunità cristiane che incontriamo. È un servizio che libera e rende liberi, il servizio del Pastore che porta sulle sue spalle la pecora smarrita, ferita, scoraggiata, e ci dona il suo esempio e il suo Spirito perché tutti noi possiamo essere nella nostra società servi come Gesù, portando i pesi gli uni degli altri, portando i nostri fratelli feriti come ha fatto il buon Samaritano, l’altra icona che Gesù ci ha donato per aiutarci a comprendere la sua missione e la nostra. Con Maria cantiamo al Signore che ha guardato l’umiltà della sua Serva».

«Non sarò un vescovo da scrivania», ha detto don Spiga. Il suo desiderio è essere un Pastore tra la gente, presente, vicino, capace di ascolto. E per questo si affida ancora una volta ai laici, che considera «le braccia, i piedi, la preghiera del vescovo».





Martedì, 20 Maggio 2025

Arrivano da ogni parte del mondo: cristiani in pellegrinaggio, musulmani devoti, turisti, curiosi. Un flusso continuo di persone entra ordinatamente e in silenzio nella piccola porta d’ingresso di Meryem Ana, la Casa di Maria, dove la madre di Gesù avrebbe trascorso gli ultimi anni della sua vita terrena. Così racconta una tradizione che affonda le sue radici già negli albori del cristianesimo, alimentata da testimonianze plurisecolari e dalle visioni della mistica e beata suora tedesca Anna Katharina Emmerick, che nel diciannovesimo secolo hanno trovato puntuale riscontro negli scavi eseguiti nella zona portando alla luce, nel 1891, le fondamenta di un edificio risalente al primo secolo.

Siamo sul monte Sulmisso, sopra Efeso, la città testimone di eventi che hanno segnato i primi secoli della cristianità. Nel piccolo spiazzo antistante l’ingresso del santuario, Antonietta Nicastro accoglie i partecipanti al pellegrinaggio promosso da Russia Cristiana per visitare i tanti luoghi della Turchia che hanno visto nascere e fiorire la fede cristiana: Efeso, Antiochia, Smirne, Tarso, la Cappadocia, Istanbul… Il sorriso luminoso di Antonietta fa trasparire una fede vissuta nella semplicità e nel nascondimento. A Meryem Ana viene più di un milione di persone all’anno, lei vive qui dal 2022 insieme alla consorella Monica: sono laiche consacrate appartenenti all’associazione delle Discepole di Maria e dell’apostolo Giovanni, nata a Salerno dal carisma di Caterina Tramontano, donna di preghiera, sposa e madre. «La nostra è una presenza orante e silenziosa. Dopo avere raccolto l’invito di monsignor Franceschini, all’epoca vescovo di Smirne, dal 2015 custodiamo questo luogo insieme ai padri cappuccini. In verità è la Madonna che ci custodisce: ogni giorno trascorso in questo luogo è un dono, ci sentiamo tra le braccia di una madre che accoglie e prende su di sé le ferite e i desideri di tanta gente. Vengono a supplicare, a ringraziare, ci chiedono di ricordarli ogni giorno nella recita del Rosario, in particolare in questo mese dedicato a Maria. Accogliamo i gruppi di pellegrini, preghiamo insieme a loro, li portiamo nel cuore durante le ore di adorazione dentro la Casa. Siamo come una lampada accesa: illumina senza fare rumore, testimonia una presenza». Secondo i racconti della Emmerick, per fuggire alle persecuzioni scatenatesi a Gerusalemme la Madonna si sarebbe trasferita in questi luoghi insieme all’apostolo Giovanni, poi avrebbe fatto ritorno nella Città Santa per rivedere i luoghi della Passione di Gesù e lì si sarebbe ammalata inducendo gli apostoli a costruire una tomba per lei. Poi le sue condizioni sarebbero migliorate e avrebbe fatto ritorno a Efeso, vivendo insieme ad alcune donne fino alla sua Assunzione. Non distante da Meryem Ana sorge la basilica dedicata a San Giovanni, che in questa terra visse a lungo e fu poi sepolto. Nel 431 il Concilio celebrato a Efeso proclamò la Madonna come Theotokos, la madre di Dio, smentendo Nestorio che la riconosceva madre solo dell’umanità di Gesù. Oltre che meta di tanti pellegrini, la Casa di Maria è stata luogo di devozione per molti Papi: dopo la sua elezione, Giovanni XXIII chiese di accendervi un cero che rimanesse attivo per tutta la durata del pontificato, qui sono venuti in pellegrinaggio Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, mentre papa Francesco inviò una corona per la recita del Rosario durante la pandemia da Covid.

Molte sono le donne che si rivolgono a Maria per chiedere il dono della maternità o che tornano dopo averlo ricevuto. Tra loro anche donne di tradizione islamica. Antonietta ci accompagna in un piccolo locale adiacente al santuario, e ci mostra due medagliette d’oro: «Le ha portate in dono una donna musulmana che sette anni fa era venuta qui per chiedere a Maria la grazia di avere un figlio e l’anno scorso è tornata per ringraziare, accompagnata dal marito e dalle due gemelle nate dopo quella circostanza. Sulla medaglietta ha fatto stampare la lettera D, l’iniziale della parola dilek che in lingua turca significa desiderio». È uno dei numerosi esempi che testimoniano come la figura di Maria possa rappresentare un ponte che avvicina i cristiani, che ne riconoscono la divina maternità, ai musulmani che la venerano come madre del profeta Gesù. «Ogni giorno incontriamo persone che raccontano come la Madonna sia una presenza viva e operante nella loro esistenza – racconta Antonietta –. Si avverte un grande bisogno di protezione, specie in tempi tormentati come quelli che viviamo: il bisogno di figli che cercano l’abbraccio accogliente di una madre capace di portare i dolori e le speranze del mondo».





Lunedì, 19 Maggio 2025

Sembra un paradosso, ma a volte le cose davvero essenziali sono quelle che comunemente vengono considerate inutili. Prendiamo ad esempio un mazzolino di fiori, anche di poco valore, magari raccolto per gioco come le margheritine del prato sotto casa. Ai fini della buona riuscita di un pranzo di famiglia non serve a niente. Eppure, se non ci fosse la tavola sarebbe meno bella e quindi le persone meno invogliate a parlare, a dialogare. Vale lo stesso per i gesti gratuiti. Proviamo a pensarci: quando dobbiamo descrivere una persona piacevole, come la raccontiamo? Probabilmente diremo che è gentile, e che sorride spesso. Il buonumore, che è altro rispetto all’indifferenza e alla superficialità di chi non affronta i conflitti, rappresenta sempre un ottimo biglietto da visita. Con le persone allegre si sta più volentieri. E spesso un sorriso basta a stemperare le tensioni, a invogliare un amico timido ad aprirsi, a far dimenticare un’incomprensione. Il sorriso arricchisce chi lo riceve ma anche chi lo dona, perché alleggerisce il cuore e distende la pelle. E poi è talmente prezioso da non costare nulla. Nessuno è così ricco da poterne fare a meno, spiega il teologo britannico padre Frederick William Faber (1814-1863), né così povero da non poterlo regalare.


«Un sorriso non costa nulla e rende molto.
Arricchisce chi lo riceve,
senza impoverire chi lo dona.
Non dura che un istante
ma il suo ricordo è talora eterno.
Nessuno è così ricco da poterne fare a meno.
Nessuno è così povero da non poterlo dare.
Crea felicità in casa; è sostegno negli affari;
è segno sensibile dell'amicizia profonda.
Un sorriso dà riposo alla stanchezza;
nello scoraggiamento rinnova il coraggio;
nella tristezza è consolazione;
d'ogni pena è naturale rimedio.
Ma è bene che non si può comprare,
né prestare, né rubare,
poiché esso ha valore solo nell'istante in cui si dona.
E se poi incontrerete talora chi non vi dona l'atteso sorriso,
siate generosi e date il vostro;
perché nessuno ha tanto bisogno di sorriso
come chi non sa darlo ad altri».





Domenica, 18 Maggio 2025

Non solo appelli. Leone XIV traduce il suo impegno per la pace in gesti concreti, con l'intenzione di fare della Santa Sede un facilitatore nella risoluzione dei conflitti nel mondo. E la giornata della Messa per l’inizio del suo pontificato lo testimonia. Nell’omelia il Papa pone l’accento sulla «carità» come dimensione dell’agire cristiano e cita Leone XIII che gli ha ispirato il nome per dire: «Se questo criterio prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?». Nel Regina Coeli chiede di «non dimenticare i fratelli e le sorelle che soffrono a causa delle guerre». E richiama Gaza con «i bambini, le famiglie, gli anziani sopravvissuti che sono ridotti alla fame»; il Myanmar dove «nuove ostilità hanno spezzato giovani vite innocenti»; e poi la «martoriata Ucraina» che «attende finalmente negoziati per una pace giusta e duratura».

Proprio all’Ucraina papa Leone sta guardando in questi giorni per tessere una tela che vuole offrire un contributo fattivo a fermare la guerra dopo tre anni di invasione russa. Dopo la celebrazione di stamani, il Pontefice riceve in udienza il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, presente alla Messa in piazza San Pietro. L’incontro avviene in una sala limitrofa all’Aula Paolo VI. «Per milioni di persone in tutto il mondo – scrive sui social il leader ucraino al termine dell’udienza – il Pontefice è un simbolo di speranza di pace. L’autorità e la voce della Santa Sede possono svolgere un ruolo importante nel porre fine a questa guerra. Ringraziamo il Vaticano per la sua disponibilità a fungere da piattaforma per negoziati diretti tra Ucraina e Russia. Siamo pronti al dialogo in qualsiasi formato per ottenere risultati tangibili. Apprezziamo il sostegno all'Ucraina e la voce chiara che si è levata in difesa di una pace giusta e duratura». E l’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash, che accompagna il presidente, aggiunge che fra gli «argomenti discussi» rientra anche il «caloroso invito ufficiale al Santo Padre a visitare l’Ucraina».

Giovedì Leone XIV aveva incontrato per un approfondito dialogo il capo della Chiesa greco-cattolica, l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk. E le agenzie di stampa annunciano una possibile udienza domani con il vice-presidente statunitense, J. D. Vance, anche lui in prima fila alla celebrazione di inizio pontificato. Un faccia a faccia anticipato da una dichiarazione dello stesso Vance che indica la Santa Sede come possibile «luogo in cui entrambe le parti si sentirebbero a proprio agio», vale a dire Ucraina e Russia. L’iniziativa diplomatica di Leone XIV arriva dopo l’esito deludente dei colloqui fra Ucraina e Russia a Istanbul dove il solo punto su cui è stata raggiunta un’intesa è quello per lo scambio di mille prigionieri di guerra. Non altro, benché Donald Trump rilanci nuove interlocuzioni con Zelensky e Vladimir Putin.

Dopo il faccia a faccia fra il presidente ucraino e Trump durante i funerali di papa Francesco, la Santa Sede segna un altro punto nel disgelo fra Kiev e Washington dopo le tensioni alla Casa Bianca dello scorso febbraio. La Messa di inizio pontificato riavvicina Zelensky e Vance: prima della liturgia, il presidente ucraino si accosta a Vance già seduto nel settore delle delegazioni nazionali e gli tende la mano; il vicepresidente Usa si alza sorridendo e gliela stringe calorosamente. Una inversione di rotta confermata dall’incontro che nel primo pomeriggio il presidente ucraino ha con Vance e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma. Trenta minuti di confronto durante i quali, fa sapere Zelensky sui social, «abbiamo discusso dei negoziati a Istanbul dove i russi hanno inviato una delegazione di basso livello composta da persone non decisionali. Ho ribadito che l'Ucraina è pronta a impegnarsi in una vera diplomazia e ho sottolineato l’importanza di un cessate il fuoco completo e incondizionato il prima possibile». Poi il presidente ucraino aggiunge che «abbiamo affrontato la necessità di sanzioni contro la Russia, il commercio bilaterale, la cooperazione in materia di difesa, la situazione sul campo di battaglia e il prossimo scambio di prigionieri. È necessario esercitare pressione sulla Russia finché non sarà desiderosa di porre fine alla guerra. E, naturalmente, abbiamo discusso delle nostre azioni congiunte per raggiungere una pace giusta e duratura».

I movimenti vaticani di queste ore seguono le parole di papa Leone che in settimana aveva detto: «La Santa Sede è a disposizione perché i nemici si incontrino e si guardino negli occhi, perché ai popoli sia restituita una speranza e sia ridata la dignità che meritano, la dignità della pace. I popoli vogliono la pace e io, col cuore in mano, dico ai responsabili dei popoli: incontriamoci, dialoghiamo, negoziamo». E aveva assicurato anche un impegno personale, come dimostra l’uso della prima persona nel suo intervento al Giubileo delle Chiese orientali, cosa non rituale per un Papa: «Perché questa pace si diffonda, io impiegherò ogni sforzo».





Domenica, 18 Maggio 2025

Profondamente commosso, la mano destra sul cuore, nella sinistra la ferula, la croce pastorale del Papa, Leone XIV ascolta la proclamazione del Vangelo e le tre domande di Gesù a Pietro: «Mi ami tu più di costoro?». Anch’egli come il principe degli Apostoli ha risposto «Signore, lo sai che ti voglio bene», dieci giorni fa accettando nella Cappella Sistina l’elezione a Romano Pontefice. E nell’omelia della Messa di inizio del suo ministero petrino lo dice chiaramente: «Questa è l’ora dell’amore». Da qui il suo più grande desiderio che possiamo già considerare alla stregua di un “programma di governo”. «Una Chiesa unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato». Il ministero di Pietro, aggiunge, infatti, «è contrassegnato proprio da questo amore oblativo, perché la Chiesa di Roma presiede nella carità e la sua vera autorità è la carità di Cristo. Non si tratta mai di catturare gli altri con la sopraffazione, con la propaganda religiosa o con i mezzi del potere, ma si tratta sempre e solo di amare come ha fatto Gesù».

L'omelia di Leone XIV

Pietro, dunque «deve pascere il gregge senza cedere mai alla tentazione di essere un condottiero solitario o un capo posto al di sopra degli altri, facendosi padrone delle persone a lui; al contrario, a lui è richiesto di servire la fede dei fratelli, camminando insieme a loro: tutti, infatti, siamo costituiti «pietre vive», chiamati col nostro Battesimo a costruire l’edificio di Dio nella comunione fraterna, nell’armonia dello Spirito, nella convivenza delle diversità». Quanto a se stesso, dice: «Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia».

Ecco allora le due parole bussola: «Amore e unità». «Queste – sottolinea Leone XIV - sono le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù». E il mondo ne ha bisogno. In questo nostro tempo, nota infatti il Pontefice, «vediamo ancora troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri. E noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità. Noi vogliamo dire al mondo, con umiltà e con gioia: guardate a Cristo! Avvicinatevi a Lui! Accogliete la sua Parola che illumina e consola! Ascoltate la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia: nell’unico Cristo siamo uno».

C’è in queste ultime parole il suo motto episcopale e papale. In Illo uno unum. Così come il «guardate a Cristo» fa pensare a san Giovanni Paolo II. «E questa è la strada da fare insieme – prosegue il Papa -, tra di noi ma anche con le Chiese cristiane sorelle, con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per costruire un mondo nuovo in cui regni la pace». E questo è anche «lo spirito missionario che deve animarci esorta papa Leone XIV -, senza chiuderci nel nostro piccolo gruppo né sentirci superiori al mondo; siamo chiamati a offrire a tutti l’amore di Dio, perché si realizzi quell’unità che non annulla le differenze, ma valorizza la storia personale di ciascuno e la cultura sociale e religiosa di ogni popolo».

Il Papa rende omaggio al suo predecessore con lo stesso nome. «La carità di Dio che ci rende fratelli tra di noi è il cuore del Vangelo e, con Leone XIII, oggi possiamo chiederci: se questo criterio «prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?» (Lett. enc. Rerum novarum, 21). Perciò, eosrta, «con la luce e la forza dello Spirito Santo, costruiamo una Chiesa fondata sull’amore di Dio e segno di unità, una Chiesa missionaria, che apre le braccia al mondo, che annuncia la Parola, che si lascia inquietare dalla storia, e che diventa lievito di concordia per l’umanità. Insieme, come unico popolo, come fratelli tutti, camminiamo incontro a Dio e amiamoci a vicenda tra di noi».

Il ricordo di Francesco e il conclave

Nell'omelia il Papa ricordato anche il «tempo particolarmente intenso» vissuto nelle scorse settimane. «La morte di Papa Francesco - sottolinea - ha riempito di tristezza il nostro cuore e, in quelle ore difficili, ci siamo sentiti come quelle folle di cui il Vangelo dice che erano come pecore senza pastore. Proprio nel giorno di Pasqua, però, abbiamo ricevuto la sua ultima benedizione e, nella luce della Risurrezione, abbiamo affrontato questo momento nella certezza che il Signore non abbandona mai il suo popolo». Poi al Regina Caeli aggiunge: «Durante la Messa ho sentito forte la presenza spirituale di Papa Francesco, che dal Cielo ci accompagna».

In questo spirito di fede, «il Collegio dei Cardinali si è riunito per il Conclave; arrivando da storie e strade diverse, abbiamo posto nelle mani di Dio il desiderio di eleggere il nuovo successore di Pietro, il Vescovo di Roma, un pastore capace di custodire il ricco patrimonio della fede cristiana e, al contempo, di gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi. Accompagnati dalla vostra preghiera, abbiamo avvertito l’opera dello Spirito Santo, che ha saputo accordare i diversi strumenti musicali, facendo vibrare le corde del nostro cuore in un’unica melodia».

La ricca simbologia della Messa

È dunque il giorno di Leone XIV. Il giorno in cui il Papa eletto lo scorso 8 maggio dà inizio al suo ministero petrino. Il rito ha avuto inizio nella Basilica Vaticana, dove il Pontefice ha sostato in preghiera presso la tomba di san Pietro, accompagnato dai Patriarchi delle Chiese Orientali. Ciò simboleggi il legame profondo tra il nuovo Papa e Pietro, roccia su cui Cristo ha edificato la Chiesa e, tramite la presenza dei Patriarchi, l'unità della Chiesa stessa. Due diaconi hanno prelevato il Pallio, l'Anello del Pescatore e l'Evangeliario e avviato la processione verso l'altare posto sul sagrato della Basilica Vaticana, presso la quale è esposta l'effigie della Madonna del Buon Consiglio di Genazzano.

Dopo la proclamazione del Vangelo, si sono svolti i riti specifici dell’inizio del pontificato: l’imposizione del Pallio da parte di un cardinale diacono, Mario Zenari, nunzio in Siria (il protodiacono Dominique Mamberti non era presente per un lieve malore), la preghiera recitata dal Cardinale Presbitero Fridolin Ambongo Besungu, la consegna dell’Anello del Pescatore da parte del Cardinale Vescovo Luis Antonio Tagle e l’obbedienza prestata al Santo Padre da tre Cardinali a nome di tutto il Collegio: Frank Leo (per l’America del Nord), Jaime Spengler (per l’America del Sud) e John Ribat (per l’Oceania). Hanno prestato obbedienza al Santo Padre anche alcuni rappresentanti del Popolo di Dio: il vescovo di Callao (Perù) Luis Alberto Barrera, il presbitero Guillermo Inca Pereda, il diacono Teodoro Mandato, i religiosi: suor Oonah O’Shea, presidente dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali, e padre Arturo Sosa, presidente dell’Unione dei Superiori Generali, una coppia di sposi, Rafael Santa Maria e Ana María Olguín, e i giovani Josemaria Diaz e Sheyla Cruz.

Con il Papa hanno concelebrato 200 cardinali, 750 tra arcivescovi, vescovi e sacerdoti sul sagrato, più altri 3.000 presbiteri nel settore della piazza a loro riservato.

Il giro in papamobile tra 200mila fedeli

In piazza San Pietro e in via della Conciliazione si è riunita una gran folla di fedeli. Saranno 200mila persone al momento del Regina Caeli, secondo la Sala Stampa vaticana. Tra loro anche i partecipati al Giubileo delle Confraternite («Carissimi - dice loro - vi ringrazio perché mantenete vivo il grande patrimonio della pietà popolare»). E il Pontefice ha voluto salutarle praticamente a una a una con il suo primo giro il papamobile, prima di entrare in Basilica. Leone XIV non si è limitato alla piazza, solcata più volte attraverso i corridoi tra i diversi settori, ma si è spinto lungo via della Conciliazione, tra due ali di folla, fino a raggiungere piazza Pia, sulla sponda del Tevere. E da lì è tornato indietro salutando i fedeli, in piedi sulla papamobile, con ampi gesti delle mani. In una occasione si è anche fermato a baciare un bimbo molto piccolo. Entusiasmo alle stelle e sole che inonda Roma per questa giornata che sicuramente rimarrà nella memoria di tutti. Tra l'altro il 18 maggio coincide con il compleanno di san Giovanni Paolo II, che oggi avrebbe compiuto 105 anni. Il giro in papamobile del nuovo Pontefice ha richiamato alla mente l'analogo itinerario compiuto meno di un mese fa da papa Francesco. Era il 20 aprile, giorno di Pasqua e quella fu l'ultima uscita del Pontefice argentino, poi deceduto il giorno successivo.

Sul sagrato della Basilica sono presenti 156 delegazioni di tutto il mondo, oltre alle 39 delegazioni ecumeniche in rappresentanza delle altre Chiese. Il Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, primus inter pares dell'ortodossia, vede la presenza del patriarca Bartolomeo, mentre il Patriarcato di Mosca dal metropolita Nestor, esarca per l’Europa Occidentale. Sono presenti tra gli altri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il presidente di Israele Isaac Herzog.

Presenti anche rappresentanti di altre religioni, come il rebbino capo di Roma, Riccardo Di Segni ed esponenti musulmani, induisti, buddisti, sikh, zoroastriani e giainisti.

Alla Messa hanno partecipato anche i rappresentanti di istituzioni cattoliche, associazioni, gruppi e movimenti. Tra gli altri Elena Beccalli, rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.





Domenica, 18 Maggio 2025

È un ricco simbolismo quello che pervade la celebrazione eucaristica, con cui il Papa eletto inizia ufficialmente il suo ministero. E così sarà anche oggi per Leone XIV. In particolare verrà sottolineata la dimensione «petrina» di pastore della Chiesa cattolica. E perciò assurgono a ruolo di primo piano le abituali insegne episcopali: il Pallio e l’Anello. Oltre al loro riferimento a Cristo e alla Chiesa, per il successore di Pietro sono evocative del compito a lui affidato dal Signore risorto. Anche il luogo della celebrazione parla chiaro. Il legame con l’Apostolo Pietro e il suo martirio, che ha fecondato la nascente Chiesa di Roma, sono infatti ulteriormente rimarcati dai luoghi in cui si compiono le celebrazioni, primo tra tutti la Confessione di San Pietro nella Basilica Vaticana, dove di fatto il rito avrà il suo inizio. E anche la piazza. Sono in effetti i due siti in cui Pietro ha avuto il suo martirio e riposa. La roccia sulla quale, come disse Gesù, è edificata la Chiesa.
Papa Prevost scenderà, con i Patriarchi delle Chiese Orientali, al Sepolcro di San Pietro e vi sosterà in preghiera. Nel frattempo due diaconi prenderanno il Pallio pastorale, l’Anello del Pescatore e il Libro dei Vangeli e li porteranno insieme in processione per deporli sull’altare della celebrazione.
Seguirà la processione iniziale, dalla Confessione di San Pietro verso l’altare, accompagnata dal canto delle Laudes Regiæ, con l’invocazione dell’intercessione dei Pontefici santi, dei martiri e dei santi e delle sante della Chiesa Romana. Quindi il rito per la benedizione e l’aspersione dell’acqua benedetta, poiché siamo nel periodo di Pasqua, il canto del Gloria e l’orazione colletta. In questa particolare invocazione, richiamato il disegno del Padre di edificare la sua Chiesa su Pietro e ispirandosi alla Lumen gentium, si chiede che il Vescovo, costituito Successore del Principe degli apostoli, mostri al popolo cristiano Pietro come «visibile principio e fondamento dell’unità nella fede e della comunione» della Chiesa».
Un altro riferimento petrino è l’arazzo della pesca miracolosa che durante la celebrazione penderà dal cancello centrale della Basilica Vaticana. Vi è raffigurato il dialogo di Gesù con Pietro, a cui fa esplicito riferimento il rito, nella liturgia della Parola e nei testi eucologici (cioè le orazioni che si trovano nella liturgia). L’arazzo è la riproduzione di un’opera di manifattura fiamminga, realizzato per la Cappella Sistina su un cartone di Raffaello Sanzio e conservato nei Musei Vaticani.
Le letture saranno tratte dagli Atti degli Apostoli (Pietro annuncia che Cristo è «la pietra scartata dai costruttori», con il Salmo responsoriale - il 117 - in tema) e dalla Prima Lettera di Pietro, dove si sottolinea ancora il legame che intercorre tra Pietro, la Chiesa di Roma e il ministero del suo Successore. Il Vangelo, invece, è l’episodio della pesca miracolosa narrato da Giovanni, cioè uno dei testi che fondano lo speciale e personale compito conferito a Pietro nel gruppo dei Dodici. La triplice domanda di Gesù e la triplice risposta si accompagnano in crescendo all’invito di pascere i «suoi agnelli» e le «sue pecorelle». Al contempo queste tre domande e altrettante risposte richiamano e riparano il triplice tradimento di Pietro. Malgrado la sua fragilità, anzi proprio a partire da essa, egli «ravvedutosi» può «confermare nella fede» i suoi fratelli.
Dopo la proclamazione del Vangelo, in latino e greco, si avvicineranno al Pontefice tre cardinali dei tre ordini (diaconi, presbiteri e vescovi) e di continenti diversi, per imporgli il Pallio e consegnargli l’Anello del Pescatore.
Il significato del Pallio, antichissima insegna episcopale confezionata con lana di agnelli, richiama la missione del Salvatore che incontrandoci come la pecora perduta se la carica sulle spalle. Il Pallio verrà imposto da un cardinale dell’ordine dei diaconi, dopo di che un porporato dell’ordine dei presbiteri invoca con una speciale preghiera la presenza e l’assistenza del Signore affinché il Papa eserciti il suo ministero in modo corrispondente al carisma ricevuto.
Seguirà la consegna dell’Anello del Pescatore da parte di un cardinale dell’ordine dei Vescovi. Questo anello fin dal primo millennio ha la valenza specifica del sigillo con cui autenticare gli atti del Pontefice. Viene detto anello «del Pescatore» perché Pietro è l’apostolo che, avendo avuto fede nella parola di Gesù dalla barca ha tratto a terra le reti della pesca miracolosa. Dopo il rito delle consegne il Santo Padre benedirà l’assemblea con il Libro dei Vangeli, mentre si acclamerà in greco: «Ad multos annos». Infine ci sarà il simbolico rito dell’«obbedienza» prestata al Papa da dodici rappresentanti di tutte le categorie del popolo di Dio, provenienti da varie parti della terra. E così la celebrazione proseguirà con l’omelia del Papa, la professione di fede, la preghiera universale e la liturgia eucaristica.
Alla Messa di inizio del ministero petrino è attesa la partecipazione di 250mila fedeli e di 156 delegazioni straniere. La prima in ordine di seduta è quella italiana, di cui fanno parte il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni e, tra gli altri, i presidenti di Camera e Senato. Segue la delegazione peruviana, a cui è stata riservata un'attenzione particolare in nome dei tanti anni trascorsi da Prevost in Perù come missionario prima e come cardinale poi, oltre che per la doppia cittadinanza del Pontefice. Della delegazione peruviana fanno parte la presidente della Repubblica Ercilia Boluarte Zegarra e tra gli altri, i ministri degli Esteri e della Difesa. Terza la delegazione degli Stati Uniti d'America, Paese natale di Prevost, presente con il vice presidente JD Vance e il segretario di Stato Antonio Rubio.
Nove i sovrani regnanti che saranno presenti, tra cui quelli del Belgio Filippo, di Spagna Felipe VI, il granduca del Lussemburgo il principe Alberto di Monaco, oltre alla regina Maxima d'Olanda.
Venti i capi di Stato presenti, a cui si aggiungono la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen e la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola. Tra i capi di Stato, anche l'ucraino Volodymyr Zelensky. Presenti anche, tra gli altri, il presidente israeliano Isaac Herzog, il colombiano Gustavo Petro, l'ungherese Tamas Suklyok, il libanese Joseph Aoun e il polacco Andrzej Duda.





Sabato, 17 Maggio 2025

Gli appelli alla pace che segnano le prime giornate di Leone XIV. Il richiamo all’«amato popolo ucraino» durante il Regina Coeli di domenica scorsa. La telefonata fra il Papa e il presidente Volodymyr Zelensky. L’udienza ai pellegrini delle Chiese orientali arrivati per l’Anno Santo dove era presente una nutrita delegazione del Paese aggredito dalla Russia. L’udienza privata al capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, l’arcivescovo maggiore di Kiev-Halyc, Sviatoslav Shevchuk. «La nostra gente acclama già papa Leone come il Papa della pace. E io sono convinto che il suo sarà un pontificato che costruirà la pace. Con un approccio sereno e metodico», racconta l’arcivescovo maggiore. È ancora a Roma dopo le due giornate dedicate alla guerra in Ucraina ospitate dalla Pontificia Università Lateranense. E giovedì è stato uno dei primi ecclesiastici ad avere avuto un faccia a faccia ufficiale con il nuovo Papa.

«Un’udienza provvidenziale perché avvenuta mentre si aprivano i colloqui a Istanbul, con cui Leone ha voluto di nuovo attirare l’attenzione del mondo sulla tragedia che siamo vivendo», afferma Shevchuk in una conversazione con Avvenire e il Sir che verrà pubblicata integralmente domani e che qui viene anticipata in piccola parte. E al Papa l’arcivescovo maggiore ha consegnato una lista di nomi da liberare, ricorrendo a quel canale di “diplomazia umanitaria” che fa dialogare Kiev e Mosca e che è alimentato dalla segreteria di Stato, dalla rete delle nunziature e dalla missione del cardinale Matteo Zuppi. «Ho spiegato a Leone che, ovunque io vada, le persone mi affidano gli elenchi con le storie dei loro familiari dispersi o catturati. Così nelle mani del Papa ho consegnato 500 di questi nomi. Lui li ha scorsi con diligenza e ha guardato i volti che li accompagnavano. Poi mi ha detto: sì, faremo tutto il possibile per riportarli a casa e per favorire occasioni di dialogo che possano fermare la guerra».

Il presidente Zelensky che oggi sarà presente alla Messa di inizio pontificato ha già invitato Leone XIV in Ucraina. Ci sono possibilità?

«Anche io ho invitato il Papa facendomi interprete delle attese del popolo ucraino. Al Papa ho riferito un pensiero che prevale nell’opinione pubblica: la gente ritiene che, se il Pontefice visiterà il nostro Paese, la guerra si fermerà. Leone ha ascoltato meravigliato. Non sarebbe una visita politica. Sebbene potrà avere anche una dimensione simile, si tratterebbe soprattutto di un pellegrinaggio: il Papa pellegrino della pace e della speranza in una nazione martoriata. Ipotizzare modalità, tempi, luoghi è ancora prematuro. Però, non appena il Pontefice ci darà una risposta, ci metteremo subito al lavoro».

Quale impressione di Leone XIV nell’udienza privata?

«Ho trovato un Pontefice che non solo parla di pace, ma trasmette pace. Perché la porta con sé. Poi è un Papa che ascolta: ad esempio, quando gli ho descritto che siamo una Chiesa che vive in mezzo alle sofferenze del proprio popolo, che fascia le ferite. Mettiamo in atto quella che ormai chiamiamo la “pastorale del lutto”. Perché non c'è famiglia oggi in Ucraina che non piange la morte del proprio figlio, marito, fratello o che non viva l’ansia di non sapere dove sta».

Leone XIV invoca la pace. Quale significato per l’Ucraina?

«Quando si è affacciato dalla Loggia delle benedizioni dopo la sua elezione, ha esordito con la frase “La pace sia con voi” dando voce a un desiderio che ha l’intera Ucraina. Poi ha fatto riferimento alla pace in ogni suo intervento successivo. Tutti noi ci siamo chiesti quale pace intendesse Leone. Infatti ormai il vocabolo “pace” ha perso il suo significato reale. Se guardo al nostro Paese, una parte del consesso internazionale fa coincidere il termine “pace” con la resa incondizionata all’aggressore. Invece, nel discorso al corpo diplomatico, Leone XIV ha chiarito che serve una pace positiva. Perché, ha specificato, la pace non è tregua dove basta una scintilla per far riesplodere tutto, come pensa l’Ucraina in caso di congelamento del conflitto. Invece la pace, che è dono di Dio, va collegata con la giustizia. Ed è ciò che il nostro Paese ha gridato dall’inizio dell’invasione su vasta scala. E la pace non può essere disgiunta dalla verità. Altrimenti diventa una pace tradita o menzognera. Il male va chiamato per nome e nessuno può costringerci a un accordo immediato con il nemico. Infine la pace rimanda alla dignità. Mentre a Istanbul si incontrano le delegazioni di Kiev e Mosca, noi ci domandiamo: quando potremo vivere degnamente?».

Ha fiducia nei tentativi negoziali?

«Mi affido alle parole di papa Leone: è l’ora della diplomazia. L’unica alternativa allo scontro armato è il dialogo. Il Papa lo sta incoraggiando. Dopo tre anni di guerra, assistiamo a una pressione internazionale e diplomatica che non avevamo mai visto in precedenza per fermare l’aggressione: questo è molto positivo. Tuttavia, come dimostra ciò che accade in Turchia dove Mosca ha inviato rappresentanti di terz’ordine, la Russia non ha alcuna intenzione di far tacere le armi e quindi di volere la pace».

Leone XIV ha detto che la Santa Sede intende essere uno spazio di confronto fra nemici. Può valere anche per il conflitto in Ucraina?

«Un incontro storico e commovente c’è già stato: quello fra il nostro presidente e il presidente statunitense Donald Trump nel giorno del funerale di papa Francesco vicino alla tomba di san Pietro. La Basilica Vaticana è diventata davvero un luogo di incontro. Papa Leone ha rilanciato questa prospettiva ribadendo che la Santa Sede è uno spazio neutrale per dialogare e negoziare».

Viene dato per scontato che i territori ucraini occupati dalla Russia restino sotto il controllo del Cremlino dopo un eventuale cessate il fuoco. Come si vive questa prospettiva?

«Fin dalla sua elezione, il presidente Trump ha intimato all’Ucraina di essere realista, di accettare quanto accade sul campo, di cedere una parte delle sue terre: non solo la Crimea, ma anche le quattro regioni di Lugansk, Donetsk, Zaporizhzhia e Kherson che, benché non del tutto conquistate, la Russia considera già annesse. Ma né Trump, né molti altri si sono mai chiesti: e le persone? Che ne sarà degli ucraini di quelle regioni? Perché la Russia non ha mai considerato la gente dell’Ucraina un popolo con la sua storia, la sua lingua, la sua cultura, la sua vita religiosa. Chi tutelerà la nostra gente nelle zone occupate dove tutto viene russificato? Chi garantirà la libertà e l’incolumità di chi è rimasto? Si discute di terre rare o di aree occupate, ma non del fattore umano. Si tratta di mettere al centro dei tavoli negoziali una pace degna e il rispetto dei diritti umani. Incontrando il Papa, ho detto che è giunto il momento di “depoliticizzare” la guerra in Ucraina. I potenti del mondo ritengono la nostra sofferenza un gioco politico per alimentare fobie o egoismi nazionali».

Il Papa ha parlato di Chiese martiri. Quella greco-cattolica è stata messa al bando dalla Russia nei territori occupati. Chiesa martire anche la vostra?

«Noi siamo i primi testimoni di come la Russia concepisca la libertà religiosa. Più di cento parrocchie sono state distrutte. La chiesa di Berdyansk è stata messa in vendita. La storia ci dice che, ogni volta che la Russia occupava una parte di Ucraina, ha sempre eliminato la nostra Chiesa. Ma, provvidenzialmente, dopo ciascuna aggressione, siamo risorti. E non dimentichiamo che il martire è il testimone. Ecco, siamo una Chiesa che mostra Cristo in un tempo drammatico dove vita e morte si fronteggiano».

Dopo oltre tre anni di guerra, qual è la situazione del Paese?

«Ogni volta che sono in agenda iniziative diplomatiche, i bombardamenti si intensificano. La Russia si accanisce, quasi a voler accrescere la sua posizione al tavolo negoziale. La crisi umanitaria si fa sempre più preoccupante. Abbiamo nuove evacuazioni forzate dalle aree dove si assiste a un’escalation degli attacchi: da Sumy a Kharkiv, da Dnipro a Zaporizhzhia. Quindi nuovi sfollati e ulteriore distruzione di villaggi. Mi domando: quanto resisteremo? Anche perché registriamo un calo spaventoso degli aiuti umanitari. E ci preoccupa la decisione degli Stati Uniti di chiudere l’agenzia UsAid che gestiva il 41% degli aiuti nel mondo: anche la nostra Caritas ne ha risentito. Fino a oggi non siamo alla tragedia umanitaria. Però siamo al limite delle nostre possibilità.





Sabato, 17 Maggio 2025

Nove giorni di cammino a piedi. Da Perugia a Roma. Per il Giubileo delle Confraternite. In trenta sono partiti dal capoluogo umbro. A unirli la devozione per l’apostolo Giacomo e l’appartenenza alla Confraternita di San Jacopo di Compostella che ha sede a Perugia e che prende il nome dalla città spagnola dove è custodita la tomba del santo. Con loro anche l’arcivescovo di Lucca, Paolo Giulietti, assistente spirituale del gruppo, marciatore appassionato e convinto sostenitore dei viaggi dell’anima. Alla fine saranno in cento quelli che sfilano lungo le strade della capitale con il loro abito marrone e rosso e la conchiglia bianca di Santiago sul petto. È il grande pellegrinaggio delle Confraternite per le vie di Roma, un evento unico nel calendario dell’Anno Santo. Sodalizi di tutto il mondo in cammino fra la gente e i turisti, come accade nelle città o nei paesi dove affondano le radici delle Confraternite. Oltre centro le nazioni rappresentate: dall’Italia agli Stati Uniti, dal Brasile alla Nuova Zelanda, dalle Filippine alla Francia.

Strade chiuse dal Colosseo al Circo Massimo per accogliere un popolo che porta in strada la pietà popolare e una fede di straordinaria vitalità. È una lunga colonna di donne e uomini di tutte le età quella che racconta una storia in grado di travalicare i secoli. Tre ore di processione animano un pomeriggio che fa arrivare il Giubileo nel cuore della Roma antica, con gonfaloni, croci processionali, complessi musicali, canti che uniscono le generazioni, ma soprattutto con volti che testimoniano un Vangelo senza tempo. E per la prima volta sfilano nella Penisola due statue dei celebri cortei della Semana Santa andalusa: il “Santísimo Cristo de la Expiración”, meglio conosciuto come “El Cristo del Cachorro” di Siviglia, e la “Vergine della speranza” di Malaga trasportata da 270 persone. A salutarli anche le autorità che riempiono la tribuna d’onore: in prima fila l’arcivescovo Rino Fisichella e il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.


«La pietà popolare - spiega l’arcivescovo Michele Pennisi, assistente della Confederazione delle Confraternite delle diocesi d’Italia - non può essere ridotta a una reliquia del passato o un fatto folcloristico, ma va interpretata come uno spazio privilegiato di incontro con Cristo, di devozione alla Madonna, di venerazione dei santi. La spiritualità popolare, con la bellezza delle immagini, con la suggestione delle melodie, con il coinvolgimento di tante persone che indossano abiti variopinti, coinvolge tutti perché punta a un rapporto semplice col Signore. Si tratta di un fenomeno che, provenendo dal passato, continua ad adattarsi ai mutamenti culturali e mantiene il suo fascino nel presente». Pennisi tiene a ricordare che «la tradizione è un elemento dinamico nella storia della Chiesa». E non nasconde i pericoli che possono minacciare la religiosità popolare. «Vi è il rischio della strumentalizzazione da parte delle varie mafie soprattutto in alcuni comitati delle feste religiose», avverte. Eppure tutto ciò non scalfisce la portata di un tesoro ecclesiale che «ha grandi potenzialità per la nuova evangelizzazione», sottolinea l’arcivescovo. Oggi i centomila del Giubileo delle Confraternite saranno in piazza San Pietro per la Messa di inizio pontificato di Leone XIV.






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